I Misteri

Mostro di Firenze: le verità scomode che nessuno ha mai voluto pubblicare

Pietro PaccianiPietro Pacciani (Foto Ansa)

Tra il 1968 e il 1985 la Toscana fu teatro di una delle serie di delitti più atroci della storia italiana. Otto coppie uccise, indagini infinite, depistaggi, menzogne e piste che conducevano ovunque e da nessuna parte. Ma dietro il mito oscuro del “Mostro di Firenze”, forse si nasconde molto più di un solo assassino.

Il mito nero d’Italia

C’è una parte dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta che è rimasta intrappolata tra la paura e l’incredulità. Nelle campagne fiorentine, sotto le colline dove il vino profuma di tradizione e le notti sembrano tranquille, qualcuno cominciò a colpire con un rituale spietato e inspiegabile. Coppie appartate in auto, notti d’estate, una pistola calibro .22 con proiettili Winchester.

Dal 1968 al 1985 il “Mostro di Firenze” seminò il terrore uccidendo otto coppie, seguendo uno schema sempre identico: un colpo rapido, preciso, poi la mutilazione dei corpi delle donne, come in una macabra firma. Quello che all’inizio sembrava un caso isolato si trasformò in un incubo collettivo, e con il passare degli anni il Mostro diventò un mito oscuro, una leggenda fatta di paura, mistero e depistaggi.

Le prime indagini e la pista dei compagni di merende

L’inchiesta partì male, proseguì peggio e non si è mai davvero conclusa. Per decenni la polizia e i carabinieri inseguirono ipotesi che si contraddicevano a vicenda, tra teorie sataniche, follie individuali e complotti istituzionali.

Negli anni ’90 la giustizia individuò in Pietro Pacciani il colpevole perfetto: contadino toscano, burbero, con un passato violento e una vita segnata dalla marginalità. Venne arrestato nel 1993 e condannato in primo grado come esecutore dei delitti. Con lui, secondo l’accusa, agiva un piccolo gruppo di complici, i famigerati “compagni di merende”: Mario Vanni, Giancarlo Lotti e altri uomini di provincia descritti come semplici, sporchi e crudeli.

Vanni

Vanni (Foto Ansa)

Ma quella verità, tanto comoda quanto fragile, si sgretolò presto. Pacciani fu assolto in appello, poi morì prima del processo di revisione, ufficialmente per un infarto, ma in circostanze che molti giudicarono sospette. Lotti e Vanni furono condannati, ma nessuna prova tecnica li legava davvero agli omicidi. Era come se ogni volta che si provava a chiudere il cerchio, il cerchio si aprisse di nuovo.

Le armi, i bossoli e il mistero della calibro .22

Tutti i delitti furono compiuti con la stessa pistola, una Beretta calibro .22 Long Rifle, con munizioni Winchester serie H. Era la sola costante in un caso pieno di variabili. Ma quella pistola non fu mai trovata.

L’arma aveva un valore quasi simbolico, come se appartenesse a qualcuno che non si poteva toccare. Alcuni investigatori parlarono di un “arsenale parallelo” appartenente a un gruppo di uomini legati ai servizi segreti o a qualche struttura deviata. Altri ipotizzarono che la pistola fosse stata custodita e usata da mani diverse, all’interno di una catena di complicità che univa persone molto lontane tra loro: contadini, professionisti, forse persino uomini dello Stato.

I depistaggi e la pista scomoda delle “protezione dall’alto”

Col tempo emerse un quadro inquietante. Testimonianze modificate, prove sparite, perizie contraddittorie, errori investigativi troppo grossolani per essere casuali. Alcuni magistrati, come Giuliano Mignini e Paolo Canessa, provarono a scavare nei rapporti tra i delitti del Mostro e un possibile mandante occulto, qualcuno che commissionava i delitti per ottenere “trofei”, cioè i macabri reperti prelevati dai corpi delle vittime.

Lotti

Lotti (Foto Ansa)

Un’ipotesi che portò a toccare ambienti altolocati: medici, collezionisti, appartenenti a logge massoniche, forse persino uomini legati ai servizi segreti. Ma ogni volta che si sfiorava un nome importante, l’indagine si fermava. Le inchieste parallele venivano archiviate, i testimoni cambiavano versione, i magistrati venivano spostati o isolati.

