STRAGE VIA D’AMELIO:
L’ AGENDA DI BORSELLINO? VOLATILIZZATA  

Si sono chiuse con il proscioglimento dell'unico indagato, l’ufficiale dei carabinieri Giovanni Arcangioli, 16 anni di indagini sul mistero della scomparsa dell'agenda rossa in cui il giudice Paolo Borsellino, negli ultimi giorni della sua vita, annotava convulsamente appuntamenti, riflessioni e pensieri, ritenuta la chiave dei tanti misteri che circondano ancora la strage di via D'Amelio
Il gip di Caltanissetta, Paolo Scotto di Luzzio, ha infatti dichiarato il non luogo a procedere “per non avere commesso il fatto” nei confronti dell'allora capitano, accusato del furto del diario. La procura aveva contestato al carabiniere anche l'aggravante dall'avere agevolato Cosa nostra.
La lunga vicenda giudiziaria sull'agenda rossa aveva subito una svolta lo scorso autunno con la decisione di un altro gip nisseno, Ottavio Sferlazza, di ordinare l'iscrizione nel registro degli indagati di Arcangioli, nel 1992 comandante della sezione del nucleo operativo del gruppo Palermo I, per furto aggravato.
Nella vicenda dell’agenda scomparsa, Arcangioli entra grazie alle immagini girate da operatori tv negli istanti successivi la strage di via d'Amelio in cui Borsellino perse la vita. L'ufficiale viene ripreso, intorno alle 17.30, mentre si allontana velocemente dall'auto della vittima con in mano l'inseparabile valigetta di cuoio del giudice. La borsa  ricompare nell’auto, devastata dall’esplosione, circa un'ora dopo; viene sequestrata e repertata: dentro, però, l'agenda non c’è più. “Sono convinto che il diario contenga la chiave della strage”, dichiara da subito il pm Antonio Ingroia, allievo del magistrato. E la vedova, Agnese Borsellino, racconta agli investigatori di avere visto il marito prendere appunti sulle date di interrogatorio di un pentito da sentire in Germania, durante il pranzo organizzato nella casa al mare il 19 luglio, giorno della strage.
Cosa è accaduto tra le 17.30 e la redazione del verbale di sequestro dei reperti che non fa cenno all’agenda? Il nodo è tutto qui.
Arcangioli ha sempre sostenuto di non avere aperto l'agenda e di averla mostrata a Giuseppe Ayala, ex collega di Borsellino, nel '92 deputato, tra i primi ad accorrere in via D'Amelio. Ma la versione del militare non ha convinto i magistrati che inizialmente l'hanno indagato per false informazioni. Ayala nega di avere ricevuto la borsa dal capitano e sostiene di averla vista nell'auto, di averne parlato con l'ufficiale e di averla consegnata ad un altro carabiniere.
Di certo c’è che, quando la borsa vuota viene ritrovata nella blindata di Borsellino, presenta bruciature che prima non c'erano. Nel frattempo l’auto del magistrato aveva preso fuoco: ciò confermerebbe che la borsa era stata tolta e poi rimessa dentro la vettura. Inoltre, elemento che più insospettisce i pm: nelle immagini si vede Arcangioli allontanarsi velocemente dal luogo della strage con la borsa, in una direzione, che secondo gli inquirenti, non sarebbe giustificata né dalla presenza di soggetti istituzionali, né da motivi investigativi.
Nonostante tutti questi indizi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato il proscioglimento del misterioso colonnello Arcangioli.

CATTURA PROVENZANO:
PROCESSO A VERTICI ROS DEI CARABINIERI MORI E OBINU RINVIATI A GIUDIZIO  

Restano troppe ombre sul mancato blitz che, nel 1995, avrebbe potuto portare alla cattura del padrino di Corleone, Bernardo Provenzano. Troppi i dubbi sui vertici del Ros dei carabinieri dell'epoca, che decisero di non entrare in azione, nonostante un confidente, ucciso pochi mesi opo, avesse indicato loro il covo in cui il latitante si nascondeva.
Sarà il tribunale di Palermo, adesso, a far luce sui tanti misteri che circondano la vicenda. In particolare sul ruolo del prefetto Mario Mori, ex vicecomandante operativo del Ros - poi entrato con un prestigioso incarico al Sisde, il servizio segreto civile -  e del colonnello Mauro Obinu, comandante del reparto criminalità organizzata del Raggruppamento, rinviati a giudizio dal gup Mario Conte per favoreggiamento aggravato dall'avere agevolato Cosa nostra.
Una decisione maturata il 14 aprile scorso dopo una breve camera di consiglio che segue, però, una complessa vicenda giudiziaria cominciata nel 2o01 con le rivelazioni del colonnello dell'Arma Michele Riccio.
In una lettera, l'ufficiale, che nel '95 era aggregato al reparto criminalità organizzata del Ros, chiede di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo'', un capomafia del nisseno che aveva cominciato a collaborare con la giustizia, facendo arrestare latitanti di rilievo e primo a mostrare agli investigatori i pizzini del boss di Corleone.
Riccio racconta al pm che, il 29 ottobre del 2001, aveva comunicato a Mori e Obinu l'imminente incontro tra Ilardo e Provenzano in un casolare nelle campagne di Mezzojuso. Il summit si sarebbe dovuto tenere dopo due giorni. I carabinieri, però, decidono di non intervenire, si appostano, assistono da lontano e fotografano Ilardo, mentre, dopo essere stato prelevato da due mafiosi vicini a Provenzano, si allontana verso il covo. Il blitz non scatta.
Dissero che non eravamo certi che Provenzano fosse lì e che non volevano bruciare la fonte'', racconta Riccio. Un'occasione unica sfumata. Ilardo, infatti, rientra dall'appuntamento, conferma di avere incontrato il latitante e indica ai carabinieri i nomi degli uomini che l'hanno accompagnato al covo. Ma per un anno, fino ad ottobre del 1996, nessuno terrà d'occhio il casolare, nè i favoreggiatori del superboss.
Omissioni inaccettabili, secondo la procura. Decisione imposta dai luoghi, per il Ros: il nascondiglio era in aperta campagna ed eventuali telecamere potevano essere scoperte dai mafiosi.
La procura è costretta a chiedere l'archiviazione dell'indagine. Ma il gip la rigetta e sollecita altri accertamenti. Saranno proprio le nuove investigazioni a ribaltare le conclusioni di Di Matteo che incarica un perito di esaminare i luoghi del mancato blitz. Viene fuori così che dalla caserma dei carabinieri di Campofelice di Fitalia, paese poco distante, il covo era visibilissimo: sarebbe dunque bastato piazzare lì delle telecamere per ''monitorarlo''.
La perizia non e' l'unica attività disposta da Di Matteo che, sentendo l'allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e altri magistrati, accerta che, nonostante le chiare indicazioni del pool antimafia, il Ros fino al 1996 non parlò della vicenda alla Procura.
Il nuovo materiale probatorio e le dichiarazioni di Riccio, secondo il gup, che accoglie la richiesta, questa volta di rinvio a giudizio, del pm, meritano un approfondimento processuale.
Il prefetto Mori è già stato processato per un’altro atto mancato: favoreggiamento aggravato in relazione alla mancata perquisizione del covo di Riina. Ma, pur se tra mille dubbi, è stato assolto due anni fa.

