DIECI DOMANDE E DIECI RISPOSTE SULL’INVASIONE DELLA STRISCIA DI GAZA  

Uno degli analisti più lucidi a proposito dell’attacco israeliano a Gaza si è dimostrato essere Loretta Napoleoni che il 14 gennaio sull’Unità ha scritto: “Israele procede nella sua operazione di ‘ripulitura’ della striscia di Gaza indifferente alle proteste del mondo. C’è una sola cosa di cui si preoccupa: il tempo”. Spiegava poi la Napoleoni che la guerra deve essere interrotta entro e non oltre il 21 gennaio perché quel giorno Obama sarà al posto di Bush e se il conflitto dovesse continuare dovrà dire la sua.
Una previsione quella di Loretta Napoleoni, azzeccata in pieno. Israele ha unilateralmente dichiarato la fine dell’attacco il 18 gennaio, appena tre giorni prima dell’effettivo insediamento del nuovo presidente americano.
Questa decisione israeliana spiega molte cose sul significato della sua violentissima aggressione a Gaza. E una su tutte: con la fine dell’era Bush non è così certo che Israele avrà sempre e comunque al suo fianco gli Stati Uniti. Almeno questo è l’auspicio del mondo civile.
Per meglio capire i 22 giorni di follia che hanno sconvolto una delle zone più povere e sovraffollate del pianeta ecco 10 domande 10 risposte.

Chi ha rotto la tregua?
Se è vero quanto scrivono diversi quotidiani israeliani l’attacco a Gaza era in preparazione già dall’estate 2008. E’ nei fatti impensabile che un simile dispiegamento di forze aeree, navali e terrestri avvenga nel giro di poche ore a seguito del lancio di razzi Qassam sul Neghev da parte di miliziani di Hamas. La scelta del 27 dicembre come data per l’attacco è stata sicuramente suggerita, oltre che dalla necessità di precedere l’insediamento del nuovo inquilino della Casa bianca, anche dal bisogno che il governo di centro-sinistra, guidato dalla troika Olmert-Barak-Livni, aveva di mostrare i muscoli in vista delle elezioni politiche del prossimo 10 febbraio nelle quali la destra estrema di Nethanyahu è favorita.
In ogni caso non è stato Hamas con il lancio dei suoi rudimentali razzi a rompere la tregua, dal momento che la tregua (in scadenza il 19 dicembre) era già stata rotta da Israele alcuni giorni prima quando un commando israeliano, penetrato nella striscia, aveva assassinato tre dirigenti dell’organizzazione che ha legittimamente vinto le elezioni su quel territorio.

Quali erano gli obiettivi di Israele?
Ogni guerra per essere tale deve avere degli obiettivi politici e militari. L’obiettivo politico di Israele era certamente l’annientamento o almeno un forte indebolimento di Hamas. Quello militare la distruzione della rete sotterranea di approvvigionamento (circa 3000 tunnel) che i militanti di Hamas hanno scavato e che gestiscono pienamente sul confine nei pressi di Rafah che divide la striscia dall’Egitto. Attraverso questo reticolo di tunnel (necessario anche per l’approvvigionamento di beni di prima necessità per la popolazione palestinese, visto il totale embargo israeliano), Hamas si rifornisce di armi proprio dal vicino Egitto. A rifornire materialmente Hamas sono i militanti egiziani dell’organizzazione Fratelli musulmani, ma da lì passano anche gli aiouti siriani ed iraniani.

Quali obiettivi Israele ha raggiunto?
Praticamente nessuno. L’obiettivo politico, l’annientamento o l’indebolimento di Hamas, è pienamente fallito a meno di non volerlo ridurre all’uccisione di circa 300 militanti tra cui un solo dirigente, il “ministro dell’Interno” della striscia, Said Siam. Il nucleo di ferro di Hamas, in parte a Damasco, non solo è uscito indenne dalla guerra, ma addirittura sentimentalmente rafforzato nel cuore dei palestinesi di Gaza.. Disatteso anche l’obiettivo della distruzione dei tunnel, colpiti solo al 10%.
  
L'attacco israeliano è stato proporzionato?
In guerra il concetto di proporzione non esiste. Così come non esiste il fair play. Una guerra la si prepara e la si provoca per vincerla. E in ogni guerra chi la promuove calcola sempre preventivamente quanti civili saranno uccisi. Quindi Israele sapeva benissimo prima dell’attacco che i bombardamenti e poi le incursioni da terra avrebbero provocato numerose vittime tra i civili.
Detto questo se le guerre permettessero di misurare la proporzione, Israele avrebbe compiuto una spedizione punitiva con un rapporto di 1 a 100, di dieci volte superiore alle leggi della rappresaglia applicate dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Il conto delle vittime della guerra di Gaza è infatti molto semplice: contro i 13 israeliani morti (10 soldati - alcuni uccisi da fuoco amico - e tre civili, di cui un cittadino israeliano di origine palestinese), ci sono 1340 morti palestinesi (di cui 418 bambini, 125 donne e 797 uomini).    

Oggi chi è più forte in Israele?
Dopo le guerre sono sempre i falchi della politica a vincere. E’ quasi una legge naturale. In primo luogo perché loro possono dire di avere sempre sostenuto il pugno di ferro, mentre i loro avversari hanno spesso tentennato. In secondo luogo perché gli elettori israeliani (specie quelli delle città del Negev), consci che l’aggressione di Gaza non ha portato risultati concreti nel loro vivere quotidiani si rivolgeranno proprio ai falchi. L’idea criminale di Olmert-Barak-Livni, sponsorizzati dal finto pacifista Peres, capo dello Stato israeliano, il 10 febbraio potrebbe dimostrasi anche demenziale e autolesionista se, come dicono i sondaggi, la destra vincerà le elezioni a mani basse.
   
Oggi chi è più forte in Palestina?
Certamente il nucleo duro di Hamas, anche a discapito delle colombe dell’organizzazione fondamentalista e terrorista, esce rafforzato dall’aggressione israeliana. Ne esce praticamente distrutta l’immagine dei palestinesi moderati della Cisgiordania (che sono stati a guardare) e del presidente dell’Anp Abu Mazen, ormai privo di ogni credibilità e ritenuto da ampi settori della resistenza palestinese un fantoccio di Israele.
Il dato in qualche modo sconvolgente è che Hamas, organizzazione fondata nel 1987, è in qualche modo da ritenersi una creatura di Israele che agli albori arrivò addirittura a finanziarla occultamente per usarla in funzione anti-Arafat. Come accadde in Afghanistan agli americani con l’organizzazione di bin Laden, anche a Gaza gli israeliani hanno creato il mostro contro cui oggi sono impegnati.
  
