Gli esperti legali sottolineano quindi l’importanza di riflettere con attenzione prima di pubblicare commenti o partecipare a discussioni online.
Nel panorama digitale odierno, segnato da un uso massiccio dei social network e delle piattaforme di comunicazione online, emerge con forza la necessità di una maggiore consapevolezza sulle implicazioni legali derivanti dalle parole scambiate in rete.
La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito alcuni importanti concetti riguardanti il confine sottile tra espressione di opinioni e offese che possono danneggiare la reputazione altrui, con potenziali ripercussioni penali, anche se le affermazioni sono vere.
Il confine tra diritto di critica e offesa punibile
La diffusione di contenuti online, specie quando rivolta a un pubblico ampio, può comportare conseguenze legali rilevanti. L’articolo 595 del codice penale disciplina il reato che si configura quando si offende la reputazione di una persona assente comunicando con più soggetti. L’aggravante della “pubblicità” scatta proprio per la natura potenzialmente illimitata del pubblico raggiunto tramite strumenti digitali, determinando sanzioni più severe (Cass. Pen. 37618/2023).
La Cassazione ha chiarito che per giudicare la punibilità di un’espressione non si deve guardare all’intenzione soggettiva dell’autore, ma al significato oggettivo e sociale delle parole utilizzate. Non conta cioè se l’utente volesse o meno ledere qualcuno, bensì se le parole hanno un senso offensivo riconosciuto dalla società (Cass. Pen. 36217/2024).
Questo porta a una differenziazione tra termini che, pur volgari, non raggiungono la soglia della diffamazione e altre espressioni che, per il loro contenuto lesivo e offensivo, sono penalmente rilevanti.
Parole da evitare e casi giurisprudenziali
La giurisprudenza fornisce indicazioni preziose su quali termini possono essere considerati diffamatori e quali no.
Ad esempio, sono stati giudicati diffamatori epiteti come “ladro”, “str**o”, “imbecille” se utilizzati in contesti di offesa diretta (Cass. Pen. 13252/2021; Cass. 15060/2011). Al contrario, espressioni come “co**ne” o “romp**lle”, se impiegate in senso colloquiale, non integrano il reato (Cass. 34442/2017; Cass. 22887/2013). Anche l’insulto “vaf***lo” è considerato un termine di uso comune e quindi non penalmente perseguibile (Cass. 27996/2007).

Evita di usare queste parole – misteritalia.it
Nel contesto delle controversie condominiali, la Cassazione ha riconosciuto il diritto di critica verso amministratori giudicati negligenti, considerandolo legittimo se basato su fatti veri e di interesse pubblico (Cass. Pen. 3372/2011). Al contrario, la diffusione di dettagli privati o pettegolezzi sul conto di colleghi o conoscenti può configurare reati di diffamazione e violazione della privacy (Cass. Pen. 44940/2011).
Anche termini apparentemente meno offensivi come “gentaglia”, “complici” o affermazioni quali “vergogna… fate schifo” rivolte a figure pubbliche possono essere sanzionati, soprattutto se usati in modo denigratorio (Cass. Pen. 1788/2024). Tuttavia, espressioni legate a posizioni ideologiche, come “nazifascisti” o “neonazisti”, sono state ritenute forme di critica politica tutelate (Cass. Pen. 19449/2009).
Libertà di parola e responsabilità digitale
Il diritto di critica è tutelato dall’articolo 51 del codice penale, ma deve sempre rispettare parametri di verità, proporzione e rispetto per la dignità altrui. La Cassazione ha anche esaminato casi in cui offese rivolte a persone non nominate direttamente, ma facilmente identificabili dai contesti e dettagli inseriti nei messaggi, hanno costituito motivo di procedimento penale.
La tastiera non è una protezione assoluta e l’impulsività può portare a conseguenze giudiziarie anche per espressioni che, a prima vista, sembrano semplici sfoghi. Nell’era digitale, la responsabilità delle parole è un principio imprescindibile per mantenere un dialogo civile e rispettoso in Rete.
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