UNABOMBER:
IL DISASTRO DELLE INDAGINI. 8 MILIONI DI EURO GETTATI AL VENTO  

Ineluttabile è arrivata la fine più ingloriosa per il super pool di esperti chiamato ad indagare sul mistero Unabomber, il bombarolo del Nord est che imperversa indisturbato dal 1994.
Alla chetichella, con un decreto del ministero dell’Interno, i 30 esperti che componevano la mega struttura investigativa interforze sono stati mandati a casa per manifesta incapacità.
Otto milioni di euro e cinque anni gettati al vento, dal momento che non sono serviti, oltre ai 30 esperti provenienti da polizia, carabinieri, Ris, Ros, Scientifica, squadra mobile, neanche i magistrati di tre procure (Pordenone, Trieste e Venezia).
Centinaia di faldoni tornano così a ricoprirsi di polvere, così come la inutile lista delle prove a carico dell’ing. Elvo Zornitta, vittima sacrificale di questa sciagurata inchiesta che probabilmente tornerà ad essere utile quando l’imprendibile Unabomber tornerà a colpire di nuovo. Perché, purtroppo, questo è inevitabile.

UNABOMBER:
MAXIRISARCIMENTO PER ZORNITTA  

Il ministero dell'Interno ha avviato le procedure per un eventuale maxirisarcimento all'ingegner Elvo Zornitta, indagato quale presunto responsabile degli attentati attribuiti negli ultimi 13 anni a Unabomber.
Come confermato dall'avv. Paolo Dell'Agnolo, difensore di Zornitta, il ministero ha incaricato le prefetture di Venezia, Trieste e Pordenone di effettuare un esame della situazione. La richiesta è stata avanzata dopo la scoperta che il lamierino trovato in un ordigno inesploso attribuito a Unabomber, considerato la “prova regina” a carico dell’ingegnere veneto, era stato manomesso nel Laboratorio di Indagini Criminalistiche (Lic) di Mestre.
Nella richiesta non sono indicate cifre per il risarcimento, che comunque dovrebbe essere molto consistente, alla luce dei danni (materiali e morali) lamentati da Zornitta (che a causa dell’inchiesta ha anche perso il posto di lavoro) e delle spese processuali da lui sostenute, comprese quelle per far eseguire perizie da contrapporre a quelle degli organi investigativi.
Intanto a Venezia è in corso il procedimento penale a carico di Ezio Zernar, il responsabile del Lic, accusato di aver manomesso il lamierino.

UNABOMBER:
MA L’INCHIESTA PROSEGUE A TRIESTE  

Può sembrare un paradosso, ma l’ing. Elvo Zornitta, nonostante la sua plateale innocenza, continua ad essere indagato a Trieste dove la direzione distrettuale antimafia continua a formulare nei suoi confronti le ipotesi di reato di attentato di tipo terroristico, lesioni personali gravi e aggravate, detenzione e uso di esplosivo.
Sono le incongruenze della giustizia che in casi come questi non può essere scritta con la G maiuscola.
L’assurdo accanimento giudiziario della procura di Trieste ha portato al cambio del pm che coordina le indagini. Il procuratore distrettuale antimafia del capoluogo giuliano, Nicola Maria Pace, ha deciso di assegnare l'intero procedimento al sostituto procuratore Federico Frezza, che subentrerà al pm Pietro Montrone che ha coordinato l'inchiesta negli ultimi anni.
L'inchiesta riguarda tutti gli episodi attribuiti a Unabomber (in tutto 29), a partire dall'esplosione di un tubo bomba alla Sagra degli Osei di Sacile (Pordenone), il 21 agosto 1994.

