Perché l’inverno ha ispirato alcuni dei più grandi artisti del Novecento: così i grandi poeti hanno raccontato il periodo freddo dell’anno.
L’inverno da sempre rappresenta per la poesia italiana uno stimolo creativo senza pari, capace di evocare sensazioni profonde e riflessioni esistenziali.
Questa stagione, con i suoi paesaggi ghiacciati e le notti prolungate, è stata fonte d’ispirazione per alcuni tra i più grandi poeti del Novecento, come Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba e Eugenio Montale. Ognuno di loro ha dato voce alla complessità del gelo e dell’attesa che caratterizzano i mesi freddi, trasformando l’inverno in una potente metafora della condizione umana.
L’inverno visto dai grandi poeti
Inverno di Giuseppe Ungaretti
Come la semente anche la mia anima ha bisogno del dissodamento nascosto di questa stagione.
Ungaretti, in Inverno (1919), condensa in due versi la riflessione sull’anima: come un seme, essa necessita di raccoglimento e calore per rinascere. L’inverno diventa metafora di silenzio e nutrimento interiore, cornice preziosa per ritrovare sé stessi.

Le grandi poesie che parlano dell’inverno – Misteriditalia.it
Inverno di Umberto Saba
È notte, inverno rovinoso. Un poco
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l’occhio nero;
che quello che hai veduto – era un’immagine
della fine del mondo – ti conforta
l’intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.
Saba, in Inverno, ispirato al gelo triestino, descrive una donna alla finestra che osserva la città spettrale. Il tepore domestico contrasta con l’esterno rovinoso, mentre un uomo rischia sul lago ghiacciato. La lirica riflette inquietudine e l’ombra di un’apocalisse imminente.
Precoce inverno di Eugenio Montale
Fra il tonfo dei marroni
e il gemito del torrente
che uniscono i loro suoni
èsita il cuore.
Precoce inverno che borea
abbrividisce. M’affaccio
sul ciglio che scioglie l’albore
del giorno nel ghiaccio.
Marmi, rameggi
E ad uno scrollo giù
foglie a èlice, a freccia,
nel fossato.
Passa l’ultima greggia,
nella nebbia
del suo fiato.
Montale, in I bagni di Lucca (1932, poi in Le occasioni), trasforma il paesaggio invernale in simbolo metafisico della morte e del destino umano. Il gelo, il gregge che svanisce, i suoni della natura riflettono il trapasso e il senso del tempo, in un’atmosfera sospesa e carica di simboli.
Notte d’inverno di Giovanni Pascoli
Il Tempo chiamò dalla torre
lontana… Che strepito! È un treno
là, se non è il fiume che corre.
O notte! Né prima io l’udiva,
lo strepito rapido, il pieno
fragore di treno che arriva;
sì, quando la voce straniera,
di bronzo, me chiese; sì, quando
mi venne a trovare ov’io era,
squillando squillando
nell’oscurità.
Il treno s’appressa… Già sento
la querula tromba che geme,
là, se non è l’urlo del vento.
E il vento rintrona rimbomba,
rimbomba rintrona, e insieme
risuona una querula tromba.
E un’altra, ed un’altra. – Non essa
m’annunzia che giunge? – io domando.
– Quest’altra! – Ed il treno s’appressa
tremando tremando
nell’oscurità.
Sei tu che ritorni. Tra poco
ritorni, tu, piccola dama,
sul mostro dagli occhi di fuoco.
Hai freddo? paura? C’è un tetto,
c’è un cuore, c’è il cuore che t’ama
qui! Riameremo. T’aspetto.
Già il treno rallenta, trabalza,
sta… Mia giovinezza, t’attendo!
Già l’ultimo squillo s’inalza
gemendo gemendo
nell’oscurità…
E il Tempo lassù dalla torre
mi grida ch’è giorno. Risento
la tromba e la romba che corre.
Il giorno è coperto di brume.
Quel flebile suono è del vento,
quel labile tuono è del fiume.
È il fiume ed è il vento, so bene,
che vengono vengono, intendo,
così come all’anima viene,
piangendo piangendo,
ciò che se ne va.
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