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BASE DI VICENZA:
TRE MOTIVI PER DIRE “NO” 

Chi, a proposito dell’ampliamento della base militare americana a Vicenza, continua a parlare di antiamericanismo è in malafede.
Ci sono infatti tre motivi ineccepibili che dovrebbero far dire un secco “no” a tutti.
Eccoli.

Il primo “no” è un “no” di dignità. Il “no” di un Paese che è stufo di essere considerato un Paese a “sovranità limitata”.

Sono trascorsi 62 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Sapete dove sono alloggiate le basi militari americane già esistenti in Europa? In tre soli Paesi: Germania, Italia e Kosovo. Guarda caso due Paesi che hanno perso la guerra e un terzo dove la guerra della NATO è stata portata con in prima fila i bombardamenti americani.

Perché gli americani non chiedono di costruire basi alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Spagna? Perché ne riceverebbero un “no” deciso e senza appello.

C’è poi da considerare una questione di reciprocità. Perché i piloti del Cermis, gli assassini di Calipari, i sequestratori (oltre 20 agenti della CIA) di Abu Omar non sono processabili in Italia, ma le basi possono essere costruite?

Gli americani - come ha fatto sapere ai magistrati di Milano lo spione americano Seldon Lady - non riconoscono la Giustizia italiana. Però ne riconoscono il territorio.

 

Punto secondo. La sicurezza.

L’Italia, sulla base di un referendum, non costruisce centrali nucleari, rinunciando anche ad una minima autonomia energetica. Però consente che nelle basi americane siano custodite (ma fino a che punto in sicurezza?) bombe nucleari.

La popolazione di Vicenza ha diritto di preoccuparsi della propria sicurezza? E allora perché non consentirle di esprimersi?

 

Punto terzo. I costi.

Da anni una leggenda circola tra gli uomini politici italiani, specialmente tra quelli  che certamente non brillano per acume (molti, purtroppo): “Gli americani pagano l’affitto delle basi allo Stato italiano”. Falso. Assolutamente falso.

A riprova che ancora oggi l’Italia è un Paese a “sovranità limitata” c’è un fatto incontrovertibile. Ogni anno l’Italia versa agli Stati Uniti, sotto la voce “difesa comune”, per quanto concerne le “spese di stazionamento” delle basi americane la cifra di 366 milioni di dollari.

Per convincersene basta consultare un documento assolutamente pubblico: lo Statistical compendium on Allied Compensation to the Common Defense”. Alla pagina B-10 c’è la scheda che ci riguarda.

La rivelazione è del quotidiano romano E Polis il quale precisa che tre milioni di dollari sono versati dall’Italia agli Usa cash, ossia in contanti, mentre gli altri 363 milioni arrivano da una serie di facilitazioni che l’Italia concede all’alleato a stelle e strisce. E come se il padrone di casa, oltre ad ospitare l’inquilino, gli girasse anche dei soldi.

Ma c’è di più. Nel caso delle basi americane, il 41% delle spese di stazionamento sono a carico del governo italiano. E ancora: se una base americana chiude, l’Italia deve indennizzare gli americani per le “migliorie” apportate al territorio. E se quella ex base verrà utilizzata dall’Italia nei tre anni successivi all’abbandono americano, un ulteriore indennizzo andrà agli USA.

 

C’è qualcosa di antiamericano in questi tre motivi per dire “no” all’allargamento della base militare americana di Vicenza?

STRAGE DI BOLOGNA:
FINALMENTE QUALCOSA SI MUOVE...

Finalmente la procura di Bologna si è decisa ad ascoltare Thomas Kram, il tedesco per anni ricercato per terrorismo in Germania e che il 4 dicembre scorso si è costituito alle autorità tedesche ed è stato subito messo agli arresti domiciliari.

Di Kram si è a lungo parlato nell’ambito di inchieste giornalistiche sulla strage di Bologna dal momento che, come ha appurato la commissione Mitrokhin, lo stesso si trovava a Bologna nella notte precedente all’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione della città che provocò 85 morti e 200 feriti.

I magistrati bolognesi, che senza esitazione, sulla base di pochi indizi e nessuna prova, si lanciarono arditamente sulla pista fascista per la strage, stanno preparando un'apposita rogatoria.

A Kram, che nel suo paese era ricercato in quanto dirigente dell'organizzazione terroristica Revolutionaere Zellen (Cellule rivoluzionarie), gli inquirenti bolognesi chiederanno informazioni proprio sulla sua presenza nel capoluogo emiliano a ridosso dell’attentato.