DELITTO DI PERUGIA:
DEPOSITATA LA PERIZIA.
RESTANO INCERTE ORA DELLA MORTE, ARMA E VIOLENZA SESSUALE  

Come anticipato nello scorso numero della Newsletter di Misteri d’Italia, la perizia disposta dal Gip di Perugia non ha risolto in alcun modo il mistero della morte di Meredith Kercher, anzi - se possibile - ha ulteriormente complicato l’inchiesta. 
Infatti se la perizia ha confermato che la giovane donna è stata ferita alla gola e poi strangolata mentre forse cercava di difendersi e che la morte è sopraggiunta in 7-10 minuti, i periti del gip di Perugia - che hanno eseguito un esame medico-legale sul caso della studentessa inglese - non sono riusciti a stabilire con certezza se Meredith sia stata violentata o abbia invece avuto un rapporto sessuale consenziente.
Insomma l’elaborato di una sessantina di pagine messo a disposizione delle parti ancora non chiarisce cosa sia successo nella casa di via della Pergola.
Per rispondere ai quesiti del gip, i periti - Mariano Cingolani, Anna Aprile e Giancarlo Umani Ronchi - non hanno ritenuto necessario esaminare nuovamente il cadavere. Si sono invece basati sui reperti e sulla documentazione proveniente dall'autopsia svolta dal consulente del pubblico ministero Giuliano Mignini.
Secondo i periti, Meredith Kercher venne uccisa tra le 18.50 del primo novembre e le 4.50 della notte successiva, cioè in un lasso di tempo di ben 10 ore che non permette di stabilire l’ora del delitto che, come tutti sanno, è un elemento fondamentale in qualsiasi inchiesta giudiziaria degna di questo nome. C’è anche da notare che, su questo aspetto, i periti smentiscono il medico-legale Luca Lalli che aveva invece collocato intorno alle 23 la presunta ora del decesso.
Nella perizia si sostiene poi che la studentessa ha avuto un rapporto sessuale “recente” rispetto alla morte, ma si afferma anche che “non è possibile” stabilire se sia stato consenziente o meno. Un dato questo sottolineato dai difensori di Rudy Guede, gli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, per i quali “non emerge la prova di una violenza sessuale”. Il giovane ivoriano ha infatti ammesso la sua presenza nella casa di Mez la sera del delitto e di avere avuto con lei un approccio, negando però ogni addebito per la morte di Mez.
Riguardo alle cause della morte, dalla perizia emerge che la giovane è stata colpita alla gola con un “mezzo da punta e taglio dotato di lama monotagliente” e il suo stesso sangue ha contribuito a soffocarla mentre, subito dopo, è stata strangolata. Conclusione alla quale gli esperti sono giunti esaminando tra l'altro la frattura dell'osso ioide collocato sul collo, mentre le lesioni riscontrate sugli arti li hanno portati a ipotizzare che la giovane possa avere tentato di difendersi.
Riguardo all'arma utilizzata per colpire alla gola la Kercher, i periti del gip hanno spiegato che “l'unico giudizio possibile è quello di non incompatibilità” tra le lesioni al collo riscontrate e il coltello da cucina, con tracce di Dna della vittima e di Amanda Knox, sequestrato in casa di Raffaele Sollecito.
Si noti la straordinaria prudenza dei periti che non parlano neppure di “compatibilità” dell’arma, ma addirittura di “non incompatibilità”, laddove la compatibilità sta ad indicare soltanto il tipo di coltello e non quel coltello.
Dalle analisi svolte è emerso con certezza che la Kercher non aveva fatto uso di droghe e non è stata avvelenata, mentre controverso rimane il dato relativo alla concentrazione di alcol nel sangue Meredith: 2.72 grammi-litro per gli esperti del gip e quindi “indicativo di un chiaro stato di ebbrezza”. Un valore però di oltre sei volte superiore a quello accertato nell'autopsia, con una discordanza che per gli esperti non è facile spiegare. Varie le ipotesi formulate, tutte relative ad altri clamorosi errori nella conduzione dell’inchiesta: da un errore di campionamento a un problema della conservazione del sangue repertato fino ad un inquinamento esterno.

DELITTO DI PERUGIA:
IL CORPO NUDO DI MEREDITH IN TV  

E’ ancora forte l’eco della polemica per le immagini trasmesse da Telenorba7, emittente pugliese, che ritraggono il cadavere nudo di Meredith Kercher, la giovane donna assassinata a Perugia nella notte tra il 1° ed il 2 novembre scorsi. Immagini crude, che nulla aggiungono all’informazione sul delitto che, irresponsabilmente, il programma di approfondimento (?) Il Graffio, del network Telenorba7, condotto dal direttore di Tg Norba, Enzo Magistà, ha deciso di trasmettere.
Le immagini sono quelle girate dalla Polizia scientifica il 2 novembre, quando venne esaminato per la prima volta il luogo dell'omicidio dove era ancora il cadavere. Si tratta di un filmato di due minuti e mezzo circa in cui si vede il cadavere a terra, accanto al letto, coperto da un piumone bianco, dal quale spunta un piede della ragazza. Poi una mano solleva il piumone e si vede il corpo della donna dalla testa fino alla pancia, mentre la telecamera indugia sulla gola squarciata. Successivamente gli investigatori voltano il cadavere: nel filmato si vede quindi la schiena della ragazza, sporca di sangue, ed il sedere.

DELITTO DI PERUGIA:
GLI INCREDIBILI ERRORI DELLA POLIZIA SCIENTIFICA  

La domanda è: possiamo chiamarla ancora polizia scientifica? O dovremmo forse rinominarla polizia approssimativa?
Sentite l’ultima sul delitto di Perugia.
La zona del reggiseno di Meredith Kercher su cui sarebbe stato trovato, secondo l’accusa, il Dna di Raffaele Sollecito, lo studente barese in carcere per l'omicidio, è stato scoperto dalla polizia scientifica il 2 novembre scorso, nel corso del primo sopralluogo eseguito nella stanza della vittima. Ma, incomprensibilmente, è stato repertato solo nel secondo sopralluogo, compiuto il 18 dicembre, quindi ben un mese e messo dopo. Ma non è finita. Quando viene repertato con tanto incredibile ritardo quel pezzetto di reggiseno appare in evidente stato di deterioramento, tanto da inficiare la prova a carico di Sollecito in un prossimo dibattimento.
Va aggiunto che anche sull’impronta di scarpa impressa nel sangue della vittima, che secondo la Procura di Perugia apparterrebbe ancora una volta a Sollecito, cominciano a sorgere dubbi perfino negli stessi inquirenti, dal momento che ora emerge dall’esame dei filmati della scena del crimine che altre impronte furono cancellate dagli stessi agenti pasticcioni durante la campionatura delle tracce ematiche.

