FATTI DI GENOVA:
CHIESTI 2 ANNI E TRE MESI PER POLIZIOTTO CALCIATORE”  

 Il Pm di Genova Francesco Albini Cardona ha chiesto la condanna a 2 anni e 3 mesi di reclusione per Alessandro Perugini, all'epoca dei fatti genovesi del G8 vice capo della Digos di Genova e subito dopo promosso vice questore per meriti “calcistici”. Il funzionario di polizia era stato ignomignosamente immortalato da diverse foto mentre, dopo aver preso l’adeguata rincorsa, sferra un calcio a un minorenne di Ostia, già a terra e con il volto tumefatto. Il pm ha chiesto la stessa pena per Antonio Del Giacco, 2 anni e 1 mese per Sebastiano Pinzone e 1 anno e 8 mesi ciascuno per Enzo Raschellà e Luca Mantovani, tutti agenti di polizia, facenti parte della stessa banda di Stato che ha aggredito il giovane. Il ragazzo, Marco Mattana, all'epoca minorenne, fu picchiato in corso Barabino e subì diversi traumi e ferite ad un occhio ed alle palpebre. Perugini, per sua fortuna, non è più accusato di lesioni nei confronti di Marco Mattana, poiché questi ha ritirato la querela dopo aver ottenuto un indennizzo.
In una lunga dichiarazione letta in aula, Perugini, pur di fronte all’evidenza delle immagini, ha avuto la faccia tosta di affermare di non averlo colpito.
Perugini ha poi sfiorato la comicità, sostenendo che lui e gli altri quattro poliziotti picchiatori avevano come obiettivo “di dare un contributo perché il vertice si svolgesse nel modo migliore”. Una dichiarazione che si commenta da sola, vista la pericolosità di un minorenne disarmato, pestato a sangue e già a terra quando lo stesso Perugini ha cominciato a prenderlo a calci.
Non va dimenticato che il 14 luglio 2008 lo stesso Alessandro Perugini, l’ufficiale di polizia con il grado più elevato presente nella caserma-lager di Bolzaneto, era stato condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione per il reato di abuso di autorità contro gli arrestati.

CASO ORLANDI:
EX BOSS DELLA MAGLIANA
COLLABORA CON I MAGISTRATI  

Nuove testimonianze, anche se da prendere con le molle, nel caso di Emanuela Orlandi, la ragazza quindicenne figlia di un funzionario del Vaticano, scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983. Un mistero lungo 25 anni, che dal giugno scorso riserva clamorose, quanto poco credibili, novità: prima la testimonianza contraddittoria di Sabrina Minardi, ex amante del boss della Banda della Magliana Renatino De Pedis, che ha raccontato di come la ragazza fu rapita e uccisa per fare un favore in Vaticano. Poi il ritrovamento di una Bmw sospettata (ma le indagini sono ancora in corso, anzi la polizia ha disposto un supplemento di analisi) di essere stata l'auto su cui Emanuela fu portata via. E adesso il nuovo capitolo di un'inchiesta rivelato dal settimanale scandalistico "Visto".
"Dalla Questura di Roma - scrive "Visto" - non arrivano dichiarazioni ufficiali, ma ci sono almeno due nuovi testimoni che stanno fornendo elementi utili e soprattutto conferme e smentite, ma soprattutto conferme, a quanto dichiarato dalla Minardi. Di uno, la polizia non fornisce alcun dettaglio. Dell'altro, si sa che è Raffaele Pernasetti, ex boss della Magliana attualmente all'ergastolo per quattro omicidi, detto "palletta", perché grassottello, "il Presidente", perché in passato ha presieduto una piccola squadra di calcio a Testaccio, ma soprannominato anche "la pistola di De Pedis", vale a dire il braccio armato del boss scomparso nel 1991 e amato dalla Minardi".
Stando a quanto pubblica "Visto", "Pernasetti parla, collabora, fornisce i dovuti riscontri, pare anche in seguito al ritrovamento dell'auto che la Banda della Magliana avrebbe utilizzato per rapire la Orlandi. Un ritrovamento che ha smosso le acque in Questura e nel giro di chi sa qualcosa del giallo Orlandi. La stessa Minardi, in lotta con gli investigatori per ottenere un programma di protezione che possa difenderla da chi ha interesse a tapparle la bocca una volta per tutte, è parsa sollevata e incoraggiata dal ritrovamento dell'auto e ha chiesto di essere ascoltata ancora una volta per dire tutto quello che sa".
Fernando Imposimato, l'ex magistrato che del caso Orlandi si è occupato a lungo e che ora assiste la famiglia della ragazza, autore del libro "Vaticano, un affare di stato" di fronte a queste presunte novità afferma: "Ho paura che questo caso non si risolverà mai. Troppi anni. E troppi misteri. Secondo me si continua a ignorare la pista regina che si nasconde dietro il sequestro: quella del sequestro organizzato dai Paesi dell'Est per colpire o ricattare il Vaticano. Che poi l'impresa sia stata affidata o meno alla Banda della Magliana non cambia molto le cose. Aggiungo che rimane qualche dubbio sulle dichiarazione della Minardi. Ha detto che il corpo della Orlandi sarebbe stato gettato insieme a quello di un ragazzino di undici anni, Domenico Nicitra, ucciso perché figlio di una fazione rivale a quella di De Pedis. Ma i tempi non quadrano, perché Nicitra scomparve ben dieci anni dopo la Orlandi, nel 1993".

CASO ORLANDI (2): ABBATINO: LA BANDA MAGLIANA NON C'ENTRA NULLA  

"Sono sicuro che la Banda della Magliana non c'entri niente con il caso Orlandi. Abbiamo fatto un sacco di cose orrende e gravi, non credo che mai nessuno sia arrivato a sequestrare una ragazzina".
A rivelarlo è Maurizio Abbatino, uno dei capi storici dell'organizzazione criminale, intervistato in Italian Tabloid - I segreti della Banda della Magliana, lo speciale della serie La storia siamo noi di Giovanni Minoli, andato in onda su Raidue.
Sembra che la Magliana – ha aggiunto Abbatino - sia diventata una discarica: per tutto quello di cui non si riesce o non si vuole venire a capo si incolpa la Banda della Magliana".