Le vittime civili si potevano evitare?
Una domanda questa che ha già avuto una risposta più sopra. Ma che merita un approfondimento. Le scuole dell’Onu colpite dall’aviazione e dall’esercito israeliano, il tiro sulle autoambulanze della crocerossa, il media center pieno di giornalisti centrato sul finire dell’attacco, la stessa casa del ginecologo Izzedin Abu al-Aishxy distrutta il 16 gennaio con tre figlie dentro mentre il padrone di casa era in diretta sulla tv israeliana Canale 10, la dicono lunga sulla volontà israeliana di non distinguere tra palestinesi combattenti di Hamas e inermi, soprattutto donne, anziani e bambini.
E’ impensabile che 418 bambini siano da considerare “effetti collaterali” di attacchi mirati. Né vale la mai dimostrata affermazione di parte israeliana che le case civili colpite da missili, bombe, granate e colpi di cannone siano stati covi di estremisti islamici che tenevano in ostaggio dei civili. E’ una bugia che Israele ha cercato di accreditare anche nell’estate del 2006, durante l’aggressione al Libano, quando bombardò in Libano la scuola di Cana.
Ma proviamo ad ammettere solo per un attimo che le menzogne di Israele abbiano un fondamento. In qualsiasi contesto gli ostaggi hanno diritto alla protezione. Se davvero donne e bambini erano ostaggi di spietati criminali terroristi di Hamas perché bombardarli? Quando degli ostaggi sono tenuti prigionieri, ad esempio in una banca, il compito di chi interviene è quello per prima cosa di tutelare la vita degli ostaggi. Quando l’equazione diventa ostaggi palestinesi uguale nemici palestinesi tout court non c’entra più neanche la guerra. Si tratta solo di elementari principi di civiltà. Che, evidentemente, Israele, paese che si dice democratico, non possiede.
Uno degli elementi che in ogni guerra spinge gli attaccanti a non tenere conto dei civili deriva da una convinzione sbagliata. Quella che se terrorizzi i civili, gli stessi si rivolteranno contro i loro leader. E’ accaduto che avessero questa errata convinzione gli americani che durante la seconda guerra mondiale rasero al suo città d’arte e prive di qualsiasi infrastruttura bellica come Dresda, senza però che gli abitanti di questa città muovessero un dito contro i loro capi nazisti. E’ accaduto, ancora agli americani, nella guerra del Kosovo (1999) quando deliberatamente attaccarono un treno carico di passeggeri serbi e la torre della televisione di Belgrado. Più recentemente è accaduto in Georgia dove l’aviazione e i carri armati russi hanno martoriato la popolazione civile. Risultato: mai nessuna ribellione interna.
L’unico vero effetto sui civili martoriati è che gli stessi anziché ribellarsi ai loro capi politici, si stringono ancora di più attorno a loro.  

Israele ha usato o no armi illegali?
Per rispondere a questa domanda pubblichiamo in fondo a questo numero della Newsletter un articolo di Massimo Zucchetti, esperto in armamenti.

Cosa sono i razzi Qassam usati da Hamas?
Il razzo Qassam è un rudimentale ordigno in acciaio pieno di esplosivo prodotto da Hamas. Ne esistono diversi modelli che hanno una gittata che varia dai 3 ai 45 chilometri. Non hanno bisogno di artiglieria per essere lanciati e sono privi di qualsiasi sistema di guida.
Lo sviluppo di questo tipo di arma è iniziato nel 2000. Si tratta di razzi, scarsamente intercettabili, costruiti con l’apposito intento di mettere in difficoltà lo stato ebraico. A partire dal 2000 Hamas ha lanciato sulle città del Negev (le più colpite Ashlkelon e Sderot) oltre nove mila di questi razzi, provocando complessivamente dieci vittime. Teoricamente un Qassam potrebbe colpire anche Tel Aviv.
I danni provocati dai Qassam sono sempre assai limitati e comunque non paragonabili a quelli delle armi convenzionali e non convenzionali di cui dispone Tsahal (l'esercito israeliano), ma hanno comunque un fortissimo impatto emotivo sulla popolazione israeliana che vive nelle zone limitrofe alla Striscia di Gaza fino a 45 km da essa. C’è da aggiungere che la facilità di costruzione ed il loro basso costo rendono per Israele la minaccia costante e cronica e certamente non limitata ad un periodo di tempo.

Perché Israele ha paura dell'informazione?
Evidentemente perché ha la coscienza sporca e vuole agire indisturbata. Ecco cosa afferma il segretario generale di Reporters sans frontiéres, Jean-Francois Juluard:

Durante gli attuali combattimenti l'informazione sembra essersi fermata alle porte di Gaza. Il blocco - l'ennesimo - imposto alla stampa dall'inizio dell'operazione «Piombo fuso» pone i giornalisti stranieri ed israeliani nella più assurda delle situazioni: non possono avvicinarsi né documentare da vicino quello che è già risaputo a livello internazionale. Una situazione paradossale, come ammette anche un portavoce della diplomazia israeliana per il quale «l'esclusività della copertura del conflitto è lasciata unicamente ai giornalisti palestinesi». Le immagini e le informazioni offerte dai reporter di Gaza riescono invece a cortocircuitare il blocco imposto e la comunità internazionale le riceve: assurdo, inutile e pericoloso. Il conflitto israelo-palestinese non è un conflitto come gli altri proprio perché porta in sé l'impatto della storia e della sua reinterpretazione. Bloccare i professionisti dell'informazione internazionali ed israeliani alle porte di Gaza non potrà che alimentare le voci ed esasperare l'odio. Se Tsahal non vuole i giornalisti, questo significa che Israele ha qualcosa da nascondere. Possiamo già immaginare le conseguenze di questo tipo di situazione. E nessuno ha interesse a che ciò accada, tanto meno Israele”.