DELITTO DI GAVOI:
OTTO ORE NEL BAGAGLIAIO, MA LA POLIZIA NON SE NE ACCORGE  

Nessuna inchiesta, neppure amministrativa, per l’assurdo comportamento degli agenti della polizia scientifica che hanno analizzato (si fa per dire) la scena del crimine nel garage dell’abitazione della famiglia Rocca da dove, il 27 marzo scorso, era sparita Dina Dore, moglie del dentista Francesco Rocca.
Prima ipotesi: la donna è stata rapita. Sbagliato. La signora Dina era già morta, ed era imbavagliata nel bagagliaio dell’auto attorno alla quale gli “esperti” della scientifica hanno girato per ben otto ore senza che a nessuno venisse in mente di aprire quel maledetto bagagliaio.
Ora si dice che la donna è morta quasi subito. Che i suoi rapitori, forse dei balordi, l’avevano imbavagliata bocca e naso e che Dina è morta per soffocamento. Ma se così non fosse stato? Otto ore per aprire un bagagliaio? Incredibile.
Come incredibile è stato il commento del pm di Nuoro Danilo Tronci: “la procedura è stata rispettata, perché in casi come questi i rilievi devono essere accurati”.
Evidentemente l’accuratezza di cui parla Tronci non prevede l’apertura di un bagagliaio.

DELITTO DI ARCE:
IL “SUICIDIO” DEL CARABINIERE  

di Rory Cappelli

È stato trovato nel primo pomeriggio dell’11 aprile scorso poco lontano dal luogo in cui, sette anni fa, fu scoperto il corpo di Serena Mollicone, brutalmente assassinata.
Lui, Santino Tuzzi, brigadiere dei carabinieri di Sora, 50 anni, stando almeno alle prime ricostruzioni, si è sparato in pieno petto con la pistola d'ordinanza. A legarlo al delitto Mollicone l'interrogatorio di cinque giorni fa quando, chiamato dalla procura di Cassino, era stato sentito come persona informata dei fatti. E anche se il procuratore di Cassino Gianfranco Izzo ha escluso che la morte del brigadiere possa essere legata alla nuova indagine, le domande restano molte. E, soprattutto, le dichiarazioni di un amico, Marco Malvani, che, davanti alle telecamere delle televisioni locali, ha affermato: “Santino è stato ucciso, non si è sparato. Era a conoscenza di cose importanti riguardo l'omicidio di Serena Mollicone. Me ne aveva parlato più volte e per questo era stato trasferito dalla stazione di Arce a quella di Fontana Liri. L'avevo incontrato un'ora prima che venisse ritrovato privo di vita. Ci siamo incrociati con la macchina, mi ha lampeggiato. Un uomo che va ad uccidersi non si comporta così. Mi aveva anche confidato di come il famoso telefonino di Serena fosse magicamente riapparso in casa della ragazza. Sapeva troppe cose di quella storia. Povero amico mio. E ora che la verità venga finalmente a galla. Per la sua memoria e per quella di Serena».
Poco oltre il luogo del ritrovamento del brigadiere, la diga dell'Enel e il fiume Liri. Non lontana, la radura in cui il 3 giugno 2001 fu ritrovata la ragazza di Sora, Serena Mollicone, 18 anni, studentessa modello, mora, bella, piena di interessi e di vita, figlia di un maestro elementare proprietario di una cartoleria. Aveva le mani legate dietro la schiena con un nastro adesivo, i piedi fasciati dallo stesso nastro più e più volte, un sacchetto di plastica in testa. Era morta per l'emorragia causata da un colpo alla tempia. Fin dall'inizio le indagini sono ingarbugliate, dense di finti di colpi di scena, di sospettati, di ricostruzioni ai limiti dell'assurdo, di storie che volano nel paese e in tutta la Ciociaria come palline da ping ping impazzite: la ragazza si drogava, aveva un amante sposato, non era quello che sembrava, l'ha uccisa un gruppo, l'ha uccisa una sola persona. Si sospetta del cugino, del fidanzato, di due pregiudicati, persino del padre. Spunta un amico che l'accompagnava a scuola su una vecchia Golf rossa, con cui ascoltava heavy metal. Spunta persino una pista esoterico-satanica. Alla fine un indizio, vero. In uno scatolone nella carrozzeria di Carmine Belli, di Rocca D'Arce, viene trovato il foglio in cui Serena aveva annotato l'appuntamento dal dentista che aveva proprio il giorno in cui scomparve. Belli viene arrestato. Si fa 17 mesi di carcere in isolamento a Cassino. Viene assolto dalla Corte d'Assise di Cassino con una sentenza del 7 luglio 2004 e poi definitivamente, il 31 gennaio 2006, con quella emessa dalla Corte d'Appello di Roma. Lo scorso anno, dopo uno dall'archiviazione e sei dal delitto, il reparto operativo del Comando Provinciale riapre il caso. E sente il brigadiere Santino Tuzzi.

