LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA

          Anno 7 - Numero 111                      3 giugno 2006

storia in rete
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IN QUESTO NUMERO:

DOCUMENTAZIONE:

 

11 SETTEMBRE:
IL FILMATO DEL PENTAGONO
E’ STATO MANIPOLATO

Il 16 maggio scorso, su richiesta dell’associazione Judicial Watch, il Pentagono ha annunciato di aver reso pubblico due video dell'impatto del Boeing 757 che, l’11 settembre 2001, avrebbe colpito il ministero della Difesa americano.

Le immagini sono state diffuse da molti siti e alcuni frammenti fotografici sono stati pubblicati su quasi tutti i quotidiani italiani.

A parte il Corriere della Sera e La Stampa, che hanno avanzato pesanti dubbi sulla possibilità che quelle immagini chiariscano il mistero, tutto il testo della stampa nazionale, televisioni comprese, ha dato per scontato che il grande interrogativo del grande aereo sul Pentagono - che non lascia frammenti di sé e che penetra nel muro del ministero della Difesa, facendo lo stesso buco che avrebbe fatto un missile - sia stato ormai sciolto.

Insomma, a parte due degne eccezioni, il giornalismo italiano (quello di sinistra compreso), come al solito, si è bevuto la panzana americana.

Perché di vera panzana si tratta, anzi di un video che, oltre a non mostrare nulla del Boeing 757 in caduta, è stato manifestamente manipolato.

A questo indirizzo http://www.voltairenet.org/article139125.html vi proponiamo i due video resi noti dal Pentagono, una truffa perché gli stessi erano già noti fin dal 2002.

Ma la truffa nella truffa sta nel fatto che un’analisi tecnica dei filmati suggerisce una palese manipolazione, come potrete capire guardando questo filmato, visibile a questi indirizzi:

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mp3

per gentile concessione di ARCOIRIS.TV.

C’è da aggiungere che, con molta probabilità, quello tra il Pentagono che concede all’associazione Judicial Watch che chede è stato un “gioco delle parti”, dal momento che Judicial Watch è notoriamente un gruppo neoconservatore, molto legato all’amministrazione Bush che lo finanzia.

Nel filmato, ripreso da due telecamere di sicurezza collocate a poca distanza l'una dall'altra all’esterno del Pentagono, si vede solo l'esplosione provocata dall'impatto di qualcosa contro il muro del Pentagono, preceduta da una nuvola bianca che, fideisticamente, dovrebbe rappresentare la scia lasciata dall'aereo, toccando il terreno sul prato fuori dall'edificio un istante prima di disintegrarsi a una velocità stimata in 520 chilometri orari.

Questo è tutto ciò che abbiamo, non c’è altro”, hanno affermato portavoce militari, spiegando che non ci sono altre telecamere che quel giorno abbiano registrato immagini.

Un’altra bugia, perché attorno al Pentagono sono ancora oggi in funzione una decina di telecamere installate sul terrazzo dello Sheraton Hotel, a un distributoredi benzina e su strutture del Dipartimento dei trasporti della Virginia.

 

MOSTRO DI FIRENZE:
LA COSA VERAMENTE MOSTRUOSA
E’ L’INCHIESTA

Se è vero che all’uscita dal carcere, il giornalista Mario Spezi ha detto: “Del mostro di Firenze non mi occuperò mai più”, allora, forse, l’effetto cui investigatori e magistrati realmente miravano è stato raggiunto.

Solo in questo modo, cioè eliminare dalla scena chi non è d’accordo con loro, chi critica la loro inchiesta, si spiega un atto gravissimo, come l’arresto di Spezi.

Tutto è cominciato il 7 aprile scorso quando Mario Spezi, giornalista della Nazione, il quotidiano di Firenze, “storico” inchiestista delle sciagurate indagini sui 16 delitti del mostro di Firenze (sette presunti mostri “fabbricati” a tavolino) viene arrestato perché avrebbe cercato di depistare le indagini in corso sul presunto omicidio di Francesco Narducci (altra inchiesta sciagurata) e quelle, appunto, sul mostro di Firenze. Spezi viene arrestato su richiesta del sostituto procuratore di Perugia, Giuliano Mignini.

L'ipotesi degli inquirenti perugini è che Spezi, assieme ad un pregiudicato, abbia organizzato il presunto depistaggio per riportare al centro dell'inchiesta sulla morte di Narducci, ma anche di quella sui delitti del mostro di Firenze, la cosidetta “pista sarda”, una strada mai realmente percorsa dalla magistratura fiorentina. Per farlo - questa l’ipotesi - avrebbe cercato di far ritrovare in una villa di Lastra a Signa alcuni oggetti che - sempre secondo la versione accusatoria - avrebbero ricondotto alla pista sarda.

Mario Spezi era da tempo al centro dell'indagine condotta dal pm Mignini sulla morte di Narducci, il cui cadavere venne trovato il 13 ottobre del 1985 nel lago Trasimeno. Il magistrato ritiene che il medico sia stato ucciso perché coinvolto nelle vicende del mostro di Firenze (circostanza sempre negata dai suoi familiari). Sarebbe stato eliminato, in particolare, per proteggere le persone coinvolte nei delitti toscani.

Per l'omicidio Narducci sono indagati lo stesso Spezi, ritenuto uno dei mandanti, l'ex farmacista di San Casciano Val di Pesa, Francesco Calamandrei, finito anche nell'inchiesta sui presunti mandanti del mostro, e altre cinque persone.

Tra gli inquisiti è finito anche, negli ultimi tempi, lo scrittore americano Douglas Preston, accusato di reticenza dopo un interrogatorio davanti al magistrato perugino, ma reo in particolare di aver scritto, proprio assieme a Spezi, un libro intitolato Dolci colline di sangue, una brillante controinchiesta sulle vicende dei delitti del mostro di Firenze che mette in luce i mille errori commessi da investigatori e magistrati in 38 anni di mostruosa inchiesta.

Spezi - cui durante la detenzione sono stati negati, per un certo periodo, perfino i colloqui con i suoi legali - ha sempre respinto tutte le accuse che gli sono state mosse nel tempo, sostenendo di avere solo svolto un'indagine giornalistica.

Per la cronaca, Mario Spezi è stato liberato il 29 aprile scorso, dopo 23 giorni trascorsi in cella e soprattutto dopo che il tribunale della Libertà aveva disposto la scarcerazione, sua e del pregiudicato, ritenendo infondato il provvedimento del magisrato di Perugia e “insussistenti gli elementi a sostegno delle accuse”.

 

MOSTRO DI FIRENZE (2):
INDAGATO GIUTTARI,
IL COMMISSARIO CHE CERCA (INVANO)
I MANDANTI DEI DELITTI

Falso ideologico in atto pubblico.

E' questa l'accusa che ha portato sotto inchiesta Michele Giuttari, il poliziotto-scrittore che da oltre dieci anni si occupa dei delitti del mostro di Firenze, ispiratore della pista sulla “cooperativa di mostri” e grande “cacciatore di streghe”, nel senso che da un decennio cerca, senza trovarli, gli stregoni che, praticando le messe nere, avevano bisogno che Pacciani e la sua banda di deficienti alcolizzati procurassero loro feticci di cadaveri femminili.