MAFIA:
EX MINISTRO CALOGERO MANNINO
ASSOLTO DOPO 14 ANNI  

Nuova sconfitta della procura di Palermo, all’epoca guidata da Giancarlo Caselli, nella lotta ai rapporti mafia-politica. Dimostrazione, ancora una volta evidentemente necessaria, che i processi si fanno con le prove e non con i teoremi giudiziari.
L’ultima sconfitta riguarda il senatore ed ex ministro Calogero Mannino (Udc) che era accusato di avere intrecciato rapporti con Cosa Nostra, traendo profitto dall'appoggio di alcuni boss. Gli elementi che i pm hanno prodotto in 14 anni di indagini non sono stati sufficienti a dimostrare l'accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa” dalla quale Mannino è stato assolto.
La corte d'Appello ha infatti confermato la sentenza emessa dal tribunale del 2001 che assolveva l'ex ministro Dc. Una vicenda giudiziaria lunga e tormentata. L'inchiesta fu avviata all'inizio del 1994, quando i pm della procura di Palermo guidati da Giancarlo Caselli, gli stessi che avevano accusato Giulio Andreotti dello stesso reato, notificarono a Mannino un avviso di garanzia; l'anno successivo Mannino venne arrestato e rimase in carcere per 23 mesi. Da allora è stato un susseguirsi di processi e sentenze (quattro tra primo, secondo grado, Cassazione, e nuovo rinvio alla corte d'Appello, che ha dovuto anche sospendere il dibattimento in attesa di una pronuncia della Corte Costituzionale).
Il verdetto di primo grado venne ribaltato in appello e l'imputato fu condannato a 5 anni e 4 mesi nel maggio 2004. La sentenza fu poi annullata dalla Cassazione nel luglio 2005 per ''difetto di motivazione'' e rinviata ad altra sezione della Corte di Appello.
Il processo a Mannino è ruotato attorno ad alcune vicende, ritenute fondamentali dal Pg Vittorio Teresi: il pranzo alla Taverna Mosè, in cui l'ex ministro partecipò assieme a un gruppo di ufficiali medici e a due boss, e le nozze fra Maria Silvana Parisi e Gerlando Caruana, figlio del boss di Siculiana. Nell'atto d'accusa figuravano anche i presunti rapporti con gli esattori Salvo. L'accusa ha parlato anche di un accordo elettorale che Mannino avrebbe stipulato nel 1980-81 con un esponente mafioso della famiglia agrigentina di Cosa nostra, Antonio Vella. Il riferimento è ad un presunto incontro in casa di Mannino, di cui sarebbe stato testimone il “pentito” Gioacchino Pennino, medico mafioso di Brancaccio ed ex Dc di area cianciminiana.
Tutte accuse che non hanno retto al secondo vaglio della corte d'Appello.
''Valuteremo solo dopo avere letto le motivazioni se ricorrere in Cassazione'' ha commentato il sostituto procuratore generale, Vittorio Teresi, che ha sostenuto l'accusa nel processo.

FRATELLINI DI GRAVINA:
FINALMENTE SCAGIONATO IL PADRE  

Quando si dice la lentezza della giustizia italiana. Otto mesi per un semplice atto dovuto e l'applicazione di una formula di proscioglimento evidente anche ad un cieco.
"Non ci sono elementi sufficienti a sostenere l'accusa a dibattimento". Con questa frase il pm di Bari Antonino Lupo ha chiuso, con una richiesta di archiviazione, due anni di indagini disastrose e fallimentari su Filippo Pappalardi che ha trascorso 130 giorni agli arresti con l'accusa infamante di aver ucciso e nascosto i corpi dei figli, Ciccio e Tore, di 13 e 11 anni, mentre tentava di dar loro una punizione esemplare.
I ragazzi, si scoprì quando furono trovati i cadaveri venti mesi dopo la loro scomparsa, erano morti di fame, di sete e di freddo, cadendo accidentalmente, forse mentre giocavano, nella cisterna interrata di un vecchio palazzo disabitato della loro città, Gravina in Puglia (Bari), lo stesso giorno della scomparsa, il 5 giugno 2006.
Dopo il ritrovamento dei cadaveri (il 25 febbraio 2008), l'indagine, che già poggiava su sospetti ancora più che su indizi, ha subito un colpo dopo l'altro, fino a quando si è sgretolata, facendo emergere le evidenti carenze investigative della procura barese, che a carico dell'indagato - come ha scritto la Cassazione annullando il provvedimento di arresto per omicidio - non era riuscita a trovare né le prove, né un movente. Insomma, Pappalardi, tornato libero a furor di popolo il 4 aprile 2008, è stato l'ennesima vittima di un errore giudiziario, ammissione questa che il pm Lupo fa nella sostanza, consegnando al gip Giulia Romanazzi la richiesta di archiviazione.
Era stato proprio il pm Lupo il principale accusatore di Pappalardi e nell'impostazione del suo inconsistente teorema accusatorio era stato appoggiato dal procuratore Emilio Marzano. Furono i due, il 27 novembre 2007, ad ottenere dal gip Giuseppe De Benedictis il provvedimento di arresto, poi confermato (il 13 febbraio 2008) dal tribunale del Riesame (presidente Angela Nettis, a latere Alessandra Piliego e Giovanni Anglana) dopo una breve camera di consiglio. Sei magistrati, quindi, si erano clamorosamente sbagliati.
Ora che l'incubo di Pappalardi è finito, il suo legale, l’avv. Angela Aliani, oltre a preparare una richiesta di risarcimento danni per ingiusta detenzione (circa tre mesi in carcere e uno ai domiciliari) che forse toccherà la cifra massima di 516 mila euro, sta valutando se chiedere i danni che le indagini, compiute dalla squadra mobile, hanno provocato alla famiglia dell'indagato.
Tra quanti hanno provocato danni eneormi alla famiglia Pappalardi c'é inevitabilmente - a giudizio del legale - la procura di Bari: "Quando sono stati trovati i cadaveri dei fratellini - denuncia l'avv. Aliani - i pm hanno negato a Pappalardi di vedere i suoi figli, cosa che è stata fatta anche per i nonni e per gli zii che avevano cresciuto i piccoli: ha fatto ciò che si fa quando si ha a che fare con i peggiori delinquenti".

GIALLO DI GARLASCO:
18 FALDONI PER UN SOLO IMPUTATO  

Centinaia di  intercettazioni telefoniche, pedinamenti, più di 300 interrogatori, accertamenti tecnici, perizie e controperizie. Sono chiusi in 18 faldoni i 422 giorni che la Procura di Vigevano (Pavia) ha impiegato per chiudere l'inchiesta sull'omicidio di Chiara Poggi, la ragazza assassinata il 13 agosto 2007 nella sua villetta di Garlasco. Le carte non conterrebbero colpi di scena nelle indagini. Non ci sarebbe alcun nuovo indizio e soprattutto nessun indizio che possa diventare una prova. Gli atti in mano alla procura, secretati fino all'8 ottobre scorso (data della firma di conclusione delle indagini), secondo la pubblica accusa, rafforzerebbero però la tesi da sempre  sostenuta che ad uccidere la giovane può essere stato solo il fidanzato, Alberto Stasi.

