Adele Marini

La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.

E’ il 5 giugno 1944 e io ho otto anni. Sono in piazza Tuscolo, a Roma, a poche centinaia di metri da casa. C’è una folla radunata in un attesa che è diventata spasmodica. Poi in lontananza si sente un rombo e il terreno trema sotto i piedi: sono i carri armati degli angloamericani, provenienti da via Gallia, che filano mettendo in mostra tutta la loro potenza”.

E’ tipico delle autobiografie degli estremisti politici: autoglorificarsi sempre, giustificarsi qualche volta, rivelare tutto quello che si sa mai. Gli esempi vengono da importanti leader della sinistra, come Adriano Sofri, ma anche da militanti di formazioni terroristiche (Curcio, Franceschini, Moretti, Gallinari, Segio, Morucci soprattutto, solo per citarne alcuni). Né fanno eccezione a questa regola quelli di destra (vedi il precedente del libro di Concutelli). Si discosta, anche se non in maniera eclatante da questa regola, “L’aquila e il condor”, il libro scritto da Stefano Delle Chiaie che pure, nella postfazione, Luca Telese definisce “reticente”.

Cominciamo col dire che il libro del per anni leader di Avanguardia nazionale e oggi 68/enne Delle Chiaie, - in pratica il suo testamento politico - si autoglorifica poco, si giustifica molto, rivela pochissimo ma ha almeno il coraggio di raccontare la sua storia con lealtà, senza nascondere l’infinito elenco delle sue sconfitte e quelle di una generazione che a destra guardava a lui come ad un capo assoluto.

Il libro di Delle Chiaie - latitante per 17 anni, imputato e assolto per reati nefandi come le stragi di piazza Fontana e Bologna, l’omicidio Occorsio e altro ancora e condannato solo per associazione sovversiva - è un’autobiografia convinta del suo essere stato un dirigente politico anche se (noi almeno la pensiamo così) dalla parte sbagliata. Un dirigente che non disdegna di raccontare i suoi fallimenti: l’entrismo nel Msi (gabbato prima da Almirante poi da Nichelini), il disastro del tentativo di unificare destra e sinistra nell’esplosione del ’68, l’effettivo controllo di Avanguardia nazionale che a un certo punto è addirittura costretto a sciogliere, le strumentalizzazioni subite dagli apparati dello Stato, il golpismo al fianco di Junio Valerio Borghese, la lunga fuga all’estero e poi ancora le esperienze in America latina con dittatori brutali come Pinochet. Delle Chiaie su tutto questo non si fa alcuno sconto. Purtroppo si blocca quando si tratta di parlare dello stragismo in cui lui - questo siamo disposti a giurarlo - non ha colpe, pur sapendo le colpe di chi sono: l’ordinovismo veneto in combutta con gli americani. Ma parlare di Ordine nuovo, formazione concorrente della sua Avanguardia nazionale, Delle Chiaie proprio non vuole: solidarietà di area politica come se gli ordinovisti alla Freda fossero stati solo “camerati che sbagliano”.

Tirando le somme “L’aquila e il condor” - un libro ben scritto grazie anche alla cura di Massimiliano Griner e Umberto Berelnghini - è un libro da leggere perché, comunque sia, offre uno spaccato di una parte in campo in quelli che sono ancora gli anni più oscuri della nostra storia recente (S.P.).

Stefano Delle Chiaie (con Massimiliano Griner e Umberto Berlengini)

L'AQUILA E IL CONDOR. Memorie di un militante nero

Spelino & Kupfer, 341 pagine, 15,72 euro anziché 18,50 su Internetbookshop

Per comprendere la legittimità sull’uso della forza da parte dello Stato, e circoscriverne i confini, è necessario stabilire la fonte di questo diritto, che rappresenta l’essenza dell’esistenza statuale”.

Letto all’indomani della sentenza esemplare che ha condannato i responsabili delle violenze al G8 di Genova e particolarmente la ‘macelleria’ alla Diaz, questo libro acquista il sapore di una denuncia finalmente accolta: ora, i cittadini sanno che gli esponenti delle forze dell’ordine non hanno alcun diritto di malmenarli e di usare mezzi di contenimento brutali quando il loro comportamento non costituisce una minaccia fisica, reale e immediata.