L'uomo, quella notte, prese una stanza con il suo vero nome in un albergo sotto le Due Torri. Il nome di Kram e' stato affiancato alla strage perché il tedesco era ritenuto vicino al terrorista Carlos e ad elementi della resistenza palestinese all’indomani della rottura del tacito “accordo” con le autorità italiane sul passaggio di armi sul territorio nazionale in cambio dell’esclusione dell’Italia come terreno di attentati.

Sui possibili risultati di questa iniziativa della magistratura di Bologna c’è comunque poco da attendersi, dal momento che, dopo diversi processi dalle risultanze alterne (gli estremisti di destra Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, condannati come esecutori materiali, nel primo processo di Appello erano stati assolti) le convinzioni della procura bolognese sulla colpevolezza dei neofascisti si sono fatte ferree. In questo supportate dall’Associazione dei parenti delle vittime della strage i quali, pur in assenza di un movente credibile e di mandanti, nonché in presenza di un impostazione processuale a dir poco fragile e piena di buchi, si sono sempre accontentati del teorema della pista fascista.

UNABOMBER:
PERIZIE E DISASTRI GIUDIZIARI

Come volevasi dimostrare.

La cieca fede che ormai molte procure riversano nelle perizie scientifiche - per non parlare della stampa - ci riporta ai tempi della lotta alla mafia quando i “pentiti”, in realtà solo criminali con uno spiccato senso dell’opportunità, venivano trattati come oracoli infallibili.

In assenza di una qualsiasi forma di cultura investigativa, ormai gran parte dei magistrati e la quasi totalità delle strutture investigative nazionali giocano tutte le loro carte solo ed esclusivamente sui rilievi scientifici.

Ed ecco che magistrati, poliziotti e carabinieri che guardano troppo il canale 112 di Sky, ed in particolare Csi Las Vegas, Miami e New York, ritengono di poter risolvere casi intricati, complessi e diluiti nel tempo, com’è il caso di Unabomber, con il solo aiuto della scienza, dimenticando che i criminali si prendono investigando.

Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti. La poderosa difesa dell’ing. Elvo Zornitta ha sbaragliato ben due procure, facendo fare a magistrati di livello e di esperienza, come Fortuna e Borraccetti, una figura davvero barbina.

UNABOMBER (2):
CHI E’ EZIO ZERNAR

Ezio Zernar, l'assistente di polizia nei cui confronti la procura di Venezia ha ora avviato un procedimento penale per manomissione di materiale sottoposto a perizia nell'ambito dell'inchiesta Unabomber, è ritenuto un “superperito” della balistica.

Responsabile tecnico del Laboratorio investigazioni criminalistiche (Lic) di Mestre, Zernar, che è sposato ed ha due figli, è descritto come una persona schiva e poco incline ad apparire in pubblico, ma sarebbe stato determinate in importanti inchieste giudiziarie grazie alle sue competenze acquisite anche dopo i suoi studi a Londra che lo hanno portato a specializzarsi in materie criminali, alle quali ha dedicato 24 anni di attività.

Tra le inchieste di rilievo che lo hanno visto protagonista ce ne sono in realtà alcune assai dubbie, come due vicende giudiziarie dall’esito quanto meno opinabile: la vicenda di Marta Russo, la studentessa uccisa da un colpo d'arma da fuoco all'Università di Roma, per la quale si assistette ad un incredibile balletto di perizie, a volte contrarie a volte favorevoli agli imputati, e la strage di via D' Amelio nella quale fu ucciso il giudice Borsellino.

Nella vicenda di Marta Russo, Zernar fu incaricato dalla corte d'Assise di Roma di fare le perizie sul proiettile estratto dal corpo della giovane e di valutare la sua compatibilità con una precisa arma da fuoco, ma senza che la vera arma da fuoco che uccise la Russo fosse stata mai trovata. I “buchi” balistici nell’assassinio di Paolo Borsellino sono infiniti.

Nella vicenda Una bomber, Zernar era entrato in silenzio. Aveva parlato con i giornalisti ricordando solo la propria sorpresa ed emozione alla scoperta della compatibilità della forbice sequestrata nel capanno di Elvo Zornitta, l'ingegnere di Azzano Decimo, indagato, con il lamierino componente un ordigno inesploso nella chiesa di sant'Agnese a Portogruaro.

Sorpresa ed emozione che ora sembrerebbero spiegarsi molto bene.

UNABOMBER (3):
E SE FOSSE UN UOMO IN DIVISA? 

Se davvero a manomettere la perizia sulle forbici sequestrate all’ing. Zornitta è stato l’assistente di polizia Ezio Zernar, come sembrano ritenere i magistrati che indagano su Unabomber, si tratta ora di capire perché l’ha fatto.

L’ipotesi prevalente è che Zernar, sentendosi una sorta di Torquemada, abbia manomesso la prova per pura convinzione. Il soggetto in questione sarebbe stato ”certo” (non si sa perché mai) della colpevolezza di Zornitta e, truccando la prova, avrebbe mirato a convincerlo a confessare.

