TERRORISMO INTERNAZIONALE:
NTERROGATIVI E CERTEZZE
DOPO LA STRAGE DI MUMBAI  

Anche dopo l’incredibile strage di Mumbai per la quale, mentre scriviamo, è ancora difficile tracciare un bilancio definitivo delle vittime, c’è ancora chi crede che sia stata opera di Al Qaeda. E soprattutto c’è ancora chi crede che Al Qaeda sia la cupola del terrorismo internazionale di matrice islamica.
Per comprendere che ormai Osama bin Laden, il suo braccio destro Al Zawhairi e il presunto network di Al Qaeda sono residui del passato, basterebbe notare che proprio giovedì 27 novembre, mentre infuriava la battaglia negli alberghi di Mumbai, Al Zawhairi mandava un messaggio alla Umma dove malediva possibili negoziati in Afghanistan, ma dimenticandosi anche solo di citare l’India.
A questo punto è necessario dire con forza che Al Qaeda non c’è più e che quello che più di pericoloso esiste è il qaedismo, ossia la necessità che hanno i vari gruppi jihadisti nazionali di esportare la loro forza militare-ideologico-religiosa fuori dai propri relativi confini.
Sta nascendo e si sta rafforzando di ora in ora qualcosa di molto più pericoloso di Al Qaeda: sono quel coacervo di forze qaediste a carattere nazionale: talebane, neotalebane, pachistane, tribali, indiane, indonesiane e via dicendo.
Come sostiene Emanuele Giordana, giornalista assai acuto di Lettera 22, “anziché cercare la cupola forse si dovrebbe operare per evitare che il qaedismo recluti disperati in cerca di riscatto e lavorare sulle condizioni locali in India come in Pakistan o in Afghanistan”.

La stessa tesi sostenuta da Lucio Caracciolo, direttore di Limes, che sulla Repubblica del 29 novembre scorso scrive: “La strage non è solo un capitolo particolarmente odioso del terrorismo islamista. Nemmeno solo un’intimidazione all’Occidente i cui cittadini sembravano un bersaglio privilegiato nel mirino dei terroristi, e in specie a Israele in quanto referente occidentale in “terra islamica” come testimonia la strage al centro ebraico. E’ soprattutto l’ennesimo episodio della guerra India-Pakistan che si trascina da oltre sessant’anni, tra fasi “calde” e “fredde”, scontri militari in piena regola e subdoli attentati. Una guerra senza sbocco. L’ennesimo lascito di sangue della decolonizzazione alla britannica. Ma molto, molto più pericoloso della Palestina o della Mesopotamia. Qui si fronteggianno due stati dalle identità inconciliabili, armati fino ai denti, bombe atomiche comprese. A differenza di altri scenari, nel conflitto indo-pakistano l’uso dell’arma atomica non è affatto impensabile”.

TERRORISMO INTERNAZIONALE (2):
CAPO DELLA CIA SU RAFFORZAMENTO DI AL QAEDA  

Chi ancora crede in Al Qaeda è chi, negli anni Ottanta, ha contribuito a crearla.
Il capo della Cia Michael Hayden sostiene infatti che Al Qaeda, usando la sua base tra i leader tribali del Pakistan, sta rafforzando i suoi legami con gruppi militanti in Africa e altrove per lanciare nuovi attacchi che potrebbero interessare anche l'Europa.
Hayden sottolinea che il punto di forza di Al Qaeda resta la regione del Pakistan al confine con l'Afghanistan dove i militanti del gruppo terrorista hanno legami con le tribù Pashtun, guadagnando preziosi rifugi.
Al momento tutte le minacce di Al Qaida di cui siamo a conoscenza hanno una origine comune in questa regione del pianeta”, ha affermato Hayden in una conferenza a Washington. La base è stata utile ad Al Qaeda per rafforzare legami con militanti locali nel Nord Africa, in Somalia e anche nello Yemen, dove si sono spostati alcuni dei veterani dei combattimenti in Iraq e in Afghanistan, al fine di lanciare attacchi contro le autorità saudite. Il direttore della Cia ha ammonito che le basi in Nord Africa potrebbero essere usata da Al Qaeda anche per lanciare attacchi contro paesi dell'Europa.

La Cia ha rafforzato negli ultimi tempi le operazioni nell’area del Pakistan dove sono attivi i militanti di Al Qaeda, usando in particolare aerei senza pilota. Il mese scorso un missile lanciato da un aereo Usa senza pilota ha ucciso Khalid Habib, ritenuto un alto esponente di Al Qaeda.

SERVIZI SEGRETI:
NOMINATI I VICEDIRETTORI  

Le nomine dei vicedirettori ai vertici dei servizi segreti italiani illustrano chiaramente quale sarà l’indirizzo della sicurezza nazionale, oltre a rispondere a due disegni paralleli: quello dell’onnipotente ex capo della polizia Gianni De Gennaro e dell’altrettanto potente ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
Con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, al Dis (Dipartimento per l'informazione e la sicurezza), diretto appunto da De Gennaro, andranno il generale della Guardia di Finanza Cosimo Sasso e il prefetto Vittorio Piscitelli, entrambi graditi al “capo”, soprattutto il secondo che accompagna la carriera di De Gennaro da almeno dieci anni, mentre Sasso è stato direttore della Dia, la Direzione investigativa antimafia dal 2005 ad oggi.
All'Agenzia per l'informazione e la sicurezza (Aisi), guidata dal generale dei carabinieri Giorgio Piccirillo, arriva il vice capo della polizia Nicola Cavaliere, già questore di Roma, anch’egli su espressa indicazione di De Gennaro. L’altro vice sarà il generale della Guardia di Finanza Paolo Poletti, già indagato a Catanzaro nel processo Whi not, ritenuto molto vicino a Massimo D’Alema. Una nomina questa che sembra favorire i disegni di Giulio Tremonti dal momento che Poletti lascia libero il posto di capo di stato maggiore della Finanza e quell’incarico sarebbe stato promesso dal ministro all’attuale comandante del Lazio Michele Adinolfi. L’obiettivo finale di Tremonti sarebbe quello di “silurare” il generale di corpo d’armata Cosimo Darrigo, attuale comandante dei finanziaeri e sostituirlo con il gen. Emilio Speziante, anche se per portare a termine questa operazione è necessario modificare la legge che attualmente impedisce che sia un finanziere a guidare le fiamme gialle.

Infine, per quanto riguarda l’Agenzia per l'informazione e la sicurezza esterna (Aise), l’ammiraglio Bruno Branciforte sarà affiancato da Bruno Cornacchione e dal generale dei carabinieri Michele Franzè la cui nomina restringe la rosa dei candidati all’incarico di comandante generale dell’Arma visto che l’attuale comandante, Gianfranco Siazzu, scade a luglio del prossimo anno.

FATTI DI GENOVA:
LE MOTIVAZIONI PER LA SENTENZA BOLZANETO.
“OMERTA’ DI STATO”  

Il 27 novembre scorso è stata depositata la motivazione della sentenza del tribunale di Genova per i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001.