A muovere questa accusa a Giuttari è stato il Pm genovese Francesco Pinto, che ha notificato al poliziotto e a due suoi collaboratori del Gides, il gruppo investigativo sui delitti seriali, un invito a comparire.

La vicenda si collega indirettamente all'inchiesta sul maniaco delle coppiette e ruota intorno alla trascrizione della registrazione di un colloquio, avvenuto nel 2002, fra Giuttari e il pm fiorentino Paolo Canessa, titolare dell'indagine sul mostro.

Nella trascrizione, effettuata dai due collaboratori di Giuttari, sarebbe stata attribuita a Canessa la frase “non è un uomo libero” rivolta all'indirizzo del procuratore capo di Firenze, Ubaldo Nannucci.

Secondo una perizia fonica disposta dalla magistratura di Genova (che indaga sui reati che riguardano magistrati della procura di Firenze), quella frase sarebbe stata pronunciata dallo stesso Giuttari. Quest'ultimo avrebbe infatti registrato il colloquio all'insaputa di Canessa.

La vicenda è finita anche al centro di una segnalazione di Nannucci al procuratore generale di Firenze, Giorgio Brignoli, titolare del potere di iniziativa disciplinare nei confronti degli ufficiali di polizia giudiziaria.

Da parte sua Giuttari nega: “Non è assolutamente vero che sarebbe stato fatto un falso su una registrazione e che la voce non sarebbe del magistrato ma mia. Non è assolutamente così. La voce mia è ben riconoscibile, io sono siciliano, l’accento dell’altro è toscano'”.

Per i legali del poliziotto, Giovanni Maria Dedola e Andrea Fares, la registrazione sarebbe stata fatta “involontariamente da Giuttari” (sic!).

 

CASO MORO:
SECONDO GUZZANTI,
PRODI SEPPE DI VIA GRADOLI
DA UN AGENTE DEL KGB

Durante il rapimento Moro, Romano Prodi seppe di via Gradoli dall'ufficiale del Kgb Felix Konopikhin, lo stesso che sotto il falso nome del diligente studente Sergej Sokolov seguiva i corsi di Aldo Moro fino alla mattina del rapimento”.

Ad affermarlo è Paolo Guzzanti, che nella passata legislatura ha presieduto una delle commissioni più inutili nella storia del Parlamento italiano, la commissione bicamerale d'inchiesta sul caso Mitrokhin.

Secondo Guzzanti, Prodi - che ha sempre sostenuto, in verità un po’ ridicolmente, di aver appreso il nome della via in cui si trovava la più importante base brigatista romana, durante i giorni del caso Moro, nel corso di una seduta spiritica - non avrebbe voluto coprire, come si è sempre sostenuto, ambienti dell’autonomia operaia bolognese, ma spioni di oltrecortina.

Sempre stando a Guzzanti, “non è mai esistito alcun bravo giovanotto dell'autonomia operaia da proteggere, ma invece un ufficiale del Kgb: questo è quanto affermano due ex ufficiali sovietici che vivono rifugiati in Francia e negli Usa, i cui nomi mi sono noti e che si sono detti pronti a testimoniare”.

 

TERRORISMO ITALIANO:
LETTERE IN CELLA
COME PROVA PROCESSUALE

Una confessione extragiudiziale del suo ruolo nell'omicidio del prof. Marco Biagi: è questo il valore che la procura di Bologna attribuisce ad una delle lettere scritte dal carcere agli altri Br da Diana Blefari Melazzi.

La brigatista - spiegano alla procura di Bologna - è stata condannata all'ergastolo dalla corte di Assise sulla base di indizi. I difensori dicevano che non c'erano prove. Ora - sempre secondo la lettura degli inquirenti bolognesi - nella lettera sequestrata lei rivendica un ruolo importante nell'omicidio del prof. Biagi.

In una lettera inviata a Nadia Lioce il 31 luglio scorso, la Blefari scrive: “Sono da anni e ancora oggi una militante rivoluzionaria associata all’O.(l’Organizzazione delle Br. ndr) che si è guadagnata un ergastolo non certo per soddisfare propri bisogni individuali, ma per dare un contributo rivoluzionario, partecipando all’azione Biagi, agli espropri e al complesso delle attività dell’O. con un elevato livello di internità e responsabilizazzione”.

Il Pm Paolo Giovagnoli, che ha condotto l'inchiesta sull'assassinio del giuslavorista e che ha sostenuto l'accusa al processo di primo grado, ha trasmesso alla corte d'Appello, davanti alla quale si terrà il processo di secondo grado, le lettere che si sono scritti i brigatisti e che aveva ricevuto a loro volta dai magistrati romani che hanno coordinato le indagini sull'omicidio di Massimo D'Antona.

In alcune lettere, tra l'altro, Diana Blefari si firma Marta (Mrt), uno dei nomi di battaglia brigatisti.

 

TERRORISMO ITALIANO (2):
DUE BRIGATISTI DELLE NUOVE BR
ANCORA IN LIBERTA’

Dai calcoli fatti, e risalendo ai nomi delle persone che nel tempo sono state indagate e

processate, per Cinzia Banelli, la prima “collaborante” delle nuove Brigate Rosse, all'appello mancherebbe almeno un brigatista, ancora in libertà.

E' il dato emerso nel corso di un’udienza del processo di secondo grado nel quale, davanti alla corte d'Appello di Roma, presieduta da Elio Quiligotti, la stessa Banelli, insieme con Laura Proietti, risponde dell'omicidio di Massimo D'Antona, ucciso in via Salaria a Roma il 19 maggio del 1999, e di una serie di rapine di autofinanziamento.

Nessun nome, però. Secondo l'ex Br, infatti, ci sono due soggetti ancora non identificati dall'autorità giudiziaria: un telefonista di Modena e un basista che, viaggiando periodicamente sul treno Roma-Firenze, aveva il compito di fare da “ponte” tra i componenti dell'organizzazione.

Cinzia Banelli, condannata in primo grado a venti anni di reclusione per l'omicidio del giuslavoratista romano e a 4 anni di carcere per le rapine, dice di non conoscere il nome del telefonista, in quanto persona inserita nell'organizzazione solo all'ultimo momento. Mentre, per quanto riguarda il basista, non esclude che possa trattarsi di una delle persone in passato già sottoposte a indagini da parte dell'autorità giudiziaria.

Il processo di secondo grado, quindi, si è arricchito di questa novità, e adesso si attendono le dichiarazioni della seconda imputata, Laura Proietti, condannata all'ergastolo per l'omicidio D'Antona e a otto anni di reclusione per le rapine.

Sarà sentita il prossimo 9 giugno.

 

TERRORISMO ITALIANO (3):
ONLINE SCRITTO DI CESARE BATTISTI DALLA LATITANZA

Un sito online italiano ha messo online il primo testo fatto pervenire dalla latitanza di

Cesare Battisti, ex militante della lotta armata di estrema sinistra, condannato in Italia all'ergastolo.

Lo scritto, intitolato 68 o anni di piombo? L'anomalia italiana è stato pubblicato da Carmilla (www.carmillaonline.com), la rivista online di Valerio Evangelisti, scrittore italiano di noir, e porta la data del 30 gennaio 2006.

