Analisi di 12 dicembre 1927, la poesia giovanile di Cesare Pavese che racconta un amore totale, sofferto e carico di tensione esistenziale.
Quando Cesare Pavese scrisse 12 dicembre 1927 ha appena vent’anni, ma nei versi che compone quel giorno si avverte già l’inquietudine che segnerà la sua voce poetica e narrativa. Il testo, noto anche per il suo incipit — “Vorrei poter soffocare nella stretta delle tue braccia” — mette in scena un amore assoluto, viscerale, spinto al limite dell’annientamento. Non è la confessione di un sentimento pacificato, è piuttosto la testimonianza di un’urgenza che fonde desiderio e dolore, portando l’io poetico a oscillare tra la ricerca di una fusione totale e la scelta di un sacrificio silenzioso.
La tensione verso l’assoluto, la poesia di Cesare Pavese
L’amore, nella poesia, non appare mai come rifugio. Pavese ne fa un’esperienza estrema, in cui la persona amata diventa insieme salvezza e minaccia, approdo e precipizio. L’idea di soffocare in un abbraccio non è metafora morbida, ma immagine concreta di un desiderio portato alle sue conseguenze ultime. L’io lirico vorrebbe dissolversi nel corpo dell’altro, mettere fine allo “spasimo” interiore che lo tormenta, cancellare attraverso la passione quella “atrocità tranquilla” del mondo che incombe sulla sua giovinezza.
Eppure il testo non si chiude in questa aspirazione disperata. Nel passaggio finale emerge una svolta: l’annullamento a cui il poeta tende non viene compiuto per “pietà d’amore”. L’io decide di restare, di affrontare il “più lungo dolore” pur di non distruggere la fragilità dell’altro. È un ribaltamento che illumina un tratto caratteristico di Pavese: la consapevolezza che la vita, pur gravosa, impone una responsabilità verso chi si ama.

La tensione verso l’assoluto, la poesia di Cesare Pavese – misteriditalia.it
La forza di 12 dicembre 1927 sta nell’equilibrio instabile tra desiderio di unione e percezione dell’impossibilità di raggiungerla. La passione si intreccia con la solitudine, come se ogni slancio emotivo fosse costretto a confrontarsi con un mondo indifferente. L’amore diventa così campo di battaglia interiore. Un luogo in cui l’io tenta di trovare una forma di autenticità attraverso l’eccesso. Pur sapendo che dovrà infine tornare alla vita e al suo peso.
L’immagine conclusiva, in cui il poeta rinuncia alla morte condivisa, accentua questa dimensione tragica. La scelta della sopravvivenza non è vittoria, ma gesto di protezione. È nella rinuncia, più che nell’esaltazione, che Pavese individua la misura estrema dell’amore. La poesia non offre risposte, ma restituisce la complessità di un sentimento che abita la soglia tra vita e annullamento, tra impulso e responsabilità. È un testo che continua a interrogare, perché parla della parte più inquieta e ardente dell’esperienza umana.
12 dicembre 1927 — Cesare Pavese
Vorrei poter soffocare
nella stretta delle tue braccia
nell’amore ardente del tuo corpo
sul tuo volto, sulle tue membra struggenti
nel deliquio dei tuoi occhi profondi
perduti nel mio amore,
quest’acredine arida
che mi tormenta.
Ardere confuso in te disperatamente
quest’insaziabilità della mia anima
già stanca di tutte le cose
prima ancor di conoscerle
ed ora tanto esasperata
dal mutismo del mondo
implacabile a tutti i miei sogni
e dalla sua atrocità tranquilla
che mi grava terribile
e noncurante
e nemmeno più mi concede
la pacatezza del tedio
ma mi strazia tormentosamente
e mi pungola atroce,
senza lasciarmi urlare,
sconvolgendomi il sangue
soffocandomi atroce
in un silenzio che è uno spasimo
in un silenzio fremente.
Nell’ebbrezza disperata
dell’amore di tutto il tuo corpo
e della tua anima perduta
vorrei sconvolgere e bruciarmi l’anima
spendere quest’orrore
che mi strappa gli urli
and me li soffoca in gola
bruciarlo annichilirlo in un attimo
e stringermi stringermi a te
senza ritegno più
ciecamente, febbrile,
schiantandoti, d’amore.
Poi morire, morire,
con te.
Il giorno tetro
in cui dovrò solitario
morire (e verrà, senza scampo)
quel giorno piangerò
pensando che potevo
morire così nell’ebbrezza
di una passione ardente.
Ma per pietà d’amore
non l’ho voluto mai.
Per pietà del tuo povero amore
ho scelto, anima mia,
la via del più lungo dolore.
12 dicembre 1927
La poesia di Cesare Pavese sull’amore totale e lacerante - misteriditalia.it