Prima della sentenza della Cassazione riguardo ai fatti di Genova il confine fra difesa dell’ordine pubblico e abuso di mezzi di coercizione nei confronti dei ‘fermati’ era molto sottile, talvolta inesistente. I dieci casi presi in esame dall’autore di questo libro, fra cui quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, dicono chiaramente che certe teste calde in divisa fino a ieri potevano essere indotte a credere che fosse un loro diritto se non addirittura un dovere commettere abusi in nome di un supposto ‘interesse superiore’: quello della difesa dello Stato e della sicurezza dei cittadini. E l’aspetto più inquietante di questo equivoco è che fino a ieri, ogni volta che ci è scappato il morto, per proteggere i violenti si sono innalzate barriere spesso invalicabili, fatte di complicità, omertà, violazione sistematica dei diritti dei famigliari e degli amici delle vittime che chiedevano verità e giustizia. Colleghi disposti a compilare fogli di servizio menzogneri, medici distratti davanti a lividi e fratture, superiori incapaci di prendere provvedimenti nei confronti delle teste calde ma disposti ad attuare depistaggi per proteggere il buon nome del corpo di appartenenza.

Le morti assurde di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi non sono i casi peggiori di cui l’autore dà conto. Sono solo i più clamorosi, quelli di cui si sono occupati i media. In realtà, nel ‘libro nero’ della polizia c’è di più e di peggio. Violenze inutili e insensate su persone inermi, incolpevoli e afflitte da handicap. Colpi di manganello calati su cittadini ammanettati. Accanimento immotivato e così brutale da sconfinare nella tortura.

Denunciando gli abusi, Marco Marsili non ha inteso colpevolizzare i corpi delle forze dell’ordine ai quali appartengono migliaia di agenti e di ufficiali impegnati nell’adempimento del proprio dovere, persone che rischiano ogni giorno la propria vita per difendere quella degli altri. Ha semplicemente voluto denunciare la colpevole distrazione di chi questi abusi sistematicamente li ha coperti per un malinteso spirito di corpo, per amicizia, per solidarietà cieca, per pavidità, per indifferenza, per non avere guai o anche, semplicemente, perché condivide con i picchiatori l’attitudine all’uso della violenza. E resta da sperare che tutto quello che ha riferito appartenga ormai al passato

Marco Marsili

IL LIBRO NERO DELLA POLIZIA: piccoli omicidi di Stato tra amici 2001-2011

Prefazione di Luigi Manconi

Termidoro edizioni, pagine 168, € 12,75 anziche 15,00 su Internetbookshop

Anche i ritratti in bianco e nero del presidente della Repubblica Francesco Cossiga e del comandante generale dei carabinieri Antonio Viesti, appesi alla parete dell’ufficio del maresciallo fra un Cristo in croce e uno stemma dell’arma con il motto “nei secoli fedele”, sembravano aspettare la risposta della donna, arrestata pochi giorni prima, alla domanda del giovane sostituto procuratore della Repubblica”.

La donna arrestata a cui si riferisce l’incipit del libro è Maria Luigia Redoli, protagonista nell’estate ’89 di una delle vicende più trucide, inquietanti e misteriose della nostra storia criminale. Definita dai cronisti dell’epoca “Mantide della Versilia”, Maria Luigia sta scontando nel carcere di Opera, in regime di semilibertà, la condanna all’ergastolo per aver assassinato il marito Luciano Iacopi detto Gasparello. Stando a quello che ha stabilito la giustizia, lo avrebbe macellato con 17 coltellate, l’ultima delle quali sferrata alla gola, la sera del 16 luglio alle 9 e 45, aiutata nell’azione dal suo giovane amante Carlo Cappelletti mentre i due figli adolescenti, Diego e Tamara, attendevano in macchina. Alta macelleria dunque, ma frettolosa perché il quartetto voleva arrivare puntuale alla Bussola, il mitico locale di Camaiore che avrebbe aperto alle 10.