Nel marzo del 2005 il Consiglio di Stato francese ha respinto il ricorso contro l'estradizione in Italia presentato dagli avvocati di Battisti. Ma l'ex militante della lotta armata era già fuggito.

Condannato in via definitiva nel 1993 per omicidio e concorso in omicidio per fatti che risalgono al 1978 e '79, Battisti ha sempre proclamato la sua innocenza, pur ammettendo di aver partecipato alla lotta armata.

Non ho alcuna intenzione di fornire l'ennesima analisi degli anni di piombo. Non potrei farlo. Perché sono una parte in causa, perché non sono uno storico e soprattutto perché mi è oggettivamente impossibile raccontare una ferita che non si è ancora cicatrizzata nel corpo sociale italiano”, scrive Battisti, 50 anni.

[...] Durante i miei ventiquattro anni d'esilio politico e con l'attività letteraria che ne è seguita, ho dovuto continuare a rispondere alle stesse domande: ‘Perché sei un rifugiato? Come è possibile trent'anni dopo? Che cosa è successo nell'Italia del 1968?’”, si chiede l'ex militante  dei Proletari Armati per il Comunismo, divenuto poi scrittore di romanzi noir molto apprezzati in Francia. Ma, avverte: “Qui non c'è posto per verità indiscusse”.

Dopo che un commando armato favorì la sua fuga dal carcere in cui era detenuto, nell'81, Battisti scappò prima in Messico, poi, nel '91, in Francia, dove aveva trovato lavoro come portiere in un condominio e dove è divenuto scrittore.

Il governo italiano ha chiesto la sua estradizione all'inizio del 2004.

 

TERRORISMO ITALIANO (4):
IN USCITA FILM DI GIUSEPPE FERRARA
SU GUIDO ROSSA

Il film di Giuseppe Ferrara sulla vita di Guido Rossa, il sindacalista genovese assassinato il 24 gennaio 1979 da un commando delle Brigate rosse, è ormai pronto E uscirà nelle sale a settembre-ottobre.

Nel film (il titolo è: Guido che sfidò le Brigate rosse) Guido Rossa ha il volto di Massimo Ghini. Gian Marco Tognazzi è invece Riccardo Dura, il brigatista che ha sparato sui di lui i colpi mortali. E qui c’è la prima scoperta fatta da Giuseppe Ferrara nel corso delle ricerche preparatorie al film, condotte in buona parte insieme alla figlia di Rossa, Sabina, che ha appena pubblicato il libro Guido Rossa, mio padre, scritto insieme a Giovanni Fasanella.

La scoperta è che Dura sarebbe stato anche nel commando che sparò sulla scorta di Moro, in via Fani.

I brigatisti sono dei bugiardi tremendi - dice Ferrara - non hanno mai voluto dire da chi era composto il commando che sparò alla scorta di Moro. Però Dura era uno dei più abili nello sparare, dei più freddi, tanto è vero che è stato protagonista di diverse gambizzazioni e, oltre che Rossa, ha ammazzato anche due carabinieri”.

Secondo Ferrara, i collegamenti tra il suo film e il libro di Sabina Rossa sono strettissimi. Per i dialoghi si è avvalso della consulenza di Alberto Franceschini, capo delle Br a Genova quando fu rapito il magistrato Sossi e che ora, dopo aver scontato la sua pena, lavora all’Arci.

Con Franceschini, dice Ferrara “sono d'accordo su tutto perché il suo libro (Che cosa sono le Br, scritto ancora con Fasanella), a mio avviso, racconta la verità sulle Br, mentre sono molto polemico, ad esempio, con Mario Moretti e Anna Laura Braghetti che sullo stesso argomento hanno scritto due libri pieni di bugie”.

Il titolo del suo nuovo film, dice Ferrara, “riassume il gesto coraggioso di Rossa, sindacalista che denunciò un filo-brigatista che stava nella fabbrica dell’Italsider accanto a lui. Un gesto che gli è costato la vita. Ma l’assassinio di Rossa è costato anche la credibilità politica alle Br perché se si cominciano a ammazzare i comunisti per fare la rivoluzione, che rivoluzione é? Altro che inserimento delle Br in fabbrica! L’omicidio di Rossa fu un errore clamoroso che ha determinato la fine politica delle Br”.

I diritti televisivi del film sono già stati venduti alla Rai.

Nel cast compaiono anche Anna Galiena, nel ruolo della moglie di Rossa, Elvira Giannini, che é Fulvia Miglietta, la brigatista amante di Dura, e il regista Marco Sciaccaluga, nel ruolo dell’avvocato delle Br.

 

 COVO DI RIINA:
TROPPI BUCHI NERI SUL MANCATO CONTROLLO

Escludono l'esistenza di una trattativa fra Stato e boss per l'arresto di Totò Riina i giudici che, tra mille dubbi, hanno assolto il prefetto Mario Mori e il tenente colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come capitano Ultimo.

Nelle motivazioni della sentenza emergono però tanti buchi neri attorno alla mancata perquisizione del covo del capomafia, arrestato il 15 gennaio 1993.

L'istruttoria dibattimentale, infatti, non ha per nulla chiarito le modalità dell'arresto del capomafia.

Per i giudici, la linea difensiva dei due imputati è stata “confusa”. Inoltre, la tesi di De Caprio - scrivono i magistrati - in cui spiega il motivo per il quale aveva chiesto ed ottenuto dai magistrati il rinvio della perquisizione del covo “è contraddetta” da elementi pratici come il rinvenimento di “pizzini” addosso a Riina nel momento dell'arresto, e ciò avrebbe dovuto far intuire che il capomafia ne poteva avere altri in casa. E quindi la perquisizione doveva essere fatta senza rinvio.

 

MAFIA:
L’ITALIA PAGA IL “PENTITO”
MENTRE GLI USA GLI NEGANO LA  CITTADINANZA

Per uscire dal programma di protezione il “pentito” Francesco Marino Mannoia ha chiesto e ottenuto dallo Stato italiano un milione di euro.

La vicenda ha provocato reazioni sconcertate sia degli operatori di polizia, sia dei familiari delle vittime di mafia.

Marino Mannoia, che vive da molti anni negli Usa, ha scoperto che il suo sogno di diventare cittadino americano non si potrà avverare a causa del suo curriculum criminale. Le autorità federali hanno infatti respinto più di una volta la richiesta dell'ex boss mafioso perché, come è logico, il suo background é considerato “violento”, e poi perché lo stesso “pentito” è  “autore di numerosi omicidi”. Elementi questi che non gli consentono di ottenere la cittadinanza.

Gli americani, quindi, pur rinnovando la protezione per Marino Mannoia e i suoi familiari, per il contributo che avrebbe offerto ai giudici di New York nei processi ai mafiosi italo-americani, non lo vogliono accettare come proprio cittadino. Al “pentito”, però, viene rilasciato uno speciale permesso di residenza annuale che viene rinnovato solo su sua richiesta.

L'ex mafioso, che si è autoaccusato di 25 omicidi compiuti nella guerra di mafia degli anni Ottanta, ed esperto chimico a cui Cosa nostra si rivolgeva per raffinare ingenti quantitativi di eroina, è stato anche teste di varie procure in importanti processi di mafia che si sono svolti a Palermo, fra cui quello al senatore Giulio Andreotti, assolto dall'accusa di associazione mafiosa.