Questa l’ipotesi, per così dire, prevalente.

Ma ce n’è un’altra. Più inquietante.

Ricordate i poliziotti della Uno bianca? L’ipotesi è che Unabomber sia un uomo in divisa, forse un poliziotto, forse un carabiniere, magari un militare con conoscenze sul trattamento ed il confezionamento degli esplosivi. In questo caso Zernar (o chi per lui, dal momento che lo stesso perito afferma di non essere stato l’unico ad avere accesso a forbici e lamierino) stia coprendo qualcuno.

E’ già accaduto in Emilia, 13 anni fa, perché non potrebbe essere accaduto in Veneto 13 anni dopo?

SEQUESTRO ABU OMAR:
IL DIARIO DEL RAPITO

Mentre è cominciata l’udienza preliminare per il rinvio a giudizio degli agenti della CIA e degli uomini dei nostri servizi segreti accusati del rapimento di Abu Omar, c’è da chiedersi come mai nessun giornale italiano abbia diffusamente pubblicato il diario dello stesso Abu Omar.

Il contenuto siamo quindi costretti a prenderlo dal quotidiano americano Chicago Tribune. Eccone un sunto.

Nel raccontare la sua vicenda,  l'esponente musulmano, afferma che sarebbe stato un uomo identificatosi come un agente di polizia a fermarlo, il 17 febbraio 2003, in una strada di Milano mentre era diretto verso la moschea. Il predicatore sarebbe stato scaraventato in un veicolo e “picchiato brutalmente” al minimo tentativo di resistenza. Durante la colluttazione, Abu Omar schiuma dalla bocca e perde le feci. I rapitori, temendo un arresto cardiaco, “cominciarono a strapparmi rapidamente gli abiti e uno di loro cominciò a comprimermi il petto”, praticando un massaggio cardiaco.

La vittima del sequestro, superata la crisi, sarebbe stata portata in un aeroporto e, dopo un primo volo breve, sarebbe giunto al Cairo alle cinque del mattino e trasportato al quartier generale dell'intelligence egiziana dove gli sarebbe stato offerto di cooperare in cambio di un ritorno, sano e salvo, in Italia.

Secondo il resoconto pubblicato dal giornale di Chicago, nella prigione egiziana Abu Omar sarebbe stato sottoposto ad una serie di torture, a scosse elettriche, a percosse, a minaccia di abusi sessuali.

Sono stato appeso al soffitto come bestiame destinato al macello, a testa in giù, piedi in aria, le mani legate dietro la schiena, i piedi legati insieme, esposto a scosse elettriche su tutto il corpo, soprattutto alla testa, per indebolire il mio cervello”, afferma il memorandum della vittima.

In Egitto, Abu Omar sarebbe stato inoltre legato ad un materasso intriso d'acqua e collegato a macchinari elettrici.

Anche quando non ero torturato, venivo lasciato per lunghi periodi nelle camere di tortura, perché udissi le urla degli altri, i loro gemiti, per farmi crollare psicologicamente”.

Almeno in una occasione Abu Omar avrebbe cercato di suicidarsi, mentre era in carcere.

SEQUESTRO ABU OMAR (2):
IL 29 GENNAIO SECONDA PARTE DELL’UDIENZA PRELIMINARE

Per il sequestro di Abu Omar, la magistratura italiana ha incriminato 26 cittadini americani e cinque agenti dell'intelligence italiana.

Il 9 gennaio scorso, davanti al Gup di Milano, Caterina Interlandi, è cominciata l’udienza preliminare che dovrà stabilire il rinvio a giudizio o meno degli imputati.

In questa sede è già prevista una richiesta di patteggiamento da parte dell'ex maresciallo del Ros, Luciano Pironi. Oltre a Pironi, che è l'unico ad aver confessato di aver partecipato al rapimento, gli altri imputati sono l'ex capo del Sismi, Nicolò Pollari, l'ex direttore del controspionaggio Marco Mancini, altri funzionari del servizio segreto militare, 26 agenti Cia e il giornalista Renato Farina, accusato solo di favoreggiamento.

Anche l'ex vicedirettore del quotidiano Libero, ora sospeso dall’Ordine, nelle scorse settimane ha presentato un'istanza di patteggiamento al procuratore aggiunto Armando Spataro.

Nel corso della prima udienza, Pollari ha chiesto che siano ascoltate le testimonianze del presidente del Consiglio, Romano Prodi, e del suo predecessore, Silvio Berlusconi, oltre al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Micheli e al suo predecessore, Gianni Letta, e poi l'attuale ministro della Difesa, Arturo Parisi e l'ex ministro, Antonio Martino. Dovranno testimoniare, secondo quanto affermato dai legali di Pollari, sulla “ferma contrarietà da parte del generale a compiere qualsiasi atto illegale”, cosi come “attestano anche i documenti coperti dal segreto di stato”.

