Adele Marini

La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.

Incipit
Questo libro. Una storia ancora in corso
Attraverso fatti di un altro secolo, il Novecento, poi nemmeno tanto lontano a pensarci bene, vedrete materializzarsi pagina dopo pagina una realtà che appartiene ancora all’oggi. Una storia antica ma di stringente attualità, si potrebbe dire con un paradosso.
Ciclicamente, qualcuno denuncia la propensione al servilismo della stampa italiana, la sua predisposizione quasi genetica a ossequiare ogni forma di potere. E che a porre il problema spesso siano proprio coloro che nei giornali ci lavorano, è sicuramente un bene, il segno di una qualche residua capacità di reazione di fronte a una realtà che, per certi aspetti, si configura ormai come una vera e propria emergenza democratica. La denuncia è utile e necessaria. Se si limita però a fotografare una patologia, senza offrire anche un’analisi delle cause che l’hanno determinata, non aiuta a formare una coscienza e a radicarla nell’opinione pubblica, ma crea soltanto stati d’animo effimeri, destinati a dissolversi al primo cambiamento di vento.

Curioso che dal dopoguerra a oggi si sia sempre guardato alla Cia come al mandante delle stragi, come fabbricatrice di golpe in tutti i paesi pencolanti verso sinistra del mondo civilizzato, come curatrice senza scrupoli dei propri interessi economici, finanziari e politici dovunque risiedano, spesso, prevaricatrice ed erede naturale in geopolitica di tutto il male proveniente dall’Office of Strategic Service, il famigerato OSS, e che si sia trascurato di alzare lo sguardo verso l’altra potenza, a noi molto più vicina: l’Inghilterra.
Gli autori di questo libro, documenti alla mano, stanno finalmente spalancando una finestra su qualcosa che ai più suonerà come una novità: l’intelligence di Sua Maesta, il famigerato MI6, quello dell’agente James Bond creato dallo scrittore Ian Fleming, che dal dopoguerra a oggi non ha mai smesso di spiarci e di entrare a gamba tesa nei nostri affari politici ed economici, interni e soprattutto esteri. Talvolta manipolando il sentire comune con insospettabili ‘agenti provocatori’. Spesso sollevando cortine fumogene per impedire l’accertamento della verità in presenza di episodi gravi come la bomba in piazza Fontana. Quasi sempre utilizzando opinion maker molto popolari e molto presenti sui media.
Non nuovi all’osservazione degli spioni d’oltre Manica, gli autori, che in un loro precedente libro, Il golpe inglese (Chiarelettere) hanno affrontato, con una solida documentazione, il problema dell’ingerenza inglese nella nostra politica, in questo nuovo saggio affrontano, sempre documentando ogni dato e ogni affermazione, il problema dell’ingerenza britannica nella nostra politica.
Un grosso lavoro di scavo fra i documenti desecretati, conservati nell’archivio nazionale inglese a Kew Gardens, che ha permesso di appurare come siamo sempre stati la ‘Colonia Italia’ delle superpotenze.
Perché questo interesse nei nostri confronti? La risposta è complessa e si articola su tre fronti. Il primo è politico e tira in ballo il Pci che, dal dopoguerra e fino agli anni ’90 è stato il più importante partito comunista europeo e non ha mai troncato i legami dei suoi dirigenti con Mosca. Il secondo è geografico: Siamo una banchina allungata sul mediterraneo. Dalle mostre coste si controlla tutto il Nordafrica, mentre a est, fino alla dissoluzione della Iugoslavia, siamo stati la porta sui Paesi comunisti. Il terzo, infine, è morale o, meglio, poco morale agli occhi delle superpotenze per via dei nostri tentennamenti, dei voltafaccia, dell’italica inaffidabilità in tutti i campi.
Ma come è stato esercitato negli anni questo controllo? Semplice: tramite un esercito di personaggi insospettabili della stampa, dell’imprenditoria, dell’editoria, messi a libro paga o anche soltanto incoraggiati, spinti, amichevolmente ‘consigliati’ a fare sponda, a condizionare l’opinione pubblica in modo sottile, con amichevoli ma continue e insospettabili pressioni sul sentire comune della popolazione, esercitate fondamentalmente tramite i media. Un libro davvero interessante, che oltretutto nella parte finale elenca nomi, cognomi e curricula di moltissimi personaggi italiani coinvolti nel ‘complotto inglese’ , alcuni sconosciuti ai più, ma la maggior parte notissimi e perfino amati.

Mario José Cereghino, Giovanni Fasanella

COLONIA ITALIA. Giornali, radio e tv: così gli Inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra 

Chiarelettere, 483 pagine, € 15,81 anziché 18,60 su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 11,99

Introduzione alla nuova edizione
Nel 1978 Milano è una città di frontiera.
Carica uomini, merci, idee dal sud del mondo e le trasferisce in Europa, nelle grandi metropoli del nord.
Borsa, affari, traffici legali e illegali.
E’ così da sempre, anche in quell’anno.
Milano è un luogo dove i soldi sono un mezzo per comprare la felicità. Non certo i valori.

Prefazione alla nuova edizione
Perché certi fatti della storia restano memoria viva, memoria del presente, mentre altri, pur altrettanto importanti, svaniscono nell’oblio del passato?
Perché dei tanti omicidi politici degli anni Settanta oggi si ricordano soprattutto quelli di Fausto e Iaio, Peppino Impastato e Valerio Verbano?
Quella sera in via Mancinelli.
Milano, via Mancinelli, Sabato 18 marzo 1978. Intorno alle 20
La strada è buia. Il vento di marzo sposta il lampioncino in fondo a destra e lo fa dondolare come fosse un’altalena.
Giunge da lontano la voce del conduttore del telegiornale che racconta le prime fasi dell’inchiesta sul rapimento del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro e sull’uccisione dei cinque uomini della scorta da parte delle Brigate Rosse, fatti avvenuti solo due giorni prima in via Fani, a Roma
Il silenzio maschera il rumore sordo di passi veloci.
Sono quelli di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio, due giovani che frequentano il centro sociale Leoncavallo e che si vestono con jeans scampanati, camicie a quadretti, giubbotti con le frange e che portano capelli lunghi

