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Roberto Savi, “il monaco”

In Questura lo chiamavano “il monaco”, ma a bassa voce, per non farsi sentire da lui.
Far irritare Roberto Savi non era cosa piacevole per nessuno. Nessuna sfuriata, per
carità. Lui la calma non la perdeva mai. Ma quando ti fissava con quegli occhi freddi,
vuoti, simili a quelli di uno squalo, la sensazione non era certo delle più gradevoli.
Ma a parte il suo carattere taciturno e un po’ spigoloso, che lo faceva apparire, più che
un poliziotto, un travet dell’ordine pubblico, metodico e puntuale, Roberto Savi,
quarant’anni, per tutti era davvero un agente modello. Serio, pacato, scrupoloso,
anonimo. Forse un tipo un po’ troppo intransigente sul lavoro, a volte perfino zelante,
ma comunque sempre un capetto.
I poliziotti che lo hanno avuto come capo pattuglia, a bordo della “volante 4”,
incaricata del controllo del territorio nel quartiere Barca, assieme al Pilastro una delle
zone più malfamate della città, lo ricordano così, “il monaco”.
Una piccola carriera, tutta fatta in silenzio quella di Roberto Savi. Diciott’anni di
servizio, in Polizia nel 1976, a Bologna dall’anno successivo. Comincia come
semplice agente, quando lo arrestano è assistente capo in servizio nella sala operativa,
quella che riceve le segnalazioni di allarme, che smista le auto della Polizia, un punto
caldo, un osservatorio privilegiato da cui è possibile controllare tutta la città.
E’ senz’altro considerato un poliziotto molto efficiente Roberto Savi che ai suoi
uomini raccomanda sempre freddezza e nervi a posto. Tra il novembre del ’91 e il
giugno del ’92, in quanto capo pattuglia, lo chiamano a tenere un corso per allievi
delle Questure italiane. Le lezioni teoriche si svolgono al Jolly hotel di Bologna: 500
allievi che in otto mesi devono imparare a diventare bravi poliziotti, capaci di
eseguire un fermo, una perquisizione, sostenere una sparatoria, svolgere il
pattugliamento sulle volanti, ma sempre nel pieno rispetto della legge. Roberto, che
da quattro anni, oltre che un poliziotto è diventato anche uno spietato killer (ha già
sulla coscienza ventun morti ammazzati) e un freddo rapinatore, sale così in cattedra.
Lui la legge la conosce. Da una parte, ma anche dall’altra della barricata.
Nel suo curriculum solo due note negative: un colpo in pancia ad un “topo d’auto” e
quel tossicodipendente a cui aveva deciso di tagliare i capelli, così, per sfregio. Per
questo secondo episodio arrivò prima la sospensione dal servizio e poi il
trasferimento alla centrale operativa. Un posto più comodo, orari più tranquilli, sei
ore senza troppi imprevisti al terzo piano del palazzone di piazza Galileo. E tanto
tempo in più per studiare e pianificare le rapine in banca, quelle sì lucrose davvero,
non come quando andava con i suoi due fratelli Fabio ed Alberto ad assaltare caselli
autostradali e pompe di benzina per tirar su, se andava bene, un paio di milioni.
E la sua vita privata, la vita privata di Roberto Savi? Grigia e monotona come è stata
la sua giovinezza durante la quale, dopo il diploma di perito elettrotecnico e prima di
entrare in Polizia, ha lavorato come portiere di notte in due alberghi di Riccione. Una
moglie, Anna Ceccarelli, sposata undici anni prima, che per far quadrare il bilancio di
casa, per integrare i due milioni al mese del marito, va a fare le pulizie. Un figlio di
nove anni, Simone. E un appartamento di trentotto metri quadri a Borgo Panigale, in
via Signorini, palazzoni tirati su lungo l’argine del fiume Reno, l’aeroporto a due
passi e gli aerei che ti fischiano sulla testa giorno e notte. Trentotto metri quadri: due
camerette, un bagnetto, l’angolo cotura. Il tutto per 22 milioni con un mutuo
interminabile. Unico lusso una Lancia Thema sedici valvole. Vacanze in tenda in
Toscana, a Talamone, dove ha comprato anche una barchetta per pescare. Per anni
sempre lo stesso camping, dove nessuno ricorda di averlo mai visto scambiare quattro
chiacchiere. Cupo, introverso. Ma le ore e ore davanti ai videogame, quelle sì, le
ricordano in molti. E la politica? Nessuna partecipazione ad attività di partito se si
esclude un’assidua frequentazione, negli anni Settanta, degli ambienti di destra e del
Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale.
Prima di arrestarlo, la Polizia fruga nel garage di casa sua e trova un arsenale
sterminato: pistole, fucili, polvere da sparo, esplosivo, munizioni di ogni tipo,
parrucche e barbe finte e anche 230 milioni in contanti. Una miseria, se si considera
che quello è il denaro che resta dopo sette anni e mezzo di rapine.
Da qualche tempo però Roberto Savi era cambiato. Aveva lasciato la moglie, si era
messo a vivere con una bella ragazza nigeriana, Stella Okonkwo, ventun anni, ex
sartina di Lagos, in Italia senza permesso di soggiorno a cercare fortuna. Per lei aveva
affittato anche un appartamentino a Pontecchio Marconi. Ma per far sì che la ragazza
non se ne andasse, le aveva sequestrato il passaporto. Chi è Stella Okonkwo?
Così di lei parla, durante un interrogatorio, suo fratello Fabio:
«Roberto si è messo con la nigeriana dieci giorni prima del suo arresto. L’ha
comprata, l’ha pagata dieci milioni ai protettori. Me l’ha detto lui. Tra l’altro l’ha
detto a tutti, quindi non era un segreto».
Quando lo arrestano, la sera del 21 novembre 1994, Roberto Savi non si mostra
affatto sorpreso. E’ al lavoro. Un paio di suoi colleghi lo invitano ad uscire dalla sala
operativa, poi lo perquisiscono, gli sequestrano le due pistole che ha indosso e gli
fanno scattare le manette ai polsi. Lui non si scompone più di tanto. Di certo, ormai,
se lo aspetta. Prima una frase beffarda, minacciosa:
«Potevo farvi saltare tutti in aria … ». Poi il sollievo della cattura: «Meno male, un
incubo è finito. Ero dentro un ingranaggio più grande di me». Già, appunto,
l’ingranaggio.

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Redazione