Marino Mannoia vive in una grande villa, con giardino, che ha acquistato alcuni anni fa in una cittadina degli Stati Uniti. Ci abita assieme alla moglie, Rita Simoncini, dalla quale ha avuto due figli, l'ultimo dei quali, Agostino, 12 anni, è nato in America.

L'ex boss - che da alcuni anni ha fatto trasferire negli Usa anche i suoceri da Palermo - è oggi un uomo d’affari con un tenore di vita molto elevato che gli permette di possedere auto di grossa cilindrata.

Lo status di cittadini americani piace molto ai mafiosi. In passato anche Tommaso Buscetta, avanzò la richiesta in favore della figlia più piccola, che era nata in Brasile. Anche in questo caso il desiderio di Buscetta non venne esaudito.

 

MAFIA (2):
IN UN LIBRO
LA VITA DEL MAGISTRATO ROCCO CHINNICI

Nell'ultimo libro di Leone Zingales, Rocco Chinnici, l'inventore del pool antimafia, per la prima volta parlano i tre figli del magistrato assassinato a Palermo il 29 luglio 1983. Il magistrato Caterina Chinnici, il medico Elvira e l'avvocato Giovanni abbandonano il riserbo e raccontano loro padre.

Il libro di Zingales è una biografia a più voci, raccontata da chi ha vissuto e ha lavorato con il magistrato ucciso. Struggente anche la testimonianza di Giovanni Paparcuri, l'autista di Chinnici, l’uomo scampato miracolosamente all'autobomba di quel tragico 29 luglio.

Nella strage rimasero uccisi, oltre a Chinnici, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato dell'Arma Salvatore Bartolotta ed il portiere in cui abitava il magistrato, Stefano Li Sacchi.

 

MAFIA (3):
CHIESTA COMMISIONE D’INCHIESTA
PER LA STRAGE DI  PIZZOLUNGO

Una commissione parlamentare d'inchiesta per far piena luce sulla strage di Pizzolungo è stata chiesta da Margerita Asta, figlia di Barbara Rizzo e sorella dei gemellini Giuseppe e Salvatore, morti il 2 aprile di 21 anni fa nell'attentato contro l’allora sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, Carlo Palermo.

Per Margherita Asta “ci sono ancora molti punti oscuri da chiarire”.

L'avvocato Giuseppe Gandolfo, presidente provinciale di Libera, ritiene che i processi hanno “chiarito il ruolo avuto dalla mafia, ma non l'ipotizzata commistione con massoneria e politica”.

Era il 2 aprile del 1985: un’automobile imbottita di esplosivo fu parcheggiata sulla strada di Pizzolungo e fu fatta esplodere proprio mentre l’auto blindata del giudice Palermo sfrecciava veloce per accompagnare il magistrato nel suo ufficio di Trapani. Qualcosa, però, andò storto. Il calcolo dei tempi risultò errato. L’autobomba si disintegrò, ma la macchina del giudice non fu sfiorata. Fu investita in pieno dall'onda d'urto, invece, la Volkswagen Scirocco sulla quale viaggiava Barbara Asta, di 42 anni, e i suoi gemellini di 6 anni, tutti massacrati dall'esplosione.

Nella storia degli anni di piombo mafiosi, la strage di Pizzolungo rimane come la testimonianza forse più efferata della violenza sanguinaria di Cosa nostra.

Illeso e sotto choc, Carlo Palermo si convinse di essere diventato un bersaglio della strategia del terrore politico-mafioso non solo per le inchieste siciliane appena avviate, ma anche per le precedenti indagini, coordinate dalla procura di Trento, sul traffico d’armi, che avevano sfiorato personaggi eccellenti della finanza italiana.

Il primo processo per la strage di Pizzolungo si conclude nel 1988 con tre ergastoli inflitti ai presunti attentatori: Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. I tre verranno assolti in secondo grado: assoluzione che verrà confermata nel '91 anche dalla Cassazione.

Nel '93 Nunzio Asta, marito della donna e padre dei gemellini uccisi, muore a Palermo in una corsia dell’ospedale Cervello per problemi cardiaci, senza riuscire ad ottenere né verità, né giustizia sullo scempio della sua famiglia.

Quello stesso anno si riaprono le indagini sulla strage. Nel 1999 il “pentito” Giovan Battista Ferrante fa altri nomi e indica come i killer di Pizzolungo Nino Madonia, Calcedonio Bruno e Giuseppe Giacomo Gambino. Una consulenza tecnica, depositata agli atti del processo per l’attentato all’Addaura, rivela che l’esplosivo usato a Pizzolungo è simile a quello trovato, nell’89, sulla scogliera dell’Addaura e destinato a Giovanni Falcone.

Nel giugno del 2001 il gip di Caltanissetta firmò quattro ordini di custodia cautelare per Totò Riina, Antonino Madonia, Pietro Virga e Balduccio Di Maggio.

La corte d'Assise sentenziò l'ergastolo per l’ex “collaboratore di giustizia” Balduccio di Maggio e l'assoluzione per il boss Nino Madonia. La posizione di Totò Riina e Vincenzo Virga fu stralciata: due vennero condannati in seguito.

 

OMICIDIO CALIPARI:
GLI USA CONOSCEVANO SPOSTAMENTI ITALIANI?

Per gli Stati Uniti il caso è chiuso. Per l’Italia, fortunatamente, ancora no.

L’omicidio del funzionario del Sismi Nicola Calipari presenta ancor troppi interrogativi. Una richiesta di rogatoria che, come le altre, probabilmente resterà senza risposta, è stata presentata dalla procura di Roma per verificare la veridicità delle rivelazioni di un ex agente della Nsa (National security Agency), secondo il quale i militari Usa sapevano di tutti i movimenti di Calipari, compresi gli ultimi spostamenti il 4 marzo, quando la Toyota fu crivellata di proiettili.

La procura, intende verificare il racconto di Wayne Madsen, il funzionario della Nsa, che avrebbe rivelato che le autorità Usa intercettavano Calipari durante l'intero periodo della sua missione in Iraq e che avrebbero saputo esattamente la sua posizione al momento della sparatoria il 4 marzo del 2005.

Intanto i pm del pool antiterrorismo della procura della capitale, Franco Ionta e Pietro Saviotti stanno per chiedere il rinvio a giudizio nei confronti di Mario Lozano, lo specialista della guardia nazionale Usa che materialmente sparò sull'auto con a bordo la giornalista italiana, Giuliana Sgrena, Nicola Calipari, e il maggiore dei carabinieri Andrea Carpani.

La richiesta di rinvio a giudizio riguarderebbe i reati di omicidio volontario e tentato omicidio.

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE:
RAPPORTO SULL’ATTENTATO A LONDRA
DEL 7 LUGLIO SCORSO

Il rapporto sugli attentati del 7 luglio 2005 a Londra rischia di creare nuovi imbarazzi al primo ministro britannico Tony Blair.