EBREI DEL MONDO ED ISRAELIANI CONTRO LA GUERRA 

ASCOLTA, ASCOLTA ISRAELE 

di Stefano Sarfati Nahmad

Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori, dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame. A distanza di una generazione in nome di ciò che hai subito, hai fatto lo stesso ad altri: li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l'umanità intera.
Ascolta Israele!
Io non rinnego la mia storia, la storia della mia famiglia, che è passata dalla Shoah. Però rinnego te, lo Stato di Israele, perché hai creduto di poter far valere il credito della Shoah per liberarti del popolo palestinese e occupare la sua terra. Ma non è così che vanno le cose, non è così la vita. Il popolo di Israele deve vivere di vita propria e non vivere della morte altrui.
Ascolta Israele!
Io non rinnego la mia storia, la storia della mia famiglia che è passata dalla Shoah, ma io oggi sono palestinese. Io sto dalla parte del popolo palestinese e della sua eroica resistenza. Io sto con l'eroica resistenza delle donne palestinesi che hanno continuato a fare bambine e bambini palestinesi nei campi profughi, nei villaggi tagliati a metà dai muri che tu hai costruito, nei villaggi a cui hai sradicato gli ulivi, rubato la terra. Sto con le migliaia di palestinesi chiusi nelle tue prigioni per aver fatto resistenza al tuo piano di annessione.
Ascolta Israele!
Non ci sarà Israele senza Palestina ma potrà esserci Palestina senza Israele, perché il tuo credito, ormai completamente prosciugato dalla tua folle e suicida politica, non era nei confronti del popolo palestinese che contro di te non aveva alzato un dito, ma era nei confronti del popolo tedesco, italiano, polacco, francese, ungherese e in generale europeo; ed è colpevole la sua inazione.
Ascolta Israele, ascolta questi nomi: Deir Yassin, Tel al-Zaatar, Sabra e Chatila, Gaza. Sono alcuni nomi, iscritti nella Storia, che verranno fuori ogni qualvolta si vedrà alla voce: Israele.

* Rete ebrei contro l’occupazione

ISRAELIANI PER IL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE 

«Noi, cittadini israeliani, ci appelliamo ai leader europei: usate le sanzioni contro le politiche brutali d'Israele e unitevi alle proteste attive di Bolivia e Venezuela». Inizia così l'appello, pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian, di una parte della sinistra israeliana.
«Facciamo appello ai cittadini europei: per favore aderite alla richiesta delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi - appoggiata da oltre 540 cittadini israeliani (www.freegaza.org/en/home): boicottate le merci e le istituzioni israeliane; prendete esempio dalle risoluzioni approvate dalla città di Atene, Birmingham e Cambridge (Usa). Aiutateci».

Tra i firmatari dell'appello il prof. Rachel Giora (TeL Aviv University), il prof. Vered Kraus (Haifa University), la dr. Anat Matar (TeL Aviv University), il prof. Yitzhak Y. Melamed (John Hopkins University).

BARAK SOGNA IL BLITZ KRIEG
MA L’ARIA STA GIA’ CAMBIANDO 

di Michael Warschawski*

Bisogna dirlo e ripeterlo: quella che si svolge nella Striscia di Gaza non è una guerra, ma una carneficina compiuta dalla terza forza aerea al mondo contro una popolazione indifesa.
Bisogna dirlo e ripeterlo: la carneficina di Gaza non è una reazione «sproporzionata» ai razzi lanciati dai militanti della Jihad Islamica e altri gruppuscoli palestinesi sulle località israeliane vicine alla Striscia di Gaza, ma un'azione premeditata e preparata da molto tempo, come d'altronde riconosce la maggior parte dei commentatori israeliani.
Bisogna dirlo e ripeterlo: quei razzi non sono, come vogliono far credere certi diplomatici europei, «provocazioni ingiustificabili», ma risposte, peraltro abbastanza insignificanti, a un embargo selvaggio imposto da Israele, da un anno e mezzo, a un milione e mezzo di residenti della Striscia di Gaza, donne, bambini, e vecchi compresi, con la complicità criminale degli Stati uniti ma anche dell'Europa.
Bisogna dirlo e ripeterlo: non assistiamo, come si cerca di spiegare a tutti quelli che hanno la memoria corta o selettiva, a un atto di autodifesa a lungo procrastinato di fronte a un'aggressione palestinese assolutamente ingiustificabile. Ehud Barak lo confessa tranquillamente, sono mesi che l'esercito israeliano si prepara a colpire «l'entità terrorista» denominata Gaza. Come spiegava opportunamente Richard Falk, relatore speciale dell'Onu per i diritti umani nei tenitori occupati, quando si definisce «entità terrorista» una zona popolata da un milione e mezzo di esseri umani si entra in una logica genocida.
L’aggressione israeliana a Gaza, come l'attacco al Libano nel 2006, s'inscrive nella guerra globale permanente e preventiva degli strateghi neoconservatori in forza a Tel Aviv, e per poco ancora, alla Casa Bianca. Come il significato indica, questa strategia è preventiva, non ha bisogno di pretesti immediati e tangibili: l'occidente democratico sarebbe minacciato da un nemico globale, che prima è stato definito «terrorismo internazionale», poi «terrorismo islamico» per diventare infine semplicemente l'Islam. Lo «scontro di civiltà» di Huntington non è una descrizione della realtà politica internazionale, ma il quadro ideologico della strategia offensiva dei neoconservatori americani e israeliani, per com'è stata elaborata di comune accordo dalla seconda metà degli anni '80. In questa strategia di guerra, la minaccia islamica ha sostituito quello che è stato il pericolo comunista durante la guerra fredda: un nemico globale che giustifica una guerra globale.
Se il bombardamento criminale di Gaza gode in Israele di un sostegno consensuale, se la sinistra istituzionale, e in particolare il partito Meretz, si è unita al coro di guerra diretto da Ehud Barak, è appunto perché condivide questa visione del mondo che fa dell'Islam una minaccia esistenziale che bisogna imperativamente neutralizzare prima che sia troppo tardi.
All'orrore per questo crimine bisogna aggiungere quello per l'abiezione delle sue motivazioni contingenti: in meno di due mesi si svolgeranno in Israele le elezioni generali, e le vittime palestinesi sono anche argomenti elettorali. I martiri dell'attacco israeliano su Gaza sono oggetto di una gara mediatica tra Ehud Barak, Tsipi Livni ed Ehud Olmert, fra chi sarà il più determinato nella brutalità. Il criminale di guerra che dirige il Partito laburista, o piuttosto quel che ne resta, si vantava ieri mattina di aver guadagnato quattro punti nei sondaggi.
Oltre al cinismo senza limiti di barattare 350 vittime palestinesi innocenti contro qualche decina di migliaia di voti, Barak mostra, una volta di più, la sua miopia politica: nel crescendo di bestialità, e malgrado tutti gli sforzi, non riuscirà mai a superare Benjamin Netanyahu, gli elettori preferiscono sempre l'originale alla copia. Tanto più che il guerrafondaio si trova oggi di fronte allo stesso problema di colui che ha trasformato la guerra del Libano nel fiasco israeliano, un problema ben noto a tutti quelli che hanno iniziato le guerre coloniali: come porvi termine?
«Ci fermeremo solo dopo aver finito il lavoro», egli dichiara con l'arroganza dei capetti. Ma quando sarà finito «il lavoro»? Quando la popolazione di Gaza e di Cisgiordania accetterà di capitolare di fronte ai sogni coloniali dei dirigenti israeliani e limitare le sue aspirazioni nazionali a uno «Stato palestinese» ridotto a una decina di riserve isolate le une dalle altre e circondate da un muro?
Se tale è il «lavoro» che Barak spera di poter realizzare, il popolo israeliano deve allora essere pronto a una guerra che non solo sarà estremamente lunga ma anche interminabile. E se lo Stato ebraico è ben attrezzato per le guerre-lampo (blitz krieg, in tedesco), soprattutto quando queste sono condotte dall'aviazione, entra rapidamente in crisi quando si tratta di una prova di resistenza in cui i palestinesi, come tutti gli altri popoli vittime della repressione coloniale, sono maestri.
Questo spiega perché meno di una settimana dopo il suo inizio, e malgrado le dichiarazioni trionfalistiche dei politici e dei militari, l'aria in Israele sta già cominciando a cambiare. Sabato scorso, qualche ora dopo il bombardamento di Gaza, eravamo poco più di mille persone a manifestare, spontaneamente, la nostra rabbia e la nostra vergogna. Ma saremo molti di più il prossimo sabato sera a esigere sanzioni internazionali contro Israele, a esigere che Ehud Barak e soci siano tradotti davanti a una corte di giustizia internazionale. Ne sono convinto.