Il documento di 451 pagine spiega il perché delle 15 condanne (con pene variabili fra i 5 mesi e i 5 anni) e delle 30 assoluzioni. I reati contestati agli imputati, a vario titolo, in assenza nel nostro codice del reato di tortura, erano abuso d'ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso di autorità nei confronti di detenuti o arrestati, violazione dell'ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Le motivazioni della sentenza hanno come punto di riferimento la Costituzione e i suoi dettati, a partire dalla tutela della dignità dell'uomo. E proprio nelle motivazioni si legge che quella notte, all’interno di quella caserma, i diritti elementari vennero sospesi. A partire dalle parole di alcuni poliziotti, “espressioni di carattere politico di per sé intollerabili sulla bocca di appartenenti a Forze di polizia di uno Stato democratico che pone il ripudio del nazifascismo tra i valori della propria Costituzione” per finire agli atti: le violenze, le vessazioni, i pestaggi, le umiliazioni.

Ciononostante, i giudici mettono un punto fermo, che verrà riproposto anche in altri processi per il G8: l'impossibilità di attribuire ai “vertici” la responsabilità di quanto avvenuto.

Scrivono i giudici: “sarebbe stato necessario raggiungere la prova che gli stessi vertici fossero stati presenti ai fatti e avessero avuto perfetta percezione di quanto stava avvenendo”. Una condizione necessaria per attribuire la responsabilità. E questo non e' avvenuto per la sostanziale omertà delle forze di polizia che male interpretarono “lo spirito di corpo” che non ha permesso di identificare “la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento”.
I giudici sottolineano come l'indagine abbia incontrato “difficoltà oggettive” per la “scarsa collaborazione delle forze di polizia”: “valga per tutte - scrivono i giudici - la figura di un appartenente alla polizia penitenziaria, descritto da diverse parti offese come persona di alta statura e corporatura massiccia, soprannominato dai propri colleghi ‘er Tigre’ che era tra i più esagitati nel colpire e angariare gli arrestati, al quale, tuttavia, non si è riusciti a dare un volto e un nome” oppure “l'agente di polizia penitenziaria altoatesino che si era distinto per una particolare disposizione a insultare e deridere gli arrestati di lingua tedesca”.

I giudici sono durissimi, a dispetto di una sentenza che a molti sembrò soft, nei confronti della polizia. Non ci sono sconti per nessuno. I giudici ricostruiscono le pagine più abiette di quanto successe a Bolzaneto.

Nelle motivazioni i giudici entrano nel merito dei capi di imputazione affrontando una per una le posizioni degli imputati. A partire dal vicequestore Alessandro Perugini, condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione perché aveva avuto “la sicura consapevolezza di quanto accadeva nella struttura” relativamente alle posizioni fatte tenere dai detenuti. Perugini era a conoscenza di quanto avveniva “sotto il profilo della permanenza degli arrestati e dei fermati nelle posizioni vessatorie di stazionamento e di transito nel corridoio e delle percosse che agli arrestati e fermati venivano inferte per costringerli a mantenere le posture”.

Era stato lo stesso Perugini ad ammettere  di aver visto gli arrestati in piedi, faccia al muro non meno di due volte e di “non essersi posto il problema”, ammettendo anche di non avere “in entrambe le occasioni disposto che gli arrestati fossero fatti sedere”. L’essere a conoscenza di queste vessazioni, dunque, per i giudici configura la violazione dell’art. 40 cp per il quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

E poi Antonio Gugliotta, l'ex capo dei secondini, condannato a 5 anni di reclusione, “pienamente consapevole di quanto avvenne in quella caserma”.

L'ex ispettore di polizia penitenziaria era infatti responsabile della sicurezza del sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto. A Gugliotta erano stati contestati l'abuso di ufficio continuato e di autorità contro arrestati, i reati continuati di percosse, lesioni, ingiurie, minacce e violenze private e alcuni episodi specifici.

Era proprio Gugliotta - scrivono i giudici - il soggetto preposto ad assicurare l'ordine e a garantire presso Bolzaneto il rispetto dell’incolumità fisica e della dignità delle persone ristrette in tale ambito”. Quindi, “Gugliotta ha male utilizzato il potere conferitogli, consentendo ai sottoposti di compiere abusi e violenze di ogni genere, talora perpetrandoli personalmente, e contribuendo con il suo operato a creare un clima greve e oppressivo in cui le vittime erano prive di difese ed esposte alla prepotenza e violenza di coloro che avrebbero dovuto tutelarne invece la sicurezza personale”.

Secondo i giudici, che ricordano ancora la posizione vessatoria cui vennero sottoposti i detenuti, Gugliotta fu “fortemente determinato a far mantenere loro la posizione ponendoli in soggezione”. Quindi, Gugliotta non agì “come avrebbe dovuto per il ruolo rivestito al fine di prevenire condotte illecite da parte di chi indossava la divisa della polizia penitenziaria”.

E cosa avvenne in quella caserma è ben chiaro ai giudici: reati “inconcepibili in un sistema democratico” scrivono, che ricordano “la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di tortura. Cosa questa che ha costretto l'ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti, che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali, in condotte che questo collegio ritiene pienamente provate”.

FATTI DI GENOVA (2):
PER LA DIAZ IL COMITATO “VERITA’ E GIUSTIZIA”
RICORRERA’ IN APPELLO E POI ALLA UE  

I rappresentanti e i legali del Comitato “Verità e Giustizia” per l’assalto della polizia alla scuola Duiaz hanno annunciato ricorso in appello e, quando l'iter giudiziario in Italia sarà concluso, considerato che molti capi d'imputazione cadranno in prescrizione nel 2009, un ricorso alla Corte Europea di giustizia.
E' mancato il coraggio di arrivare sino in fondo. Ancora una volta, lo Stato ha dimostrato di non sapere giudicare fino in fondo se stesso”, sostengono intanto i giuristi democratici, che commentano con “amarezza” la sentenza.

Appare di immediata evidenza - hanno aggiunto - un'inquietante riduzione dell'indipendenza reale dell'Autorità Giudiziaria ed emerge quanto il clima di pesante intimidazione che si respira nel Paese nei confronti dei poteri di garanzia finisca per riflettersi sulla tutela dei diritti fondamentali”.

FATTI DI GENOVA (3):
I VERTICI DI POLIZIA
NON VOGLIONO ESSERE PROCESSATI A GENOVA  

A Genova ci sarebbe un “fumus ambientale” che rende impossibile la celebrazione del processo contro l’ex capo della polizia - e oggi dominus dei servizi segreti italiani - Giani De Gennaro.
È questa la posizione emersa durante l’'udienza preliminare dal legale dell'ex questore genovese Francesco Colucci accusato di falso per una deposizione fatta nel maggio 2007 al processo Diaz. L’avv. Maurizio Mascia, depositando in cancelleria la richiesta di remissione del processo, di fatto s’appella alla legge Cirami sostenendo che, siccome a Genova si è svolto il processo Diaz e si è gridato “Vergogna” ai giudici, i magistrati non possono decidere serenamente sulla falsità o meno delle dichiarazioni di Colucci in aula, “istigato” all'inquinamento del processo, dice la procura, proprio da De Gennaro con la collaborazione dell'ex capo della Digos genovese Spartaco Mortola, accusato di aver convinto Colucci a dire che gli uomini delle squadre mobili responsabili del blitz entrarono per sbaglio.