Pubblicato per la prima volta nel 1996, questo libro rivede la luce anche in formato digitale dopo l’archiviazione da parte del Gip del Tribunale di Milano, Clementina Forleo che, con il decreto del 6 dicembre 2000 mette la parola fine a un’inchiesta iniziata subito dopo il duplice omicidio dei due leoncavallini nel marzo 1978.
La nota conclusiva della Forleo è un capolavoro del dire senza dire.
“Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolari degli attuali indagati [Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci], appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni”.
In sostanza è qui riassunto il limite che affligge troppi magistrati chiamati a emettere sentenze su crimini di natura politica, eversiva, finanziaria:
“Sì, sappiamo chi è stato, conosciamo i retroscena, ma non abbiamo le prove.”
E non bisogna credere che la Gip si sia limitata alla lettura delle carte e abbia tratto la sua conclusione in modo superficiale. Forleo ha seguito varie piste. Nel suo decreto cita le dichiarazioni dei pentiti di destra che negli anni hanno dato la loro versione sul delitto. Però, come tanti in troppe circostanze analoghe, non ha avuto lo scatto di orgoglio che l’avrebbe spinta a seguire anche le piste tracciate delle perizie dell’avvocato di parte civile, Luigi Mariani, ordinando nuove indagini su una figura centrale: Massimo Carminati e sui suoi legami con il Sismi, il servizio militare. Inoltre non ha chiesto che venisse approfondito l’episodio del furto nel caveau del Tribunale di Roma, messo a segno dallo stesso Carminati insieme con carabinieri e poliziotti nel luglio del 1999. E non ha dato neppure un’occhiata alle carte prodotte dalla Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino sulla banda della Magliana e sui rapporti, sempre di Carminati, con i neofascisti romani.
Se lo avesse fatto l’Italia sarebbe oggi un Paese forse meno corrotto e meno pericoloso.
Va detto subito che l’omicidio di Fausto e Iaio, contrariamente a quello che si è voluto far credere, non ha nulla a che vedere con la droga e con l’indagine dei due ragazzi per il libro bianco sull’eroina uscito nel marzo 1978.
Ad ammazzare Fausto e Iaio non è’ stato un pusher arrabbiato perché gli rovinavano la piazza, ma un commando venuto apposta da Roma per dare il segnale che era in atto uno scontro militare. E non in una zona a caso di Milano, ma al quartiere Casoretto, a città studi, in modo da indirizzare questo segnale a una precisa area politica. E guarda un po’ chi faceva parte del commando, anzi, chi lo guidava?
Massimo Carminati! Sì, proprio lui, il ‘re di Roma’.
E già da questo si può intuire la forza e la straordinaria attualità del lavoro di Biacchessi, perché alla fine tutto torna.
Per capire meglio annodando qualche filo di conoscenza in più, oggi esiste la mappa di google che dà una precisa collocazione alle abitazioni di Fausto e di Iaio rispetto al covo dei brigatisti in via Montenevoso, dove furono scoperte le carte di Moro, circostanza anticipata dall’autore già nell’edizione del 1996, ma mai presa in considerazione neanche di striscio dagli inquirenti che indagarono sul duplice omicidio.
Anche se molte cose in più oggi si sanno, l’Italia continua a essere il paese dei misteri. Molte tessere del grande mosaico dell’eversione, a cui appartiene anche il duplice omicidio di via Mancinelli, continuano a non andare a posto e sui ragazzi del Leoncavallo continua a gravare un silenzio imbarazzato.
Scrive Aldo Grannuli nella sua perizia del 1988 per il sostituto procuratore Stefano Dambruoso:
“I fascicoli sull’omicidio si presentavano poveri, non comparivano note confidenziali, nessun scambio epistolare con altri corpi di polizia, nessun passaggio d’inchiesta. Il silenzio appare strano. Totale assenza di veline. Nessun rapporto della squadra narcotici. Nessun informatore ha acquisito la minima notizia sul caso.”
La pubblicazione di questo libro, riveduto e corretto alla luce di quello che oggi si sa, vuole essere un invito a riflettere su strane connessioni, su complicità sotto traccia e sulla protezione di cui hanno goduto per anni molti personaggi oscuri come Carminati, indicato come figura centrale dell’eversione di destra già nel 1996.

Daniele Biacchessi 

FAUSTO E IAIO. La speranza muore a 18 anni 

Baldini&Castoldi, 194 pagine, € 10,20 anziché 12. su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 6,99

Incipit 
Questo libro. Le piaghe del Vaticano
E’ il pomeriggio 12 novembre 1978. Dopo appena 18 giorni di pontificato, papa Giovanni Paolo I scopre che all’interno della curia si muove una potente loggia massonica con centoventuno iscritti. La notizia che riceve è sconvolgente. Cardinali, vescovi e presbiteri non seguono le parole del vangelo ma rispondono al giuramento della fratellanza muratoria. Una situazione intollerabile. Così, il 19 settembre, il nuovo pontefice inizia a preparare un piano di riforma radicale della cura.
La denuncia choc di papa Francesco. La riunione riservata
Poche ore dopo i consueti appuntamenti religiosi, il papa si prepara a raggiungere il palazzo apostolico. Francesco controlla personalmente l’agenda con gli impegni della giornata.
«Ho sempre fatto così, la porto in una cartella nera, dentro c’è il rasoio, il breviario, l’agenda e un libro da leggere.»
In mattinata è prevista l’udienza con l’arcivescovo Jean-Louis Bruguès, bibliotecario e archivista della Santa sede. Ma l’appuntamento più importante è fissato per le 12.

