Era il 7 agosto 1990 quando il corpo di una giovane impiegata romana fu trovato in un ufficio nel quartiere Prati. Da allora, tre decenni di indagini, sospetti e depistaggi. Ma chi ha ucciso davvero Simonetta Cesaroni? E perché, dopo tutto questo tempo, la verità resta impronunciabile?
Un pomeriggio d’estate, una città vuota
Roma, 7 agosto 1990.
È un pomeriggio afoso, la città è deserta, i romani in ferie. Simonetta Cesaroni, 20 anni, impiegata in una piccola società di contabilità, prende la metropolitana per recarsi in un ufficio di via Carlo Poma, al civico 2. Lavora per l’AIAG, l’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù, curando alcune pratiche amministrative.
Entra alle 16:00, alle 17:30 risponde a una telefonata. Poi, il silenzio: nessuno la vedrà più viva.
Due giorni dopo, la sorella e il fidanzato forzano la porta dell’ufficio. Sul pavimento, il corpo seminudo di Simonetta, colpito con 29 coltellate. Un massacro inspiegabile.
Una scena del crimine che parla di caos
L’ufficio di via Poma sembra congelato nel tempo: scrivanie in ordine, nessun segno di rapina, nessuna finestra forzata. Eppure, la violenza dell’omicidio è disumana, coltellate precise, ma non professionali. Una rabbia fredda, personale.
La ragazza è stata colpita al petto, al ventre, al collo. Il corpo è adagiato con una cura quasi rituale. Non ci sono impronte, non c’è l’arma del delitto, non ci sono segni di lotta.
Chi ha ucciso Simonetta? E perché in un luogo così chiuso, senza lasciare tracce di ingresso o fuga?
Il primo sospetto: il fidanzato
Come in ogni giallo, il primo indiziato è l’uomo più vicino alla vittima: Raniero Busco, fidanzato di Simonetta. Un giovane che lavorava presso l’aeroporto di Fiumicino, descritto come geloso ma non violento. Viene interrogato, poi scagionato per mancanza di prove.
Vent’anni dopo, nel 2011, Busco verrà condannato in primo grado a 24 anni per omicidio, sulla base di una traccia di DNA sul reggiseno della vittima. Una prova ritenuta “debole”, perché non esclusiva. Nel 2012 sarà assolto in appello, e nel 2014 definitivamente dalla Cassazione.
Un caso chiuso, ma senza un colpevole. Ancora una volta, come spesso accade in Italia, la giustizia arriva, ma la verità resta lontana.
L’ombra di via Poma
Via Carlo Poma è diventata un indirizzo maledetto. Chiunque abbia lavorato in quell’edificio ricorda voci, sospetti, silenzi. Un palazzo borghese, dove negli anni ’90 convivevano interessi pubblici e privati, conti opachi, segreti interni.
Secondo alcuni, Simonetta avrebbe scoperto qualcosa che non doveva sapere. Forse un ammanco, una manovra illecita, un doppio fondo contabile. O forse, come suggeriscono altre ipotesi, era diventata il bersaglio di un gioco di potere e ricatti dentro la stessa AIAG.
I depistaggi, le omissioni, gli errori
Il caso Via Poma è anche una lezione di cattiva investigazione. Nei primi giorni, la scena del crimine venne contaminata: poliziotti, giornalisti, curiosi, tutti entrarono nell’ufficio senza protezioni. Le tracce si persero.
Il sangue fu mal conservato, i reperti sparirono, le testimonianze si contraddissero. La stessa porta dell’ufficio venne chiusa due volte dopo il ritrovamento, rendendo impossibile ricostruire con precisione le tempistiche.
Un funzionario di polizia dell’epoca ammise anni dopo: “Se Via Poma fosse successo oggi, avremmo risolto il caso in 48 ore. Allora, lo abbiamo rovinato in 48 minuti.”
I volti nell’ombra
Negli anni, i sospetti hanno cambiato forma come in un romanzo giallo senza fine.
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Federico Valle, architetto e nipote di un senatore, era nello stesso palazzo quella sera. Indagato, poi prosciolto.
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Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile, disse di aver visto Simonetta uscire viva, poi si contraddisse. Si suicidò nel 2010, lasciando un biglietto enigmatico:
“Trent’anni di sofferenze e sospetti ti portano al suicidio. Non sono stato io.”
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Altri testimoni parlarono di “un uomo distinto” salito negli uffici quel pomeriggio. Mai identificato.
Ogni volta che un nome sembrava emergere, le prove si dissolvono.
Il mistero del computer e delle telefonate
Tra gli elementi più inquietanti del caso, il computer Olivetti di Simonetta. I dati furono cancellati dopo la morte, con un’operazione manuale. Qualcuno, dopo l’omicidio, entrò nell’ufficio, accese il pc e cancellò file.

La scena del crimine in via Poma (misteriditalia.it)
Chi aveva accesso? Solo pochi dipendenti dell’AIAG e chi possedeva le chiavi dell’edificio. Un dettaglio mai spiegato.
Anche le telefonate di quella sera sono avvolte nel mistero: una collega chiama Simonetta alle 17:30, la trova tranquilla. Alle 18:00, la linea è muta. Alle 18:30, qualcuno chiude la porta. Il tempo perfetto per un delitto pianificato con precisione.
Le verità negate
Nel corso dei decenni, diversi investigatori e criminologi hanno provato a ricostruire il delitto. Alcuni hanno parlato di delitto sessuale, altri di omicidio d’impeto. Ma i dettagli contraddicono entrambe le ipotesi. Il corpo non mostra segni di violenza sessuale, ma l’assassino sembra aver avuto un legame personale con la vittima.
Coltellate concentrate, rabbia controllata, nessuna fuga improvvisata. Chi ha ucciso Simonetta la conosceva bene. E forse, proprio per questo, è stato protetto.
Roma, la città dei segreti
Per molti, il caso Via Poma è lo specchio della Roma degli anni ’90: un mondo di potere, corruzione e silenzi. Una capitale dove i delitti eccellenti restano sospesi tra cronaca e politica. Come se esistesse un codice non scritto che decide chi può essere colpevole e chi no.
Simonetta era una ragazza semplice, lontana dai giochi di potere. Ma ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato, nel giorno sbagliato, di fronte a qualcuno che non poteva permettersi di essere scoperto.
Trenta anni dopo, le ombre restano
Nel 2020, a trent’anni dall’omicidio, la Procura di Roma ha ammesso che non ci sono più indagati né piste attive. Un cold case ufficiale. Ma non per la gente.
Ogni anno, il volto di Simonetta torna sulle pagine dei giornali, come un promemoria scomodo. Un delitto che non vuole essere dimenticato. Un mistero che sembra proteggere qualcuno ancora in vita.
Il delitto di via Poma è la fotografia perfetta dell’Italia dei misteri: una verità a portata di mano, eppure sempre un passo più in là.
Simonetta Cesaroni aveva 20 anni, un sogno semplice, una vita appena iniziata. Chi l’ha uccisa non ha solo spento una vita innocente — ha creato una ferita collettiva, che ancora oggi non si rimargina. Trent’anni di bugie, depistaggi e silenzi ci lasciano una sola certezza: in quella stanza di via Poma, il 7 agosto 1990, non morì solo una ragazza. Morì anche un pezzo di verità italiana.
Simonetta Cesaroni (misteriditalia.it)