Quello che la procura considera un collegato al processo Diaz tocca il cuore della catena di comando, colpendo De Gennaro, restato immune dal processo dell'assalto squadristico alla Diaz. L'accusa di falso, istigazione e concorso al falso si basa su una sfilza di intercettazioni in cui si sente l'ex questore genovese Francesco Colucci che dice che “il capo”, ossia De Gennaro, gli ha chiesto di “fare un po' marcia indietro sulla stampa”, vale a dire su chi decise di mandare il responsabile delle relazioni esterne del Viminale Roberto Sgalla, già dirigente sindacale del Siulp, il sindacato di sinistra della polizia, alla scuola. Arrivato all'udienza del processo Diaz nel maggio dello scorso anno, Colucci ritratta e nelle ore successive riceve complimenti da diversi personaggi, compreso Gratteri e un magistrato. Insomma, secondo i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, la deposizione di Colucci prova che De Gennaro riuscì a inquinare il processo.

‘NDRANGHETA:
LE IFILTRAZIONI NELLA CAPITALE  

Oltre venti ‘Ndrine, ossia clan della ‘Ndrangheta hanno invaso Roma e il Lazio per il riciclaggio dei capitali.
E’ questo il preoccupante dato che evidenzia un’inchiesta della Direzione antimafia della procura di Roma e della Dia. Le famiglie della mafia calabrese, in ordine alfabetico, sono: Alvaro, Avignone, Barbaro, Bellocco, Condello, Farao, Gallace, Mollica, Iamonte, Marincola, Metastasio, Morabito, Nirta, Novella, Pelle, Pesce, Piromalli, Pisano, Ruga, Tripodo, Viola, Zagari. Anche la mappa geografica è continuamente aggiornata: Anzio, Civitavecchia, Fondi, Formia, Gaeta, Nettuno, Roma, Ostia, provincia di Roma, Pontinia, Terracina.
Le indagini sono cominciate nei mesi scorsi partendo dall’acquisto, avvenuto un paio di anni fa, del ristorante “Alla Rampa”, storico locale a due passi da piazza di Spagna, da parte di imprenditori che la Dda ritiene legati al clan della Locride Pelle-Vottari. Un’attività lecita dal momento che la caratteristica del riciclaggio è infatti il finanziamento con capitali illeciti di attività “pulite”. In questo modo i capitali “ingiustificati”, provenienti da operazioni della criminalità, vengono spesi per comprare attività commerciali o per finanziare imprese di vario tipo che, invece, producono reddito “ufficiale”. E per raggiungere l’obiettivo di acquistare imprese o società commerciali i boss delle ‘Ndrine non badano a spese. Sono disposti, come risulta sia dalla documentazione raccolta dalla Direzione antimafia sia dalle intercettazioni telefoniche, a pagare un negozio, un ristorante, un centro commerciale, una società edile, anche il doppio del loro valore reale.
Adoperando prestanome, paraventi societari, bonifici estero su estero: gli imprenditori “puliti” vengono talvolta convinti, in alcuni casi costretti, a vendere. Dalle casse della ‘Ndrangheta esce denaro “scomodo” ed entrano soldi al di sopra di ogni sospetto, quelli incassati dal ristorante, dalla pizzeria, dal negozio di abbigliamento e perfino dalla società di servizi che lavora per il grande albergo nel centro storico.
La ‘Ndrina investe, ad esempio, un milione di euro che non può giustificare per avere, in cambio, un’attività che vale 600 mila euro al di sopra di ogni sospetto. Per evitare di insospettire il fisco e gli investigatori, spesso il prezzo che le cosche pagano per acquistare negozi a Roma è diviso in due parti: una ufficiale che viene regolarmente fatturata dalla società del venditore a fronte di un atto notarile (spesso però acquisti in diverse zone del Lazio vengono registrati sempre dallo stesso gruppo di tre o quattro notai, hanno osservato gli inquirenti), e un’altra in nero, bonificata da un conto estero di una società off shore ad un altro conto estero intestato ad un’altra società che fa capo al venditore e che, magari, è stata creata per l’occasione.

I principali settori d’interesse sono l’edilizia, le società finanziarie e, nell’ambito del commercio, oltre alla ristorazione figurano l’abbigliamento (è in corso un’indagine su una catena di negozi casual), le concessionarie di auto (ne sono state sequestrate diverse sul litorale laziale) e, da qualche tempo, anche i punti vendita in franchising per il noleggio di film. 

‘NDRANGHETA (2):
IL CASO DEL RISTORNATE ROMANO
“ALLA RAMPA”  

Il ristorante “Alla Rampa”, uno dei locali più noti al centro di Roma, a ridosso di piazza di Spagna, sarebbe uno dei canali per il riciclaggio dei capitali della cosca calabrese Pelle-Vottari. Nel giugno scorso la Direzione distrettuale antimafia aveva chiesto al tribunale per le misure di prevenzione di disporne il sequestro d’urgenza, sulla base della documentazione raccolta dai carabinieri e relativa sia ai rapporti tra i soci della Srl Alla Rampa, che poco più di due anni fa ha acquistato lo storico locale dai precedenti proprietari, e alcuni esponenti della cosca calabrese, sia alle “incongruenze” tra le dichiarazioni dei redditi presentate negli ultimi anni dagli attuali titolari del ristorante, il valore di mercato della struttura e le somme versate per l’acquisto.
Ma la richiesta di sequestro preventivo è stata respinta dai giudici e si è avviato il procedimento al termine del quale, dopo aver esaminato da un lato gli elementi raccolti dagli investigatori e dal pm Filippo Vitello, e dall’altro i giustificativi dell’operazione commerciale esibiti dalla difesa della società Alla Rampa, il tribunale per le misure di prevenzione della Capitale deciderà se procedere al sequestro dell’attività e dell’immobile.
La Direzione antimafia sottolinea, nella documentazione esibita, oltre agli accertamenti patrimoniali anche alcuni precedenti di polizia che riguardano i titolari della società che ha comprato il ristorante, nonché frequentazioni e amicizie tra gli stessi proprietari ed esponenti delle famiglie Pelle, Vottari e Romeo. Componenti di quel clan al quale appartenevano i sei calabresi uccisi, a ferragosto del 2007, a Duisburg in Germania. Una strage maturata nell’ambito della faida in corso da anni a San Luca nella Locride, in Calabria, e avvenuta all’uscita di un altro ristorante della cittadina tedesca, “Da Bruno”.
Le indagini della Dda della capitale non riguardano solo il ristorante “Alla Rampa”. Negli ultimi tre anni sono stati avviati numerosi accertamenti su attività di ristorazione, come il celebre Cafè de Paris di via Veneto, nelle quali vi sarebbero interessi non solo della criminalità organizzata calabrese, ma anche della mafia, in particolare delle cosche provenienti dalla provincia di Caltanissetta, e di alcuni clan della camorra, soprattutto quelli operanti nei comuni a sud di Napoli, da Portici e Castellammare.