Il primo pontefice che si mise in capo di fare pulizia nelle sacre stanze fu papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani. Era il 1978, l’anno in cui si favoleggiava dell’attico con piscina di Paul Casimir Marcinkus, l’onnipotente porporato che dirigeva lo Ior, finito in cronaca per i molti scandali finanziari e le amicizie con banchieri, bancarottieri e faccendieri di non specchiata virtù.
A papa Luciani, che evidentemente non apparteneva al club dei potenti della Chiesa, bastarono diciotto giorni per accorgersi che c’era del marcio all’interno della curia e che nel palazzo di san Pietro si muovevano ecclesiastici col grembiulino massonico al posto della croce di ametiste. Come gli sia andata, è scritto in una delle peggiori pagine della storia della chiesa.
Poi è toccato al papa tedesco: il mistico Benedetto XVI, troppo stanco, troppo anziano e sicuramente troppo solo per combattere contro il conservatorismo dei vertici vaticani. Non avendo né armi, né strumenti e neppure alleati, si è dimesso.
Adesso è la volta di papa Francesco, il gesuita venuto dall’Occidente, energico e abbastanza giovane da trovare in sé le energie sufficienti per dare battaglia. E abbastanza furbo da aver preferito l’appartamentino di cinquanta metri quadrati del residence Santa Marta, al fastoso ma sinistro appartamento papale in Vaticano. Come Albino Luciani è come il suo predecessore Benedetto XVI, anche Bergoglio è sobbalzato scoprendo che quello che continua a stare a cuore a chi amministra il patrimonio immobiliare del Vaticano non è l’amore per il prossimo e nemmeno la guida spirituale del fedeli ma piuttosto l’accumulo e lo sperpero del denaro che affluisce alle casse soprattutto attraverso l’Obolo di san Pietro, la carità dei fedeli di tutto il mondo che dovrebbe essere destinata ai poveri. E non parliamo di promuovere e finanziare quelle Opere di religione per le quali lo Ior era stato creato!
Dopo Vaticano spa, che grazie ‘all’archivio della vergogna’ di monsignor Renato Dardozzi, ha scoperchiato le pentole dell’Istituto svelandone la spregiudicata politica [mal]affaristica, dopo Sua Santità che attraverso le carte trafugate dal maggiordomo pontificio, Paolo Gabriele, ha svelato la quotidianità di papa Ratzinger, assediato da personaggi che con un eufemismo si possono definire ‘ostili’, Gianluigi Nuzzi torna in libreria con una nuova inchiesta che ha aperto il ‘vaso di pandora’ del Governatorato e dell’Apsa, gli organismi preposti al governo dello Stato vaticano e al suo funzionamento nonché all’amministrazione dei suoi beni.
L’Apsa, in particolare, tramite il suo braccio finanziario, ovvero lo Ior, è di nuovo scoperta con le mani nella marmellata: scoperta a operare sui mercati finanziari di tutto il mondo esattamente come farebbe una società di intermediazione abbastanza spregiudicata da non badare a come si moltiplicano i profitti e che quindi, se l’affare del momento, grazie ai sanguinosi focolai di guerra in Africa e dintorni, è rappresentato dalla vendita di armi, perché non investire lì? Idem per le società proprietarie di televisioni specializzate nel porno e in molti altri affari che con la religione e la fede hanno poco da spartire.
Appena uscito, questo libro sta facendo scalpore. Da molte parti si sta gridando allo scandalo, mentre i ‘traditori’ accusati, come già il maggiordomo Paolo Gabriele, di aver passato documenti scottanti, fra cui registrazioni di riunioni segretissime, stanno già pagando duramente. Due nel carcere della Santa sede, e due (i giornalisti) accusati e pronti a sedere alla sbarra di un’aula processuale.
C’è davvero di tutto in questo libro. Grandi ‘affaire’ e piccinerie. Perfino pettegolezzi gustosi. E tuttavia, a una riflessione profonda non può sfuggire una verità inconfutabile: che la lotta di papa Francesco contro chi vorrebbe mantenere uno status quo di privilegi e ricchezze, di potere incontrastato e libertà di condurre operazioni opache che sconfinano nel malaffare, fra congiure di palazzo, agguati e comitati di affari, non può essere solitaria e invisibile se vuole avere qualche possibilità di risultare efficace.
Se qualcosa cambierà in Vaticano, se gli uomini che compongono la nomenclatura della Chiesa di Roma sceglieranno quelle opere pontificie di carità a cui è destinato, e se gli investimenti saranno finalmente etici, lo si dovrà proprio a quelle gole profonde e a quei servitori ‘infedeli’ che hanno passato le carte, violando il loro giuramento di riservatezza. E, naturalmente, anche ai giornalisti che quelle carte le hanno raccolte e pubblicate. Da leggere prima che qualche zelante procuratore italiano ne chieda il sequestro e la distruzione.

Gianluigi Nuzzi 

VIA CRUCIS 

Chiarelettere, 321 pagine, € 15,30 anziché 18 su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 9,99

Dalla prefazione:
La vita è strana.
Stai cenando. Di fronte a te c’è un uomo simpatico. Ciarliero.
Ti piace,
È una fredda sera dì gennaio, sei a Nepi, e pensi di non essere vista. Ti senti protetta tra le antiche mura etrusche.
Le forre – le gole piene di felci rare scavate nei secoli dall’acqua e che scolpiscono lo sperone su cui si accampa la città – vi isolano davvero dal resto del mondo. Così lontani da Roma. Dalla tua, dalle vostre vite.
Non è una tua esigenza, certo: ma la discrezione, per un uomo sposato, è tutto quando si fanno incontri galanti con una donna che non è sua moglie.
E tu sei comprensiva. Hai imparato a esserlo. Dopotutto, è solo un’altra volta.
Hai 45 anni ora. Ti chiami Antonella, e sei una donna sola.
Le posate tintinnano nel piatto e tu ridi alle battute di lui. E nonostante l’inverno, un po’ di calore, adesso, ti entra dentro.
“Scusami un attimo”, avrai detto.
Nella toilette ti sei guardata in faccia. Con più clemenza del solito.
Avrai stretto le labbra avvicinandoti allo specchio. Ti sei data un ritocco leggero leggero di rossetto per non dare troppo nell’occhio al ritorno al tavolo. E allora il tuo viso crucciato -spesso duro – si sarà finalmente arreso a un sorriso disteso.
Stasera è perfino dolce al lume romantico delle candele.
La vita è strana.
Perché questa cena clandestina, preludio a tante notti d’amore strappate {trenta: le misureranno tutte) sarà divulgata urbi et orbi, squadernata negli articoli di cronaca dei giornali di lutt’Italia, discussa nei talk show della televisione, raccontata nell’aula di un tribunale: niente meno che davanti a una corte d’Assise.
Incipit:
Antonella è una donna metodica.
Ha orari sempre uguali, scanditi da un lavoro che la appassiona e che la tiene impegnata sempre, un lavoro a cui dedica ogni energia. Pochi svaghi occasionali, nessuna passione speciale, nessun hobby in particolare, una routine che la avvolge e che, in un certo senso, la protegge. La protegge dalla solitudine.
Antonella è una donna sola e solitaria, raramente la si incontra con qualcuno, pochi amici, pochissime amiche e i 40 passi che la dividono dal garage al portone di casa in via Domenico Oliva 8 li percorre sempre da sola.