Su quel delitto, che nonostante le sentenze di condanna presenta molti lati oscuri, l’Italia all’epoca si divise. Colpevoli o innocenti? Il dubbio è rimasto e Mario Spezi tenta di fare luce nell’unico modo possibile per un cronista di nera: mettendo i fatti uno in fila all’altro e ripercorrendo, passo dopo passo, attraverso gli atti giudiziari, l’iter delle indagini che in realtà non ci furono perché da subito gli inquirenti credettero di avere fra le mani i colpevoli dell’omicidio e rifiutarono di esplorare altre piste nonostante l’uomo assassinato avesse nemici dichiarati in tutta la Versilia.

Leggendo le carte che gonfiano i fascicoli vengono i brividi: quello che è capitato a Maria Luigia Redoli e a Carlo Cappelletti, colpevoli o innocenti che siano, potrebbe capitare ancora oggi a chiunque si trovasse in prossimità di un omicidio e avesse la ‘colpa’ di voler vivere la propria vita fuori dalle regole oltre a essere una persona antipatica come lo era Maria Luigia Redoli: una cinquantenne platinata dalla faccia dura e dal linguaggio crudo, che si era presa per amante un ragazzo che avrebbe potuto essere suo figlio. Nientemeno che un ‘carabiniere a cavallo’ , dettaglio, quest’ultimo, che forse ebbe il suo peso nello stimolare il famoso ‘fiuto’.

Questo libro offre una precisa ricostruzione del giallone che nell’estate dell’89 fece impennare le tirature dei rotocalchi. Una storia che la dice lunga sulla nostra giustizia penale e dalla quale si potrebbe trarre qualche utile insegnamento. Peccato che dalla prima all’ultima pagina la narrazione sia infestata dall’ingombrante fantasma dello scrittore americano Truman Capote: una surreale e compiaciuta forzatura ideata dall’autore per chiosare la vicenda con informazioni sulla giustizia anglosassone, paragoni e giudizi personali che però a tratti spezzano il ritmo diminuendo sensibilmente il pathos e togliendo suspence.

Mario Spezi

NEL BUIO DI UNA NOTTE DI LUGLIO

Mondadori, pagine 195, € 14,45 anziché 17,00 su Internetbookshop

Prima di ogni udienza un carabiniere batte il manganello contro l’inferriata. E’ una provocazione. Franco ha memorizzato bene la sua faccia. Non si sa mai. Le sbarre davanti agli occhi sono un bell’impiccio, ma non un impiccio definitivo. Anche se lo condannano, prima o poi uscirà di galera”.

Attraverso le vicende del giovane Stefano Guerra, ricostruite dalle deposizioni in tribunale del neofascista Franco Revel capo del gruppo politico di estrema destra Lotta Nazionale, viene messo a nudo il cuore nero degli anni ’70: quelli delle bombe, della P38, degli scontri di piazza sempre più cruenti, degli assalti alle sezioni di partito. Revel, che è accusato di aver assassinato il giovane camerata Guerra, spiega ai giudici che lui e la vittima si erano conosciuti nel 1968, esattamente il 16 marzo, durante gli scontri di Valle Giulia, a Roma.

Quello dell’assalto a Valle Giulia, nel romanzo ma anche nella storia, fu il momento in cui gli ‘opposti estremismi’ per usare un’espressione di Aldo Moro, si toccarono. Fu la genesi di tutto. Quel giorno Revel e i camerati marciavano insieme ai ‘cinesi’ e quando la polizia attaccò, le due fazioni opposte ed estreme fecero fronte comune per rispondere colpo su colpo. Nel racconto del neofascista Franco, il giovane Stefano era uno che si faceva notare perché aveva i pugni in tasca, perché aspettava solo il momento buono per spaccare teste. Per fare male agli avversari. Un assassino nato, un ventenne che aveva la rivoluzione e la cattiveria nel cuore. Insomma, una testa calda. Notando con quanta facilità il ragazzo reagiva alle provocazioni e con quale freddezza era capace di ammazzare, Revel dapprima lo aveva salvato dalla polizia che lo stava inseguendo poi, dopo essere diventato la sua guida politica, il suo istruttore, il mentore, aveva deciso freddamente di sfruttare quelle potenzialità omicidiarie a vantaggio proprio e della sua organizzazione. E’ iniziata così la discesa all’inferno della giovane pedina di nome Stefano Guerra: un escalation di brutalità e violenza destinata a culminare inevitabilmente nella strage. Nel romanzo come nella storia recente.