* Portavoce del Centro d'Informazione Alternativa a Gerusalemme, autore di Israele-Palestina, la sfida binazionale (Edizioni Sapere, 2000)

LIBERATE GLI OSTAGGI DEI POLITICI DEL TERRORE 

di Gadi Algazi*

Ci risiamo: un nuovo round di uccisioni, senza pompa e fanfare, ma con una mandria di orgogliosi contabili di cadaveri («il bilancio è ancora positivo, ci sono più morti dalla loro parte», ci assicurano i commentatori). La tv israeliana ci suggerisce di non guardare le immagini orripilanti trasmesse da Al-Jazeera. Non dovreste guardare agli effetti, i feriti, i parenti e i bambini; gli ebrei non devono condividere le emozioni degli arabi, non dovreste pensare alle sofferenze o al futuro. Il «colpo finale» porterà il suo contraccolpo.
Da Kadima al Labor, da Olmert a Barak, tutti raccomandano di non pensare nemmeno al passato, a quello che è stato prodotto dai precedenti bombardamenti della seconda guerra del Libano (luglio 2006, primo ministro: Ehud Olmert, pubbliche relazioni: partito del Labor), dall'«operazione responsabilità» del 1993 (capo dello stato: Ehud Barack), e dall'operazione «grappoli di collera» del 1996 (ministro degli esteri: Ehud Barack). Tutte erano «risposte adeguate», attuate col fuoco e col sangue, «una volta per tutte»: ma hanno portato, ogni volta, al round successivo.
L'esplosione era prevedibile. I mesi di cessate il fuoco, la Tahdi'a [tregua in arabo, ndr], non hanno tolto l'assedio da Gaza, non hanno colmato la mancanza di matite, cibo e libri per i bambini, quella di combustibili e di elettricità per le famiglie. Quelli che hanno tormentato i residenti della Striscia, in modo che la loro sofferenza potesse «esercitare pressioni sulle loro leadership», hanno commesso terrorismo di stato contro i civili.
Questi mesi di terrorismo israeliano hanno solamente portato la disperazione a Gaza, hanno vitalizzato coloro che promettono la liberazione attraverso la forza delle armi, e hanno rafforzato l'idea che l'unica via d'uscita dal terrorismo sia il contro-terrorismo, esacerbando la sofferenza dei residenti israeliani di Sderot, a cui si aggiungono quelli di Ashkelon, Netìvot e i loro vicini, tutti minacciati direttamente. Persino ora che il grido di vendetta si fa sentire dappertutto, è necessario dire: gli aeroplani che bombardano Gaza non garantiranno la pace e la tranquillità a Sderot, Netìvot e Ashkelon. Queste bombe che spargono terrore e morte in tutta la Striscia mentre i bambini che escono dalle scuole si affollano nelle strade, no, non porteranno la tranquillità.
Al contrario, i poveri e gli oppressi di questa terra, i residenti affamati di Gaza e quelli della periferia israeliana - che contro il loro volere sono stati trasformati nella «cintura di sicurezza» dell'occupazione - tutti costoro, arabi e ebrei, sono tenuti in ostaggio da politici spregiudicati, che non risparmieranno le loro vite. Sfruttano la miseria civile per giustificare la miseria e la morte che portano ad altri. Al termine di questa ondata di uccisioni si terranno dei colloqui «indiretti», e dei cinici politici raggiungeranno «accordi». Né intese, né soluzioni, solo accordi temporanei, mentre si corre al riarmo per lo scontro successivo. Accordi vaghi, che consentiranno a quelli che tengono le mani sul grilletto di provocare un'esplosione in qualsiasi momento. Fin quando resteremo nelle mani di tali «managers» della sicurezza non potremo vivere in pace, e non potremo immaginare una vita diversa, libera dalla minaccia costante.
Due popolazioni nella nostra terra sono ostaggio dei politici della morte. Ma non lo sono negli stessi termini. Le vite degli arabi contano molto meno di quelle degli ebrei, ma anche tra gli ebrei ci sono gerarchie, e ci sono vite ebraiche che «non contano». Non a caso i poveri di entrambi i popoli, i reietti, quelli che, dalla prospettiva dei potenti, «non contano», sono mandati a fare la parte degli ostaggi e della carne da macello. Perché la guerra dei politici è la cinica guerra dei mercanti di morte e delle élite del capitale, i ben protetti privilegiati, mentre i popoli - entrambi - combattono per loro.

* Docente di storia all'Università di Tel Aviv

NON E’ IL FANATISMO.
E’ LA VITA NEL GHETTO A RAFFORZARE HAMAS 

Il regsita Udi Aloni risponde alla cantante Achinoam Noa

La cantante israelo-americana Achinoam Noa ha scrìtto una lettera aperta «ai miei amici palestinesi», apparsa sulla stampa e sul sito Ynet-news: «Il fanatismo, qualunque sia la sua origine, ma soprattutto quello del movimento integralista palestinese Hamas al potere nella Striscia di Gaza, è in questo momento l'unico e vero nemico che israeliani e palestinesi hanno in comune».