Mauro Valentini, giovane giornalista romano, è al suo primo libro. Ma non sembrerebbe perché già mostra il piglio e lo stile dello scrittore navigato. Sa descrivere gli ambienti, tratteggiare i personaggi e, soprattutto, sa raccontare.
Per il suo primo cimento letterario ha scelto una storia nera, una storia che è realmente accaduta più di venti anni fa. Un delitto insoluto non raro nella capitale dove da tempo non si fanno più indagini ma il commissario ed magistrato di turno preferiscono affidarsi alle perizie, aspettando in panciolle che le prove arrivino da sole con sopra scritto il nome dell’assassino. E’ un’antica polemica quella che contrappone i fideisti della scienza criminale a coloro che con più prudenza affermano che le prove fornite dalla scientifica di turno devono essere di sostegno ad un’indagine condotta con tutti i crismi, un elemento ulteriore e non quello risolutivo. Basti pensare al macero in cui è finito il progetto all’ex fidanzato per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, il delitto di via Poma. E nell’omicidio avvenuto a Roma il 12 aprile 1994 le prove scientifiche parlano poco e le indagini sono state condotte con i piedi. Quel giorno è stata ritrovata chiusa in un armadio del suo appartamento una commercialista di mezza età, Antonella Di Veroli, signora ancora piacente, l’analisi della cui personalità meriterebbe un libro a parte. Una donna sola ma niente affatto solitaria. Una donna che ama gli uomini e ne è riamata. Che forse si abbandona poco e si controlla molto. Molto riservata. Con pochi amici, ma certamente forte e passionale. Basterebbe fermarsi a queste schegge di analisi per capire che i due uomini che finiscono nel tritacarne delle indagini – e uno dei due anche in quello di tre gradi di giudizio processuale – non possono c’entrare nulla con la sua morte.
40 passi è un bel giallo psicologico, ma prima di tutto il resoconto minuzioso di un’altra inchiesta fallita nella città in cui, più o meno in quegli anni, è sparita Emanuela Orlandi, sono state assassinate almeno quattro donne (oltre alla Di Veroli, Simonetta Cesaroni, Cinzia Bruno ed Eleonora Scroppo, tutti delitti senza assassini), ci sono voluti vent’anni per risolvere il caso della contessa Alberica Filo della Torre (il delitto dell’Olgiata), mentre per un’altra donna ancora (la giovanissima Marta Russo) ci si è accontenti di una verità di comodo che sarà pure la verità giudiziaria ma certamente non è quella storica (SP).

Mauro Valentini 

40 PASSI. L’omicidio di Antonella Di Veroli

Sovera edizioni, 192 pagine, € 14,25 anziché 15 su internetbookshop

Dalla prefazione di Oliviero Beha:
È un libro impressionante e prezioso, questo “2008” rivolto contemporaneamente al passato prossimo e alla stagione che stiamo vivendo, e a quella che ci aspetta. Impressionante perché rivisitare fatti, circostanze e persone che ruotano intorno a quell’anno, così vicino e così lontano, da una specie di capogiro, una labirintite intellettuale ed emozionale: davvero è successo tutto questo? E noi dove eravamo nel frattempo, che cosa abbiamo fatto, perché lo abbiamo permesso?
Prezioso perché non era cosi facile mettere insieme con credibilità e minuziosità le tessere di un mosaico riferito a un periodo così recente, un oggi sfumato e ancora remoto di fronte alla storia, e insieme già così consumato nella mancanza di memoria della cronaca quotidiana.
La politica, l’ambiente, la sanità, i poteri forti/marci, le spinte dal basso, l’avvicendamento dei governi, Berlusconi e tutti nella sua ombra, una sinistra frammentata e dall’identità dispersa, le manovre internazionali, il CIP6 piuttosto che le rinnovabili, gli inceneritori sovrani in un sistema-Paese che sta effettivamente bruciando…

Nota dell’autrice
Per ironia della sorte, il 2008 doveva essere l’anno internazionale del pianeta Terra. Così aveva stabilito l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nell’ambito delle iniziative per promuovere la ricerca scientifica finalizzata alla salvaguardia delle risorse naturali.
Per l’astrologia cinese, nel 2008 il mondo entrava nell’anno del topo.
Di sicuro, è stato l’anno della catastrofe economica internazionale, un ciclone che ha sovvertito le sorti dei più antichi e nobili Paesi dell’Europa mediterranea, colpendo in particolare l’Italia.
Non un disastro imprevedibile, come avviene quando le forze della natura si scatenano senza lasciare scampo agli umani, bensì uno scenario di guerra programmato con una lunga gittata, capace di durare almeno fino a tutto il decennio successivo.
E così, finora, è andata.

Checché ne dicano il ridanciano nostro primo ministro ed il suo corrifeo e torvo ministro dell’Economia nel 2016 entriamo ormai nell’ottavo anno di recessione per la nostra economia. La luce in fondo al tunnel non si vede. Gli indicatori economici oscillano tra il più ed il meno, ma sempre zero virgola. Le riforme sono sempre utili ma quelle che non danno frutti forse un po’ meno. Le dosi massicce di ottimismo servono a poco. E i nostri politici sembrano ogni giorno di più degli apprendisti stregoni che non sapendo che pesci pigliare si limitano a ridicoli tentativi di esorcismo. Tolgono qua per mettere la e poi viceversa. Evocano gufi ma loro non riescono neanche lontanamente a sembrare delle aquile. Le imprese continuano a chiudere. Centinaia di migliaia di esperienze lavorative si disintegrano e diventano polvere lasciando la gente come basita. E la solidarietà muore lasciando spazio ad un istinto di sopravvivenza confuso e rabbioso.
Ma cosa è successo davvero nel 2008? Da cosa è originata questa crisi che spinge ogni giorno di più il Paese nel baratro? Solo contingenza oppure esiste un disegno che ha spinto alcuni Paesi, tra cui l’Italia, ai margini del consesso europeo?
Sono queste le domande a cui cerca di rispondere con freschezza e originalità questo libro di Rita Pennarola, giornalista investigativa di lungo corso, da anni alla guida di una testata, “La voce delle voci”, che assurde sentenze giudiziarie stanno cercando di affossare, ma che nonostante tutto resiste.
Il libro ripercorre con puntualità e molta arguzia le tappe che precedettero e in qualche modo prepararono il crack del 2008, scandagliando soprattutto il versante nazionale. E appare incredibile di come ci siamo dimenticati – solo per fare un esempio – di quanto accadde alla Parmalat del “capitalista corsaro” Callisto Tanzi che precipitò nel baratro nel 2003 ma che tra il 2006 ed il 2007 costrinse lo Stato italiano (attraverso la BNL) ad un esborso plurimilionario per chiudere le pendenze del bubbone che si era creato a Parma. Parmalat e BNL erano infatti i responsabili principali dell’impianto finanziario fraudolento “consistito nel fornire una stima inferiore di circa 10 miliardi di dollari all’indebitamento della Parmalat e in una sopravvalutazione di oltre 16 miliardi del patrimonio netto con il conseguente crollo dei titoli all’indomani del fallimento”. E solo a pronunciare la sigla BNL (oggi divenuta Paribas, di proprietà francese) viene la pelle d’oca, ripensando agli exploit ingiustificati dei “furbetti del quartierino” e della tentata scalata dell’Unipol di Consorte, quello che – per intenderci – faceva dire all’allora segretario dei DS, Piero Fassino, “abbiamo una banca”, come se fosse questo il compito di un partito, per giunta se dicente di sinistra. Ma siamo solo ad un esempio perché di storie come queste dimenticate nel libro ce ne sono a iosa. E la sinistra del disastro cominciato nel 2008 e non ancora finito è ampiamente responsabile (SP).