Fonte: La Repubblica

OMICIDIO D’ANTONA:
IN APPELLO 21 ANNI E MEZZO A FEDERICA SARACENI  

Sentenza a sorpresa nel processo d’Appello per il delitto del giuslavorista Massimo D’Antona, assassinato a Roma il 20 maggio 1999. Assolta in primo grado, Federica Saraceni è stata condannata a 21 anni e sei mesi di detenzione dalla seconda corte di assise d’Appello di Roma.
Federica Saraceni, che ha sempre negato la sua partecipazione all’omicidio, pur ammettendo la sua amicizia con Mario Galesi - il brigatista ucciso in una sparatoria sul treno Roma-Arezzo dove si trovava con Nadia Lioce e in cui perse la vita anche l’agente Emanuele Petri - è stata privata anche della potestà di genitore della figlia.
I magistrati dell’accusa le hanno invece contestato di aver affittato un appartamento a Cerveteri, sul litorale laziale, utilizzato come base delle Br e di aver lasciato al proprietario come recapito telefonico il numero di un cellulare usato dalla Lioce. E inoltre il possesso di un floppy disk contenente una serie di appunti relativi a possibili attentati.
Entro tre mesi saranno rese note le motivazioni della sentenza.
Nello stesso processo è stato assolto Paolo Broccatelli (il procuratore generale Antonio Marini aveva chiesto la sua condanna all’ergastolo) ed è stata ridotta da 9 a 7 anni la condanna inflitta in primo grado a Diana Blefari Melazzi.

TERRORISMO ANNI ’70:
IL FANTASMA DEL “PENTITO” ROBERTO SANDALO  

Roberto Sandalo, detto “Roby il pazzo”, è stato arrestato il 10 aprile scorso dalla Digos di Milano con l’accusa di aver partecipato ad attentati contro moschee.
Ex terrorista di Prima Linea, poi “pentito”, riarrestato per rapina dopo anni di silenzio, rispuntato dal nulla nelle file delle camicie verdi della Lega nord, Sandalo, uno dei personaggi più spregevole nella storia della lotta armata in Italia, riappare oggi di nuovo nelle vesti di terrorista, questa volta anti-islamico.
Sandalo è stato accusato di essere coinvolto in una serie di attentati (almeno cinque) che nei mesi scorsi hanno colpito alcune moschee e centri islamici del milanese.
Il sostituto Maurizio Romanelli, nell'ambito dell'inchiesta del pm milanese Armando Spataro, ne ha ordinato l'arresto. Secondo gli inquirenti, l'ex terrorista di Prima Linea avrebbe dato vita ad un'organizzazione chiamata Fronte cristiano combattente.
Nella sua auto sarebbero stati trovati una tanica da 5 litri con liquido infammabile, due taniche di diserbante, un fucile ad aria compressa e un timbro con la scritta “Stop islam”.
Sandalo è uno dei personaggi più controversi degli anni di piombo.
Nato a Castigliole d'Asti, dopo aver fatto l'ufficiale negli alpini, lavora come impiegato alla Fiat. Nel 1976 entra in Prima Linea e conosce il leader della formazione armata, Marco Donat Cattin. Nell'organizzazione viene chiamato "Roby il pazzo". Arrestato nell'aprile del 1980, si pente subito e le sue confessioni sono determinanti per lo smantellamento di Prima Linea.
Benché condannato a 11 anni per tre omicidi e altri reati gravi, se la cava con 31 mesi di carcere ad Alessandria. Quando esce cambia nome, prima in Ranieri, poi in Severini. Nel 1985 va in Kenia per fare assistenza ai bambini. Poi sparisce.
Ricompare nel 1999 ad una manifestazione delle Guardie Padane. Borghezio parla di “manovre poco chiare dei servizi” e per questo viene allontanato. Sandalo, però, nega e dice di essere uscito dalla Lega solo perchè Bossi stava rinunciando alla secessione.
Nel 2002 viene arrestato vicino ad Asti per una serie di rapine non legate ad attività di terrorismo. Nel 2007, in un'intervista, dice di lavorare in un'agenzia investigativa, di combattere il terrorismo islamico e di aver aderito a Sos Italia per combattere le “battaglie di Oriana Fallaci”.
Da sempre Sandalo è sospettato di essere un infiltrato, prima nell'estrema sinistra, e ora tra i leghisti più estremisti. Anche ieri Borghezio ha chiesto “Chi ha manovrato questo professionista dell'infiltrazione?”.
La procura di Milano ha tenuto a ribadire che si tratta di un'inchiesta da non sottovalutare. “Sandalo era pronto ad alzare il tiro - ha dichiarato il pm Armando Spataro - siamo di fronte a una persona che ha ucciso».

STRAGI DEL 1993:
CONDANNATI BOSS GRAVIANO E MESSINA DENARO  

La seconda sezione della corte di appello di Palermo, presieduta da Claudio Dall'Acqua, ha condannato a 4 anni e sei mesi ciascuno, per detenzione di materiale esplosivo, il boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Entrambi erano stati processati e condannati in primo grado dal tribunale di Marsala, in quanto, secondo gli investigatori, nel trapanese le cosche avrebbero conservato per un periodo l'esplosivo poi utilizzato per le stragi di Milano e Firenze del 1993 e per l’attentato al giornalista Maurizio Costanzo.
I giudici hanno determinato la pena in continuazione con le condanne all'ergastolo inflitte ai due capimafia per le stragi. Matteo Messina Denaro, boss trapanese, è latitante, mentre Giuseppe Graviano è detenuto con il regime del 41 bis.

STRAGI DEL 1993:
APPELLO A NAPOLITANO DELL’ASSOCIAZIONE GEORGOFILI  

Ormai non c’è più tempo per le lungaggini. La preghiamo, signor Presidente, per quanto vorrà e potrà fare, di dire una parola anche per noi”.
E’ quanto scrive, in una lettera inviata al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, Giovanna Maggiani Chelli, vicepresidente dell'Associazione dei familiari delle vittime dell'attentato di via dei Gerogofili. Il riferimento è al cosiddetto Fondo 512 che regola il sostegno finanziario ai familiari delle vittime della criminalità organizzata.
Quest'anno - ha affermato Maggiani Chelli - e' stato l'anno della risoluzione delle cause civili che tutti noi abbiamo intentato contro la mafia. Cause che saranno altresì un risarcimento importante per quanti rimasti invalidi, tentano oggi di percorrere le strade della speranza. Ebbene, purtroppo, il Fondo 512 previsto dalla Legge del 22 dicembre 1999 e dal quale le vittime della criminalità organizzata dovrebbero trarre sostentamento quando le cause contro la mafia si risolvono, è privo della necessaria copertura finanziaria. Chi si è trovato suo malgrado in balia dei progetti criminali mafiosi, coinvolto in eventi così drammatici quali le stragi e ne ha avuto la vita distrutta, ha esigenze che meritano una risposta che non può più farsi attendere”.