Dal canto suo, Robert Seldon Lady, ex capo centro della Cia a Milano, ha fatto sapere attraverso il suo legale “di disconoscere la giustizia italiana”, in quanto a suo avviso si tratta di un caso politico e non giudiziario. Una presa di posizione che ha provocato una secca reazione da parte del procuratore aggiunto Armando Spataro: “Queste cose - ha affermato il magistrato - le abbiamo già sentite in altre aule con le Brigate Rosse, quando si dichiaravano prigionieri politici e affermavano di non riconoscere la giustizia italiana”.

Il legale di Seldon Lady, in seguito a questa affermazione del suo cliente, ha deciso di rinunciare al suo mandato, affermando: “Il mio cliente ritiene che la soluzione di questo caso sia politica e quindi disconosce l' autorità giudiziaria. Pertanto io rinuncio al mandato in quanto non sono un mediatore politico, ma un avvocato che difende un cliente davanti ai magistrati”. 

All’udienza del 29 gennaio, il giornalista Renato Farina patteggerà una pena a quattro mesi di reclusione convertiti, a quanto riferito dal suo legale, in una pena pecuniaria di 4.600 euro.

Intanto, il 16 gennaio scorso la Corte di Cassazione ha rigettato l’istanza presentata dal legale di tre agenti Cia, accusati del sequestro di Abu Omar, contro la decisione del Tribunale del Riesame di confermare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti dei suoi assistiti.

PANTANO IRAQ:
PER LA CASSAZIONE ITALIANA È TERRORISMO
ANCHE L’ATTACCO AI MILITARI 

Costituisce atto terroristico anche quello contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della vita e dell’incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella collettività paura e panico”.

E’ quanto ha sottolineato la Corte di Cassazione il 17 gennaio scorso nella sentenza con la quale ha stabilito la ripetizione del processo di secondo grado contro l'assoluzione dall'accusa di terrorismo internazionale del marocchino Mohamed Daki e di altri due nordafricani, decisa dalla Corte d’Appello di Milano il 28 novembre 2005. In questo modo la Cassazione ha accolto il ricorso della procura generale del capoluogo lombardo.

I tre - ai quali si contesta di aver fatto parte di una cellula milanese collegata col gruppo Ansar Al Islam - erano stati assolti anche in primo grado dal gup di Milano Clementina Forleo.

Ma il dato rilevante, quanto discutibile, della sentenza sta nel fatto che per la Cassazione è sbagliato considerare terroristici “solo gli atti esclusivamente diretti contro la popolazione civile”. Ne deriva che - ad esempio - molti degli episodi della lotta di liberazione italiana dal nazifascismo, secondo questa sentenza, sarebbero da considerare meri atti di terrorismo. Basti pensare all’attentato di via Rasella che provocò la morte anche di un civile. Ne consegue che le forze di liberazione nazionale, per non incorrere nel reato di terrorismo, dovrebbero comportarsi unicamente come eserciti e cioè combattere solo, frontalmente, altri eserciti. Il che equivale a dire che la guerriglia è sempre destinata a perdere.

Insomma una sentenza assolutamente antistorica.

Per quanto riguarda la vicenda specifica, ora un'altra sezione della corte di Appello di Milano dovrà rifare interamente il processo.

GUANTANAMO:
I DELIRI DELLA CASA BIANCA 

La Casa bianca, in pieno delirio di onnipotenza, ora attacca gli avvocati a proposito delle nefandezze di Guantanamo.

Secondo il ministro della Giustizia americano Alberto Gonzales, la colpa che i detenuti di Guantanamo, dopo cinque anni, siano ancora senza processo, “non è stato per mancanza di buona volontà. Il problema è che abbiamo contestazioni legali ad ogni piè sospinto”.

Un’uscita quella di Gonzales che sembra ignorare che 395 uomini, catturati nella cosiddetta “guerra al terrorismo” sono tuttora detenuti a Guantanamo, in molti casi senza mai esser stati incriminati di alcun reato.

Il governo americano li ha definiti “combattenti nemici” e come tali ha negato loro la stessa protezione legale dei civili nelle corti americane.

La presa di posizione di Gonzales ha coinciso con la pubblicazione del nuovo manuale del Pentagono per i processi di Guantanamo, che dà carta bianca a Bush di stabilire le tecniche degli interrogatori. Fa anche divieto alla difesa di discutere le prove segrete a carico.