Le indagini dell’antimafia hanno invece accertato che i clan del casertano, come la cosca dei Casalesi, preferiscono investire in edilizia e immobili nella zona del basso Lazio.
In particolare, sono in corso indagini su due catene di pizzerie che, un tempo presenti solo in Campania, hanno poi aperto diversi “punti vendita” sia a Roma sia a Milano.

Fonte: Il velino

MAFIA:
LE INFILTRAZIONI NELLE SOCIETA’
CALCESTRUZZI E ITALCEMENTI  

I pm della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta hanno ordinato il sequestro dei lotti 9 e 14 dell'autostrada Valdastico, in provincia di Vicenza.
Il provvedimento rientra nell'inchiesta su presunte attività illecite svolte in seno alla Calcestruzzi spa ed alla Italcementi spa, entrambe società di Bergamo, sulle quali indaga la procura di Caltanissetta.
Il sequestro, con facoltà d'uso dell'autostrada, è stato deciso in seguito agli accertamenti dei periti della Dda nissena che hanno evidenziato significativi scostamenti tra i dosaggi contrattuali di cemento con quelli effettivamente impiegati nella produzione dei conglomerati forniti all'impresa incaricata dei lavori di realizzazione.
L'indagine mira ad accertare se la Calcestruzzi abbia proceduto, non solo in Sicilia, ad una illecita creazione di fondi neri. Gli inquirenti vogliono accertare l'eventuale esistenza di una strategia aziendale finalizzata ad un sistematico risparmio del cemento nelle forniture di calcestruzzo destinate alla realizzazione di opere pubbliche per poter pagare Cosa nostra.
La Dda di Caltanissetta, oltre al sequestro, ha ordinato a Carabinieri e Guardia di  finanza la perquisizione di alcune delle sedi dell'Italcementi,  con specifico riferimento alle cementerie di Porto Empedocle (Agrigento), Isola delle Femmine (Palermo) e Calusco d'Adda (Bergamo). Controlli sono stati eseguiti anche nella sede di Area Sicilia a Palermo e nello stabilimento di deposito di Catania per acquisire atti utili a verificare se vi è stata una corretta registrazione dei dati sulla fornitura di cemento alla Calcestruzzi.
Le indagini del Reparto operativo dei carabinieri e del Gico della Guardia di finanza, coordinate dal procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari e dal sostituto Nicolò Marino, sono supportate da riscontri documentali acquisiti durante le perquisizioni effettuate presso gli stabilimenti della Calcestruzzi in Sicilia e nella sede centrale di Bergamo.
Inoltre, dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e dalle perizie disposte dalla Dda nissena, sono stati posti sotto sequestro preventivo beni materiali che costituiscono la Calcestruzzi, il cui valore e' calcolato intorno ai 600 milioni di euro, ancora oggi in amministrazione giudiziaria.
Nell'inchiesta sulla Calcestruzzi, indagata per mafia e sotto sequestro, emerge che la società avrebbe fornito quantitativi di calcestruzzo di qualità difforme da quanto previsto dai capitolati d'appalto per opere pubbliche, compresi tratti della Tav. Gli inquirenti ipotizzano una frode in pubbliche forniture. Per questo motivo sono sotto esame numerose altre opere, in Sicilia e nel resto d'Italia, su cui la Dda nissena ha disposto verifiche e perizie per accertarne la stabilità strutturale e, quindi, l'esistenza di eventuali pericoli per l'incolumità pubblica.
Nei mesi scorsi i magistrati hanno ordinato il sequestro del palazzo di giustizia di Gela, del Porto Isola-Diga Foranea di Gela, la strada a scorrimento veloce Licata-Torrente Brami, lo svincolo di Castelbuono-Pollina sul tratto autostradale mai completato A/20 Palermo-Messina e, per ultima, l'autostrada Valdastico.
Dagli accertamenti tecnici sono emerse irregolarità nel calcestruzzo fornito da impianti di betonaggio della Calcestruzzi Spa presenti in tutte le regioni, con riguardo anche alla Tav Milano-Bologna, alla Tav Roma-Napoli (terzo e quarto lotto), metrobus di Brescia, metropolitana di Genova e A4-Passante autostradale di Mestre.

Fonte: Ansa

MAFIA (2):
I “PENTITI” SONO 800
MA LE PERSONE PROTETTE 3.853  

Sono 3.853 le persone sottoposte a misure di protezione: 800 collaboratori di giustizia, 67 testimoni, 2.763 familiari di collaboratori e 233 familiari di testimoni. Sono questi i dati, riferiti al 31 dicembre 2007, della relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione, inviata dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza.
Tra gli 800 “pentiti”, a prevalere sono quelli di Camorra (270), seguiti da quelli di Mafia (238) e 'Ndrangheta (97). Le donne sono 36.
Tra i familiari delle persone protette vi sono 1.233 minori. Due sono invece i minori titolari di autonomi programmi di protezione.

Le spese per l'attuazione per le speciali misure di protezione hanno raggiunto nel secondo semestre 2007 la cifra di 32,4 milioni di euro.

PONTE SULLO STRETTO:
PRESIDENTE COMITATO SCIENTIFICO DICE
“CARO E PERICOLOSO”  

La soluzione progettuale mi appare oggi assai costosa e per nulla immune da crisi strutturali”. La frase non è di un accanito avversario alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina, ma addirittura del presidente del comitato tecnico-scientifico per la verifica della fattibilità dell’opera, Remo Calzona, responsabile del dipartimento di ingegneria e geotecnica dell’università La Sapienza di Roma.
Secondo Calzona, intervistato dal quotidiano La Repubblica, sotto il flusso dei venti il ponte sullo stretto rischia di essere chiuso al traffico “anche per cento giorni all’anno”. La colpa è del cosiddetto “effetto galopping” che deforma il nastro d’asfalto. “In Danimarca - ha detto Calzona - il ponte sullo Storbelt ha patito il fenomeno del cosiddetto galopping. Il nastro di asfalto si è andato deformando, tecnicamente è una deformazione ortogonale alla direzione del vento. Una deformazione dovuta al fluido dinamico che impone di bloccare il passaggio di cose e persone. Ma il ponte si realizza proprio per permettere il transito ininterrotto”.
Alla domanda se ne avesse parlato con la società dello Stretto di Messina, Calzona ha risposto: “Pensi che l’amministratore delegato, l’ingegner Ciucci, mi ha persino diffidato a pubblicare il libro che documenta le mie nuove ragioni”.
Intanto alla Camera il ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, ha detto che “la realizzazione del ponte sullo stretto costituisce un punto assolutamente irrinunciabile del programma di governo”.

Il ministro ha prescisato che gli oneri per la costruzione del ponte sono stati quantificati in 6 miliardi di euro, mentre i 5 milioni di euro necessari all’esproprio delle aree interessate saranno a carico della società concessionaria.