MERCENARI IN IRAQ:
COMINCIATO A BARI PROCESSO A STEFIO  

Con il rigetto di un'eccezione preliminare della difesa tendente a spostare a Roma il processo, è cominciato in corte d'Assise a Bari il dibattimento contro Salvatore Stefio, una delle quattro guardie del corpo italiane sequestrate nel 2004 in Iraq, accusato di aver reclutato Didri Forese e gli ex ostaggi italiani Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, questi ultimi due sequestrati con lui e con Fabrizio Quattrocchi il 12 aprile 2004 e liberati dopo 56 giorni. Quattrocchi, invece, venne ucciso.
Secondo l'accusa, Stefio, con la complicità di Spinelli, fece gli arruolamenti tramite la "Presidum corporation", una società con sede nelle Seychelles, e inviò i tre compagni in Iraq  "affinché militassero in favore di forze armate anglo-americane in contrapposizione a gruppi armati stranieri". Il tutto in cambio di denaro. Agli imputati viene contestato il reato di "arruolamenti o armamenti non autorizzati a servizio di uno Stato estero" che prevede pene che arrivano fino a 15 anni di reclusione.
Gli arruolati partirono per guadagnare 7.000 dollari per un mese di lavoro e una volta in Iraq siglarono un contratto di lavoro con la "Dts", un'altra società che garantì loro la paga e le spese del viaggio.
In aula il dirigente della Digos di Bari, Stanislao Schimera, ha ripercorso le tappe del presunto arruolamento. Ha detto che la "Presidium" "faceva capo a Stefio" e che la "Dts" era una "società con sede in Nevada (Usa), riconducibile a Valeria Castellani e Paolo Simeone". Secondo Schimera, la "Presidium" era una "società virtuale  con sede legale alle Seychelles che esisteva solo sul web perché le sue due sedi italiane indicate con numeri telefonici fissi sul sito, ad Olbia e a Sammichele di Bari, erano rispettivamente la sede di una società che organizza corsi per sub (il cui titolare nulla sapeva della Presidium) e una palazzina disabitata riconducibile alla famiglia Spinelli, mentre sul sito c'era il numero di cellulare di Stefio".
Una volta giunti a Baghdad - ha detto Schimera - gli italiani lavorarono per un paio di giorni nell'hotel Babilon per conto della società americana "Bearing Point" che aveva personale impegnato nella ricostruzione. Ma non era questo il motivo del loro ingaggio. Infatti i quattro - come è emerso - avrebbero dovuto proteggere diplomatici statunitensi che all'improvviso decisero di non partire più per l'Iraq. Mentre tornavano ad Amman per ripartire per l'Italia i quattro furono sequestrati.
Il processo riprenderà il 20 novembre prossimo.

MASSACRO FAMIGLIA CARRETTA:
FERDINANDO ENTRA POSSESSO DELLA CASA DELLA STRAGE  

La casa dove il 4 agosto 1989 uccise a colpi di pistola il padre Giuseppe, la madre Marta Chezzi e il fratello Nicola ora è di nuovo sua. Proprio come era stato deciso a maggio, notizia anticipata da Misteri d’Italia, con l'accordo che chiuse la querelle sull'eredità con le zie.
Ma quella casa fa tornare a galla vecchi fantasmi. Ferdinando Carretta spiega di aver pensato molto ultimamente ai suoi familiari, ma sa che “quello che è stato non potrà mai essere cancellato”. Non solo: “La tragedia poteva essere evitata. Se io mi fossi curato, quello che é successo non sarebbe mai accaduto”.
L'uomo nel '99 fu assolto perché incapace di intendere e volere al momento del fatto. La sentenza dispose il suo ricovero nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, dove é rimasto sette anni e mezzo. Ora é in libertà vigilata: vive da due anni in una comunità riabilitativa a Barisano, nel forlivese e lavora come impiegato. Il 15 ottobre ha firmato davanti al notaio di Parma Carlo Maria Canali i documenti che sanciscono definitivamente il suo possesso della casa della strage nell'ambito dell'accordo trovato con le zie Paola Carretta, Adriana e Carla Chezzi. Accordo che chiuse nei mesi scorsi la causa civile innescata anni fa per l'eredità di famiglia, un mix di appartamenti e denaro per 700.000 euro. A Ferdinando, oltre alla casa, andranno circa 40.000 euro.
Ferdinando Carretta però non tornerà a vivere nella casa di via Rimini a Parma, appartamento ora in affitto. Nel suo futuro Carretta vede “un lavoro stabile, ma anche una famiglia”.
Carretta fu trovato dai carabinieri nel 1998 a Londra, dove lavorava come pony express, ma prima aveva confessato il suo triplice delitto davanti alle telecamere del programma di Raitre “Chi l'ha visto?”.

DELITTI DEL MOSTRO DI FOLIGNO:
NO A REGIME SEMILIBERTA’ PER LUIGI CHIATTI  

No al regime di semilibertà per Luigi Chiatti, il cosiddetto mostro di Foligno, condannato con sentenza definitiva a 30 anni di reclusione (tre dei quali ora coperti dall'indulto) per l'omicidio di due bambini, Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci.
Lo ha deciso la Prima Sezione Penale della Cassazione. Chiatti aveva chiesto di usufruire del regime di semilibertà per il riconoscimento della collaborazione prestata nel corso delle indagini sui due omicidi e avendo nel 2007 espiato più della metà della condanna. Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze aveva già respinto l'istanza con un'ordinanza del 16 ottobre 2007 e la Cassazione ora ha confermato ritenendo non sufficienti i motivi avanzati Chiatti.