Un alto funzionario del Pentagono, Charles Stimson, aveva chiesto, in un appello su una radio vicina all’amministrazione americana, il boicottaggio degli studi legali che hanno offerto ai prigionieri la difesa d'ufficio.

DELITTO DI VIA POMA:
NUOVI SCENARI PER UN VECCHIO OMICIDIO 

Tracce di Dna sul reggiseno di Simonetta Cesaroni che appartengono al fidanzato di lei. Sangue nell'ascensore di via Poma, che però del fidanzato di lei non sono.

La tardiva inchiesta sul delitto di via Poma si complica e servirà solo a dimostrare in che maniera demenziale siano state condotte le stesse indagini 17 anni fa.

Ma, stando a quanto finora (ri)emerso c’è una novità che sposta completamente l’asse delle indagini stesse: Simonetta Cesaroni non sarebbe morta alle 18, ma alle 16 di quel maledetto martedì 7 agosto 1990. Ad indicarlo sarebbero le analisi sul contenuto gastrico della vittima e una testimone che non è più sicura di avere chiamato al telefono Simonetta intorno alle 17:30.

Fermo restando che non si comprende perché questa analisi gastrica non sia stata fatta (o sia stata fatta male) 17 anni fa, lo studio sul contenuto gastrico della vittima - che aveva mangiato poco, a pranzo, intorno alle 14 e poi più nulla - dimostrerebbe (il condizionale, a questo punto, è più che dovuto) che dall’inizio della digestione a quando Simonetta è stata assassinata sarebbero trascorse non più di due ore.

L'aggressione, secondo questa nuova consulenza, dovrebbe essere collocata alle 16, non più alle 18. A fissare l'ora del delitto dopo le cinque e mezza era stato un elemento conosciuto da subito: Luigia Berrettini, una segreteria dell'Aiag, la società per la quale Simonetta stava lavorando quel pomeriggio, aveva raccontato di aver risposto a una sua telefonata, intorno alle 17.15. Simonetta le aveva chiesto ragguagli sulla password da utilizzare per lavorare alcune pratiche. La segretaria, dopo essersi informata con la sua superiore, l'aveva richiamata proprio attorno alle 17.30.

Ma proprio in questi giorni la testimonianza della Berrettini e della responsabile regionale dell'Aiag sono state riverificate: e a quel che risulta la segretaria non è più affatto certa dell'orario.

DELITTO DI VIA POMA (2):
MENTANA E LA PROCURA DI ROMA 

Le rivelazioni della trasmissione televisiva Matrix sul caso di via Poma, in particolare l’associazione del Dna di saliva maschile rilevato sul corpetto di Simonetta Cesaroni al codice genetico dell’allora fidanzato, sono costate al giornalista Enrico Mentana l’iscrizione nel registro degli indagati della procura di Roma.

L’indagine, nella quale è coinvolto il conduttore del programma di Mediaste, è quella sulla fuga di notizie riguardanti il caso della giovane impiegata, uccisa con 29 coltellate il 7 agosto 1990 in via Carlo Poma. Insieme con Mentana sono indagati dal pm Giuseppe De Falco il consulente della procura Roberto Testi e la giornalista collaboratrice di Matrix Ilaria Cavo.

Il fascicolo aperto all’indomani della messa in onda della puntata di Matrix prende in esame le ipotesi di reato di rivelazione e di utilizzazione del segreto d’ufficio e la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale.

La diffusione di notizie relative ali sviluppi dell' inchiesta sull’omicidio di Simonetta Cesaroni avevano suscitato una certa irritazione a Piazzale Clodio. Il pm Roberto Cavallone era arrivato a dire: “le indagini sono state a mio avviso compromesse”.

Mentana ha invece difeso la sua scelta, sostenendo che “tutte le notizie date sono state verificate, riscontrate e vagliate attentamente. Come è dovere del giornalista”.

FATTI DI GENOVA:
LE MOLOTOV SCOMPARSE 

Colpo di scena il 17 gennaio scorso al processo per la sanguinosa irruzione della Polizia nella scuola Diaz-Pertini durante il G8 di Genova: non si trovano più le famose due bottiglie molotov che sarebbero state portate dalla Polizia nella scuola per giustificare gli arresti dei no global.

Il tribunale ha pertanto ordinato che non potranno essere ascoltate le testimonianze relative alle bottiglie incendiarie fintanto che queste non saranno ritrovate.

La questione è stata sollevata dagli avvocati difensori di alcuni dei 29 agenti e funzionari di Polizia imputati, a vario titolo, di falsità ideologica, calunnia, lesioni gravi, violenza privata, danneggiamenti, perquisizione arbitraria, percosse  e furto.