CAMORRA:
SECONDO BOSS “PENTITO”,
UN EX SENATORE ORDINO’ TRE OMICIDI  

Il boss “pentito” della Camorra, Giuseppe Misso, ha accusato, Michele Florino, ex  senatore di Msi-dn prima e di An poi, ora esponente de La Destra, di aver ordinato l'omicidio di tre persone il 24 settembre dell'83 a Napoli.
L'esecuzione di Domenico Cella, Ciro Guazzo e Ciro Lollo sarebbe stata decisa perché il clan camorristico dei Giuliano, secondo quanto ha detto Misso, aveva intenzione di chiudere le sezioni del Msi-dn nel quartiere Sanità e voleva sostenere un candidato socialista. Uno dei tre uccisi, ha riferito il boss pentito, Ciro Guazzo, fu ammazzato per errore. L'agguato, secondo Misso, sarebbe stato organizzato in un incontro tra lo stesso capo clan, Florino ed Alfonso Galeota, ucciso agli inizi degli anni Novanta.

Florino si è detto “sgomento” per le accuse che gli sono state rivolte e ha affermato di non conoscere Misso e di pagare per le sue battaglie contro la criminalità organizzata: per tre legislature è stato infatti componente della commissione parlamentare antimafia e più volte promotore della richiesta di istituire un alto commissario per la lotta alla Camorra.

CASO CONTRADA:
LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE
SUL “NO” ALLA REVISIONE DEL PROCESSO  

Il processo all’ex numero due del Sisde Bruno Contrada ha trovato prove “ampie e concordanti”.
Questa, in sintesi, la motivazione con la quale la Cassazione ha respinto la richiesta di revisione del processo presentata nei mesi scorsi dalla difesa di Contrada, condannato con sentenza definitiva a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e attualmente agli arresti domiciliari nella sua casa di Palermo per motivi di salute.
I legali di Contrada avevano sottolineato che i collaboratori di giustizia che hanno accusato il loro assistito sono stati ritenuti in più punti inattendibili nei processi nei confronti del senatore a vita Andreotti e del magistrato Carnevale. Due assoluzioni che l’istanza di revisione considerava “in contraddizione con la condanna di Contrada”.

Per i giudici della prima sezione penale della Corte “non sussiste alcuna inconciliabilità fra le pronunce assolutorie concernenti Carnevale ed Andreotti e quella di condanna inerente il Contrada”. La sentenza 41372 ricorda che “i fatti costituenti oggetto dei giudizi a carico di Carnevale ed Andreotti sono diversi da quelli stabiliti nel procedimento Contrada”. La sentenza di condanna di Contrada, secondo la Cassazione, si basa, oltre che sulle dichiarazioni dei pentiti, “su prove di segno e natura diversa” e il verdetto di colpevolezza è “supportato da un compendio probatorio ampio, complesso e concordante”.

BANDA DELLA MAGLIANA:
TORNA IN CARCERE IL “PENTITO” ABBATINO  

Violazione del “protocollo di comportamento” per i “collaboratori di giustizia”. E’ questa la motivazione per cui Maurizio Abbatino, uno dei fondatori della Banda della Magliana, deve tornare in carcere come ha stabilito il tribunale di sorveglianza di Roma che gli ha revocato il beneficio degli arresti domiciliari.
A dimostrazione dell’assoluta celerità della Giustizia italiana, la violazione del regolamento si riferisce ad una intervista rilasciata ben tre anni fa (il 7 dicembre del 2005) al programma di Rai3 “Chi l’ha visto?”. Intervista che gli ha procurato una querela da parte dell’ex vice questore di Roma Francesco Pompò.
Abbatino, noto come “Crispino”, è uno dei tre appartenenti al nucleo originale della Banda, insieme a Giuseppucci e De Pedis. I tre, nel 1976, costituiscono un primo sodalizio di rapinatori, al quale si aggiungono man mano criminali che operano fuori dalla Magliana. Con l'omicidio di Giuseppucci, avvenuto a Piazza San Cosimato il 13 settembre 1980, la Banda si divide in due gruppi, i Testaccini di Danilo Abbruciati e De Pedis, e quelli della Magliana, guidati proprio da Abbatino.

Abbatino, dopo un lungo periodo di latitanza cominciato nel dicembre del 1986, viene arrestato a Caracas, in Venezuela, il 24 gennaio 1992, e decide di collaborare con la giustizia, anche se in diversi processi, come quello per il delitto Pecorelli, non viene ritenuto attendibile.

SEQUESTRO SOFFIANTINI:
E’ UFFICIALE.
DONATONI FU UCCISO DA “FUOCO AMICO”  

L’agente dei Nocs Samuele Donatoni è stato ucciso da “fuoco amico” in occasione di un’operazione che avrebbe dovuto portare alla liberazione dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini. Il fatto inquietante è che i suoi colleghi, dopo la sua morte, ne spostarono il corpo “anche se non ce n’era alcun bisogno”.
Lo afferma la Cassazione con la sentenza che conferma l’assoluzione dall’accusa di concorso in omicidio di Giovanni Farina, uno degli organizzatori del rapimento di Soffiantini.
In particolare la sentenza ha stabilito che la perizia compiuta dopo la morte dell’agente Donatoni è “corretta”: a sparare e colpire Donatoni non fu Mario Moro, uno dei banditi a sua volta ucciso nello scontro a fuoco, ma una persona armata di pistola che si trovava molto vicino e dietro al poliziotto.
I fatti risalgono alla sera del 17 ottobre 1997 all'altezza del viadotto “Bagnatore” sull'autostrada Roma-L'Aquila. La polizia aveva teso una trappola ai sequestratori di Soffiantini, con i quali era stato fissato un incontro per la consegna del riscatto. Ma l’operazione si risolse in un disastro per la polizia.

I supremi giudici, infine, richiamano anche la testimonianza di Nicola Calipari (il funzionario del Sismi ucciso a Bagdad il 4 marzo del 2005 durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena) che, con grande onestà, aveva smentito la versione ufficiale sulla sparatoria che accusava i rapitori della morte di Donatoni.

CRIMINALITA’ ORGANIZZATA:
CHIESTI 700 ANNI AL PROCESSO
CONTRO LA “MAFIA DEL BRENTA  

Il pm veneziano Paola Mossa ha chiesto complessivamente 700 anni e sei mesi di carcere per i 52 imputati del processo “Rialto”, riguardante le azioni della cosiddetta mafia del Brenta.
Davanti al collegio presieduto da Angelo Risi, nell'aula bunker di Mestre del Tribunale di Venezia, Mossa in tre udienze di requisitoria ha ricostruito una serie di delitti.

Le pene più pesanti, 30, 28 e 26 anni, riguardano gli uomini di riferimento del boss della mafia del Brenta, Felice Maniero, che da “collaboratore di giustizia” è stato il personaggio chiave di tutto il procedimento. Tra i fatti che riguardano i 52 a processo ci sono numerose rapine a istituti di credito, furgoni portavalori e uffici postali. Tra i colpi più eclatanti figura la rocambolesca fuga dal carcere Due Palazzi di Padova dello stesso Maniero nel 1994, ma anche la rapina ai danni del Casinò del Lido di Venezia (1984), la rapina al treno Milano-Padova a Vigonza (1990) nel corso della quale morì una giovane di Conegliano, e infine la rapina della reliquia del mento di Sant'Antonio nella basilica di Padova (1991).