La legge dell’odio è un non fiction novel che fissa sulla carta, con punti di riferimento certi, il momento esatto in cui le ideologie estreme degli anni ’70 cessarono di essere rabbia e ribellione contro l’ingiustizia sociale per alimentarsi di se stesse, senza più alcun fine politico se non la distruzione e l’autodistruzione. E’ anche il primo tentativo di esplorare in chiave di romanzo il fascino terribile e distruttivo della violenza nera non suffragata da alcuna filosofia ma in quanto pura e semplice espressione di brutalità cieca contro l’altro. Chiunque egli fosse.

Ecco dunque serviti in un romanzo godibile dalla prima all’ultima riga gli ‘anni di piombo’, visti però da una prospettiva fino a oggi sconosciuta. Quella degli stragisti che, in anni non così lontani da essere già storia, trassero linfa dal più tragico e delirante armamentario ideologico del nazionalsocialismo e cercarono di attuarne il progetto in nome di una presunta superiorità spirituale.

Il giovane Stefano Guerra, protagonista del libro insieme col suo mentore Franco Revel è in tutti noi. E non dobbiamo pensare di essercelo lasciato alle spalle. La sua storia è la parabola tragica di quello l’uomo, opportunamente manipolato, può diventare. Stefano infatti non è solo un neofascista di ieri. E’ anche un giovane di oggi in balia di eccessi di ogni genere: stimoli, emozioni, sensazioni … così violenti e repentini da non poter essere tenuti a freno. E il fatto che i suoi eccessi abbiano trovato sbocco nell’estrema violenza politica e nello stragismo è solo casuale.

Alberto Garlini

LA LEGGE DELL'ODIO

Einaudi, pagine 814, € 16,50 anziché 22,00 su Internetbookshop

Lo Sferruzzatore. Tutti i giorni un uomo molto anziano si siede con i ferri da maglia all’angolo di vicolo del Piede. È proprio dietro Santa Maria in Trastevere, tra vicolo della Pelliccia e via della Paglia. Secondo alcuni ha preso questo curioso nome perché ricorda vagamente la forma di un piede. In realtà, si chiama così dal piede di un’antica statua che si trova lungo la strada. Ma, nome a parte, resta un posto come tanti a Roma. Se non fosse per l’uomo che fra le dita ossute e stanche stringe i ferri con cui lavora la lana”.

Chi ama le storie trucide troverà di che saziarsi in quest’antologia di casi irrisolti. Sono delitti efferati che la dicono lunga sulla violenza che serpeggia fra i vicoli della capitale e nelle borgate. Sono tutti fatti veri, scelti dall’autrice fra i molti accaduti a partire dalla fine dell’800 fino ai nostri giorni. Vittime e carnefici si ritrovano qui riuniti nel ricordo del sangue che ancora, in certi luoghi, suscita inquietudine e spavento. Violentatori, donne scomparse e ritrovate decapitate, omicidi di personaggi di spicco e vittime per caso, solo per aver incrociato lo sguardo con un killer in preda alla furia omicida. Donne decapitate, omicidi eccellenti, morti balorde. Come dimenticare la tragica storia di Cesare Serviatti che tagliava a pezzi le sue vittime? E che dire dell’uxoricida seriale noto alle cronache come il ‘Barbablù di Centocelle’? E lo stupratore Luca Bianchini che seviziava le sue vittime nel garage condominiale?

Storie di vite spezzate per uno sguardo di troppo, per gelosia, a volte per niente. Giusto per dare un’idea dei casi raccontati: si va da Annarella, la bambina nel pozzo dei segreti, al killer di via Veneto; dai corpi di marito, moglie e amante restituiti insieme dalla piena del Tevere, al giallo dell’Olgiata (oggi risolto); dal tragico destino dei fratellini Brigida, ammazzati dal padre e sepolti nella campagna romana solo per far dispetto alla madre da cui era separato, allo scheletro composto con le ossa prelevate da innumerevoli cadaveri da un macabro collezionista. C’è di tutto e di più in questo libro che piacerà agli appassionati di cronaca nera e ha il merito di tenere accesi i riflettori su episodi di crudeltà estrema rimasti in buona parte senza colpevoli.