DELITTO PASOLINI:
L’AVV. MARAZZITA PRONTO A CHIEDERE
LA RIAPERTURA DEL CASO  

Riaprire il caso Pasolini è possibile. Ne è convinto l'avv. Nino Marazzita, che è stato legale di parte civile nel processo per l'assassinio dello scrittore-poeta, e che si dice “pronto” a chiedere nuovamente la riapertura del caso. Intanto,proprio per fare luce sul caso, l'avvocato sta preparando un docu-film che sarà pronto in autunno.
Secondo Marazzita, “la verità è a portata di mano, basta solo la volontà di trovarla”. Sulla stessa lunghezza d'onda il col. del Ris di Parma Luciano Garofano che ritiene che oggi le tecniche consentano di riaprire la vicenda. Marazzita ricorda come ci siano tanti referti “in buono stato di conservazione” che permetterebbero di eseguire la prova del Dna. “Al museo criminale di Roma – afferma Marazzita - si trovano ancora conservati, in buono stato, la maglietta con cui Pierpaolo si pulì la testa sanguinante. E ci sono ancora la patente, gli occhiali da cui non si separava mai e un pullover verde che non apparteneva né a lui, né a Pelosi, il giovane unico condannato per il delitto”. Tutto materiale che, come riferisce Marazzita, è stato utilizzato per un documentario che lo stesso penalista, insieme ad alcuni collaboratori, sta realizzando per contribuire a fare luce sul delitto avvenuto più di 30 anni fa.
Stiamo ricostruendo la dinamica del delitto sulla scia della sentenza di primo grado. Vogliamo fare capire a tutti - afferma ancora il penalista - che la ricerca della verità e' a portata di mano. E poi l'ultima chiusura delle indagini sul delitto Pasolini è avvenuta senza repertare i referti. Perché si e' voluta mettere una pietra tombale su questo caso? Nella vicenda Moro capisco i grandi paletti insormontabili, ma sul caso Pasolini perché questa rimozione collettiva?”.

DELITTO ROSTAGNO:
CHIESTA NUOVA PROROGA DELLE INDAGINI  

Altri sei mesi per le indagini sull'omicidio del sociologo Mauro Rostagno, assassinato in contrada Lenzi, a Valderice (Trapani), il 26 settembre 1988. Li ha chiesti il pm della Dda di Palermo Antonio Ingroia.
Allo stato non c'è una richiesta di rinvio a giudizio per il boss Vincenzo Virga - afferma il magistrato - ho però chiesto al giudice per le indagini preliminari un'ulteriore proroga di sei mesi in quando gli indizi in nostro possesso sono più robusti rispetto a sei mesi addietro. Non voglio smorzare gli entusiasmi, ma escludo che si possa giungere, prima della fine dell'estate, a una richiesta di rinvio a giudizio”. E anche se non si puo' parlare di “processo imminente”, è emersa dalle perizie la “firma di Cosa nostra”.
Per l'uccisione di Rostagno è indagato il boss mafioso Vincenzo Virga, ritenuto il mandante, ma ci sarebbero anche altre persone, probabilmente i killer.
Rostagno aveva fondato a Valderice la comunità di recupero di tossicodipendenti Saman ed era stato protagonista di dure denunce della mafia dagli schermi di una tv locale. Nel provvedimento che disponeva a fine 2007 la precedente riapertura delle indagini, il Gip Maria Pino chiedeva al pm Ingroia di risentire alcuni “collaboratori di giustizia”, come Vincenzo Sinacori, che hanno già deposto sul delitto e poi di acquisire “l'apporto conoscitivo di altri appartenenti al contesto associativo mafioso del trapanese, che potrebbero fornire un contributo”. Chiesta anche un'attività istruttoria supplementare sulla dinamica del delitto. Sono state effettuate nuove perizie tecnico-balistiche con il ricorso all'apporto specialistico più avanzato e il recupero e l'analisi di tutti i reperti disponibili, fra cui le automobili, della vittima e del commando, e i reperti balistici, compresi i frammenti del fucile usato dai sicari e che andò in pezzi al momento dell'agguato.
Un ulteriore accertamento era stato richiesto sul movente, sul quale, si leggeva nel provvedimento del gip esiste “un'argomentata ipotesi di convergenza di ulteriori interessi illeciti rispetto a quelli di matrice mafiosa”.
Dovranno così essere fatti accertamenti bancari e societari per verificare anche le movimentazioni della comunità Saman, di cui Ristagno faceva parte. Tutto questo anche se, scriveva il gip, è stata archiviata un'indagine per omicidio nei confronti di Francesco Cardella, anche lui socio della comunità. Già archiviata anche la posizione di Giuseppe Bulgarella, proprietario dell'emittente Rtc di Trapani, accusato di false informazioni al pm, ma il termine di prescrizione era già decorso, e del boss deceduto Francesco Messina Denaro, padre del superlatitante Matteo.

OMICIDIO BIAGI:
PERIZIA PSICHIATRICA PER DIANA BLEFARI  

La brigatista Diana Blefari Melazzi verrà sottoposta ad una perizia psichiatrica collegiale per capire se può essere processata. Lo hanno deciso i giudici della corte d'Appello di Bologna davanti ai quali si è aperto il processo di rinvio dalla Cassazione alla Melazzi per l'omicidio del professor Marco Biagi, ucciso dalle Br nel marzo 2002. La Blefari era già stata condannata nel primo processo di Appello, ma poi i supremi giudici avevano disposto, per una nuova valutazione delle sue condizioni psichiche, l'annullamento della condanna e il nuovo processo d'Appello. I giudici delle corte d'Appello di Bologna hanno affidato la perizia collegiale ad Augusto Balloni, Roberta Bisi e Corrado Cipolla D'Abruzzo. Per l'omicidio Biagi sono stati condannati definitivamente all'ergastolo Nadia Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma e a 21 anni Simone Boccaccini.

TERRORISMO:
CHIESTE CONDANNE PER 7 IMPUTATI
DI INIZIATIVA COMUNISTA  

La condanna a due anni di reclusione per associazione eversiva é stata chiesta dal procuratore generale di Roma, Antonio Marini, nei confronti dei sette militanti di Iniziativa comunista accusati di essere i fiancheggiatori delle Brigate Rosse. Un vero e proprio caso di accanimento giudiziario dal momento che i sette, in primo grado, nel settembre del 2004, erano stati assolti dalla stessa accusa.
Durante la sua requisitoria, il pg Marini ha chiesto l'aggravamento della posizione di tutti, contestando le finalità eversive e in particolare chiedendo l’acquisizione agli atti del processo la sentenza di condanna dei brigatisti rossi, tra cui Nadia Lioce, condannati per l’omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona, ucciso il 20 maggio del 1999 a a Roma in via Salaria. Secondo Marini negli atti del processo per l'omicidio D'Antona, esisterebbero elementi atti a dimostrare la necessità dell'aggravamento dell'accusa e quindi da qui la richieste di condanna.
Sotto processo davanti alla prima corte d'Appello di Roma, presieduta da Antonio Cappiello, ci sono: Norberto Natali, invalido al 100 per cento, ritenuto dall'accusa il leader del gruppo, la sorella Sabrina, Luca Ricaldone, Barbara Battista, Gennaro Franco, Rita Casillo e Raffaele Palermo.