TERRORISMO ITALIANO:
IL BRASILE NEGA L’ASILO POLITICO A CESARE BATTISTI  

Cesare Battisti, ex militante dei Proletari armati per il comunismo, rifugiatosi prima in Francia e poi, nel 2004, in Brasile dove è stato arrestato nel 2007, si è visto rifiutare dal “Conare", il Comitato nazionale per i rifugiati, un organo del ministero della Giustizia brasiliana, la domanda di asilo politico.
La decisione di far esaminare la richiesta di Battisti dal “Conare” era stata presa dal presidente del Tribunale supremo nel luglio scorso dopo che il procuratore generale aveva dato parere favorevole alla sua estradizione in Italia. Se la “Conare” avesse accettato la richiesta di Battisti, il processo di estradizione sarebbe stato automaticamente sospeso in quanto la legge brasiliana vieta che stranieri accusati di un crimine politico o di opinione possano essere espulsi dal Paese. Ora Battisti ha due settimane di tempo per fare appello al ministro della Giustizia.
Condannato in contumacia all'ergastolo in Italia per quattro omicìdi - tra cui quello del gioielliere PierluigiTorregiani, ma uno almeno non può averlo commesso perché avvenne nella stessa ora ma in luogo diverso - Battisti venne arrestato per la prima volta nel 1979 ma riuscì ad evadere nel 1981 e a fuggire in Francia. Poi si trasferì in Messico dove rimase per tutti gli anni Ottanta e dove iniziò a scrivere romanzi gialli. Nel 1990 ritornò a Parigi, dove conquistò una certa notorietà grazie ai suoi libri, finché le autorità francesi non accolsero una seconda richiesta di estradizione proveniente dall'Italia. Prima della scadenza dell'ultimo ricorso nell'ottobre del 2004, Battisti fuggì e con l'aiuto di alcuni amici francesi si rifugiò in Brasile.
Tra Italia e Brasile esiste un trattato di estradizione che esclude però i casi considerati “politici”. Questo anche perché in Brasile, dopo la dittatura, è stata approvato una amnistia molto vasta che ha di fatto annullato tutti i reati commessi dai gruppi guerriglieri di sinistra che combattevano il regime militare.

Ora la decisione spetta al ministro della Giustizia Tarso Genro e non è affatto certo che sia uguale a quella della “Conare” perché all'interno del Pt, il partito del presidente Lula, esiste un'area di pressione a favore di Battisti.

STRAGE DI BRESCIA:
SI E’ APERTO IL TERZO PROCESSO  

E’ cominciato il 25 novembre scorso davanti alla corte di Assise di Brescia il terzo processo per la strage di piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974, che provocò 8 morti e un centinaio di feriti.
Si tratta di un altro processo estremamente indiziario, proprio come quello ingloriosamente finito con tutti gli imputati assolti, per la strage di piazza Fontana. E con quel processo il dibattimento appena apertosi ha molto in comune. A cominciare da due degli imputati, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, entrambi di Ordine nuovo per finire al “pentito” di turno, l’ormai defunto Carlo Digilio, armiere del gruppo neofascista legato ai servizi segreti americani.
Alla sbarra a Brescia ci sono anche Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, e Maurizio Tramonte, un infilitrato del Sid, il servizio segreto militare dell’epoca. Gli altri due imputati sono il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che da capitano condusse le prime indagini, e Giovanni Maifredi, allora confidente dell’Arma e in passato già coinvolto nelle inchieste giudiziarie sul Mar di Carlo Fumagalli, morto anch’egli.

Per tutti l’accusa è di concorso in strage. Tra i testimoni citati spiccano i nomi di Francesco Cossiga e Giulio Andreotti.

ASSASSINIO GIORGIANA MASI:
CHIESTA COMMISSIONE D’INCHIESTA  

Alcuni senatori del Pd hanno presentato un disegno di legge per l'istituzione di una commissione di inchiesta che faccia luce sull'omicidio di Giorgiana Masi, la studentessa uccisa il 12 maggio 1977 colpita da un proiettile vagante con ogni probabilità sparato da un poliziotto travestito da autonomo.

Lo spunto per la richiesta è stato offerto da un intervista rilasciata dall’ex capo di Stato Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno, in cui lo stesso “ha consigliato al ministro dell'Interno di oggi di gestire le manifestazioni e le occupazioni delle scuole infiltrando provocatori che suscitino violenza sì da giustificare l'uso contro di loro della forza pubblica”. Proprio questa affermazione del senatore a vita ha convinto alcuni senatori del Pd (Marco Perduca, Felice Casson e Gianrico Carofiglio a firmare, assieme alla radicale Poretti, un ddl per una commissione di inchiesta sull'uccisione di Giorgiana Masi. “A capo del Viminale - ha dichiarato la Poretti - allora c’era proprio Francesco Cossiga, che negò in modo categorico che il proiettile vagante potesse essere stato sparato dalla Polizia, nonostante numerose foto e testimonianze inequivocabili abbiano successivamente portato all'identificazione di un poliziotto con tanto di nome e cognome, e immortalato mentre, in borghese, vestito con una maglia a strisce, si era infiltrato nella manifestazione per fomentare i disordini'”.

VITTIME DEL TERRORISMO:
BRUNO BERARDI RESPONSABILE GIUSTIZIA
DELLA FIAMMA TRICLORE  

Bruno Berardi, presidente dell’Associazione vittime del terrorismo e della mafia Domus Civitas, è stato nominato responsabile Giustizia della Fiamma Tricolore. Lo ha reso noto lo stesso Berardi, sottolineando di essere stato chiamato a questo incarico dall'eurodeputato e segretario nazionale del partito, Luca Romagnoli.

Onorato dell'incarico ho accettato volentieri perché il tema giustizia per me è molto sentito”, ha affermato Berardi. “Porterò avanti le mie battaglie con l'aiuto della Fiamma tricolore - aggiunge - per riportare nel mio Paese una giustizia che funzioni”.

“PENTITI”:
NUOVO ERGASTOLO DEFINITIVO
PER IL MOSTRO DEL CIRCEO  

E’ definitivo il secondo ergastolo per il mostro del Circeo Angelo Izzo, “pentito” buono per tutte le stagioni, particolarmente caro alla procura di Bologna che indagò sulla strage alla stazione del 2 agosto 1980. La Cassazione ha confermato la seconda condanna all'ergastolo inflittagli lo scorso 4 marzo dalla Corte di Assise di Appello di Campobasso per l'uccisione di Maria Carmela Linciano e Valentina Majorano, quest’ultima di soli 14 anni.
Il più efferato dei criminali del Circeo ha tentato ancora di difendersi, sperando magari in qualche sbavatura del sistema giudiziario come quella che gli aveva consentito - per la negligenza di due giudici poi sanzionati dal Csm - di non essere trasferito dal carcere molisano e di portare a termine, indisturbato, il secondo piano omicidiario. Le due vittime, madre e figlia, sono state uccise a Ferrazzano (Cb) nel 2005, mentre Izzo godeva del regime di semilibertà tramite un lavoro  esterno in una cooperativa fantasma. Aveva conosciuto Maria Carmela e Valentina tramite un suo compagno di cella, Giovanni Majorano (marito della prima e padre della seconda), affiliato alla Sacra Corona Unita. Le aveva attirate in una villetta che aveva in disponibilità. Soffocate e seppellite in giardino.
Il 30 settembre 1975, Izzo insieme ad Andrea Ghira e Gianni Guido violentarono e massacrarono di percosse due ragazze romane, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, in una villa sul litorale del Circeo. Solo quest'ultima sopravvisse e fu trovata ancora viva nel bagagliaio dell'auto di uno dei violentatori che l'avevano riportata a Roma, per farla sparire, insieme al corpo senza vita della sua amica. Donatella Colasanti è morta per un tumore al seno il 30 dicembre 2005.
Izzo è stato anche condannato a rifondere 12 mila euro per le spese legali sostenute dai famigliari delle sue due vittime.
Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, aveva chiesto la conferma del carcere a vita per il mostro del Circeo, respingendo l'ipotesi difensiva in base alla quale l'imputato sarebbe stato seminfermo di mente. Il Pg aveva rilevato come questo secondo doppio delitto sia stato accuratamente premeditato e come Izzo si sia mantenuto lucido anche dopo l'esecuzione e l'occultamento dei cadaveri sotterrati in buste di plastica nel giardino della villetta.