Rita Pennarola

2008. L’ANNO CHE HA STRAVOLTO L’ITALIA. Artefici e protagonisti dell’annus horribilis che ha spinto il Paese sull’orlo del baratro

Prefazione di Oliviero Beha
Postfazione di Elio Lannutti
Con un intervento di Beppe Grillo

Aracne, 224 pagine, € 12.00 rivolgersi a Aracne editrice

Incipit
Prima Parte. Dolceroma. Cenere
Prima della cenere, prima delle fiamme, era una tiepida sera romana come tante ne sbocciano a giugno sopra i cristalli residenziali del Giardino degli Aranci, tra le magnolie in fiore e le Bentley metallizzate dell’Aventino. E questa storia conteneva un’infinità di colori. Tanti quanti ne avevano i tappeti stesi lungo il salone d’entrata della palazzina – ultima sulla salita, con volumi e archi in liberty fiorito – tessuti con tecnica suf a Kashan e Tabriz. Tutti andati in fumo come gli arazzi delle Fiandre disposti ai piedi delle scalinate che salivano a spirale, e le passatoie Shirvan dei corridoi e le installazioni di arte contemporanea che arredavano ogni spazio, bagni compresi. Tutto divorato dalle fiamme e ridotto in cenere, addio. Tutto sbriciolato, raffreddato e impastato con le schiume ritardanti sversate dai pompieri e trasformato in una distesa monocroma di grigio tendente al bianco come il quadro più celebre della collezione appena perduta, un Achrome di Piero Manzoni, famoso per tre sorprendenti ragioni. Uno: essere stato valutato quasi due milioni di euro. Due: rappresentare la sintesi indecifrabile del suo proprietario. Tre: suggerire in chi guarda, oltre all’ammirazione per l’opera e per il suo possessore, anche la conturbante possibilità che almeno uno dei due sia sontuosamente falso.

La tivù, il cinema, le feste romane, le agenzie dello spettacolo… tutto visto dal backstage con gli occhi acuti e veloci di un autore di spessore che non si limita a registrare i fatti ma ci entra dentro e sicuramente non in punta di piedi. L’intero… chiamiamolo romanzo anche se la parte fiction si limita ai nomi dei protagonisti e poco più, perché nella realtà la sostanza è esattamente quella descritta, ruota attorno al produttore Oscar Martello, da tutti considerato il numero uno della tivù spazzatura e del cinema trash.
Partito dalla strada, Martello è arrivato in vetta e non solo metaforicamente visto che può guardare Roma dall’alto del suo superattico, continuando ad arricchirsi con azioni e operazioni non certo esemplari.
Ovvio che un uomo così, e in giro ce ne sono più di quanti non si immagini, si impone dovunque con ben calibrata maleducazione e con palese cinismo. Ma siccome nello spettacolo è uno che conta sul serio, tutti lo cercano e tutti lo vogliono. Aspiranti veline, agenti, sceneggiatori, costumisti, attori, politici, fotografi, musicisti, tutti alla conquista della loro fettina di visibilità. Tutti disposti a vendere anima, cuore, salute, affetti e famiglia per un’inquadratura, una foto, uno scandalo che possa finire sui rotocalchi di gossip, un invito a una festa che conta. E non parliamo di un ingaggio in un serial o in un film che, per quello, non c’è prezzo.
Leggendo questo libro sembra di essere tornati agli anni Sessanta, quando la Croisette e il Lido si riempivano periodicamente di attricette con agenti al seguito, di aspiranti qualcosa in cerca del produttore, del regista o anche soltanto del cronista pronto a registrare stravaganze e peccati. Quando i settimanali scandalistici traboccavano di amori istantanei, tradimenti e bizzarrie fasulle.
Scritto con l’acido muriatico, Dormiremo da vecchi solleva il sipario su una società malata di protagonismo e di futilità, nella quale dominano la perfidia, l’ipocrisia e la voglia di apparire a qualsiasi costo, il tutto sempre ben mascherato sotto baci sfiorati e abbracci mortali. Una società, fra aragoste, champagne e cocaina, sembra immemore di tutto tranne che della propria assurdità e del proprio anacronismo gaudente. Una società che, anche se la metafora può sembrare banale, nell’ultimo ballo sul Titanic prima del disastro. Resta solo da capire quanto ancora la musica potrà durare prima della catastrofe.

Pino Corrias 

DORMIREMO DA VECCHI

Chiarelettere, 252 pagine, € 14,36 anziché 16,90 su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 9,99

Incipit
Prologo. Zernikow, Brandenburg
Inizio ottobre. La foresta aveva cambiato colore. Lì, dove i sempreverdi erano stati sostituiti da larici. Per vedere quel punto, osservabile solo dall’alto, arrivavano da tutto il mondo. La svastica, che l’autunno faceva rivivere ogni anno, scaldava ancora i cuori. La speranza che dalle ceneri del Terzo, nascesse il Quarto Reich.
Primo giorno Ettlingen
Karl Jerzyck rientrò un attimo prima che scoppiasse il nubifragio. Era uscito per andare all’Aldi di Karlsruhe anche se nubi color ardesia non lasciavano presagire nulla di buono.
Appoggiò le borse di carta sul tavolo in legno massiccio al centro della cucina. Corse a chiudere le imposte e si barricò in casa. Sperò non saltasse la corrente. Speranza che perse subito dopo.
Si sedette sul divano e aspettò che la situazione si calmasse.
Mezz’ora dopo tornò ad alzare le tapparelle. Si era fatto buio. Rimandò al giorno dopo la valutazione di eventuali danni al giardino.
Di cucinare gli era passata la voglia. Prese a morsi un paio di carote e del sedano intinto nell’olio extravergine. Amava il pinzimonio sin da quando, ancora ragazzino, i suoi lo portavano in vacanza in Italia. In quel periodo, alla metà degli anni Ottanta, aveva incominciato a imparare l’italiano.
Vide che sul cellulare erano tornate un paio di tacche. Chiamò Juliane. Ci vollero sei squilli prima che rispondesse. O era sotto la doccia o aveva lasciato il telefono nella borsa.
In realtà, quell’attesa significava che la sua voglia di parlargli era prossima allo zero. Cercò di dare alla voce un tono caldo, partecipe.
“Ciao Juli.”
Lei replicò con uno freddo, distaccato. “Ciao Karl.”
Jerzyck fece finta di nulla. “Come stai?”
“Niente di che.”
Juliane non gli pose la stessa domanda. Altro segnale poco incoraggiante. Tirò dritto. Era già infastidito.
“Volevo chiederti se ti va di venire a trovarmi. Per il weekend,
magari.”