TERRORISMO TEDESCO:
FILM “LA BANDA BAADER MEINHOF”
TRA BANALITA’ E FALSITA’  

Con clamoroso ritardo la Germania cerca di fare i conti con il proprio passato, quello degli anni di piombo, ma, in gran parte, sbaglia registro.
Il Festival internazionale del film di Roma ha dedicato una giornata al cinema politico tedesco con due film. Il più brutto, mal diretto, banalizzante e pieno di omissioni e falsità è stato il film “La banda Baader Meinhof'” di Uli Edel, che si limita a fare la cronaca dei sanguinosi dieci anni dell’organizzazione armata tedesca culminati nel 1977 con il sequestro Schleyer e l’eliminazione in carcere dei suoi fondatori. Una palese esecuzione (una terrorista impiccata e due suoi compagni uccisi con un colpo di pistola alla nuca) che il film cerca di spacciare per suicidio, senza spiegare come avrebbero fatto due pistole ad entrare nel supervigilato carcere di Stammheim, in realtà un vero e proprio lager.
Il successo del film al box office tedesco (un milione di spettatori in  10 giorni) si spiega con il ritmo da film d’azione impresso alla pellicola che, oltretutto, è quanto mai omissiva nel raccontare i rapporti, ormai provati, tra il gruppo armato tedesco - i cui componenti vengono sbrigativamente definiti “anarchici” - e la Stasi, il servizio segreto della Germania orientale.
Non ha ancora una distribuzione italiana invece l'altro film tedesco, “Schattenwelt” di Connie Walter, sul rapporto tra i terroristi e le loro vittime e sul diritto degli ex terroristi di tornare a vivere dopo il carcere. Si tratta in questo  caso di un piccolo film d'autore che nel raccontare una storia di vittima e carnefice,  con i ruoli che si ribaltano, mette l'accento sul post terrorismo. Lui è Wilder, ex terrorista della seconda generazione della Raf, libero dopo 20 anni. Lei è Valerie, la sua vicina di casa, una vittima dimenticata rispetto ai morti importanti. Il padre fu ucciso durante un'azione della Banda e lei adesso non gli dà tregua, inchiodandolo ad un passato che non passa e da vittima diventa carnefice.

SISTEMA CARCERARIO:
IL CARCERE DURO APPLICATO
A 585 DETENUTI  

Sono 585 - 579 uomini e 6 donne - i detenuti attualmente sottoposti al 41 bis, il regime di carcere duro. Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano durante la relazione sullo stato delle carceri italiane davanti alla commissione Giustizia della Camera.
Il maggior numero dei reclusi soggetti alla detenzione dura fa parte della Camorra (204); seguono Cosa Nostra (180), 'Ndrangheta (105), Sacra Corona Unita (25), terrorismo (3).

CASO CONTRADA:
SLITTA SENTENZA PROCESSO A PENTITI  

Slitta al prossimo 1 dicembre la sentenza del processo a due imputati accusati di calunnia aggravata e continuata nei confronti di Bruno Contrada: sono gli ex “pentiti” Giuseppe Giuga e Calogero Pulci per i quali, davanti alla  seconda sezione penale del Tribunale di Catania, il pm ha chiesto, rispettivamente, la condanna a 4 anni di reclusione e l'assoluzione.
Secondo l'accusa Giuga, su suggerimento di Pulci, avrebbe reso false dichiarazioni: in due verbali redatti dalla procura di Catania nel novembre 1998 e nell'aprile del 1999, aveva accusato Contrada di avere permesso la fuga, nel 1991, dell'allora latitante capomafia Benedetto Santapaola.
Secondo le false affermazioni del “pentito”, il funzionario del Sisde aveva avvertito il boss dell'esistenza di una telefonata anonima di una donna che rivelava il suo nascondiglio al numero verde dell'alto Commissariato per la lotta alla mafia. Contrada avrebbe poi consegnato ai mafiosi la bobina con la registrazione della voce della donna perché fosse “punita”. Il piano fu in seguito scoperto dai pm di Caltanissetta e Giuga confessò che a suggerirgli di rendere false accuse fu Pulci, ex imprenditore edile, ex consigliere comunale Pli ed ex assessore ai lavori pubblici di Sommatino.
Il caso Giunga la dice lunga sulla credibilità di alcuni “pentiti” di mafia.

TORTURA:
LA CASA BIANCA APPOGGIO'
LA CIA SU WATERBOARDING  

La Casa Bianca, per ben due volte, nel 2003 e nel 2004, appoggiò esplicitamente, con documenti segreti, i metodi duri di interrogatorio da parte della Cia nei confronti di sospetti terroristi, compreso il famigerato "waterboarding", ossia l'annegamento simulato: lo afferma il Washington Post che cita quattro fonti ben informate della Cia e dell'amministrazione Bush che hanno però chiesto l’anonimato.
I documenti, finora riservati, secondo il sito online del giornale, furono richiesti all'Amministrazione dall'allora direttore della Cia, George J. Tenet, oltre un anno dopo che gli interrogatori segreti erano cominciati. L'agenzia investigativa, secondo il Washington Post, lo fece perché preoccupata delle conseguenze sull'opinione pubblica di eventuali rivelazioni sui metodi di interrogatorio, sentendo perciò il bisogno dell’imprimatur scritto della Casa Bianca, anche se nel 2002 già il Dipartimento di giustizia aveva approvato i metodi.
Secondo le fonti citate dal quotidiano Usa, la Cia temeva che la Casa Bianca potesse in un secondo momento, se messa alle strette da uno scandalo, prendere le distanze dai metodi usati dall'agenzia investigativa per interrogare i sospetti terroristi di al Qaida. Tenet, secondo il Wp, richiese un documento di approvazione scritto già nel giugno 2003, durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale. Il memorandum di approvazione, dice il giornale, arrivò pochi giorni dopo. Poi nel giugno 2004 Tenet chiese alla Casa Bianca un nuovo documento scritto sulla scia dello scandalo per le torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Anche questa volta fu accontentato.
Funzionari dell'Amministrazione interpellati dal giornale hanno da parte loro confermato l'esistenza dei due documenti segreti, senza tuttavia confermare alcunché sul loro contenuto.