Flaminia Savelli

MISTERI, CRIMINI E DELITTI IRRISOLTI DI ROMA

Newton Compton, pagine 352, € 8,92 anziché 9,90 su Internetbookshop

Il Giudice: “Rilassati, Alessandro. E fai un bel respiro. Il dolore vero non è quello che avverti in questo istante. Il dolore vero lo assorbi tutti i giorni. Nei corridoi dei tribunali.”

L’uomo che parla, e che mi sta tatuando il braccio, è un vecchio giudice in pensione. Anzi, è il Giudice. La poltroncina di legno scuro sulla quale sono seduto ha, sul lato sinistro, una targhetta metallica: Tribunale ordinario di Milano - Categoria: beni durevoli - Bene inventariato: n. 1221. La provenienza è chiara”.

Alessandro Correnti, ‘Alex’ per quasi tutti, negli anni ’90 era un hacker molto stimato nel cyberspazio. Un ‘pirata’ informatico conosciuto nel suo ristrettissimo ambiente col nome di “Deus”. Apparteneva a un’organizzazione che si poneva come obiettivo la scoperta e la divulgazione di comportamenti non etici messi in atto da governi e da società multinazionali. Soprattutto di quelli tesi a limitare le liberta civili e la circolazione delle informazioni: gli stessi obiettivi, cioè, perseguiti da WikiLeacks e dal suo fondatore Julian Assange. Vent’anni dopo, ormai quarantenne, è un avvocato nerd con lo studio di diritto penale in centro a Milano. La sua specialità è la difesa dei più deboli, soprattutto dei bambini abusati e degli animali fatti oggetto di loschi traffici, per i quali, occasionalmente, accetta di tornare a essere “Deus”, effettuando scorrerie informatiche a fin di bene. La sua vita scorre tranquilla quando un giorno viene invitato ad assistere a una conferenza che si tiene all’università. Il relatore è un personaggio che appartiene al suo passato: nientemeno che il suo mentore ai tempi delle scorrerie. Il programma della conferenza che intende tenere è esplosivo: sono preannunciate rivelazioni riguardo a un software, già in libera vendita, che consentirebbe lo spionaggio capillare dei cittadini tramite gli stessi dispositivi elettronici di loro proprietà. In pratica, telefoni cellulari, telecamere fisse di sorveglianza, navigatori GPS, transponder eccetera potrebbero essere trasformati dal software in altrettante ‘spie’ capaci di inviare informazioni e immagini a all’insaputa dei proprietari. Alex, perennemente in ritardo, arriva quando l’aula è strapiena, giusto in tempo per salutare il maestro e vederlo morire perché l’uomo, che porta nel petto uno stimolatore cardiaco, si accascia appena salito sul podio, colpito da un repentino quanto inspiegabile arresto del battito.

Morte naturale oppure omicidio compiuto a distanza con un dispositivo elettronico? Alex indaga.

Bellissimo romanzo che potrebbe apparire fantascienza a chi non conosce le potenzialità delle nuove tecnologie mentre è più vicino alla nostra vita di quanto non si creda. Oggi sono realtà sia lo spionaggio elettronico su vasta scala che il maestro di Alex si apprestava a denunciare, sia i congegni capaci di interferire con l’attività degli stimolatori cardiaci fino al punto di fermare il cuore. Lo dimostrano gli scandali informatici di cui di tanto in tanto si ha notizia, mentre su certi decessi ‘per cause naturali’ forse sarebbe bene indagare più a fondo. Non per nulla l’autore, Giovanni Ziccardi, è uno che di navigazione internet, di pirateria nel web e di diavolerie elettroniche se ne intende, essendo docente di Informatica Giuridica all’università Statale di Milano nonché direttore del Corso post lauream di Computer Forensics e Investigazioni Digitali. In altre parole: è così inserito nel cyberspazio, un mondo parallelo, da far nascere il sospetto che per dare vita al suo protagonista abbia tratto ispirazione da sé stesso.