Un ex investigatore, anni dopo, ammise:

“Non abbiamo mai potuto indagare davvero su chi c’era dietro. Ogni volta che ci avvicinavamo, arrivava una telefonata da Roma e tutto finiva lì.”

I documenti mai pubblicati e la pista internazionale

Nel 2018, a oltre trent’anni dall’ultimo omicidio, alcuni giornalisti riuscirono a consultare documenti riservati della vecchia inchiesta. Tra le carte comparivano contatti con la CIA, rapporti del SISDE, riferimenti a cittadini stranieri che avrebbero frequentato la zona di Scandicci e Calenzano negli stessi anni dei delitti.

Una pista internazionale che all’epoca fu ignorata o volutamente scartata. Il motivo? Ufficialmente per “mancanza di riscontri”. Ma in realtà, quelle connessioni portavano a un terreno scivoloso, dove si incrociavano servizi segreti, traffici di armi e ambienti dell’intelligence americana in Italia durante gli anni della guerra fredda.

C’è chi sospetta che il Mostro non fosse un individuo, ma una copertura per un’operazione più ampia, un messaggio cifrato, un linguaggio del terrore usato da qualcuno per dire qualcosa.

Il legame con la P2 e la pista dei “notabili”

Negli anni Ottanta, quando la Loggia P2 di Licio Gelli fu scoperta, alcuni nomi collegati all’inchiesta del Mostro apparvero in modo ricorrente in carte e testimonianze. Niente di ufficiale, ma abbastanza per far sospettare che tra il potere occulto e il mistero delle campagne toscane ci fosse un filo.

Uno dei medici legati alle perizie, un alto ufficiale e perfino un giornalista fiorentino citato in una delle indagini parallele risultarono in rapporti indiretti con ambienti massonici o servizi segreti deviati. La magistratura non trovò prove di colpevolezza, ma anche qui la domanda resta sospesa: perché nomi così importanti compaiono attorno a un caso che, sulla carta, doveva riguardare un contadino e qualche amico di osteria?

Un caso irrisolto che non può essere chiuso

Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, il Mostro di Firenze resta uno dei misteri più oscuri della storia italiana. La magistratura ha archiviato tutto, i presunti colpevoli sono morti, le armi mai ritrovate, i reperti invecchiati. Eppure il caso non smette di inquietare.

Non tanto per la crudeltà dei delitti, ma per il modo in cui lo Stato ha gestito la verità. Perché in questo caso non si tratta solo di un assassino sfuggito alla giustizia, ma di una rete di bugie, omissioni e complicità che ha attraversato decenni e istituzioni.

Vittime mostro

Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili uccisi dal cosiddetto “mostro di Firenze” (Foto Ansa)

Gli esperti di criminologia concordano: un uomo solo non avrebbe potuto agire indisturbato per diciassette anni, con la stessa arma, nello stesso territorio, lasciando sempre le stesse tracce e senza mai farsi scoprire. E allora chi ha coperto chi?

Le verità che fanno paura

C’è un motivo se il caso del Mostro di Firenze continua a essere raccontato, ma mai davvero risolto. È una ferita aperta che tocca la magistratura, la politica, i media. Ogni nuova rivelazione si scontra con un muro di silenzi e smentite. Ogni volta che una pista porta troppo in alto, la storia si ferma.

Forse non si vuole scoprire chi era davvero il Mostro, perché farlo significherebbe riaprire gli anni più bui della Repubblica, quelli in cui il confine tra Stato e crimine era sottile come una lama.

E allora, come in un romanzo maledetto, il Mostro è rimasto il nostro specchio nero: un mistero che non parla di un uomo solo, ma di un Paese intero che non riesce a guardarsi dentro.

Il Mostro di Firenze non è solo un assassino senza volto. È il simbolo di un’Italia che ha scelto di dimenticare piuttosto che sapere. È la prova che ci sono verità che fanno paura, perché rivelarle significherebbe cambiare la storia ufficiale.

E forse è per questo che, dopo decenni, nessuno ha mai voluto davvero pubblicare tutto ciò che si sa.
Perché dietro i colpi di pistola e il sangue sulle colline toscane, ci sono nomi, poteri e segreti che non appartengono più alla cronaca, ma alla ragion di Stato.

E finché quei nomi resteranno protetti, il Mostro continuerà a vivere.
Non nei boschi, ma nei silenzi di chi sa e non parla.

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