Le ha risposto il regista israelo-americano Udi Aloni il quale, sullo stesso giornale, ha scritto una risposta «personale» alla cantante di Shalom Shalom. «Scrivi 'so dove è il vostro cuore. Insieme al mio, coi bambini, con la musica, con la speranza'. Ma noi ci siamo presi la loro terra e li abbiamo imprigionati nella striscia di Gaza. Abbiamo riempito i loro cieli di bombardieri, che si muovono come angeli della morte distribuendo a caso il loro carico fatale. Di che speranze parli? Abbiamo distrutto ogni possibilità di moderazione e vita insieme nel momento in cui abbiamo fatto bottino della loro terra mentre sedevamo insieme al tavolo del negoziato. (...) Volevano la terra data a loro dagli organismi internazionali e noi abbiamo tirato diritto, siamo andati avanti perché Dio è dalla nostra parte. (...) Quando il mondo occidentale fallisce e la moderazione è vista come una debolezza, il fanatismo religioso dà un senso di forza, di potenza. (...) La gente normale, i laici a Gaza trovano difficile parlare contro Hamas quando il loro ghetto è bombardato tutto il giorno e tutta la notte. Probabilmente dirai che 'non li bombarderemmo se tenessero a freno i loro razzi, ma loro sparano perché stanno lottando per qualcosa di più del diritto di vivere nella prigione di Gaza. Loro stanno combattendo per il diritto di vivere come liberi cittadini in un paese indipendente. Proprio come facciamo noi».

 

PERCHE’ NOI EBREI SIAMO ANDATI E ANDREMO ALLE MANIFESTAZIONI 

di Ester Fano, Sveva Haerter, Claudio Trves*

Non andare al corteo per la Palestina che si è svolto a Roma sabato scorso, per chi come noi per anni si è speso in prima persona per una pace giusta in Israele e Palestina, era praticamente impossibile.
In piazza, fin dal primo momento, ci siamo sentiti abbastanza a disagio perché, tra slogan e striscioni, prevalevano quelli che richiamavano la Jihad, le organizzazioni islamiche, i cartelli con stelle di David equiparate a svastiche, e così via. Nonostante il disagio siamo rimasti fino alla fine del corteo, perché il motivo di tutto questo è chiarissimo ed è il vuoto politico intorno alla questione palestinese che dall'inizio della seconda Intifada non fa che crescere costantemente sia in Italia che altrove.
Di fronte a quello che sta succedendo - e che nessuno si lamenti di un uso «propagandistico» delle immagini dei bambini morti, fino a quando c'è chi ne fa strage - chiediamo chi altro era visibilmente in piazza. E che qualcuno risponda se può.
Che risponda quella sinistra che ha apprezzato il «valore» del ritiro unilaterale da Gaza, come se non fosse stato ovvio che non poteva che produrre isolamento, assedio e crisi umanitaria in quel fazzoletto di terra in cui sono stipati 1,5 milioni di persone senza alcuna via di fuga e che questo avrebbe via via condotto anche alla delegittimazione dell’Anp e alla vittoria di Hamas. Che risponda chi parla di equilibrio e di equidistanza di fronte ad un'azione di guerra - più sporca che mai - come quella cui stiamo assistendo.
Abbiamo scritto dell'inopportunità di evocare la Shoah nel contesto del conflitto israelo-palestinese, ma di fronte alla teoria che ogni edificio, non importa se scuola, ospedale, moschea o di un'istituzione internazionale, può diventare «ricettacolo di terroristi» ergo bersaglio da abbattere, come non rabbrividire constatando che si sono assunti gli stessi criteri usati per ogni esecuzione di massa? Che risponda chi parla di autodifesa da parte di Israele.
C'è ancora qualcuno disposto a costruire una mobilitazione ampia e partecipata, sulla base di parole d'ordine chiare e condivise che condannino con nettezza questo massacro, l'inettitudine del governo italiano e della comunità internazionale, che dica finalmente che 2 popoli - 2 stati significa innanzitutto un trattato di pace definitivo tra Israele e l'Anp, con contestuale risoluzione dei 3 nodi irrisolti (definizione dei confini, ritorno dei profughi, statuto di Gerusalemme), ma anche non ingerenza nelle rispettive vicende interne, pur constatando con angoscia che il fanatismo procede a passi da gigante in entrambi??
Speriamo di sì e speriamo che si faccia vivo presto, anche se probabilmente è già tardi. Nel frattempo, visto che non abbiamo molta scelta, continueremo a partecipare alle manifestazioni che ci sono, anche provando disagio, magari con un groppo in gola, perché crediamo che quel disagio sia un lusso che oggi nessuno si può permettere. Soprattutto a sinistra.

* Ebrei contro l’occupazione

QUELLO CHE GLI ATTACCHI ISRAELIANI NASCONDONO 

di Jeff Halper*

Cerchiamo di essere cristallini. I pesanti attacchi a Gaza compiuti in questi giorni da Israele hanno uno scopo chiaramente irraggiungibile, in contrasto con le azioni messe in atto: la gestione del conflitto. Metter fine agli attacchi missilistici contro Israele, provenienti da una Gaza assediata e affamata, senza esaurire la rabbia che proprio per quegli attacchi si scatena. E ancora, metter fine agli attacchi missilistici contro Israele, con un'occupazione sempre più oppressiva, che va avanti da 41 anni, senza il minimo segnale che un futuro stato sovrano della Palestina potrà mai sorgere.
Infatti l'occupazione - tramite la quale Israele controlla Gaza stringendola in un assedio brutale, che viola i diritti umani fondamentali e le normative internazionali - non è neanche menzionata nella campagna presidenziale.
Parlando alla comunità internazionale, la ministra degli esteri israeliana Tzipi Livni insiste che nessun paese tollererebbe un attacco armato contro i propri cittadini. Un'affermazione apparentemente condivisibile, se non fosse per le sanzioni israeliane a Gaza, appoggiate dagli Usa e dall'Europa - sanzioni che precedono il lancio di missili su Israele - e se non fosse, inoltre, per l'occupazione israeliana.
Se si concentra l'attenzione soltanto sugli attacchi missilistici, si nasconde la realtà della scena politica che li ha generati: «II governo di Hamas a Gaza deve essere rovesciato», ha ripetutamente affermato Livni. «I mezzi per farlo devono essere militari, economici e diplomatici».
Ma la responsabilità per la sofferenza a Gaza e in Israele è da attribuire direttamente ai governi israeliani che si sono succeduti: del Labour, del Likud e di Kadima. Se ci fosse stato un reale processo politico (è da ricordare che la chiusura di Gaza cominciò nel 1989), israeliani e palestinesi avrebbero potuto vivere insieme in pace e in prosperità per vent'anni. Dopotutto, già nel 1988 l'Olp aveva accettato la soluzione dei due stati, secondo la quale lo stato della Palestina sarebbe sorto dal solo 22 per cento del territorio storico palestinese, mentre il restante 78 per cento sarebbe andato ad Israele. Un'offerta decisamente generosa.
Israele, tuttavia, si sforza di nascondere la sua preferenza per il controllo, piuttosto che per la pace. Presentare i propri attacchi come una risposta ai missili da Gaza, sfruttare la rabbia del momento per nascondere le intenzioni più profonde e le politiche effettive, tutto ciò va letto in questa luce. Anche la violazione del cessate il fuoco da parte di Israele passa in secondo piano.
Il fatto che gli attacchi missilistici potevano essere evitati attraverso un serio processo politico significa che la popolazione del sud di Israele è tenuta in ostaggio dal suo proprio governo. La sua sofferenza, così come la sofferenza delle popolazioni di Gaza e del resto dei territori occupati, deve essere ascritta senza indugi al governo di Israele.
Israele non può aspettarsi la sicurezza dei suoi cittadini e la normalizzazione politica finché prosegue a tenere sotto occupazione le terre palestinesi e finché persevera nel tentativo di imporre il suo governo permanente sui palestinesi attraverso la forza militare.
Ci appelliamo al governo israeliano affinché cessi immediatamente le sue aggressioni e avvii un reale negoziato politico con l'unione delle forze palestinesi.
Chiediamo alla comunità internazionale di porre immediatamente termine alle sanzioni a Gaza nel rispetto delle leggi internazionali, di iniziare un effettivo processo politico che metta fine all'occupazione israeliana e porti a una pace giusta, che rifletta il volere delle popolazioni israeliane e palestinesi.

