Cultura

Nazim Hikmet, la poesia sull’amore del poeta turco è un inno alla vita e ai sentimenti

Nazim Hikmet, la poesia sull'amore del poeta turco è un inno alla vita e ai sentimentiUna poesia struggente sull'amorE. Foto: IG - misteriditalia.it

La poesia di Hikmet, che scrisse durante il periodo di prigionia nel 1948, è in grado di trasformare la prigione in libertà.

Ci sono poesie che chiedono soltanto di essere lette e altre, più rare, che pretendono di essere abitate. Benvenuta, donna mia, benvenuta! di Nazim Hikmet apparitiene senza dubbio a quest’ultima categoria. Un testo capace di trasformare una cella spoglia in un piccolo universo poetico in cui la libertà non è una condizione ma un sentimento.

La poesia è uno dei vertici lirici del poeta turco, scritto nel 1948 durante la sua lunga detenzione politica e pubblicato in Italia nella celebre tradzione di Joyce Lussu nella racconta Poesia d’amore (Mondadori, 1963).

Un poema che nasce dal dolore ma parla di liberazione

Al momento della stesura, Hikmet è rinchiuso nel carcere di Bursa, dove trascorre docidici anni di reclusione a causa di false accuse politiche. Un periodo segnato dalla sorveglianza costante e dall’isolamento.

Nazim Hikmet, la poesia sull'amore del poeta turco è un inno alla vita e ai sentimenti

Una poesia che trasfigura la realtà. Foto: IG – misteriditalia.it

Ma da quell’oscurità è nato uno dei testi più luminosi della poesia novecentesca. La cella (“povera e prigioniera – come il nostro Paese”) si trasforma in personaggio. Un organismo muto che l’arrivo dell’amata trasfigura dall’interno. Ecco la poesia integrale:

Benvenuta, donna mia, benvenuta!
certo sei stanca come potrò lavarti i piedi
non ho acqua di rose né catino d’argento

certo avrai sete
non ho una bevanda fresca da offrirti

certo avrai fame e io
non posso apparecchiare
una tavola con lino candido

la mia stanza è povera e prigioniera
come il nostro paese.

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

hai posato il piede nella mia cella
e il cemento è divenuto prato

hai riso
e rose hanno fiorito le sbarre

hai pianto
e perle son rotolate sulle mie palme

ricca come il mio cuore
cara come la libertà
è adesso questa prigione.

Benvenuta, donna mia, benvenuta!

L’analisi

L’incipit della poesia è una dichiarazione spiazzante per la sua schiettezza. L’io lirico accoglie la donna enumerando tutte le mancanze materiali che non può colmare; non ha cqua di rose, non ha bevande fresche, non possiede il candore del lino su cui servire il pasto.

La sua è un’ospitalità ferita ma non rassegnata, un gesto di umiltà che introduce il nodo centrale del testo, ovvero la povertà della prigione che si oppone alla ricchezza dell’amore, e sarà quest’ultimo a vincere.

Dal momento in cui l’amata entra, infatti, si attiva un processo di metamorfosi. Il linguaggio di Hikmet non descrive, trasfigura. Ed ecco che il cemento si trasforma in prato, le sbarre fioriscono di rose e le lacrime diventano perle.

Una risemantizzazione dello spazio, un cambiamento di percezione che infine cambia ogni cosa. È la presenza dell’amata a sovrascrivere la realtà, con una tenerezza che non cancella il dolore ma lo redime.

Il riferimento alla prigione come “il nostro Paese” non è casuale. Hikmet trasforma la poesia s’maore in una dichiarazione politica, dando voce a una nazione oppressa attraverso la sua stessa esperienza di recluso.

L’amore per la donna diventa così una forma di resistenza, la cui forza ridisegna il mondo. La libertà, sembra suggerire Hikmet, non risiede nel luogo in cui viviamo ma nello sguardo con cui viviamo quel luogo.

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