Secondo gli esperti, non fu possibile ai servizi di sicurezza britannici svolgere adeguatamente il proprio lavoro di prevenzione a causa della mancanza di risorse. Eppure due dei quattro kamikaze erano già nella lista nera dell'antiterrorismo.

Gli avvocati incaricati dall'esecutivo britannico di redigere il rapporto ufficiale sugli attentati nella metropolitana e su un autobus di Londra, nei quali persero la vita 52 persone, puntano il dito proprio sulle attività delle forze dell'ordine. Due kamikaze erano nel mirino dei servizi segreti, ma non avevano potuto essere controllati adeguatamente. La ragione é “che vi erano priorità più pressanti”.

Secondo il rapporto, due dei terroristi responsabili della strage del 7 luglio 2005 a Londra avevano avuto “probabilmente qualche contatto” con al Qaeda. Si tratta di Mohammad Sidique Khan, 30 anni, e Shehzad Tanweer, 22, che erano stati in Pakistan.

Gli esperti hanno escluso che vi sia stato un quinto attentatore o un “cervello” della banda - teoria circolata dopo la strage - fuggito all'estero per sottrarsi alle indagini.

 

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE:
I GRAVI LIMITI DEI PROCESSI AI DITTATORI

La morte di Slobodan Milosevic non può essere attribuita al Tribunale internazionale dell’Aja. Semmai la responsabilità è del sistema che vuole l’Olanda, perché non ammette imputati che non siano in stato di detenzione”.

È quanto sostiene, in un’intervista al Velino, Carlo Stracquadaneo, consigliere giuridico delle Forze armate italiane e uno dei massimi giuristi militari europei.

Il sistema voluto dagli olandesi ha implicitamente costretto il tribunale a numerose pause per la malattia di Milosevic - afferma Stracquadaneo - Qualunque uomo, infatti, a prescindere dai reati che ha commesso, ha diritto al riconoscimento della sua condizione di malattia. E la malattia dell’ex presidente serbo era stata accertata da medici neutrali. La soluzione più ovvia, però, come un ricovero o la detenzione in un luogo alternativo al carcere, non ha potuto essere presa in considerazione”.

Il giurista spiega anche come il Tribunale internazionale nel suo statuto ammetta condizioni di libertà per l’imputato. A impedirlo, nel caso dell’Aja, è però il peculiare sistema olandese che impedisce tale beneficio per i criminali internazionali e di guerra. “In questo modo - sottolinea Stracquadaneo - si rischia però di superare la soglia dei diritti umani così com’è stato per Milosevic”.

Il giurista ricorda anche il caso di un prelato ruandese, processato dal tribunale di Arusha che si occupa dei crimini contro l’umanità in Ruanda, rilasciato dopo due anni e mezzo per malattia. “Sono gli accordi tra il Tribunale e il Paese ospitante a determinare certe regole. Nel caso del Ruanda, la Tanzania, che ospita il processo, non applica le stesse restrizioni in vigore in Olanda”.

Interpellato invece sul processo a un altro ex capo di Stato, quello a Saddam Hussein da parte di un tribunale iracheno, Stracquadaneo espone tutte le sue perplessità: “È evidente che sarebbe stato più opportuno investire della questione un tribunale internazionale. La corte che sta giudicando Saddam, infatti, segue un criterio di giustizia ben diverso. I Paesi islamici sono condizionati dalla dichiarazione del Cairo del 1994 che elegge la Shariaa a simbolo della giustizia. Inoltre sono assai preoccupanti il continuo cambio di presidenti, il frequente ritiro degli avvocati della difesa o la loro cacciata. Diciamo che si tratta di un processo legittimo ma non mi pare legale il suo metodo di lavoro. Non è credibile. Le recenti indiscrezioni secondo le quali il presidente del tribunale avrebbe firmato l’esecuzione prima ancora della condanna la dicono lunga su che tipo di giustizia sia in vigore in quel processo”.

 

STRAGE DI BOLOGNA:
ANDREOTTI E LA MAGISTRATURA BOLOGNESE

E’ passata praticamente inosservata la notizia che il senatore a vita Giulio Andreotti, nel corso dei lavori finali della commissione Mitrokhin, abbia fatto mettere in in votazione un ordine del giorno per la sospensione del voto sulla relazione finale del presidente Paolo Guzzanti.

Nel suo intervento, l'ex presidente del Consiglio aveva ribadito l'importanza dei risultati delle indagini svolte dalla commissione in ordine alla strage alla stazione di Bologna, conclusioni molto argomentate e documentate che ribaltano le sentenze con le quali sono stati condannati all'ergastolo due ex terroristi neri, oggi in semilibertà, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.

Andreotti avrebbe chiesto la sospensione del voto per non delegittimare la già discussa magistratura bolognese, che avrebbe sbagliato tutte le inchieste sulla strage stessa.

 

SERVIZI SEGRETI:
VERSO IL SUPERAMENTO DELLA LEGGE DEL 1977

Era ora. Dopo quasi 30 anni per i servizi segreti italiani sembrerebbe essere arrivata l’ora del cambiamento.

Il viceministro dell’Interno, Marco Minniti, mostra di non avere dubbi: “occorre una riforma forte ed ampia, poiché la legge 801 é ormai superata”.

Dello stesso parere il senatore della Margherita ed ex presidente del Comitato Parlamentare di Controllo proprio sull’attività dei nostri 007, Enzo Bianco.

Si tratta, infatti, di una legge datata 1977 e nel programma dell’Unione, alla voce Un’intelligence moderna, si parla di riforma “non più rinviabile. Le drammatiche trasformazioni del quadro geopolitico  internazionale impongono la definizione di un nuovo assetto”.

Questa legislatura, dunque, dovrebbe essere quella in cui i servizi segreti cambieranno faccia, dopo che nella precedente si era parlato molto di riforma, ma il disegno di legge approvato dal Senato si era poi arenato alla Camera, anche a causa di una serie di veti incrociati tra i ministri responsabili del settore.

In particolare, l’ex titolare del Viminale, Giuseppe Pisanu, auspicava un servizio unico, alle dipendenze del presidente del Consiglio, mentre il suo collega ministro della Difesa, Antonio Martino, era fermamente intenzionato a mantenere la distinzione tra Sismi e Sisde.

Quella del modello di intelligence è un argomento dibattuto anche all’interno dell’Unione. Non a caso, il programma evita di sbilanciarsi a favore del servizio unico o binario, limitandosi a definire sei indirizzi per la riforma: la semplificazione della responsabilità politica delle agenzie; il rafforzamento del potere di controllo parlamentare; una chiara definizione delle garanzie funzionali per gli operatori; una diversa distinzione dei compiti delle agenzie; una selezione del personale più moderna; la revisione del segreto di Stato.

Da parte sua, Bianco ha auspicato la creazione di “un’agenzia unica, articolata al suo interno per competenze: ad esempio terrorismo islamico da un lato e criminalità organizzata e terrorismo interno dall’altro; oppure si potrebbe attuare un coordinamento più forte, in questo caso rafforzando il Cesis”.

Toccherà ora ai ministri dell' Interno, Giuliano Amato, della Difesa, Arturo Parisi ed al sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, Enrico Micheli, concordare un’azione per avviare il processo di riforma, che potrebbe anche trovare una sponda nell’opposizione.