BANDA DELLA MAGLIANA:
TORNA IN CARCERE FABIOLA MORETTI  

Torna in carcere Fabiola Moretti, un passato burrascoso nella malavita romana, protagonista negli anni Settanta e Ottanta delle gesta criminali della Banda della Magliana, ex compagna di esponenti di spicco dell'organizzazione, come Danilo Abbruciati, Claudio Sicilia, Fulvio Lucioli (detto “Il sorcio”) e Antonio Mancini, il “pentito” assieme al quale è stata una delle accusatrici di Giulio Andreotti e Claudio Vitalone al processo di Perugia per l’omicidio di Mino Pecorelli. Per le sue testimonianze fasulle la donna è stata denunciata per “depistaggio”.
Agli arresti domiciliari a Roma, nella zona del Divino Amore, Fabiola Moretti è stata sorpresa dai carabinieri - arrivati per notificarle un ordine di custodia cautelare in carcere emesso dal Gip del Tribunale di Roma a causa delle reiterate inosservanze della misura degli arresti domiciliari, a cui si trovava sottoposta per violazione della legge sugli stupefacenti - assieme ad un pregiudicato spacciatore di cocaina.
Fabiola Moretti è stata legata anche ad Enrico de Pedis, detto “Renatino”, ucciso il 2 febbraio 1990 e a lungo sepolto - grazie ai suoi ottimi rapporti con alti prelati del Vaticano - nella Chiesa di SantìApollinare a Roma.

TERRORISMO IN ALTO ADIGE:
MALGA SASSO NON PUO’ DIVENTARE UNA STALLA  

Non deve diventare una stalla, ma un luogo della memoria la casermetta di alta montagna di Malga Sasso che nel 1966 venne colpita da un attentato terroristico  irredentista in cui morirono tre finanzieri e ne rimasero feriti altri quattro. Ne è convinto l'imprenditore Roberto Padovani che si è offerto di comprarla a proprie spese e donarla poi ad una qualche associazione che ne custodisca la memoria.
La malga, con il terreno intorno, è ora un rudere sopra il Brennero, da tempo inutilizzato. Fa parte di beni demaniali passati alla Provincia di Bolzano che ora verrà assegnato a richiedenti. Sinora si sono fatti avanti soprattutto contadini confinanti  che avrebbero un diritto di prelazione.

FIERA LIBRO DI TORINO:
IL CANDIDO FERRERO E LA FIGURA DEL CRETINO  

Le proteste che continuano anche in questi giorni mi  rattristano perché rappresentano l'incapacità della scuola, del paese, della società a formare giovani in grado di sostenere un contraddittorio in modo democratico e di interpretare la complessità che stiamo vivendo e che necessita di una grande apertura al dialogo. La Fiera ha sempre e solo promosso il dialogo, per capire cosa sta accadendo intorno a noi, peccato che questi ragazzi, ma anche tanti scrittori miei amici arabi, non abbiano voluto accettarlo”.
Sono parole di Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del libro di Torino. Parole di fronte alle quali uno dice: “Ma Ferrero ci è o ci fa?”.
Come è noto, quest’anno la Fiera del Libro di Torino non sarà dedicata agli scrittori di Israele (il che sarebbe stato almeno plausibile), ma al 60/mo anniversario della fondazione dello Stato di Israele, che è come dire al 60/mo anniversario della tragedia palestinese. E che fa il tenero Ferrero, anima bella della cultura italiana? Si lamenta perché qualcuno protesta, non capisce perché altri agitino lo spauracchio del boicottaggio ed è addolorato perché i suoi “amici arabi” abbiano declinato l’invito a partecipare alla Fiera.
Caro Ferrero, ma sei così di tuo o qualcuno te lo fa fare?

FIERA DEL LIBRO:
A VATTIMO LETTERA ANONIMA DI MINACCE  

Gianni Vattimo, docente di Filosofia Teoretica all'Università di Torino, che più volte nei mesi scorsi è sceso in campo per contestare la dedica della prossima edizione della Fiera del Libro di Torino al 60/mo anniversario della fondazione di Israele, ha ricevuto una lettera anonima minatoria in inglese nella quale viene insultato e invitato a ricordare la data del 16 ottobre 1972 quando a Roma venne ucciso a colpi di pistola lo scrittore palestinese Wael Zuaiter. Ad ucciderlo furono gli agenti del Mossad in quanto lo scrittore era vicino al gruppo terroristico di Settembre Nero.
Vattimo ha affermato: “Credo che la Fiera abbia sbagliato ad invitare Israele come ospite d'onore nel suo sessantesimo anno dalla Fondazione, come se questa fosse una festa per tutti. E non credo neppure che tutta questa storia, seguita alla decisione della Fiera, serva ad Israele”.