 

Giovanni Ziccardi

L'ULTIMO HACKER

Marsilio, pagine 368, € 14,88 anziché 17,50 su Internetbookshop

Basta chiudere la parentesi berlusconiana per risanare il paese? Noi pensiamo di no. Restano troppe cose da cambiare e il sottobosco è forse la prima di queste“.

Okay, in Italia dal dopoguerra in poi si è sempre creduto che entrare in politica corrispondesse a dare la scalata al potere che genera ricchezza (personale). Vorrà pur dire qualcosa che già negli anni ’70, quando il Pci era vicino al sorpasso, il suo segretario Enrico Berlinguer avesse sollevato il problema della questione morale! Poi, all’inizio degli anni ’90 è arrivato il ciclone di Mani pulite che però, dopo gli entusiasmi iniziali, è stato soffocato appena le inchieste si sono allontanate dalle responsabilità penali dei singoli per spostarsi verso i centri di potere. L’azione del pool è stata bloccata quando il rastrello della giustizia ha cominciato a darsi da fare nel sottobosco dei comitati d’affari, delle consulenze miliardarie, delle pressioni esercitate col ricatto, del do ut des dei voti in cambio di appalti e, soprattutto, appena ha cominciato a portare alla luce le relazioni fra esponenti di opposti schieramenti, gli stessi che fingono di combattersi in parlamento, ma che si abbracciano e fanno affari insieme nei salotti, sulle barche, nelle sale riservate dei ristoranti. Perfino nei corridoi dei palazzi di giustizia fra un’udienza e l’altra quando la partita si gioca fra inquisiti e difensori.

Una volta arrestato il ciclone di Mani pulite, il fuoco delle avidità personali ha ripreso a divampare, più forte di prima. E’ bastato un attimo di distrazione perché l’Italia ‘da sorseggiare’ di colpo diventasse l’Italia da divorare, da sbranare, da ingoiare senza vergogna e senza scrupoli, nella convinzione che sulla tavola imbandita i commensali di destra, di sinistra e di centro non dovessero più lasciare neanche le briciole.

La metafora del grande banchetto forse farà rabbrividire ma rispecchia la realtà e questo libro spiega, fatti alla mano, con nomi, luoghi, dati e date, cosa sia e da chi sia costituito quel sottobosco paludoso al riparo del quale individui sconosciuti, armati solo della propria impudenza, si sono arricchiti in modo spropositato e poi, dall’alto dell’immeritata fortuna, hanno fatto da maitresse, favorendo le relazioni illecite fra politica, alta finanza e spesso anche malavita organizzata. Una volta penetrati nel ‘sottobosco’, i lettori non avranno alcuna difficoltà a capire cosa abbia letteralmente strangolato la nostra economia. E perché oggi i cittadini per bene si ritrovino a dover pagare il conto di una pantagruelica abbuffata.

 

Claudio Gatti e Ferruccio Sansa

IL SOTTOBOSCO. Berlusconiani, dalemiani, centristi uniti nel nome degli affari

Chiarelettere, pagine 189, € 12,75 anziché 15,00 su Internetbookshop

Sono in un bar della Fifth avenue e non so perché ci sia venuto. Il cameriere mi porta un caffè troppo lungo e ha voglia di parlare. Io no. “Se il vento smette verrà la neve” dice. E’ giovane, la faccia gli scivola da sotto i capelli rossi e si allunga sul mento. Ha già dimenticato cos’era la Fifth avenue in quelle ore. Io ancora non posso, non ci riuscirò mai. Ma forse ha ragione lui”.