Intanto la Corte di Assise Appello di Campobasso il 27 novembre scorso ha elevato da 24 a 30 anni di reclusione la condanna per Luca Palaia, il complice di Angelo Izzo nel duplice omicidio. La Corte ha concesso a Palaia le attenuanti generiche. Il procuratore generale, Antonio La Rana, aveva chiesto l'ergastolo, mentre la difesa aveva sollecitato il riconoscimento della seminfermità mentale.

TIFOSO UCCISO:
NUOVO TRASFERIMENTO PER AGENTE CHE SPARO'  

Nuovo trasferimento per Luigi Spaccarotella, il poliziotto che sparò il colpo che  uccise Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio morto all'autogrill di Badia al Pino (Arezzo) l’11 novembre 2007. Lo spostamento, disposto dal ministero, sarebbe da attribuire a “motivi di sicurezza”.
Spaccarotella, che era agente della polstrada di Battifolle quando morì Sandri, la primavera scorsa era stato trasferito alla polizia ferroviaria di Firenze, con mansioni d'ufficio. Ora il nuovo cambio con destinazione l’ufficio interprovinciale tecnico logistico di Firenze dove dovrebbe sempre occuparsi di mansioni d'ufficio.
Il 16 gennaio prossimo si svolgerà l'udienza preliminare per l'omicidio di Sandri. Spaccarotella è accusato di omicidio volontario.
Un'udienza preliminare si era già svolta il 25 settembre scorso, ma venne annullata perché il giudice accolse un'eccezione della difesa del poliziotto, secondo la quale ad uno dei due legali dell'agente, Gianpiero Renzo, non era stato notificato l'avviso di chiusura delle indagini.

E’ già noto che la difesa chiederà per Spaccarotella il rito abbreviato condizionato.

KOSOVO:
MISSIONE EULEX PRONTA.
MA PRISTINA NON E’ D’ACCORDO  

La missione civile europea Eulex in Kosovo, che dovrà sostituire quella dell’Onu, sarà pronta a dicembre. Eulex verrebbe dispiegata in tutto il territorio kosovaro, ma risponderebbe a una diversa catena di comando (che farebbe riferimento all’Onu e non all’Unione europea) nelle zone a maggioranza serba.

La decisione è però osteggiata dal governo di Pristina che ne percepisce i connotati come una negazione della propria sovranità, anche perché si tratta di una decisione che ha come prospettiva una futura partizione del territorio, con il nord di Mitrovica, abitato prevalentemente da serbi, pronto a ricongiungersi alla madrepatria.

KOSOVO (2):
BOMBA A PRISTINA,
ACCUSE AI SERVIZI SEGRETI TEDESCHI  

Il governo del Kosovo avrebbe prove contro tre cittadini tedeschi arrestati a Pristina, ritenuti gli autori di un attentato alla sede della Ue a Pristina avvenuto il 14 novembre scorso. Si tratterebbe di agenti dei servizi segreti o di uomini dell'intelligence dell'esercito tedesco.
In Germania si moltiplicano dubbi, domande e ipotesi relative all'arresto dei tre tedeschi. Secondo il quotidiano Sueddeutsche Zeitung, il governo kosovaro è in possesso di un video che incastrerebbe uno dei tre tedeschi arrestati. Stando al racconto di un alto rappresentante dell'esecutivo kosovaro citato dal giornale, nel video si vede Andreas J. mentre lancia una bomba contro gli uffici Ue da un palazzo vicino.
Berlino di questo filmato dà invece una versione completamente differente. Stando a un funzionario citato sempre dalla Sueddeutsche Zeitung, il video mostra soltanto una bomba che vola sugli uffici della Ue a Pristina; non è possibile tuttavia vedere l'autore dell'attentato e "comunque non si tratta di Andreas J.".
Andando oltre il video e le sue possibili interpretazioni, la vicenda non è affatto chiara. Ad esempio, non è ancora spiegato cosa facessero i tre tedeschi in Kosovo: per la maggior parte della stampa tedesca,  i tre arrestati sono agenti dei servizi segreti (Bnd), ma c'è anche chi parla di uomini dell'intelligence dell'esercito, anche se la Sueddeutsche Zeitung sostiene che a giocare un ruolo potrebbero essere i malumori all'interno del governo kosovaro, contrariato dal lavoro del Bnd che punta a svelare i legami tra l'esecutivo e la mafia locale.
Per ora è certo che i tre tedeschi resteranno in carcere 30 giorni in stato di fermo. A quanto dicono i loro avvocati, la procura di Pristina potrebbe però accusarli di terrorismo. E in questo caso rischierebbero una pena di 20 anni di carcere.
La bomba negli uffici Ue - che ha provocato solo danni materiali - s'inserisce in realtà nelle tensioni legate alla riconfigurazione della missione dell'Onu (Unmik) e al dispiegamento di quella di Bruxelles  (Eulex): Belgrado è riuscita ad ottenere dall'Onu una sostanziale autonomia per i serbi del nord del Kosovo, che in alcuni settori resteranno sotto tutela dell'Unmik e non di Eulex; un doppio trattamento che, secondo molti osservatori, è un prologo alla partizione del Kosovo.

Per la cronaca: va detto che la bomba contro gli uffici Ue è stata lanciata poche ore dopo una riunione del Bundestag, nel corso della quale è emersa l'irritazione di Berlino per il no di Pristina alla riconfigurazione dell'Unmik.