Il tribunale ha così interpellato il responsabile dell'ufficio corpi di reato, Sergio Bruschi, ed il vicequestore Borrè, che aveva compiuto per conto della procura una serie di indagini, ma nessuno dei due è stato in grado di indicare dove ora si trovino le due bottiglie molotov, che furono sottoposte ad accertamenti di polizia scientifica in Questura.

Ora le ricerche proseguiranno, ma fintanto che non saranno trovate le bottiglie incendiarie il processo rimarrà congelato nella sua parte più delicata.

FATTI DI GENOVA (2):
BREVE STORIA DI DUE BOTTIGLIE 

di Enrica Bartesagi
info@veritagiustizia.it

Le due molotov - una bottiglia con l'etichetta che commemorava la “69/ma adunata degli alpini Udine. 18-19 maggio 1996”, l'altra di Gutturnio dei Colli piacentini – vengono esibite sul tavolo della Questura di Genova, la mattina del 22 luglio 2001, insieme alle altre “prove” sequestrate alla Diaz, davanti a decine di giornalisti che le filmano e fotografano.

Durante le indagini, il vicequestore aggiunto di Bari, Pasquale Guaglione, le riconosce come quelle che aveva trovato per strada, in corso Italia, il pomeriggio precedente al blitz.

Michele Burgio, autista del Primo reparto mobile di Roma, ammette di aver caricato le molotov sul suo blindato e di averle portate alla scuola Diaz durante il blitz, consegnandole lì al suo superiore, il vicequestore aggiunto Pietro Troiani.

Un filmato dell'emittente Primocanale, girato nel cortile della Diaz durante l'irruzione, mostra il sacchetto azzurro che contiene le due molotov. Intorno al sacchetto si riuniscono i più alti funzionari presenti, oggi imputati al processo, tra i quali Francesco Gratteri, Gilberto Caldarozzi, Vincenzo Canterini e Giovanni Luperi. Accusati per lesioni gravi e percosse, falsificazione e occultamento di prove, abuso d’ufficio sono stati tutti ampiamente promossi nel frattempo.

Una funzionaria della Digos di Firenze, la dottoressa Mengoni, spiega ai pm di aver ricevuto le molotov da Luperi con il compito di custodirle, di averle portate nella scuola, di averle affidate a un collega e di averle poi perse di vista.

Nel verbale d'arresto dei 93 occupanti della scuola, si legge che le molotov sono state ritrovate alla Diaz “in un luogo visibile e accessibile a tutti”.

Il giorno 17 gennaio 2007, durante un’udienza del processo che vede imputati 29 agenti di polizia (tra cui alcuni funzionari di grado superiore), si scopre che le due molotov (elementi chiave del processo in corso) sono scomparse.

FATTI DI GENOVA (3):
NUOVA PROMOZIONE PER GRATTERI 

Nuova promozione per Francesco Gratteri, tuttora imputato nel processo in corso per le violenze alla Scuola Diaz, insieme ad altri 27 agenti e funzionari di Polizia, tutti  rinviati a giudizio per varie accuse, tra le quali lesioni gravi e percosse, falsificazione e occultamento di prove, abuso d’ufficio.

Gratteri è stato, infatti, nominato responsabile della Direzione Anticrimine Centrale.

MASSACRO DEL CIRCEO:
LA FAMIGLIA LOPEZ RICORRE ALLA CORTE EUROPEA 

La famiglia di Rosaria Lopez, la ragazza uccisa da Andrea Ghira con la complicità di Angelo Izzo e Gianni Guido al Circeo nel 1975, ha presentato ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo, contestando allo Stato italiano di non aver effettuato tempestivamente tutto quanto necessario per catturare Andrea Ghira.

STRAGE DI USTICA:
GENERALI ASSOLTI, MA I DUBBI RESTANO 

Con la sentenza della Corte di Cassazione sui generali dell’Aeronautica accusati di alto tradimento si è praticamente chiusa la vicenda giudiziaria della strage di Ustica.

Ma il giudice Rosario Priore, che per anni si è occupato dell’inchiesta, non è convinto. In un’intervista al settimanale Left ha sostenuto: “Suicidi in ginocchio, incidenti stradali, aerei, infarti, depressioni fulminanti. Ogni tanto mi chiedo: ma ogni volta che c'è un incidente aereo, succede tutto questo? Che ci siano tante distruzioni di prove, tante stranezze, tante morti...”.

Priore risponde anche ad alcune domande sul cadavere del  pilota del Mig libico trovato sulla Sila tre settimane dopo Ustica: “Odore e tracce di putrefazione che non potevano essere quelle di chi è morto quarantotto ore prima, perché la prima perizia avviene quasi nell’immediatezza”. In un supplemento di perizia, ricorda Priore, “si dice che la pelle delle mani si sfilava come un guanto, che c’erano vermi grossi come fiammiferi, che gli organi interni erano colliquati... e retrodatano la morte a tre settimane prima. Ovvero, in coincidenza con la notte della strage di Ustica”.