* Storìco pacifista israeliano, direttore del Comitato israeliano contro le demolizioni delle case (Icadh), che ha sede a Gerusalemme e sedi distaccate in Gran Bretagna e negli Usa

“SONO ISRAELIANA MA NON VOGLIO CALZARE L’ELMETTO” 

di Shulamit Aloni*

Intervista di Umberto De Giovanangeli**

Non tutto Israele ha calzato l'elmetto. Le grandi manifestazioni di sabato scorso ne sono la dimostrazione”. L'Israele che non crede nella «guerra giusta» si riconosce nelle parole della donna che incarna la storia del pacifismo israeliano: Shulamit Aloni, fondatrice di Gush Shalom («Pace Adesso»), più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Per le sue battaglie in difesa della laicità dello Stato, Aloni è stata ripetutamente minacciata di morte dai gruppi dell'estrema destra israeliana.
«Gaza - dice Aloni - non è il Regno del Male. Gaza è stata ridotta ad una immensa gabbia isolata dal resto del mondo. Il pugno di ferro non ha mai indebolito Hamas, ha solo alimentato la rabbia e il disperato desiderio di vendetta tra i giovani palestinesi».

A Gaza si combatte e si muore. I sondaggi dicono che la grande maggioranza degli israeliani approva l'offensiva militare.

«Fu così anche agli inizi della guerra in Libano. Poi sappiamo come andò a finire. Quella guerra disastrosa segnò l'inizio della fine politica di Ehud Olmert. Per un leader politico non è prova di lungimiranza cavalcare l'insicurezza e la paura promettendo un'illusione».

Quale illusione?

«Quella di garantire la sicurezza con la sola forza delle armi. Non si può essere al sicuro opprimendo un altro popolo. È il grande insegnamento lasciatoci in eredità da Yitzhak Rabin»
.
L'offensiva è stata motivata con la necessità, il dovere, oltre che il diritto, di difendere centinaia di migliaia di abitanti del Sud d'Israele dal lancio dei razzi dalla Striscia di Gaza.

«I preparativi di guerra, come si è vantato Ehud Barak (ministro della Difesa e leader del Partito laburista, ndr.) sono iniziati mesi prima, quando era ancora in atto la tregua mediata dall'Egitto. Lungi da me giustificare i razzi sul Sud del mio Paese: la violenza non libera i popoli, e i palestinesi non saranno l'eccezione. Ma come non vedere l'intreccio perverso tra guerra e politica? Tra l'offensiva di Gaza e le elezioni del 10 febbraio? Quando una leadership è in crisi di credibilità e di autorevolezza prova la carta militare. "Sradicherò il terrorismo. I terroristi hanno pochi mesi di vita...". Quanti fecero questa promessa! Ariel Sharon, Benyamin Netanyahu, lo stesso Barak, Olmert...Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una nuova guerra che sarà tutt'altro che risolutiva nella sconfitta dei gruppi estremisti palestinesi».

Olmert, Barak, Tzipi Livni ripetono: Israele non è in guerra contro il popolo palestinese ma contro Hamas?

«Non c'è un palestinese, neanche il più moderato, che lo creda. Come sempre è accaduto, quando la parola passa alle armi, le prime voci ad essere zittite sono quelle dei palestinesi che credono nel dialogo. Il consenso ad Hamas è anche il prodotto del fallimento della strategia negoziale, dell'unilateralismo che ha contrassegnato l'azione dei governi israeliani dal dopo Rabin ad oggi. Le armi non possono sostituire la politica, tanto meno in un Paese "che si vuole democratico, come Israele. Una leadership coraggiosa avrebbe rafforzato il processo di pace con l'Anp di Abu Mazen, avrebbe dato uno stop alla colonizzazione dei Territori, avrebbe operato gesti distensivi verso la popolazione palestinese, ad esempio riducendo il numero dei posti di blocco che spezzano in mille frammenti la Cisgiordania. Poteva essere fatto. Ma non lo è stato».

Shimon Peres, capo dello Stato d'Israele, ha affermato: Hamas ha bisogno di una lezione e noi gliela stiamo impartendo.

«La lezione che stiamo impartendo a un milione e 400mila palestinesi, è una lezione di morte. A questa lezione io mi ribello».

* Fondatrice di Gush Shalom (“Pace adesso”)

** L’Unità 6 gennaio 2009

STRALCI DELL'APPELLO «PACE IN PALESTINA»
FIRMATO DA ALI RASHID E MONI OVADIA  

Le immagini che giungono da Gaza ci parlano di una tragedia di dimensioni immani e le parole non bastano per esprimere la nostra indignazione... Gli obiettivi di pace, sicurezza e prosperità non passano attraverso l'uso della forza delle armi, ma attraverso l'adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa e l'avvio di un processo di riconoscimento reciproco, del dolore dell'altro in primo luogo, che è il primo passo verso la riconciliazione. Al contrario, ogni volta che ci si è avvicinati ad un compromesso accettabile, il ricorso scellerato alla violenza e all'assassinio premeditato, è servito a demolire ciò che si era pazientemente costruito... L'esito è stato l'incancrenirsi di una questione, quella palestinese, che ha avuto ed ha effetti destabilizzanti in tutta la regione ed anche oltre, diventando - come ebbe a definirla Nelson Mandela - «la questione morale del nostro tempo»... I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l'entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali... Per questo facciamo appello alle persone che amano la pace di fare tutto ciò che è nelle loro possibilità affinché vi sia l'immediato, totale, cessate il fuoco; la fine dell'assedio sulla Striscia e il rispetto delle istituzioni palestinesi democraticamente elette; l'intervento di una forza di pace internazionale sotto egida Onu in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza lungo i confini del '67; l'avvio di un negoziato...; la creazione di un comitato per la pace in Palestina, che superi i limiti che hanno caratterizzato le iniziative degli ultimi anni; iniziative su tutto il territorio italiano e la convocazione di una manifestazione nazionale al più presto.