E non è un caso che il presidente del Consiglio, Romano Prodi, abbia affidato proprio ad un suo fedelissimo come Micheli la delicata delega all’intelligence, ripetendo in qualche modo lo schema del precedente Governo con Silvio Berlusconi e Gianni Letta.

Viste le polemiche ed i veleni che nella passata legislatura hanno riguardato i servizi (dal Nigergate alle intercettazioni, dal rapimento di Abu Omar ai sequestri in Iraq), il premier vuole avere un filo diretto con il settore.

E, oltre a cambiare sistema, l’intelligence potrebbe presto avere nuovi vertici: i direttori di Sisde e Sismi, Mario Mori e Nicolò Pollari, sono infatti in carica ormai da quasi 5 anni (dall' ottobre del 2001) e il primo, 67 anni, ha anche superato i limiti d’età ed é stato prorogato nei mesi scorsi. Più recente (2003) la nomina di Emilio Del Mese alla segreteria generale del Cesis.

Circolano i nomi dei loro possibili sostituti: il prefetto Achille Serra e il generale dell’esercito Mauro Del Vecchio, colui che guidò le truppe italiane in Kosovo, dopo la fine della guerra cui aderì l’allora presidente del Cosniglio Massimo D’Alema.

 

OMICIDIO FAUSTO E IAIO:
SPUNTANO ELEMENTI NUOVI

Nuovi elementi” sull'omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, i militanti del centro sociale Leoncavallo, impegnati contro lo spaccio di droga, uccisi per strada il 18 marzo del 1978 a colpi di pistola, sono stati annunciati dal giornalista di Radio Popolare, Umberto Gay.

Secondo una ricostruzione del duplice omicidio fatta dallo stesso Gay, furono sette, e forse anche otto, i componenti del commando di killer (al posto dei cinque ipotizzati dagli investigatori).

Il gruppo arrivò, secondo testimonianze oculari da lui rese note, con una macchina e una moto nei pressi di via Mancinelli dove avvenne il duplice assassinio, a due passi dalla sede di allora del Leoncavallo. Auto e moto “si allontanarono, percorrendo la strada, che era ed è un senso unico, ed andarono in direzione di Cremona dove era presente il famoso fascista che viene considerato coinvolto nell'operazione”.

Sempre in base alle dichiarazioni di Gay, che si è detto a disposizione dei giudici in caso di riapertura delle indagini, il fatto “di marca fascista, ebbe il consenso e il placet di una parte di una grande organizzazione criminale che controllava la zona”.

Un membro della criminalità - ha spiegato il giornalista - che io ho conosciuto in un processo mi ha contattato, quando era molto malato, per chiedermi di metterlo in contatto con un avvocato. In quell'occasione mi ha fatto questa rivelazione che metto a disposizione degli inquirenti”.

 

ALTO ADIGE:
TERRORISTI IN ESILIO
CHIEDONO AUTODECISIONE

Continua a suscitare polemiche il progetto di legge costituzionale, presentato e poi ritirato, dal senatore a vita Francesco Cossiga per concedere il diritto di autodeterminazione ai sudtirolesi. Ora lo chiedono quattro famosi terroristi in esilio in Austria e Germania.

Si tratta dei cosiddetti “quattro bravi ragazzi della val Pusteria” - Siegfied Steger, Josef Forer, Heinrich Oberleiter ed Heinrich Oberlechner - che da oltre 45 anni vivono all'estero dove si erano rifugiati dopo una serie di gravi attentati degli anni Sessanta per cui erano stati condannati in contumacia in Italia.

I quattro - fa sapere il movimento giovanile dell'Union fer Suedtirol, il partito di Eva Klotz che ha accolto con entusiasmo l’iniziativa di Cossiga - sono presentati come “combattenti per la liberta”.

I quattro affermano che il loro obiettivo “è sempre stato l'autodeterminazione”, per tornare all'Austria, del popolo sudtirolese, “e non l'autonomia” che  c'’è oggi.

La proposta di legge di Cossiga viene così presentata come una “occasione storica” e invitano la Sud Tiroler Volkspartei (SVP) ad “assumersi la propria storica responsabilità” nei confronti del popolo sudtirolese.

 

ASSASSINIO DEL PICCOLO TOMMASO:
23 GIUGNO ALESSI IN CASSAZIONE PER STUPRO

Il prossimo 23 giugno la terza sezione penale della Cassazione dovrà decidere se confermare o meno la condanna a 6 anni di reclusione, per violenza sessuale, nei confronti di Mario Alessi, il manovale coinvolto nel sequestro e nell'omicidio del piccolo Tommaso Onofri.

La Suprema corte dovrà valutare se convalidare, oppure no, la condanna emessa dalla corte di Appello di Palermo l'11 febbraio 2004. Il verdetto di primo grado era stato invece emesso il 26 marzo 2002.

 

DELITTO DI COGNE:
PER TAORMINA IL PROCESSO E’ NULLO

Non nego che sono allo studio strategie per impedire che il processo possa rimanere schiacciato sotto la pressa del burocratismo giudiziario”.

Carlo Taormina, difensore di Anna Maria Franzoni, accusata dell’omicidio del figlio Samuele, torna a tuonare contro i giudici della corte d’Appello di Torino.

Parla di “udienze fantasma”, in riferimento alla sostituzione di un giudice popolare, di “processo nullo”, per la perizia psichiatrica disposta a carico della Franzoni e per “l'utilizzo di materiale televisivo vietato dalla legge”.

Il legale se la prende anche con “le ridicole tesi che vengono divulgate” a proposito dell’arma del delitto (negli ultimi giorni si è fatta l'ipotesi di un mestolo di rame): “cose vecchie, già ritenute irrilevanti - sostiene Taormina - domani sarà un pentolino e dopodomani il pappagallo di famiglia”.

Il legale se la prende anche con i periti, accusandoli di fare un “processo parallelo” e afferma: “Sono mesi che chiedo di fare una perizia sulle impronte presenti sullo stipite della porta d’ingresso alla casa di Cogne, che dimostrano un percorso alternativo a quello effettuato da Anna Maria e dai soccorritori; sono mesi che chiedo una perizia sull’impronta del tacco di scarpa rinvenuto sulla coperta del letto, sicuramente rilasciato dall' assassino”.

 

MASSACRO DI NOVI LIGURE:
ORA E’ DIVENTATO UNO SPETTACOLO TEATRALE

E’ diventata rappresentazione teatrale la tragedia che insanguinò l'alessandrino nel febbraio 2001 quando gli adolescenti Erika e Omar assassinarono la madre ed il fratello di lei.

Sette mesi di ricerche bibliografiche sono sfociati in un’ora e 20 minuti di spettacolo, Le mani forti, che ha debuttato al Teatro Juvarra di Torino con la regia di Marco Calvani.

 

CIRCE DELLA VERSILIA:
NUOVI GUAI PER CAPPELLETTI,
IL CARABINIERE SUO AMANTE

E’ passato alla cronaca come il delitto della Circe della Versilia: il 17 luglio 1989, a Forte dei Marmi, lei, Maria Luigia Redoli, 52 anni e il suo amante, Carlo Cappelletti, 24, carabiniere a cavallo, uccidono con 18 coltellate il marito di lei, Luciano Jacopi, commerciante e strozzino.