Il magistrato ricorda anche che il relitto del Mig aveva tracce di colpi d’arma da fuoco: “Helde, che è il massimo esperto di questa materia, ci disse che avevano danni e traiettorie tipiche di colpi di mitraglia”.

La sintesi di questa storia - sostiene Priore - credo si possa trovare nelle parole di un grande capo dei servizi di un Paese straniero che ero andato a interrogare per l’attentato al papa. Il francese Alexandre de Marenches: ‘Lei immagina mai di trovare delle prove di quello che è successo a Ustica? Guardi che se io avessi voluto o dovuto organizzare un attentato a Gheddafi le garantisco che non avrei lasciato tracce’. Questo mi disse...”.

CASO SCARAMELLA:
LE INTERCETTAZIONI CON PAOLO GUZZANTI 

Il gip di Roma Guglielmo Muntoni deciderà entro breve sulla richiesta della procura di Roma di rivolgersi al Senato per ottenere il via libera sulla utilizzazione di sei intercettazioni telefoniche tra Mario Scaramella e l'ex presidente della Commissione Mitrokhin, il sen. Paolo Guzzanti.

Le intercettazioni in questione furono eseguite dagli inquirenti napoletani nel quadro di accertamenti avviati sull'ex consulente della Commissione, indagato dalla procura partenopea per un presunto traffico di armi.

La richiesta al gip del pm Pietro Saviotti, titolare dell'inchiesta sfociata nell'arresto di Scaramella il 24 dicembre scorso con l'accusa di calunnia aggravata e continuata nei confronti di un ex agente del Kgb, Aleksander Talik (indicato dallo stesso Scaramella come l'organizzatore di due attentati nei suoi confronti e di quelli di Guzzanti), è legata alla inutilizzabilità delle stesse per effetto dell'immunità parlamentare di cui gode Guzzanti in quanto senatore. Per il pm quelle sei telefonata tra Guzzanti e Scaramella sono necessarie per chiarire altri risvolti sul ruolo e sulle funzioni esercitate da Scaramella all'epoca in cui era consulente della Mitrokhin.

In caso di accoglimento della richiesta del pm, la questione sarà esaminata dalla giunta per le autorizzazioni del Senato.

Gli avvocati difensori di Scaramella, Sergio Rastrelli e Gianluca Bucciero, si sono opposti alla richiesta di utilizzabilità delle telefonate, chiedendo in subordine “per coerenza processuale” che siano acquisite tutte le 60 conversazioni dal novembre 2005 al febbraio del 2006.

MADRE DI TUTTE LE TANGENTI:
PRESCRITTI QUASI TUTTI I REATI 

Sono stati dichiarati tutti prescritti, con la sola eccezione del riciclaggio, i reati contestati ai 41 imputati nel processo in corso davanti al tribunale di Perugia relativo alla cosiddetta Tangentopoli due, una serie di “mazzette” per la costruzione di grandi opere, compresa la Tav ferroviaria degli anni Ottanta, che all’epoca i giornali chiamarono “La madre di tutte le tangenti”.

Nel procedimento erano stati ipotizzati reati quali l'associazione per delinquere, la corruzione in atti giudiziari e il falso in bilancio.

Il tribunale ha disposto l'estinzione dei reati per intervenuta prescrizione nei confronti dell'ex capo dei gip di Roma Renato Squillante, dei magistrati Orazio Savia, Giorgio Castellucci e Roberto Napolitano. Stesso provvedimento per, tra gli altri, Sergio Cragnotti, Emo Danesi, Ercole Incalza, Silvano Larini, Emilio Maraini, Rocco Trane, Astolfo Di Amato, Fiorenzo Grollino e Marcello Petrelli.

La decisione del tribunale ha anche notevolmente ridimensionato le accuse contestate al banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, intorno al quale - secondo la ricostruzione accusatoria - sarebbe ruotato il sistema di tangenti.

Sono stati infatti dichiarati prescritti nei suoi confronti i reati di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso in bilancio. Dovrà invece continuare a rispondere di riciclaggio insieme ad altri dieci imputati. Tra loro i figli di Lorenzo Necci, morto nel frattempo, Giulio e Alessandra, e la vedova Paola Marconi.

Come dire: per la Giustizia italiana tutto finisce in gloria.