OMICIDIO POLITKOVSKAIA:
UN PROCESSO CON MILLE INTERROGATIVI  

Processo a porte aperte: è questa la richiesta dei difensori degli imputati e della parte civile all'udienza preliminare svoltasi a Mosca il 15 ottobre scorso davanti ad una corte militare per l'omicidio di Anna Politkovskaia, la giornalista di opposizione uccisa da un sicario il 7 ottobre del 2006 nella capitale, mentre rincasava. I giudici decideranno su questa ed altre istanze istruttorie nella prossima udienza del 17 novembre.
Secondo i difensori non c'è alcun documento segreto tale da giustificare la segretezza dibattimentale. Anche “Novaia Gazeta”, il giornale per cui lavorava la Politkovskaia, ha chiesto pubblicamente un processo alla luce del sole.
La prima udienza del processo si è svolta nonostante l'assenza di Karina Moshalenko, del collegio di difesa della famiglia Politkovskaia, ricoverata in ospedale a Strasburgo dopo aver denunciato il ritrovamento nella sua auto di mercurio: un presunto tentativo di avvelenamento che ha tutto il sapore dell'avvertimento, come lei stessa ha ipotizzato.
Quattro gli imputati alla sbarra, di cui tre ceceni: l'ex dirigente della polizia moscovita Serghei Khadzhikurbanov e i fratelli Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, mentre un terzo fratello, Rustan, ritenuto il killer, è latitante all'estero. Un quinto imputato, l'ex colonnello dei servizi segreti Pavel Riaguzov, è accusato di reati minori: abuso d'ufficio e concussione per una mazzetta di 10 mila dollari per aver fornito l'indirizzo della Politkovskaia al gruppo di fuoco.
Ancora tanti gli interrogativi insoluti sull'uccisione: chi ha ordinato il delitto e per quale movente? Perché proprio nel giorno del compleanno dell'allora presidente Vladimir Putin, nonostante le numerose prove effettuate precedentemente dal killer? Perché sono state tenute fuori dal processo sei delle dieci persone arrestate? Possibile che il presunto sicario riesca a mantenere una latitanza a prova di Fsb, il servizio segreto russo erede del Kgb? Perché all'ex colonnello dell'Fsb, Riaguzov, non è stato contestato il concorso nell'omicidio, come a Khadzhikurbanov? Domande a cui il processo tenterà, forse, di dare una risposta.

ALBANIA:
IN DISCUSSIONE LEGGE
SU FASCICOLI EX POLIZIA SEGRETA  

Mentre c'è ancora chi rimpiange il dittatore comunista Enver Hoxha, ampiamente festeggiato, il 16 ottobre scorso, nel centenario della sua nascita, l'Albania discute attorno ad una apposita legge per l'apertura dei fascicoli del Sigurimi, la polizia politica del vecchio regime, che dovrebbe impedire a tutti gli ex collaboratori la partecipazione alla vita pubblica. Intanto il parlamento albanese si prepara ad introdurre una modifica del codice penale che prevede la reclusione per chi "diffonde materiali che negano o minimizzano i crimini contro l'umanità", inclusi quelli commessi dal comunismo.

KOSOVO:
INDIPENDENZA ALL’ESAME
DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA  

Con 77 voti a favore, 6 contro e 74 astensioni, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato la richiesta avanzata dalla Serbia di un parere consultivo da parte della Corte internazionale di Giustizia riguardo alla legittimità dell’indipendenza del Kosovo.
Si tratta di una vittoria di notevoli proporzioni per Belgrado, dato che, malgrado un durissimo intervento degli Stati Uniti contro la risoluzione, alla fine solo sei paesi si sono opposti alla richiesta. Moltissimi, invece, gli interventi volti ad affermare il diritto internazionale e il ruolo della Corte.
Abbiamo escluso l’uso della forza o sanzioni economiche. Abbiamo deciso di difendere la nostra integrità territoriale per mezzo della diplomazia e del diritto internazionale. Per questo chiediamo che ci venga accordato un parere dalla Corte internazionale di Giustizia”, aveva spiegato il ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic introducendo la risoluzione all’Assemblea generale. Una posizione apprezzata da numerosi paesi, alcuni dei quali, pur avendo riconosciuto il Kosovo, hanno ammesso l’esistenza di una disputa da risolvere sul piano giuridico. Importante anche l’astensione della maggioranza dei paesi europei, che il ministro degli Esteri Franco Frattini aveva auspicato come posizione comune dell’Ue. Francia e Gran Bretagna, decisamente favorevoli alla secessione di Pristina e scettiche rispetto all’opportunità della risoluzione serba, si sono attenute alla consegna astenendosi. Al contrario, i paesi Ue che non hanno riconosciuto l’indipendenza kosovara hanno votato a favore. È il caso di Romania, Slovacchia, Spagna; Grecia e Cipro.
Sul piano politico per Belgrado si tratta di una vittoria importante. Sebbene infatti il parere della Corte sia solo consultivo e sia previsto tra non meno di un anno, molti paesi hanno posto l’accento sulla necessità di avere delle regole con cui affrontare il problema dei secessionismi. Il Costarica, in particolare, ha anche ipotizzato una revoca del proprio riconoscimento del Kosovo, spiegando che “il parere della Corte è quello a cui dovremmo attenerci tutti”.
Obiettivo primario della Serbia, in effetti, era proprio rallentare l’ondata di riconoscimenti (finora piuttosto blanda, a dire il vero, con 48 stati su 192 in otto mesi) e instillare il dubbio in quei paesi che già hanno provveduto a sancire come legittima l’autoproclamazione di indipendenza da parte di Pristina. Un eventuale parere favorevole della Corte, inoltre, dato per scontato da numerosi analisti, restituirebbe forza politica e potere contrattuale a Belgrado in vista di alcune tappe non indifferenti, come l’ambizione di Pristina di accedere alle organizzazioni internazionali e la prosecuzione del processo di ammissione della Serbia all’Unione europea.
Un’ultima considerazione va fatta a proposito degli Stati Uniti e del loro scarso potere in seno all’Assemblea generale. Il fatto che la diplomazia Usa abbia mosso solamente cinque voti riflette un momento di generale debolezza degli Stati Uniti all’interno dell’organizzazione. Solo due anni fa, per evitare l’ingresso del Venezuela di Chavez al Consiglio di Sicurezza, Washington riuscì a portare dalla propria parte quasi un centinaio di paesi. 