Questo almeno per la giustizia, quella con la g minuscola però, perché la condanna all’ergastolo dei due, in appello e in Cassazione, dopo l’assoluzione di primo grado, è senza alcuna prova, solo indizi.

Ora, dopo 17 anni di detenzione, Cappelletti è di nuovo nei guai, accusato di una rapina, ma ancora una volta senza alcuna prova certa.

Tutto comincia il 17 (ancora questo numero) febbraio scorso, per giunta un venerdì,  quando, per la prima volta, l’ex carabiniere, detenuto a Porto Azzurro, ottiene una settimana di permesso premio da trascorrere a Norma, dai suoi genitori, con l’obbligo di non uscire dai confini della provincia di Latina.

Secondo l’accusa, Cappelletti, proprio quel giorno, avrebbe invece rapinato un parrucchiere a Livorno, assieme ad un altro egastolano in libera uscita, per un misero bottino: 700 euro.

I suoi familiari giurano che quel giorno Cappelletti, all’ora della rapina era in una scuola guida.

Quattro testimoni, invece, lo accusano ma non sulla base di un riconoscimento all’americana, ma da una semplice fotografia. Oltretutto uno dei testimoni si dice certo del riconoscimento, gli altri tre dicono “forse”.

Per Cappelletti, che si aspettava la semilibertà e che da tempo sta lavorando con il suo avvocato per la revisione del processo, un’accusa che è stata una vera doccia fredda.

 

IRLANDA DEL NORD:
IL PARLAMENTO TORNA A RIUNIRSI

Il 15 maggio scorso le forze politiche dell'Irlanda del Nord hanno dato l’avvio al difficile processo per trovare un governo comune: i rappresentanti dei cattolici e dei protestanti irlandesi si sono riuniti nell'assemblea di Stormont.

Il piano del premier britannico, Tony Blair, e irlandese, Bertie Ahern, è di giungere alla creazione di un governo comune tra repubblicani e unionisti entro il 24 novembre prossimo.

Il primo gruppo del parlamento nord irlandese è quello del Democratic Unionist Party (Dup), del reverendo Ian Paisley, mentre il secondo è il Sinn Fein di Gerry Adams.

 

LIBIA:
USA APRONO AMBASCIATA,
VIA DA LISTA TERRORISTI

         In fondo il passato non conta, basta dirsi proni ai voleri degli Stati Uniti per poter cancellare dalla propria storia anche le più ignobile delle nefandezze, come il sostengo aperto e cruento al terrorismo internazionale.

         E’ quanto sta accadendo in questi giorni alla Libia, Paese con cui gli USA hanno deciso di ristabilire “piene” e “normali” relazioni diplomatiche, riaprendo la propria ambasciata a Tripoli.

         La Libia, inoltre, d’ora in poi non sarà più compresa nella lista degli Stati Canaglia, gli Stati, cioè, che “sponsorizzano” il terrorismo internazionale.

         E così accade che un colonnello golpista come Muhammar Gheddafi, dittatore feroce , che irride ai diritti umani, grande nemico degli Stati Uniti, si ritrova, adesso, dalla parte di quegli interlocutori più meritevoli di attenzione e credibilità.

         Avallate dal presidente George W. Bush, prese dal segretario di Stato Condoleezza Rice e annunciate dal sottosegretario David Welch, le decisioni del 15 maggio scorso significano la chiusura di una parentesi di quasi 26 anni: più di un quarto di secolo, durante il quale Usa e Libia si sono affrontati manu militari.

         Il primo dissidio armato è del 1986, quando Washington lanciò un raid aereo sul territorio libico, colpendo Tripoli e Bengasi, uccidendo 41 persone, fra cui una giovane figlia adottiva di Gheddafi, come rappresaglia dopo un attentato a una discoteca di Berlino, compiuto da elementi legati al regime libico e costato la vita a un militare Usa. Dopo quei raid, la Libia lanciò contro l'isola di Lampedusa due missili, che caddero in acqua a poche centinaia di metri dalla costa italiana.

         Nel 1988, agenti segreti libici, poi processati e condannati da un tribunale internazionale, compirono l'attentato contro il volo 103 della PanAm, esploso in volo all'altezza di Lockerbie, una località scozzese (oltre 270 le vittime, 259 a bordo del jumbo, in gran parte cittadini Usa, e le altre a terra).

         Nel 2000, la CIA accusò Tripoli di avere armi di sterminio, un'affermazione che Gheddafi smentì. Ma la svolta nei rapporti tra i due Paesi si ebbe alla fine del 2003, quando la Libia, che s'era assunta la responsabilità dell'attentato di Lockerbie e aveva accettato di pagarne gli indennizzi, concluse un accordo con Washington e Londra per rinunciare ai propri programmi nucleari e per le armi di distruzione di massa: un gesto che costituiva la prima ammissione dell'esistenza di quei piani.

         In due anni e mezzo, gli Stati Uniti hanno progressivamente “sdoganato” la Libia, con una serie di passi d'avvicinamento successivi.

        Adesso la Rice elogia la collaborazione “eccellente” con Tripoli nel combattere il terrorismo e fa risalire proprio alla rinuncia, da parte di Gheddafi, alle armi di sterminio “il riemergere” della Libia “nella grande corrente” delle relazioni internazionali.

         La Libia commenta con favore la decisione americana: il ministro degli esteri di Tripoli, Abdel Rahman Shalgham, parla di “una nuova pagina” nelle relazioni Usa-Libia.

         Chi non condivide la soddisfazione ufficiale americana e libica è l'opposizione in esilio, che parla di decisione “malaugurata”, che “non aiuta il popolo libico che sta cercando, con l'aiuto internazionale, di ottenere il rispetto dei diritti umani”, afferma dall'esilio egiziano Fayez Jibril, del Congresso nazionale libico: “Il colonnello Gheddafi userà questo avallo per stringere di più la morsa su quanti aspirano alla libertà d'espressione e al diritto di avere una Costituzione”.

         Insomma, i dittatori non sono tutti uguali: se Saddam Hussein oggi è sotto processo ed il suo Paese sotto il tallone dell’occupazione anglo-americana, il non meno sanguinario Gheddafi è diventato un caro amico degli USA.

         Forse perché c’entrano le risorse energetiche libiche e l'interesse per esse delle grandi compagnie americane?

         La democrazia va esportata. Ma non ovunque.

 

MEDIORIENTE:
OMICIDI MIRATI O TERRORISMO DI STATO?

Sono due i palestinesi rimasti uccisi il 26 maggio scorso dall'esplosione di una bomba piazzata in un'automobile, avvenuta nel porto meridionale libanese di Sidone.

Abu Hamza al Marjub, leader della Jihad islamica in Libano, è morto in ospedale per le ferite riportate, mentre il fratello Nidal era deceduto sul colpo.

A colpire i due palestinesi, quasi sicutramente, sicari israeliani, anche se l’esercito con la stella di David continua a negare ogni coinvolgimento nell'attacco.