PARLA UN REFUSENIK 

di Sveva Haerther

Peretz Kidron è un refusenik (soldato o membro della riserva che si rifiutano di servire nell'esercito israeliano). Lo abbiano raggiunto al telefono per chiedergli lo stato del movimento in un momento in cui, a quanto dicono i sondaggi, l'attacco militare contro Gaza gode di un alto indice di approvazione nell'opinione pubblica di Israele.

Cosa si muove in Israele rispetto a quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza?

Ci sono manifestazioni praticamente ogni giorno, anche davanti alla base dell'aviazione, in coincidenza con l'orario in cui prendono servizio i piloti. Non sono grandi, ma neanche piccole. L'esercito gode di un vasto sostegno dell'opinione pubblica, ma questo può cambiare da un momento all'altro. Quindi stanno molto attenti a come muoversi e cercano di evitare scontri diretti nelle strade. Anche le mobilitazioni a livello internazionale stanno producendo effetti: i portavoce dell'esercito sono sulla difensiva e cercano di spiegare passo dopo passo quello che succede, anche perché sono preoccupati delle ripercussioni future. In questo influisce anche il prossimo cambio della presidenza Usa. Obama non è Bush.

Sabato scorso a Tel Aviv c'è stata una manifestazione con tutte le varie realtà del movimento pacifista. Mi sembra un fatto rilevante anche per noi in Italia, dove sabato prossimo sono previste due manifestazioni nazionali in contemporanea..

La manifestazione di cui parli era davanti al ministero della Difesa. Non era grande, ma c'erano davvero tutte le realtà e il fatto rilevante è che non erano i «soliti noti», c'erano anche molti giovani. È importante lavorare per superare le divisioni e costruire mobilitazioni  più  ampie  possibili. L'unico modo è quello di lavorare su poche parole d'ordine unificanti e che rimettano al centro il merito di quello che sta succedendo, lasciando fuori le questioni politiche, problema anche nostro ovviamente, ma è molto importante fare il possibile per superarlo.

E sul fronte del rifiuto cosa succede?

Come sempre nelle fasi iniziali di un conflitto, la risposta è debole. Poi c'è anche il fatto che l'esercito tende ad evitare di mettere in prigione quelli che rifiutano di rispondere alla chiamata, perché sa che se li mettono in carcere aumenta la visibilità. Sono molto attenti all'aspetto mediatico, perché vogliono uscire con una vittoria netta, anche per via di quello che è successo in Libano. Vogliono umiliare Hamas, farli capitolare. Di fatto i vertici militari si stanno muovendo come in una guerra per bande, mettono al centro concetti come «dignità», «onore» etc. Dietro i principi enunciati, di fatto lo schema è assolutamente primitivo. Questo peraltro vale anche per Hamas ed in questo quadro è evidente che un intervento esterno è indispensabile.

Voi avete fatto qualche tentativo di sensibilizzare i militari?

Abbiamo provato a pubblicare a pagamento un appello che invitava a non commettere crimini di guerra, ma la stampa lo ha rifiutato. Anche Haaretz (il quotidiano di sinistra israeliano. Ndr). Il problema dell'informazione è gravissimo, a partire dal fatto che nella striscia di Gaza non sono ammessi giornalisti. Quello che sappiamo viene unicamente dai racconti dei palestinesi. Stiamo facendo il possibile per spostare l'attenzione sui crimini di guerra, con l'obiettivo di far intervenire un tribunale interrazionale. Interventi del genere, anche in altri paesi, sarebbero molto importanti. L’unico strumento efficace da questo punto di vista è la denuncia delle responsabilità individuai dei singoli ufficiali. Noi ci siamo mossi con i tribunali israeliani per fare pressione sull'esercito, arrivando fino alla Corte suprema, ma non abbiamo ottenuto risultati, mentre ce ne sono stati in altri paesi come la Spagna, l'Inghilterra, il Belgio.

Se la vostra legislazione lo consente, sarebbe importante provarci anche in Italia. La questione di una legislazione internazionale sui diritti umani e contro i crimini di guerra sta guadagnando spazio, è una possibilità che va sfruttata. Per altro in questo schema rientra anche Hamas. Anche loro attaccano civili. Se da voi ci fossero avvocati disposti a muoversi in questo senso, sarebbe un fatto importante e utile, che per altro aiuta anche a rimettere al centro le questioni di merito. I nostri tentativi hanno dimostrato che qui in Israele non ci sono le condizioni per ottenere dei risultati e quindi, dato che il nostro sistema si è rivelato inefficace, è legittimo che si avviino procedimenti in altri paesi. Le eventuali condanne sarebbero un problema reale per l'esercito, perché l'ingresso in quei paesi delle persone condannate, porterebbe all'arresto. È un'area di intervento specifico che può avere molti più effetti di qualche slogan politico. Se in Italia ci fosse qualcuno disposto a muoversi in questo senso, siamo pronti a mettere a disposizione i materiali che abbiamo raccolto.