Fonte: Il velino

KOSOVO (2):
CONFERENZA DONATORI.
TUTTI I CONTRIBUTI AD UNO STATO-MAFIA  

La Conferenza dei donatori per il Kosovo, che si è tenuta oggi a Bruxelles, ha raccolto fondi  per 1,2 miliardi di euro destinato al nuovo stato-mafia creato nei Balcani dall’insipienza dei governi occidentali.
Ecco le donazioni (in milioni di euro) fatte dai partecipanti - in tutto 37 Paesi e 16 organizzazioni internazionali - secondo fonti vicine alla Conferenza:

  • Commissione europea: 508,10 mln;
  • Stati Uniti: 256,43 mln;
  • Germania: 100 mln;
  • Norvegia: 48,38 mln;
  • Svizzera: 47,34 mln;
  • Svezia: 41 mln;
  • Arabia Saudita: 31,83 mln;
  • Turchia: 30 mln;
  • Regno Unito: 29,91 mln;
  • Lussemburgo: 25,50 mln;
  • Banca Mondiale: 25,46 mln;
  • Finlandia: 16,33 mln;
  • Olanda: 16 mln;
  • Austria: 15,32 mln;
  • Danimarca: 15 mln;
  • Italia: 13 mln;
  • Irlanda: 5 mln;
  • Repubblica Ceca: 4 mln;
  • Francia: 2,32 mln;
  • Giappone: 1,91 mln;
  • Ungheria: 1,30 mln;
  • Belgio: 1,04 mln;
  • Estonia: 1,06 mln;
  • Slovenia: 0,64 mln;
  • Bulgaria: 0,50 mln;
  • Open Society Institute (di George Soros): 0,50 mln.

VITTIME DEL FRANCHISMO:
INDAGA GARZON  

Verranno riaperte le tombe delle vittime della dittatura franchista in Spagna, compresa quella nei pressi di Grenada dove si pensa che si trovino i resti del poeta Federico Garcia Lorca, ucciso dai sostenitori del generale Franco nel 1936.
Ad ordinarlo è stato il giudice spagnolo Baltasar Garzon, accogliendo la richiesta delle famiglie delle vittime, che reclamano l'identificazione dei corpi gettati nelle fosse comuni. Si tratta di 133.708 persone che sono scomparse durante la guerra civile, fra il 1936 e il 1939, e nel corso degli anni della dittatura, durata fino al 1975. Garzon ha annunciato di aver chiesto la riapertura delle tombe comuni in 19 posti diversi della Spagna e ha chiesto al ministero dell'Interno di identificare i leader della Falange, il movimento politico di estrema destra che sostenne Franco fino alla sua morte, per poter procedere contro qualche eventuale sopravvissuto.
Gli storici hanno calcolato che la guerra civile in Spagna causò circa mezzo milione di morti fra entrambe le fazioni e dopo la vittoria di Franco almeno 50 mila repubblicani furono giustiziati dalle forze nazionaliste. Trentamila persone furono seppellite dentro fosse comuni in tutto il paese.
Nel 1977, due anni dopo la morte di Franco, i partiti politici decisero un'amnistia per i crimini commessi durante la dittatura, ma negli ultimi anni, grazie anche al governo Zapatero, il "pacto de olvido" è stato messo in discussione dalle associazioni delle famiglie delle vittime. L'anno scorso il Parlamento ha approvato la Legge della memoria storica, nella quale vengono riconosciute le vittime del franchismo e si obbligano le amministrazioni locali a cooperare con la magistratura per accertare identità e cause della morte degli oppositori del regime.

MEDIORIENTE:
DOPO 60 ANNI LE FOTO
DI UN'ESECUZIONE DELLE MILIZIE EBRAICHE  

Un episodio drammatico del conflitto israelo-palestinese, vecchio di 60 anni, è tornato prepotentemente alla ribalta grazie al giornale più diffuso del Paese, Yediot Ahronot, che ha pubblicato due fotografie di quella che sostiene essere stata l'esecuzione di un anziano arabo da parte di due combattenti ebrei. Come sostiene il giornale, è la prima volta che fotografie documentano l'uccisione da  parte delle milizie ebraiche, durante la guerra arabo-israeliana del 1947-49, di un civile palestinese legato e bendato. Ad accrescere il dramma vi è il mistero della improvvisa
comparsa della sequenza di immagini che metodicamente, passo dopo passo, illustrano il passaggio per le armi del vecchio.
Yediot Ahronot spiega che le foto erano custodite in una scatola di scarpe, senza alcun biglietto di spiegazione. Le hanno trovate di recente i congiunti di un alto ufficiale dell'esercito, appena deceduto. Lui non aveva mai accennato alla loro esistenza. Non è noto se fosse legato a quei drammatici momenti e per quale ragione abbia avuto cura che esse non andassero perdute.
La sequenza è composta da diversi scatti. Nel primo l'anziano arabo, che veste una "galabya" (tunica) scura ed è scalzo, sembra spiegare qualcosa ai due giovani militari. Nel secondo essi lo tengono stretto: uno di loro lancia un'occhiata ammiccante all'ignoto fotografo. Nella terza foto il vecchio viene bendato. In un'altra immagine ancora, quella conclusiva, il corpo del vecchio giace per terra, in una pozza di sangue.
Yediot Ahronot pubblica due immagini della serie. Si vede così un primo piano del tragico protagonista della vicenda: un uomo magro, canuto, col volto solcato da rughe, immerso in una profonda riflessione, con le mani appoggiate sotto al mento come abbracciate ad un bastone che invece non c'é. Non urla, non piange. Il suo silenzio rimbomba.
Nella seconda immagine - proposta in prima pagina - il vecchio é ormai in balia dei suoi giustizieri che appaiono nel fiore degli anni, assolutamente sereni, forse anche con l'ombra di un sorriso sulle labbra. Sembrano la incarnazione del mito dei giovani "sabra": "ragazzi - come scriveva un poeta di allora - dal ciuffo possente e di bell'aspetto". Che da lì a qualche istante uccideranno a sangue freddo un anziano arabo, bendato e legato. "Sono le fotografie che non avremmo mai  voluto vedere", commenta Yediot Ahronot.
Per cercare di ricostruire il contesto storico della guerra del 1947-49 (in cui lo Yeshuv, il modesto insediamento ebraico di allora, dovette far fronte all'attacco di diversi eserciti arabi) ed altri episodi analoghi di efferatezza, il giornale ha interrogato numerosi membri del Palmach e della Haganah, le milizie ebraiche.