Dave Stirling è un avvocato di New York specializzato in diritto internazionale. Era titolare con un socio di uno studio legale situato in una delle due torri gemelle e in seguito all’attacco dell’11 settembre ha perso tutto. Ridotto sul lastrico per colpa dell’assicurazione che tarda a risarcirlo, non ha più neanche i soldi per far fronte al mutuo della casa quando in un bar incontra per caso James Rubbard, suo professore a Stanford, che gli promette di aiutarlo a tornare a galla, mettendolo in contatto con un uomo molto ricco che, guarda caso, avrebbe giusto bisogno di un professionista come lui per condurre in porto un grosso affare. Il personaggio è nientemeno che di Vladimir Kroshenko, uno dei più potenti uomini d'affari della nuova Russia. Dave Stirling dovrebbe affiancarlo nelle trattative per ottenere l’appalto relativo alla costruzione di alcune dighe sulla parte uzbeka del lago Aral. Si tratterebbe di un progetto che dovrebbe rientrare nella vasta operazione internazionale di recupero ecologico di un'area disastrata da decenni di politica economica dissennata. L’avversario da battere per aggiudicarsi la commessa è una società francese che si serve per le negoziazioni di una giovane professionista con fama di essere uno squalo.

Dave accetta e si tuffa nell’affare ma ben presto si rende conto che la controparte rappresentata dalla donna non è l’unico ostacolo da superare. Arrivato in Uzbekistan, dove il gelo paralizza il respiro, scopre che dietro alle nobili motivazioni di porre riparo al disastro ambientale se ne celano altre inconfessabili, mentre quella che doveva essere una guerra di carte bollate diventa via via una lotta per sopravvivere.

La tragedia che ha prosciugato il lago Aral desertificando un vasto territorio è storia. Ne ha parlato anche Al Gore nel suo libro "Earth in the balance", definendola “il più grave disastro ecologico nella storia dell'umanità”. A provocarla fu il piano di coltura intensiva voluto dal regime sovietico nell'immediato dopoguerra. Allora fu canalizzata l’acqua dei due fiumi che alimentavano il lago per irrigare sterminati campi di cotone la cui produzione potesse battere quella americana. Una guerra commerciale inserita nella guerra fredda, che ebbe come risultato una catastrofe.

Sergio Grea, genovese per nascita e milanese di adozione, di risorse energetiche e di ecologia se ne intende. E’ stato un altissimo manager attivo nel settore petrolifero e la sua professione lo ha portato a contatto con le catastrofi ambientali di tutto il mondo. Questo libro, un vero non fiction novel, ha un respiro internazionale che lo rende diverso dai mille altri che esplorano il genere e anche se gli scenari sono lontani ed esotici, è molto aderente alla nostra realtà perché esplora il ‘dietro le quinte’ dei grandi affari che, uguali in tutto il mondo, non cessano di violentare il pianeta.

Sergio Grea

L'APPALTO

Piemme, pagine 489, € 15,73 anziché 18,50 su Internetbookshop

Istintivo, espansivo, corpulento, straripante, sopra le righe senza mai diventare molesto. Vitale, ruvido e generoso. Sempre burbero, spesso benefico. Il cappello floscio calcato sulla testa anche mentre stava in panchina. Le battute fulminanti rigorosamente in dialetto triestino, a cominciare dalla memorabile risposta a un giornalista che alla vigilia di un Padova-Juventus gli disse: “Vinca il migliore”. “Ciò, sperem de no”, replicò il Paron che allenava i veneti”.

Avrebbe compiuto cent’anni lo scorso 20 maggio e ne sono passati 33 dalla scomparsa, avvenuta nella sua Trieste il 20 febbraio 1979, eppure negli ambienti calcistici continua a correre la sua leggenda. Il ‘Paron’ è Nereo Rocco, l’allenatore del grande Milan degli anni ’60 e ’70, quando Berlusconi non si era ancora profilato all’orizzonte e i campioni diventavano ricchi e famosi con giudizio. E’ strano, ma in un ambiente come quello del calcio, che tende a bruciare i suoi protagonisti come se fossero candele votive, il Paròn è rimasto un mito. Tutti lo ricordano. Tutti conoscono il suo nome, anche le ultime leve del giornalismo sportivo e i giovani calciatori nati ben dopo la sua scomparsa. E negli spogliatoi come nelle redazioni sportive continuano a correre le sue battute fulminanti, il suo dialetto aspro, gli aneddoti che lo hanno avuto protagonista. Questo libro, scritto da Gabriele Moroni, grande cronista di nera e inviato del Giorno, lo ricorda come un soffio di aria pura delle Alpi fra i vapori tossici del calcio malandrino che sprofonda negli scandali.