E’ RIPUGNATE IL RAPPORTO DI 1 A 100 TRA LE VITTIME 

di Roberto Della Seta*

Sono amico di Israele, ma mi dissocio dall'iniziativa parlamentare a sostegno di «Piombo fuso». Nel maggio scorso ho aderito all'Associazione parlamentare di amicizia Italia-Israele. L'ho fatto perché sento verso lo Stato d'Israele un forte legame di vicinanza, sul piano affettivo come su quello culturale. E perché ritengo utile testimoniare anche politicamente tale legame: sostenendo il diritto di Israele all'autodifesa contro gli attacchi missilistici che subisce da Hamas, contrastando i tanti pregiudizi anti-israeliani, talvolta apertamente anti-ebraici, presenti in settori non irrilevanti dell'opinione pubblica e anche in mondi a me vicini come quelli della sinistra e del pacifismo.
Qualche giorno fa ho ricevuto una email dai coordinatori dell'Associazione, che invitavano deputati e senatori a una «maratona oratoria» di sostegno al governo di Gerusalemme e all'azione militare in corso a Gaza, oggi a Piazza Montecitorio. Né io né altri parlamentari dell'Associazione eravamo stati consultati sull'eventualità di promuovere questa iniziativa, e per quanto mi riguarda me ne dissocio radicalmente.
Non approvo, anzi considero sbagliata politicamente e moralmente inaccettabile, la condotta scelta dal governo di Gerusalemme per «Piombo fuso», che sta mietendo centinaia di vittime innocenti tra la popolazione di Gaza. Nessun obiettivo, per quanto buono e giusto, può resistere nella sua legittimità alla scelta di strumenti del tutto illegittimi per raggiungerlo: perché anche gli strumenti sono fatti e il rapporto di uno a cento, forse tra qualche giorno di uno a mille, tra le vittime civili dei missili di Hamas e quelle dei bombardamenti di Tsahal, è fatto oggettivamente ripugnante, e qualifica «Piombo fuso» come una rappresaglia che reca molti tratti del crimine di guerra.

* deputato Pd

LE ARMI MICIDIALI (ED ILLEGALI) DI TSAHL 

I DIME.
QUELLE ARMI ILLEGALI CHE DEVASTANO I CORPI  

di Massimo Zucchetti*

Davanti al massacro di una popolazione civile di un milione e mezzo di abitanti rinchiusa in un lager a cielo aperto, quando il numero di vittime ha raggiunto (14 gennaio ore 16:00, ormai bisogna datare queste affermazioni) la cifra di 980 palestinesi, di cui 284 bambini, 100 donne e 4080 feriti, può risultare forse irrilevante disquisire su quali armi siano state usate da Israele per compiere una simile strage.
Comunque, a parte l'utilizzo di bombe all'uranio impoverito sul quale non ci sono fonti attendibili, è invece assodato l'utilizzo da parte dell'esercito israeliano di bombe Dime (Dense Inert Metal Esplosive). Si tratta di un tipo innovativo di bomba, con una testata di fibra di carbonio e resina epossidica integrata con acciaio, e che fa uso di tungsteno. Queste armi hanno un enorme potere esplosivo, ma che si dissipa molto rapidamente: il raggio interessato non è molto lungo, forse dieci metri; le persone travolte da questa esplosione, dall'onda d'urto, vendono letteralmente tagliate a pezzi. E stata concepita proprio per uno scenario di guerriglia urbana perché consentirebbe - nella delirante logica militarista - di colpire obiettivi mirati.
Quest'arma non è una novità: è stata già usata in Libano e a Gaza nel 2006. Le ferite che si vedono oggi all'ospedale Shifa di Gaza rendono assodato che sia stato fatto largo uso di armi Dime da parte degli israeliani in questa guerra. Di Dime avevano già parlato Masella e Torrealta di Rai-News24 nel 2006 (http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=3469).
Invito i lettori a guardare alcune delle foto disponibili su internet per capire quali effetti producano queste bombe Dime. Ad esempio la mia vecchia presentazione in http://staff.polito.it/massimo.zucchetti/Nuovearmi.pdf .
Vi è anche la questione, che in questo momento pare secondaria visto quanto succede, ma che va comunque citata, che a lungo termine queste armi avranno sui sopravvissuti un effetto cancerogeno. Inglobare schegge o respirare micropolveri di tungsteno, metallo pesante, non potrà che provocare nella popolazione che vive nei dintorni un aumento della frequenza di insorgenze tumorali. Su questo sono state fatte ancora relativamente poche ricerche, ma ce ne sono alcune, condotte anche negli Stati uniti, che mostrano che queste armi hanno una tendenza molto alta a provocare il cancro. Così chi non resta ucciso sul colpo rischia di ammalarsi di tumore.
Per quanto riguarda la questione del bombe al fosforo bianco, si sta ripetendo lo stesso balletto che si ebbe quando queste armi incendiarie, di distruzione di massa, proibite, vennero usate a Falluja in Iraq dagli Usa. Si giustificò il loro utilizzo asserendo fossero solo «bombe illuminanti» e non incendiarie: infatti le prime sono permesse, le seconde sono proibite.
Le testimonianze di medici di ospedali palestinesi sulla crescente presenza di ustionati gravissimi da fosforo bianco si moltiplicano, le foto di «strisce» delle bombe al fosforo nei cieli di Gaza non mancano. Anche l'organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha accusato le forze israeliane di avere fatto uso di munizioni al fosforo bianco, accertato dai ricercatori di Hrw nel corso dei bombardamenti del 9 e 10 gennaio scorso sul campo profughi di Jabaliya. «Sono bombe illuminanti, ma un po' di fosforo nelle munizioni c'è»: questa è la prima ammissione, arrivata lunedì da una fonte israeliana citata dalla Radio svizzera italiana, sull'uso di bombe al fosforo bianco, le micidiali «Willy Peter» come vengono chiamate nel gergo militare dalle iniziali di «whitephosphorus». Citiamo Sting? «It's a lie we don't believe any more». Oppure diciamo per prudenza che accertamenti più definitivi si potranno fare una volta che a Gaza - quello che ne rimarrà - si potrà entrare senza essere bombardati, possibilmente.
Comunque, per quello che può valere il diritto internazionale dopo quanto sta succedendo, queste sono armi sperimentali di tipo chimico, vietate dalle Nazioni unite. È importante affermare con forza che quanto sta succedendo a Gaza è contro il diritto internazionale, è contro l'umanità, è contro tutto ciò che significa essere persone dotate di senso morale.
Ma porrei ancora, da scienziato responsabile, mettere su un piano separato i soldati israeliani, che fanno in fondo un loro mestiere, sebbene orribile, da quanti queste armi hanno studiato e messo a punto: la ricerca sulle Dime, ad esempio, è stata condotta dal US Air Force Research Laboratory in collaborazione con il Lawrence Livermore National Laboratory (Lini) americano. Nel 2007, sono stati spesi oltre 40 milioni di dollari per lo sviluppo di queste bombe dal governo USA. Invito a vedere anche il sito militare (http://defense-update.com/products/d/dime.htm).
In ultimo: chi scrive aveva organizzato un workshop internazionale sull'inquinamento all'Università di Gaza, cui dovevano partecipare scienziati di diversi paesi, inclusi forse anche alcuni colleghi israeliani. Ma l'Università di Gaza è chiusa, e non per ferie: chissà se ne esisterà più una in futuro?

* Professore al Politecnico di Torino e membro del Comitato scienziate e scienziati contro la guerra

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