EXPO 2015:
MILANO TRA SOGNI DI PROGRESSO E RISCHIO AFFARISMO  

Una pioggia di soldi sta per abbattersi su Milano e sull’Expo che la città dovrà organizzare nel 2015.
Si tratta di 3 miliardi e 200 milioni di euro da investire nelle infrastrutture direttamente collegate alla manifestazione. denaro che, almeno sulla carta, dovrebbero diventare un volano per ridare spinta all’economia della metropoli e alla competitività delle imprese lombarde.
I 3,2 miliardi di euro sono divisi in quattro maxi capitoli:

  • Opere di preparazione del sito espositivo: padiglioni, torre Expo, piazze, parcheggi a raso e acquisizioni ree e ricostruzioni: 1.253 milioni di cui 407 derivanti da finanziamento privato, 656 dalla legge dello Stato per l’Expo 2015 e 190 dagli enti locali (Comune, Provincia e Regione).
  • Connessione viabilistica al sito (collegamento Morino Dorino-autostrada dei laghi; tre parcheggi a Rho ed Arese; collegamento interrato tra le stazioni metropolitane di Cadorna, Missori e S.Sofia): 1.780 milioni di cui 343 messi dai privati, 786 dalla Stato e 651 dagli Enti locali.
  • Opere ricettive (nuovo villaggio residenziale Expo da 2mila posti letto, nuovi ostelli, un grande campeggio e l’Hotel du Charme): 135 milioni di cui 81 da privati, 44 dallo Stato e 10 dagli Enti locali.
  • Opere tecnologiche: 60 milioni tutti a carico dei privati.

Senza contare la spinta che la pioggia di soldi sull’Expo dovrebbe dare ad altri progetti di viabilità cittadina ed extracittadina. Con un totale complessivo, tra investimenti diretti ed indiretti, superiori all’astronomica cifra di 20 miliardi di euro. Che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) dare vita a 70 mila posti di lavoro con fortissime ricadute sull’indotto (taxi, ristorazione, attività alberghiere, servizi commerciali) dal momento che durante l’expo del 2015 sono in programma 7mila eventi culturali e scientifici.
Questo è l’Expo 2015 di Milano sulla carta.
Ora bisogna capire se nella gestione di tutto questo denaro sarà applicata trasparenza nelle scelte, se gli appalti andranno ancora a caste e amici degli amici, se le opere arricchiranno la città, come è avvenuto a Barcellona per le Olimpiadi, oppure saranno un disastro come è accaduto a Siviglia proprio per l’Expo. Oppure se tutto finirà come per altri eventi svoltisi in Italia: come Italia ’90 (i mondiali di calcio presieduti dall’immarcescibile Luca Cordero di Montezemolo) o il Giubileo 2000 del sindaco romano Rutelli.
Una Milano nuova o, come al solito, la solita Milano da bere?

OPERE INUTILI E DANNOSE:
VERSO IL BLOCCO DEL MOSE A VENEZIA  

La revoca di tutti i contratti in corso per la costruzione di opere pubbliche alla Società Italiana per Condotte d'Acqua per il sospetto di infiltrazioni mafiose potrebbe estendersi in breve anche ai lavori del progetto Mose che, a rischio di distruggere l’intera laguna veneta, cerca di risolvere in malo modo la questione dell’acqua alta a Venezia.
La Società Italiana per Condotte d'acqua infatti è da sempre socio del Consorzio Venezia Nuova che gestisce la costruzione del Mose, un progetto da 4,3 miliardi di euro.
Intanto c’è da segnalare il patetico tentativo dello stesso Consorzio di rilanciare l’immagine del Mose, attraverso un’azione mediatica mirata a conquistare gli ambientalisti all’inutile e pericoloso progetto.
Il 27 marzo scorso, su molti quotidiani è infatti apparsa la notizia che un nuovo mondo marino si sta sviluppando alle porte di Venezia, dal momento che tornano a ripopolarsi colonie di pesci ed alghe che hanno trovato siti ideali negli interventi in corso per la difesa dalla laguna, guarda caso le opere realizzate dal Consorzio Venezia Nuova, nell'ambito del più ampio progetto Mose.
Un comunicato dello stesso Consorzio, diffuso dall’Ansa ai giornali italiani, afferma infatti che, “a partire dagli anni '90, per difendere i litorali, ad Eraclea, Jesolo, Cavallino, Lido, Pellestrina e Sottomarina sono stati depositati, per una lunghezza di 45 chilometri, 10 milioni di metri cubi di sabbia e sono state realizzate dighe o scogliere artificiali (soffolte), con massi naturali e non, per ben 30 chilometri. Proprio in queste soffolte hanno rapidamente attecchito - come rileva uno studio del Consorzio Venezia Nuova - nuove colonie di alghe che progressivamente hanno creato un habitat ideale e nicchie biologiche per le colonie di pesci. Per la sola isola di Pellestrina, numericamente, si è riscontrata, in sei-sette anni, la crescita di 140 nuovi raggruppamenti di organismi di cui 61 di macroalghe e 79 di fauna bentonica (larve, ninfe ed altro) nonché notevoli colonie di molluschi tra cozze, vongole e ostriche. Questa prima presenza - sottolinea la ricerca - ha portato a ripopolare di pesci un'area prima inospitale. Lungo le soffolte - sono state esaminate quelle di Malamocco e Pellestrina - si sono trovate 50 specie di pesci di ben 19 famiglie diverse. Un successo ambientale -sottolineano i ricercatori - visto che in Liguria, dove opere del genere sono state fatte proprio per attrarre la vita marina, hanno portato, in oltre 10 anni, solo 44 specie di pesci. Tra i pesci che hanno trovato casa nelle soffolte sono stati censiti branzini, orate, cefali, mormore, leccie e acciughe. Tutte specie che con i crostacei - per i ricercatori - possono diventare importante fonte futura per la pesca”.
Pronta la risposta sul Corriere della sera di Fulco Pratesi, tra i più impegnati contestatori dell’assurdo progetto Mose: “Il fatto che le contestatissime strutture del Mose si siano trasformate in una barriera corallina tropicale non deve meravigliare. Non è la prima volta che opere dell’uomo, anche se antiecologiche e brutte, hanno offerto asilo a piante ed animali selvatici”. E poi giù una serie di esempi: i tralicci dell’Enel che ospitano la nidificazione delle cicogne; i tetti della stazione di Milano su cui nidifica il falco pellegrino; le navi affondate che negli anni si ricoprono di incrostazioni ricche di biodversità; le rondinelle che per superare la barriera delle Alpi passano attraverso il traforo del Monte Bianco; le felci tropicali che vegetano sugli orrendi muraglioni del Tevere; i piloni che sorreggono le piattaforme petrolifere in Adriatico divenuti paradiso di ostriche, anemoni di mare, polpi e saraghi.
Mose assolto dunque? - conclude Pratesi - Neanche per idea. La posizione degli ecologisti, fermamente contrari all’opera, non cambia. Vedere la barriera artificiale abitata, ora, da nuove piante e nuovi pesci è una ben magra consolazione”.