Il ritratto del grande allenatore che esce in queste pagine attraverso le testimonianze dei ‘suoi’ calciatori e degli avversari, degli amici e di chi non l’ha mai potuto soffrire, è quello di un uomo solido come una rioccia, onesto come pochi, burbero, quasi scorbutico. Uno che rifuggiva dalle etichette al punto da non voler essere chiamato ‘mister’ ma che in compenso sapeva come si allevano i veri campioni, come si impiegano in partita, come si impedisce loro di montarsi la testa.

Cesare Maldini, Giovanni Lodetti, Fabio Cudicini, Sandro Mazzola sono alcuni fra i tanti che ricordano il Paròn in queste pagine, svelando retroscena inediti e gustosi del loro rapporto con il friulano calato a Milanello per rivoluzionare con i suoi schemi il gioco del calcio e che, visti i risultati, ci è riuscito.

Gabriele Moroni

IL PARÒN. Nereo Rocco nelle testimonianze di calciatori, amici e avversari

Mursia, pagine: 160, € 11,70 anziché 13,00 su Internetbookshop

Se oggi - XXI secolo - vogliamo andare da Rialto a San Marco percorriamo una strada chiamata Mercerie. Dalle vetrine dei negozi occhieggiano i beni per cui l’Italia va famosa: scarpe, abbigliamento, borsette e un po’ di gioielli. Gucci ha un suo punto vendita e si ammira anche un rossissimo Ferrari shop con in mostra un autentico bolide di Formula 1.

Se facessimo un viaggio nel tempo e ripercorressimo quella stessa strada nel 1520 la riconosceremmo senza difficoltà: in cinque secoli è cambiata poco e soprattutto è rimasta identica la sua vocazione commerciale”.

All’inizio ci furono gli amanuensi benedettini: frati calligrafi e miniaturisti che per secoli, mentre l’impero romano completava l’opera di autodistruzione, nella solitudine e nel silenzio dei grandi monasteri che da Montecassino si diffusero in tutta Europa, salvarono dalla distruzione i capisaldi del pensiero e della letteratura occidentale: Cicerone, Aristotele, Platone, ma anche le Scritture: Genesi, Pentateuco, Deuteronomio, Salmi, Vangeli. Poi venne Gutemberg che nel 1455 inventò la stampa a caratteri mobili, aprendo con il primo volume stampato (la Vulgata di San Gerolamo in latino), la strada alla diffusione della cultura. Ma è solo nella prima metà del 1500 che viene tracciata la strada che porterà nel giro di pochi secoli all’alfabetizzazione di massa. A fare la differenza, rendendo più accessibile la lettura, prima riservata a pochi, fu un genio assoluto di nome Aldo Manuzio, il tipografo veneziano che inventò i libri (quasi) tascabili, ovvero i volumi di piccolo formato e di costo relativamente basso che potevano essere maneggiati con una certa disinvoltura e portati in viaggio. Erano tomi stampati in centinaia di copie senza troppi fronzoli, ma editati con cura in tutte le lingue del mondo. Una vera rivoluzione, ovviamente osteggiata dalla Chiesa cattolica da sempre contraria alla libera circolazione del pensiero, grazie alla quale furono salvati dal furore dell’Inquisizione, che seguirà di lì a pochi anni, tutti quei capolavori assoluti che sarebbero certamente finiti fra le fiamme. Fu così che Venezia, con le edizioni aldine, divenne nel giro di pochi anni la ‘multinazionale del libro’, in grado di stampare in qualsiasi lingua opere classiche e scritti contemporanei, testi moderni e, clandestinamente, anche libri proibiti commissionati da mercanti stranieri che poi li diffusero in tutto il mondo.

E’ un viaggio affascinante quello compiuto dall’editoria nel corso dei secoli. Un viaggio avventuroso e pieno di misteri, partito da Venezia e diventato inarrestabile, nonostante gli ostacoli e le censure imposti dall’Inquisizione anche a una società libera e liberale, colta e tollerante com’era nel ‘500 quella che popolava la Serenissima.

Alessandro Marzo Magno

L'ALBA DEI LIBRI. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo

Garzanti, pagine 211, € 18,70 anziché 22,00 su Internetbookshop