MERCENARI IN IRAQ:
GLI STRANI INCONTRI DEL RECLUTATORE  

Continua a Bari il processo contro Giampiero Spinelli e Salvatore Stefio, i reclutatori di Didri Forese e degli ex ostaggi italiani Umberto Cupertino e Maurizio Agliana. Questi  ultimi due, assieme a Stefio e a Fabrizio Quattrocchi, furono catturati il 12 aprile 2004 e liberati dopo 56 giorni. Quattrocchi fu invece ucciso.
Al centro della seconda udienza, un incontro misterioso su una imbarcazione militare italiana in manutenzione nel porto di Bari tra un sottufficiale della Guardia costiera, Erasmo Pinasco e l'imputato Giampiero Spinelli, e un ipotetico servizio di scorta ad un diplomatico italiano a Baghdad.
In Corte d'assise ha deposto l'ispettore della Digos di Bari Michele Saracino che ha svolto gran parte degli atti d'indagine. Rispondendo alle domande delle parti, Saracino ha detto che l'incontro sulla nave avvenne prima del 4 aprile 2004 quando partirono da Roma per l'Iraq Spinelli, Stefio, Cupertino e Agliana. Pinasco, in servizio in Sardegna, aveva in dotazione - ha aggiunto l'ispettore - un telefono cellulare riconducibile a Stefio e sarebbe stato un collaboratore della “Presidium” di Stefio, società con sede alle Seychelles che - secondo l'accusa - si occupò del reclutamento di alcuni degli ex ostaggi italiani, forse su richiesta della “Dts” di Paolo Simeone e Valeria Castellani. Fu Stefio - è emerso dal processo - a  chiedere a Spinelli collaborazione per assumere personale da mandare in Iraq. Più volte nel corso dell'udienza il legale di Spinelli, l’avv. Francesco Maria Colonna, ha insinuato il sospetto che Pinasco fosse vicino ai servizi di sicurezza.
Dalla testimonianza di Saracino, si è avuta conferma che per i bodyguard italiani “tra i presunti incarichi che avrebbero potuto svolgere c'era quello di scortare un diplomatico italiano a Baghdad”. L'ispettore ha aggiunto che “probabilmente” questo compito l'avrebbe potuto svolgere il gruppo dei bodyguard partito da Genova e composto da Quattrocchi, Cristiano Meli, Paolo Simeone, Valeria Castellani, Luigi Valle, Paolo Casti e Alessandro Favetti.

L'investigatore, rispondendo prima alle domande del pm, Manfredi Dini Ciacci, e in controesame al legale di Stefio, Antonello Patanè, ha inoltre riferito che a Castellani e a Simeone era riconducile la “Dts”, che ingaggiò, quand'erano già in Iraq, alcuni degli ex ostaggi italiani. E ha precisato che i due soci della “Dts” (che ha sede in Nevada) erano in Iraq (prima a Bassora e poi a Baghdad) come volontari di due Ong. Castellani operava in “Un ponte per”, la stessa organizzazione di Simona Torretta e Simona Pari, sequestrate e poi rilasciate in Iraq nel 2004.

DOCUMENTAZIONE 

STRAGE MUMBAI:
IL FILM DELLE 60 ORE DI TERRORE  

Ecco il film (con le indicazioni in ora italiana) delle 60 ore di terrore seguite agli attacchi terroristici iniziati mercoledì 26 novembre a Mumbai il cui bilancio - ancora provvisorio - è di 195 morti e quasi 300 feriti. Tra le vittime vi sono 27 cittadini stranieri, tra cui il consulente finanziario italiano Antonio Di Lorenzo, ucciso dallo scoppio di una granata all'interno dell'Hotel Oberoi-Trident.

MERCOLEDI' 26: poco dopo le 18:00 (le 22:30 locali), alcuni uomini armati con fucili mitragliatori e granate attaccano simultaneamente una serie di obiettivi a Mumbai. Tra questi figurano la stazione ferroviaria centrale, un ospedale e due alberghi di lusso frequentati solitamente da turisti e uomini d'affari occidentali: il Taj Mahal e l'Oberoi-Trident.

Ore 22:30 - Reparti speciali indiani compiono un blitz all'interno dell'Hotel Oberoi, dove di odono spari ed esplosioni. Un'organizzazione finora sconosciuta, i Mujaheddin del Deccan, rivendica gli attacchi.

GIOVEDI' 27:

Ore 07:00 - Alcune compagnie aeree annunciano la sospensione dei voli da e per Mumbai. La Borsa rimane chiusa.
08:13 - La tv indiana dà notizia dell'inizio di un blitz dei reparti antiterrorismo nei due alberghi.
09:47 - La Farnesina annuncia: "Un italiano è morto". La vittima e' Antonio Di Lorenzo, 63 anni.
10:53 - Si odono esplosioni presso i due alberghi e presso il centro ebraico ultraortodosso Chabad nella Nariman House.
12:05 - Il ministro degli Esteri Franco Frattini annuncia che 40 italiani sono sani e salvi nel consolato italiano.
12:20 - Il primo ministro indiano Manmohan Singh sostiene che i terroristi hanno "collegamenti esterni".
16:42 - Un alto responsabile dell'esercito sostiene che i terroristi sono giunti dal Pakistan, ma il governo di Islamabad respinge le accuse.
17:29 - I commando dell'esercito indiano combattono contro i terroristi rimasti asserragliati all'interno del Taj Mahal e dell'Oberoi con decine di ostaggi. Scoppia un incendio in un'ala dell'Oberoi, dove sono intrappolati sette italiani, tra cui una donna con la sua bambina di sei mesi.  
19:02 - Fonti ufficiali indiane annunciano che tutti i terroristi asserragliati nell'Hotel Taj Mahal, meno uno, sono stati uccisi; si odono ancora spari ed esplosioni all'interno.

VENERDI' 28:

Ore 06:19 - Sono libere la donna italiana e la sua bimba di sei mesi rimaste bloccate da mercoledì sera nell'Oberoi.
07:00 - Si diffonde la notizia che all'interno del Taj Mahal vi sono ancora due o tre terroristi.
08:45 - Si cominciano a trovare cadaveri negli alberghi: al Taj Mahal in una sola camera ve ne sono 15.
09:41 - Tutti gli italiani sono liberi e stanno bene.
09:44 - Il ministro degli Esteri indiano accusa il Pakistan di essere coinvolto nell'attacco terroristico. Il suo omologo pachistano risponde: "Terrorismo è nemico comune".
13:45 - Un testimone italiano: "I terroristi facevano processi sommari".
14:40 - Il ministro degli Esteri pachistano afferma di voler cooperare con New Delhi.
14:43 - La tv israeliana rivela che al centro ebraico sei ostaggi e tre terroristi sono morti. Tra le vittime anche il rabbino, di nazionalità americana, e la giovane moglie.
18:18 - A due giorni dall'inizio degli attacchi si combatte ancora al Taj Mahal.

SABATO 29:

Ore 02:00 - Nuovo blitz al Taj Mahal. "E' l'assalto finale", dice il capo della polizia Hassan Gaoor.
05:37 - Finita la battaglia al Taj Mahal, uccisi gli ultimi tre terroristi.
07:38 - Per il 'Times of India' sono almeno 195 i morti. Per l'Afp, le vittime straniere sono 26.
11:09 - Il premier indiano Singh, al centro di critiche interne per inefficienza, tiene un vertice e Mumbai con i capi dell'esercito e dei servizi.
12:55 - Secondo una tv indiana, le teste di cuoio hanno ucciso 15 terroristi e ne hanno catturato uno, pachistano, che avrebbe dichiarato di essere un militante del Lashkar-e-Taiba, gruppo islamico pachistano attivo nell'India orientale.
12:57 - 19 italiani provenienti da Mumbai sbarcano  all'aeroporto di Parigi, da dove proseguiranno per l'Italia. E' la fine di un incubo.

Fonte: Ansa

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