Majzub, 40 anni, era il principale responsabile politico della Jihad islamica in Libano e, secondo fonti palestinesi, aveva diretto operazioni “all'interno” dei Territori. Adottava numerose precauzioni per la sua sicurezza, come cambiare spesso auto e percorso, dopo che due anni fa era sfuggito ad un altro attentato, sempre a Sidone.

La Jihad islamica, responsabile di diversi attentati suicidi, non ha aderito alla tregua negli attacchi contro gli israeliani, né ha partecipato alle elezioni palestinesi.

I servizi segreti israeliani operano da tempo, indisturbati, sul terriotiro libanese ed in passato hanno liquidato con simili attacchi anche esponenti del movimento islamico libanese Hezbollah, tra cui il  leader del movimento stesso, sheikh Abbas Moussawi, assassinato nel 1992 nel Sud del Libano.

Nel 2002, Jihad Jibril, figlio di Ahmad Jibril, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando generale (Fplp-Cg, basato in Siria), fu ucciso a Beirut da una bomba collocata nella sua auto.

Gli isareliani li chiamano attacchi mirati, ma il loro non è altro che terrorismo di stato.

 

STRAGE DI BESLAN:
ERGASTOLO ALL’UNICO IMPUTATO

L'unico imputato per la strage di Beslan sopravvissuto all'assedio ed al successivo scontro con le forze dell'ordine russe è stato condannato all'ergastolo da un tribunale nella Russia meridionale, che al termine di un processo durato un anno lo ha riconosciuto colpevole dei reati di omicidio e terrorismo.

L'uomo, Nur-Pashi Kulayev, ceceno, è stato condannato al carcere a vita malgrado i procuratori e molti parenti delle vittime avessero chiesto la pena di morte.

Kulayev è l'unico sopravvissuto di un gruppo di 32 separatisti ceceni che tenne in ostaggio oltre mille tra bambini, genitori ed insegnanti nella scuola di Beslan, nell'Ossezia del nord, per tre giorni a partire dal primo settembre 2004.

 

PONTE SULLO STRETTO:
PER LA DIA POSSIBILI INTESE
MAFIA-'NDRANGHETA

Il ponte sullo Stretto di Messina rientra “tra gli interessi delle tradizionali organizzazioni mafiose, in considerazione dei notevoli flussi economici attivati, al punto da poter ipotizzare forme di intesa tra Cosa nostra e  la ‘Ndrangheta”.

E' quanto si legge nella Relazione al Parlamento della Dia, relativa al secondo semestre del 2005, che parla di forti “capacità di infiltrazione” da parte dei clan messinesi.

Il protocollo stipulato tra il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle Grandi Opere e la Società Ponte sullo stretto spa ha affidato alla Dia un ruolo centrale nella complessa attività di controllo sulla possibile, ma poco probabile, realizzazione dell’opera.

L’accordo punta a monitorare, ai fini della prevenzione delle infiltrazioni mafiose, anche il sistema della provvista finanziaria dell’opera e a stabilire procedure utili alla tracciabilità dei relativi flussi finanziari che intercorrono tra tutti i soggetti che potrebbero partecipare alla realizzazione del ponte.

La Dia ha così avviato lo studio di uno specifico progetto informatico volto a definire le procedure che assicurino la trasparenza e la tracciabilità dei cicli finanziari, sia nella fase della raccolta dei capitali, sia in quella del loro impiego.

Il progetto, spiega la Direzione, punta a cogliere per tempo le eventuali anomalie dei flussi finanziari, favorendo, contemporaneamente, “l’avvio di mirate e penetranti attività di indagine”.

 

DOCUMENTAZIONE

MOSTRO DI FIRENZE:
TUTTE LE TAPPE DELL’INCHIESTA PERUGINA

L'arresto del giornalista Mario Spezi e di un pregiudicato campano sono stati gli ultimi sviluppi dell'indagine della procura di Perugia sulla morte del medico Francesco Narducci, scomparso l'8 ottobre 1985 e il cui cadavere è stato ripescato nel lago Trasimeno.

Secondo l'ipotesi degli inquirenti, Narducci sarebbe stato ucciso perché coinvolto nelle vicende dei 16 delitti del mostro di Firenze.

Ecco i passi precedenti:

Agosto 2001: il dirigente della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, consegna al titolare della nuova inchiesta sui delitti del mostro, il sostituto procuratore Paolo Canessa, un rapporto nel quale avanza l'ipotesi che i delitti erano stati commissionati a Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, cioè la “ccoperativa di mostri”, da una setta satanica.

Giugno 2002: viene riesumata la salma di Francesco Narducci. Per l'autopsia la morte è avvenuta per una frattura di natura fortemente traumatica del corno sinistro della cartilagine tiroidea che può essere prodotta solo attraverso una ”violenza meccanica”. Avvalorata quindi la tesi dell'omicidio.

Da un esame antropometrico compiuto sulla base di una fotografia scattata al momento del recupero del cadavere nel lago, risulta però che il corpo recuperato era di un uomo alto 1 metro e 72, mentre Narducci era alto un metro e 80.

Qualche mese dopo, un'altra perizia segnala differenze che riguarderebbero la capigliatura, l’altezza e la corporatura dei due cadaveri.

17 novembre 2004: a Perugia vengono effettuate perquisizioni in accordo con la procura di Firenze, titolare dell'indagine sui presunti mandanti del mostro.

Il Gip respinge però la richiesta di arresti domiciliari per tre persone indagate nell'ambito di uno dei tronconi dell'inchiesta sul presunto omicidio di Francesco Narducci, quello in cui vengono ipotizzati i reati di false dichiarazioni, favoreggiamento e occultamento di cadavere. Tra i perquisiti anche il giornalista Mario Spezi.

Qualche giorno dopo la Procura di Perugia iscrive nel registro degli indagati, per favoreggiamento e rivelazione di segreto d' ufficio, l’avv. Fabio Dean (ex legale di Licio Gelli), che sarebbe intervenuto su un politico perché non fosse accolta la richiesta di arresti domiciliari per un indagato.

21 dicembre 2004: dopo il Gip di Perugia, anche il Tribunale del riesame di Perugia respinge la richiesta di arresti domiciliari chiesti dal pm per tre indagati, l'avv. Alfredo Brizioli, l'ex questore Francesco Trio e il colonnello dei carabinieri Francesco di Carlo.

I giudici ritengono invece fondata l'ipotesi del doppio cadavere, pilastro dell'inchiesta perugina.

13 giugno 2005: Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano Val di Pesa, viene indagato per omicidio in relazione alla morte di Francesco Narducci.

Il provvedimento è, manco a dirlo, della procura di Perugia.

28 novembre 2005: l’avvocato perugino Alfredo Brizioli è messo agli arresti domiciliari. L'accusa a suo carico è di calunnia.

Due settimane dopo il Tribunale del riesame accoglie l'istanza di revoca della misura cautelare e Brizioli torna libero.

25 febbraio 2006: nuova perquisizione nell'abitazione del giornalista fiorentino Mario Spezi.

7 aprile 2006: Spezi vien arrestato assieme ad un pregiudicato. Avrebbe depistato l’inchiesta (mostruosa) della magistratura parigina.

29 aprile 2006: il Tribunale della libertà giudica infondate le motivazione della procura di Perugia per l’arresto di Spezi. Il giornalista torna in libertà.

 

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