KOSOVO:
I TRAFFICI (DI ORGANI UMANI) DEL PRESIDENTE HASHIM THACI  

E’ uscito in questi giorni l’autobiografia di Carla Del Ponte, già procuratore del Tribunale dell’Aja contro i crimini di guerra. Si Intitola La caccia, io e i criminali di guerra (ed. Feltrinelli, pp. 413, 20 euro) ed è stato scritto con il giornalista del New York Times, Chuck Sudetic, esperto di Balcani.
In questi giorni il ministero degli Esteri svizzero ha vietato alla Del Ponte, diventata ambasciatrice in Argentina, di presentare il suo libro in ogni luogo in Italia e in Svizzera. La motivazione? L'opera contiene “affermazioni che non possono essere fatte da un rappresentante del governo svizzero” ha scritto il ministero di Berna in una lettera alla Del Ponte.
Nodo del contendere, la rivelazione dell'autobiografia che chiama in causa proprio un rettile, il temutissimo «Serpente» Hashim Thaci, premier della proclamata - proprio a lui - indipendenza unilaterale del Kosovo, subito riconosciuta dalla Svizzera dove Thaci ha un suo quartier generale come Uck e fondi ingenti di incerta provenienza.
Una bomba, una pesante accusa. Documentata con l'inchiesta, i risultati e le indagini che provano il coinvolgimento del leader dell'Uck prima nella sparizione di più di 300 serbi sequestrati nell'estate 1999 in Kosovo dalle milizie Uck e poi, dopo essere stati condotti nel centro-nord dell'Albania, sottoposti ad espianto degli organi. Un traffico d'organi in grande stile.
Nel libro si narra anche della ricerca senza risultati dei due super-ricercati serbi di Bosnia, Ratko Mladic e Radovan Karadzic e della collaborazione di Belgrado per trovarli, tanto che il governo serbo si è lamentato dei segreti d'intelligence-rivelati che mettono in cattiva luce l'attuale leadership al potere.
Ma il vero muro di gomma contro cui si schianta, è quello delle responsabilità dell’Uck, trasformata, per scelta americana, nel febbraio 1999 da una banda di terroristi e trafficanti di droga in un prezioso alleato.
In una storia terrificante ma vera, la Del Ponte racconta che una missione investigativa del Tribunale dell'Aja scoprì nell'Albania del centro-nord, presso Burrel, tra Kukes e Tropoja, un capannone che, secondo i testimoni e dai resti del materiale sanitario trovato, si confermava essere stato la «clinica» dove erano avvenuti gli espianti di organi dai serbi «sani» (quelli malati e anziani vennero subito uccisi) che, prima dell'operazione, vennero ben rifoccillati, per essere alla fine anche loro crudelmente eliminati.
Resta l'interrogativo del perché Carla Del Ponte non abbia proceduto ad una inchiesta specifica con altrettante incriminazioni.
Forse una simile incriminazione non sarebbe piaciuta a qualcuno, americani in testa?
D’altronde il rischio era che anche questa possibile inchiesta sarebbe finita come quella avviata nel gennaio 2003, per l'uccisione di più di 60 serbi, contro i luogotenenti del leader dell'Uck Ramush Haradinaj, per il quale la Del Ponte spiccherà 37 capi d'imputazione - per crimini di guerra e contro l'umanità - chiedendo per lui 25 anni di galera, nonostante nel frattempo sia stato nominato primo ministro da Ibrahim Rugova. Il risultato? Una settimana fa Ramush Haradinay è stato assolto per un fatto semplice, semplice: tutti i testimoni d’accusa contro di lui sono stati eliminati.
Come avveniva nell’America degli anni Trenta. Come avviene oggi nello stato-mafia del Kosovo indipendente.
Indipendente, soprattutto, dalla democrazia e dalla legalità.

MEDIORIENTE:
ISRAELE PROIBISCE A CANTANTE CONCERTI A GAZA E IN LIBANO  

Vuole andare nella Striscia di Gaza per “cantare per i bambini”, ma le autorità israeliane glielo proibiscono. E' quanto sostiene la cantante israeliana Zehava Ben, considerata una delle vocaliste più popolari di Israele nel genere arabo Mizrah.
Nata nel 1968 da una famiglia di immigrati ebrei marocchini, Zelava Ben ha già tenuto concerti in Cisgiordania dove il suo brano “Shir lashalom” (canzone per la pace) ha avuto molto successo tra i palestinesi.
Intervistata dalla tv araba, la cantante ha sostenuto “di ricevere lettere da un largo pubblico” di suoi fan arabi in Libano, Egitto e Siria: “Non dimenticherò mai - ha detto l'affetto con cui sono stata accolta dai palestinesi durante il mio tour a Gerico e Nablus” nella striscia di Gaza. L'artista - che spiega di star preparando “un nuovo videoclip in arabo” girato in Egitto e nel deserto marocchino - ha affermato di avere fatto domanda alle autorità israeliane per “andare a cantare per i bambini di Gaza e del Libano, ma per motivi di sicurezza mi hanno impedito di farlo. Ma io non temo per la mia vita - ha aggiunto - sarei andata tranquilla”.

storia in rete

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