Fonte: Aldo Baquis (Ansa)

DOCUMENTAZIONE 

CASO CONTRADA:
UNA VICENDA GIUDIZIARIA INIZIATA 16 ANNI FA  

La vicenda giudiziaria di Bruno Contrada comincia il 24 dicembre 1992, giorno del suo arresto. Le accuse gli arrivano da un nugolo di "pentiti", spesso in palese contraddizione tra loro. Nel giro di brevissimo tempo Contrada passa da "superpoliziotto" impegnato a Palermo contro Cosa nostra a dirigente del Sisde fino a imputato per un reato decisamente forzato come "concorso esterno in associazione mafiosa", poi condannato a 10 anni di reclusione, dopo oltre 31 mesi trascorsi come Detenuto in attesa di giudizio nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.
Entrato in polizia nel 1958, investigatore di punta dell'antimafia, a più riprese capo della squadra mobile di Palermo negli anni Settanta, poi dirigente della Criminalpol, capo di gabinetto dell'Alto commissariato antimafia e, infine, "numero tre" del Sisde, il servizio segreto civile. Lo accusano di passare informazioni a Cosa nostra e di avere consentito la fuga di pericolosi latitanti, come il boss dei boss Totò Riina, ricevendo la "copertura" di mai identificati vertici istituzionali.
Uno dei primi "pentiti" ad accusarlo è Gaspare Mutolo, del quale Contrada ricorderà di averlo più volte arrestato. Ci sono poi Tommaso Buscetta, Salvatore Cancemi e Giuseppe Marchese.
Il 4 maggio 2001, nel primo processo d'Appello, Contrada è assolto con formula piena "perché il fatto non sussiste". Una sentenza che cancella quella a dieci anni inflittagli in primo grado il 5 aprile 1996. Ma la Cassazione, il 12 dicembre 2002, annulla il verdetto assolutorio e dispone un nuovo processo. Arriva quindi la condanna a 10 anni di reclusione, il 25 febbraio 2006, che nel maggio del 2007 la Cassazione rende definitiva.
Nello stesso mese, Contrada torna nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e da lì comincia un'altra battaglia giudiziaria, questa volta sul fronte medico: i suoi legali ne chiedono più volte la scarcerazione per gravi motivi di salute. Il suo avvocato, Giuseppe Lipera, di fronte ne apre un altro ancora: la revisione del processo, respinta dalla corte d'Appello di Caltanisetta e poi dalla Cassazione.
Il 24 luglio scorso il Tribunale di sorveglianza di Napoli gli concede gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute in casa della sorella Anna, a Varcaturo (Napoli). Il 1° ottobre arriva la decisione finale: Contrada potrà scontare la pena che scadrà il 20  novembre 2013 a casa sua a Palermo.

ERRORI GIUDIZIARI: QUELLI PIU’ ECLATANTI 

Le statistiche dicono che ammontano a diverse migliaia gli errori giudiziari in cui sono incappati i cittadini (italiani e non), senza che un solo magistrato abbia mai pagato di tasca propria, e che sono sempre più in aumento le cause di risarcimento per ingiusta detenzione avanzate da chi, una volta finito alla sbarra, viene poi riconosciuto innocente. Lo 'svarione' giudiziario non ha risparmiato nessuno, travolgendo il ricco e il povero, l'uomo della strada e il “colletto bianco”, il personaggio famoso e quello sconosciuto.
Senza scomodare la vicenda che porterà nel 1987 al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, quella cioè del giornalista Enzo Tortora, assolto nello stesso anno dalla Cassazione dopo essere finito in manette con l'accusa di associazione per delinquere di stampo camorristico, fecero scalpore, ad esempio, i 100 milioni di vecchie lire che i giudici della corte d'appello di Roma riconobbero a Clelio Darida, ex ministro della Giustizia nonché ex sindaco della capitale, finito agli arresti per tre mesi nel '93 e poi prosciolto senza mai comparire in aula dall'accusa di corruzione nell'ambito dell'inchiesta milanese su Intermetro.
35 mila euro di ristoro, invece, toccarono all'operatore penitenziario Carmelo Scalone, in galera nel '93 per sei mesi e poi assolto dall'accusa di associazione per delinquere finalizzata all'eversione perché sospettato di essere uno dei telefonisti della Falange Armata, sigla con cui furono rivendicati attentati e minacce all'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Silvio Berlusconi, a giornalisti e imprenditori. Cifra più contenuta (appena 24 milioni di lire) fu riconosciuta anni dopo al presentatore televisivo Gigi Sabani che trascorse tredici giorni ai domiciliari per l'accusa di induzione alla prostituzione, un'inchiesta avviata a Biella e poi archiviata a Roma. Molto scalpore suscitò la storia di Daniele Barillà, piccolo imprenditore arrestato a Nova Milanese nel '92 per uno scambio di persona: ritenuto elemento di grosso spessore della malavita lombarda, condannato a 15 anni di reclusione per traffico di cocaina in tutti e tre i gradi di giudizio, Barillà fu scarcerato nel '99 e assolto nel 2000 dopo aver ottenuto la revisione del processo: cinque anni fa la Cassazione gli ha riconosciuto un indennizzo pari a quasi quattro milioni di euro per il grave errore giudiziario di cui è stato vittima.
Un caso analogo fu quello di Massimo Pisano, scagionato dopo sette anni e mezzo di detenzione a Rebibbia dall'accusa di aver ucciso la moglie, dopo essere stato condannato all'ergastolo assieme alla sua ex amante. Anche Pisano si salvò in extremis al termine del processo di revisione.
Ugualmente tormentata fu la disavventura giudiziaria del liutaio Marcello Gregorat, al secolo “Joe Codino”, che scontò tre anni (tra carcere e domiciliari) con il pesante marchio di essere il mostro che violentava le donne di Talenti e Montesacro. Assolto con formula piena, Gregorat ottenne centomila euro di risarcimento.
La metà di quella somma fu, invece, assegnata a Daniela Stuto, la studentessa rinchiusa a Rebibbia per un giorno e ai domiciliari per i successivi quindici mesi perché sospettata di aver ucciso l'amica Francesca Moretti, con cui divideva un piccolo appartamento romano, con una dose di cianuro nella minestrina.
E di attentato al ferricianuro da preparare contro l'ambasciata Usa a Roma fu accusato il tunisino Abdelmoname Ben Khalifa Mansour che, nel 2002, sull'onda del dopo 11 settembre, si fece un anno e mezzo di custodia cautelare a Rebibbia prima di incassare l'assoluzione dal reato di associazione eversiva in concorso con un'altra dozzina di stranieri, anche loro usciti di scena. Per Mansour i giudici stabilirono un indennizzo di 100 mila euro.
Qualche mese fa, invece, ha ottenuto un maxirisarcimento, ma non per l'ingiusta detenzione, anche l'attrice Laura Antonelli: 108mila euro perché il processo nei suoi confronti per illecita detenzione di sostanze stupefacenti (chiusosi peraltro con un'assoluzione) é durato sette anni in più rispetto al limite tollerato.

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