In questo thriller storico niente è casuale, a cominciare dalla data di uscita. Infatti, il 20 novembre 1945, ovvero settant’anni fa esatti, iniziava il Processo di Norimberga che vide alla sbarra del Tribunale Militare Internazionale ventiquattro capi nazisti considerati i principali responsabili dello sterminio mentre, a latere, se ne celebrava un altro con imputati considerati a torto di minor peso. A torto perché fra gli oscuri personaggi collaterali furono processati anche i medici dei lager, compreso il famigerato Mengele.
E ovviamente non è casuale la svastica rosso sangue che appare in copertina .
In questo romanzo l’autore, pacifista e animalista militante, affronta
Una delle pagine più buie e sanguinose dell’umanità: la follia nazista inzuppata di esoterismo malato i cui deliri non si sono ancora dissolti del tutto perché le esecuzioni capitali e le condanne inflitte ai criminali di guerra dopo il processo di Norimberga ne hanno spento le voci ma non le idee.
La vicenda prende il via quando Karl Jerzyck, professore di criminologia di Monaco, sospeso dall’insegnamento e cacciato di casa dalla moglie, si ritira nella solitudine della cupissima Karlsruhe, ai margini della foresta nera, vera ‘darkland’ di orrori e nefandezze. Jerzyck prende in affitto una villetta isolata deciso a meditare in solitudine sul suo pessimo carattere quando, dopo un furioso temporale, decide di fare una passeggiata nel bosco e quasi inciampa in ossa umane che affiorano dal terreno dilavato.
Sono ossa vecchie e lui è un criminologo, in un certo senso un addetto ai lavori, quindi non si impressiona. Invece di lasciare tutto come sta e chiamare la polizia, si incuriosisce e comincia a scavare tutt’attorno. Affiorano altre ossa e capisce di trovarsi davanti a una fossa comune.
Chissà perché, niente polizia. Jerzyck si comporta come un tombarolo in una necropoli appena scoperta. Tira fuori un sacco, ci infila dentro le ossa e ripone tutto nello zaino per riflettere con comodo sulla macabra scoperta.
In Italia questo comportamento sarebbe un reato: occultamento di cadavere, art. 412 del codice penale. Ma in Germania forse non lo è. Il professore, col suo cimiterino sulle spalle va a trovare un amico anatomopatologo il quale, dopo avergli confermato che si tratta proprio di ossa umane (ma fra i resti c’erano teschi!) inumate molti anni prima, gli consiglia di parlarne con Arno Schulze, ispettore della Kripo, la polizia criminale. Arno, che è in pensione, venticinque anni prima si era occupato della sparizione di sette persone: cinque adulti e due bambini, di cui non erano mai stati ritrovati i corpi. Un caso che gli aveva fatto perdere il sonno e la tranquillità.
Mentre continuano a sparire persone, questa volta al capo opposto della Foresta nera, a Friburgo, ha inizio un’indagine serratissima, che riporta in vita gli antichi fantasmi del popolo tedesco, sepolti in un passato che pare non voglia assolutamente saperne di passare del tutto.
Jerzyck, dimenticando i guai personali e la sua voglia di tranquillità, affianca un Schulze rimbaldanzito, più che mai deciso a riprendere le indagini, finendo per essere coinvolto in un folle progetto elaborato dagli adepti di sette esoterico-naziste che non esitano a uccidere.
Bel romanzo che ha il merito di fondarsi su indagini su un argomento spinoso come l’esoterismo nazista. Peccato solo per alcune incongruenze facilmente perdonabili.

Paolo Grugni 

DARKLAND. Il male cerca l’oscurità e odia la luce

Melville, 254 pagine, € 14,02 anziché 16.50 su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 9,99

Incipit
Rien ne va plus
Vecchie bagasce pentite, ecco cosa siamo adesso. Ballerini con l’artrite ai piedi ubriachi senza più un prillo, uno zompo, un saltello. Zavorrati come trichechi spiaggiati tremolanti di lardo e di trippe. Ci sta passando sopra la testa un’intera generazione al galoppo. Saltano oltre che sembriamo una siepe di Ascot. Mica son simpatici. Ci han cacciati a ringhi prima di infilarsi nella carcassa puzzolente dell’Italia, che è tutta la loro eredità. Non ce lo perdonano di aver spolpato le migliori pezzature! Quattro ossa da leccare è tutto quel che gli resta. Le Frattaglie, altro che quelle! Abbiamo consumato anche la loro parte nel banchetto: ricchezza, terra, petrolio, ossigeno. Han solo dei debiti e da farsi il culo. Una pattumiera dopo le gozzoviglie, ‘sto pianeta, coi suoi ottanta miliardari a sbafare e tutti gli altri a leccare gli avanzi sul pavimento prendendosi calcagnate.
Digeritevi le pleuri, la milza e i rognoni! Sciaguattate nei succhi gastrici, fateci il bagno e ascoltate i nostri rutti!
Avevamo promesso ben altro nei gloriosi Sessantotto e Settantasette portati sul petto come medaglie! Tutti a strimpellare serenate filosofiche sulle magnifiche sorti. Ne avevamo la bocca piena, ma eravamo solo un nugolo di pidocchi che avrebbero reso anemico un toro.

Come siamo arrivati a essere quello che siamo oggi? Cinici, arraffoni, senza senso dello Stato e ancor meno della legalità. Un popolo che si è convinto che la parola giustizia sia una bestemmia, un insulto, qualcosa da allontanare dal proprio modo di essere e di concepire i rapporti col prossimo. Un popolo che del garantismo nel senso peggiore e più estremo si è fatto una bandiera.
Chi ci ha fatto credere che corrompere e lasciarsi corrompere sia lecito? Che i soldi, comunque vengano accumulati e moltiplicati, siano sacri? Che per chi conta o aspira a contare un passaggio nelle patrie galere fa curriculum?
A queste e a molte altre domande si è fitto in capo di rispondere questo straordinario ‘non romanzo’ che ripercorre, attraverso i ricordi del protagonista che si snodano in una sorta di cinica, compiaciuta autoconsapevolezza, gli ultimi trent’anni di storia del nostro paese.
La figura centrale è Domenico Nanni, assunto dall’Avvenire di Bologna come cronista di nera grazie ai tortellini profusi a piene mani dalla madre come tangente e, in seguito, diventato pierre quando le pubbliche relazioni erano l’oggetto del desiderio dei laureandi in scienze delle comunicazioni. E, ancora, un politico d’assalto che cavalca l’onda di quel craxismo rampante che ha fatto tabula rasa del poco che ancora restava, negli anni Ottanta, delle ideologie, soprattutto di quelle di sinistra. O, piuttosto, un intrallazzatore deciso a scalare il grande palo della cuccagna della nuova politica.
E poi industria, finanza, comunicazioni, televisioni… illusioni. Non c’è campo in cui Nanni non sia entrato a gamba tesa, ammaliando, manipolando, sfruttando (ma davvero uno così è un personaggio di fantasia?)
Arrivato (quasi) a fine corsa, condannato alla sedia a rotelle ma non alla solitudine perché quando i soldi non mancano nella nuova Italia che lui stesso ha largamente contribuito a forgiare una fidanzata o due si trovano sempre, si confronta con il proprio operato in un’analisi cinica di se stesso e del Paese così com’è diventato negli ultimi trent’anni.
Il ritratto che ne esce è tremendo.
Ecco un’impietosa radiografia della fine degli anni Ottanta.
“Più di tutto, col morire degli anni Ottanta, crepava serenamente qualsiasi idea di politica e di partito. Non erano più che sigle a circoscrivere consorterie dove tutti cercavano spudoratamente il tornaconto. Negli anni erano affiorati i parvenu trafficoni[…], i padroni delle tessere e grandi orchestrali delle clientele. Avevano greggi così numerose che un caprone l’infilavano ovunque. Diventavano sindaci e assessori certe teste di noce da ignorare tutto l’abbecedario dell’amministrazione. Funzionava, eccome, l’ascensore sociale in politica! Bastava obbedire come carabinieri e si poteva diventare delle eccellenze, scalare gli organigrammi. Erano lì per dirigere il traffico, mica per consumarsi la zucca. Manovravano i semafori che era una meraviglia […]. Erano così scarse le loro virtù che cedevano al primo offerente. […Da quando l’avevo istruito su come menare al ballo i sindaci, non faceva altro che sfornare piani territoriali, studi di fattibilità, progetti esecutivi già bell’e che fatti da non dover che aprire la scatola. Pianure e montagne si inzuppavano di cemento. Un cedimento continuo, l’appalto senza gara del belpaese e in definitiva, la privatizzazione del destino di intere generazioni.”

Ma se gli anni Ottanta hanno gettato le fondamenta dello sfascio attuale, gli anni Novanta si sono rivelati ancora più nefasti. All’orizzonte della peggiore italianità si profilava il grande imbonitore, venditore di illusioni per tutti. In fondo, per piacere agli italiani è necessario essere concilianti o autoritari. Mica puoi giocare sulle loro virtù! O ne sei complice o li bastoni. In tutti e due i casi non ti saranno mai fedeli se non per tornaconto. Lo sapeva bene l’uomo di Arcore […]. Gli andava a pennello più di un abito di sartoria. Sapeva suonarlo come un violino, il popolo italiano. C’erano intere divisioni di missionari sguinzagliati per lo stivale a portare il buon verbo. Una vera Bibbia della pubblicità, il nuovissimo testamento dell’imbonitore. C’aveva messo dentro tutti i pregiudizi, i tabù e le chimere più care al belpaese: uno slogan da stadio come ragione sociale, l’immagine del tricolore patriottardo da sventolare sugli spalti, l’ostilità al comunismo anche post mortem, il fisco così vorace da sfruculiare l’esentasse, la giustizia che vorrebbe raddrizzare le più persistenti virtù .. Un gelato millefrutti da ingolosire un’anoressica! Senza trascurare le illusioni, che sono il sale della politica. Un milione di posti di lavoro, meno tasse, più ricchezza… E’ la grande farsa italiana, ricostruita in chiave tragicomica da un acuto osservatore dei tempi. Ovviamente il lieto fine non c’è, ci sono solo risposte che aprono la strada ad altre domande.
Assolutamente da leggere.

Valerio Valesi 

LO STATO DI EBREZZA 

Frassinelli, 317 pagine, € 15,72 anziché 18.50 su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 9,99

Incipit
Prefazione. La morte. Il cosmo ci riunirà
Mio padre è morto tra le mie braccia venti minuti dopo l’inizio della notte dell’Avvento, in piedi, come una quercia che, colpita da un fulmine, accetta il proprio destino pur rifiutandosi di cadere. Sradicato ormai da quella terra che aveva lasciato improvvisamente, l’ho preso fra le mie braccia, portandolo come Enea aveva portato suo padre al momento di abbandonare Troia. L’ho fatto sedere su un muricciolo e poi, quando fu chiaro che non si sarebbe più riavuto, l’ho disteso in tutta la sua lunghezza per terra, come per adagiarlo in quel nulla che sembrava aver raggiunto senza essersene reso conto.
In pochi secondi, avevo perso mio padre. Ciò che così tante volte
avevo temuto era infine successo in mia presenza. Non sono mai andato a tenere conferenze in Australia o in India, in Giappone o negli Stati Uniti, in America del Sud o in Africa nera senza pensare al fatto che mio padre sarebbe potuto morire mentre ero via. Mi immaginavo con terrore il lungo viaggio in aereo che avrei dovuto affrontare per tornare da lui, sapendolo morto. E invece moriva lì, con me, di fronte a me, fra le mie braccia. Approfittava della mia presenza per lasciare il mondo, e me.

Un’opera ambiziosa, anzi, enciclopedica essendo Cosmo il primo volume di una trilogia intitolata appunto Breve enciclopedia del mondo che ha per argomento tutto. Vale a dire la gioia, il dolore, l’evoluzione, la biologhia, la botanica, il dolore la vita e la morte. Soprattutto quel passaggio dalla vita alla morte e viceversa che sembrano essere sempre stati l’argomento preferito dei filosofi i quali li hanno sviscerati e declinati in ogni possibile concetto, sempre con abbondanza di sofismi, circonvoluzioni di pensiero, astrattismi tecnici e tecnicismi astratti.
Michel Onfray, materialista, felicemente ateo e di sinistra, ne parla senza tirare in ballo la metafisica. Per lui la morte è un fine vita uguale per tutti gli esseri viventi: per l’uomo come per gli animali, gli insetti, i protozoi e, via via scendendo nella scala evolutiva, per i batteri e i virus.
Illuminante, in proposito, è questo paragrafo.
“Su questo soggetto, la filosofia sembra essere alquanto povera di consolazioni veramente efficaci. Retorica tanta, sofistica in quantità; ragionamenti alquanto povera di consolazioni veramente efficaci. Retorica tanta, sofistica in quantità; ragionamenti ben fatti, quanti ne vogliamo, finzioni consolatorie con pletore di dietromondi, a bizzeffe. Però, nel lutto, il corpo ha delle ragioni sue proprie che la ragione non conosce affatto “ (pag.21).

Ispirato, appunto, dalla morte del padre avvenuta nel 2009, Cosmo che il ‘philosophe’ più prolifico di Francia definisce ‘il primo’ e il ‘definitivo’, è posto sotto il segno della stella polare che proprio dal padre, contadino, aveva imparato a trovare nel firmamento e che la notte della sua morte era invisibile, nascosta sotto uno strato di nubi pesanti.
Nelle pagine dedicate al genitore, Onfrey affronta il tema del tempo in senso virgiliano, la cultura come agricoltura, cioè come conservazione, superamento e trasfigurazione della natura; il paganesimo degli antichi, il senso della terra e del cielo, luogo in cui non abitano né idee né dei, ma l’immensità fisica dell’universo, gli animali come noi…
Un libro affascinate e strano che offre spunti per riflessioni per nulla consolatorie e rifugge dagli avvitamenti sterili dei grandi concetti filosofici ma ripropone una rilettura rivoluzionaria della vita naturale interrogando la natura
«lì dove essa più vivacemente si agita e freme, trascinando nel suo movimento ogni cosa: l’atomo come elemento primordiale presente in tutto ciò che esiste, il nematode che parassita le sue prede spingendole al suicidio; l’anguilla che percorre migliaia di chilometri – dalle acque dolci dei fiumi fino alle più vertiginose profondità oceaniche – solo per riprodursi e poi morire; l’Homo sapiens, ovviamente, questo discendente della scimmia che crede di dominare ciò che in realtà lo domina, di essere libero di scegliere ciò che in verità lo determina; su fino alle meccaniche celesti, alle immani energie cosmiche, ai movimenti delle costellazioni, ai ritmi lunari e solari, all’alternanza delle stagioni da cui traggono origine le culture e le religioni, cristianesimo incluso (con buona pace dei seguaci del Libro monoteista). Ogni cosa dunque è animata da quella pulsione cieca e insopprimibile che Aristotele chiama l’arte di perseverare nel proprio essere, Spinoza la potenza di esistere, Nietzsche la volontà di potenza. »
Da leggere e da gustare, parola per parola.

Michel Onfrey 

COSMO. “La natura è l’unica religione”

Ponte alle Grazie, 534 pagine, € 24,22 anziché 28,50 su internetbookshop. Disponibile anche in Ebook a 10,99

Incipit
La partenza.
Il silenzio era rotto solo dal pigro sciabordio dell’acqua mossa nel lento avanzare delle barche che timidamente percorrevano il canale per andare poi a confrontarsi con il mare aperto.
Pure le cicale si ostinavano a fare da intonato sottofondo in un assolato pomeriggio d’inizio estate.
«Tu che ne pensi?» disse Anna, facendo trasparire nel tono increspato della voce una lieve preoccupazione.
Daniele tolse lentamente gli occhiali da sole volgendosi verso di lei. Intuendo il suo pensiero ma senza darlo a capire, rispose con un tono rassicurante. «A cosa ti riferisci?»
«E’ la prima volta che Filippo sta via da casa per diversi giorni e poi, in giro in barca con Marino!»

Il viaggio in barca di nonno Marino con il giovane nipote Filippo è l’occasione per entrare in punta di piedi nella storia. Il romanzo, che romanzo non è, tratta infatti, attraverso un artificio narrativo, le vicende drammatiche del protagonista, non personaggio di carta ma uomo in carne e ossa, a partire dall’8 settembre 1943 fino ai primi anni ‘50. Vicende nascoste, per certi versi oscure, segnate da tragedie sicuramente simili a quelle delle migliaia di persone a cui è toccata la stessa sorte: tutti gli esuli istriani costretti dai soldati titini a lasciare la ‘rossa terra’. Rossa perché ferrosa e rossa perché insanguinata. Abbandonando la casa, le proprietà e gli affetti nello spazio di poche ore per trasferirsi in Italia dove, va detto, furono male accolti, guardati con la stessa diffidenza e con l’insofferenza con cui oggi si guarda ai migranti che arrivano dalle coste del Nordafrica.
Come premessa alla lettura bisogna chiarire subito che l’autore è friulano e quindi, scrivendo questo libro, non mostra il distacco doveroso dell’autore verso quello che racconta. Però questo non è un difetto, anzi. E’ se mai uno dei pregi del libro che scivola di pagina in pagina via dal romanzo per farsi storia.
L’argomento dell’esodo dall’Istria, a distanza di oltre settant’anni è ancora difficile, imbarazzante. Perché, anche se ci si dimentica troppo spesso di dirlo, quello che successe dopo l’8 settembre 1943 agli italiani residenti là, era capitato con maggiore crudeltà anni prima, alle popolazioni della Slovenia e della Dalmazia invase e trasformate in terra di conquista, con tanto di devastazione dei villaggi, espropriazione delle terre, uccisioni, deportazioni nei lager approntati anche in Italia e infoibamenti dei residenti. Veri e propri crimini di guerra sui civili ordinati dai fascistissimi Mario Robotti ed Emilio Grazioli. Questo va chiarito per onorare anche la verità storica e non soltanto il giusto rimpianto degli esuli per ciò che hanno perduto, dal momento che questo libro, a cui va anche il merito di affrontare con delicatezza e senza retorica l’argomento, spiega chiaramente nella prefazione che quello che viene narrato è una vicenda familiare autentica. E, quindi, appartiene alla storia.
Il viaggio per mare di nonno Marino e del nipote Filippo lungo coste della Dalmazia dura nove giorni, esattamente come il lungo racconto che non trascura momenti intensi di marineria, per la gioia di chi ama la vita in barca a vela.
Il racconto è complesso e molto sofferto perché Marino, mescolando episodi di vita familiare, descrive al giovane nipote come lui da bambino vedeva quello che gli capitava attorno, a cominciare dalla fucilazione del padre, guardia di frontiera, infoibato a Vines e l’esecuzione fatta dai nazisti di diciannove compaesani.
Una storia a due in un continui misurarsi con ricordi di guerra e sprazzi di vita familiare antica, che è anche un serio confronto fra generazioni. Peccato solo per la scelta redazionale di usare il carattere corsivo per i dialoghi, che spezza la narrazione, appesantendola.

Mauro Tonino 

ROSSA TERRA

L’orto della cultura, 230 pagine, € 15

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