STRAGI BESLAN E DUBROVKA:
L’ALTRA FACCIA DEL TERRORE 

Un tour in 30 città russe fino alle elezioni presidenziali del marzo 2008 per far conoscere l'altra faccia del terrore, quello di Stato, negli attentati al teatro Dubrovka di Mosca e alla scuola di Beslan, in Ossezia del nord: ad annunciare l'inedita iniziativa sono stati i comitati delle vittime delle due stragi, che puntano anche ad una commissione internazionale d'inchiesta indipendente.

I loro rappresentanti si sono ritrovati in quello stesso teatro nel quale, il 26 ottobre 2002, morirono 130 dei circa 900 spettatori presi in ostaggio per quattro giorni da 41 guerriglieri filo ceceni, tutti uccisi nel blitz delle teste di cuoio russe. Gran parte delle persone perse la vita perché rimase avvelenata dal potente gas (di natura tuttora ignota) usato per l'irruzione nell'edificio, nonché per la mancata assistenza medica. 69 sopravvissuti hanno il fegato e i reni distrutti e necessitano di costanti cure mediche.

Zone d'ombra che si allungano anche sull'operato dei servizi segreti nel blitz del 3 settembre 2004 nella scuola di Beslan, dove 31 terroristi filo-ceceni presero in ostaggio circa mille persone: 334 il bilancio dei morti, di cui 186 bambini, mentre l'unico guerrigliero sopravvissuto è stato condannato all'ergastolo.

Questa iniziativa itinerante, intitolata “I cittadini contro il terrore”, ha già fatto la sua prima tappa a Nizhni Novgorod, sul Volga, non senza ostacoli da parte dei dirigenti locali, come ha raccontato Tatiana Karpova, presidente del comitato vittime del Nord-Ost, dal nome dello spettacolo in programma al Dubrovka nei giorni dell'attentato. E nei prossimi mesi toccherà altre città, tra cui San Pietroburgo, dove saranno promossi incontri con la popolazione locale per raccontare il terrore con le parole e con gli occhi di chi l'ha vissuto direttamente o indirettamente, come la stessa Tatiana, che al Dubrovka ha perso un figlio.

E' in programma anche la proiezione di filmati montati dai promotori dell'iniziativa, con immagini delle due stragi, ma anche di altri attentati in Russia degli ultimi anni. Così come la distribuzione di ben documentati opuscoli sulle due tragedie, con un appello alla comunità mondiale per una commissione internazione d'indagine che faccia luce su tanti interrogativi ancora aperti, dalle modalità d'intervento delle forze di sicurezza a come i due maxi commando, dotati di veri e propri arsenali, abbiamo potuto agire indisturbati.

L'inchiesta russa sul Dubrovka è già in archivio, mentre quella su Beslan è stata prorogata di tre mesi.

Abbiamo deciso di proiettare il nostro tour fino alle presidenziali del 2008 perché in tutto questo periodo i mass media saranno sotto pressione da parte del potere politico e faranno fatica a parlare di queste vicende”, ha spiegato Karpova. “Ma il successore di Putin - ha aggiunto - sappia che dovrà impegnarsi a fare piena luce sul Dubrovka e su Beslan”.

Fonte: ANSA

URANIO IMPOVERITO: NESSUNA PROTEZIONE PER I SOLDATI ITALIANI IN LIBANO 

Nessun equipaggiamento particolare da utilizzare in eventuali contatti con zone o veicoli contaminati dall'uranio impoverito”.

E' la testimonianza di un caporale dell'Esercito della brigata “Pozzuolo del Friuli”, l'unità italiana che guida la missione Leonte in Libano, raccolta dall'inchiesta di GrNews.it a cura di Francesco Palese.

Abbiamo in dotazione la maschera anti-NBC, modello M90, da utilizzare in caso di presenza di sostanze chimiche. Tute ad hoc, occhiali, maschere particolari o altro non ne abbiamo mai utilizzate” ha poi precisato il militare che opera a Tibnin, sede del quartier generale italiano.

Noi operiamo in un raggio di 35 chilometri dalla nostra base - ha spiegato a GrNews.it - sinceramente non sappiamo se esiste questo problema dell'uranio impoverito. Abbiamo, come immagino voi, appreso la notizia della possibile contaminazione della zona di Khiam qualche tempo fa. Ma di queste cose, per la verità, non se ne parla tanto”.

In tutti questi casi - ha commentato Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera - deve valere il principio di precauzione per i nostri militari. E' assurdo aspettare che la diplomazia israeliana ci dia le mappe delle bombe che ha disseminato in Libano per prendere provvedimenti. Intanto noi siamo sul posto e nessuno può escludere con certezza che non siamo esposti a rischi”.

Fino a qualche mese fa - ha ricordato Accame - gli israeliani hanno negato di aver utilizzato armi non convenzionali, poi è saltata fuori la notizia delle tracce di radioattività riscontrate in due siti a sud del paese arabo”.

E' necessario che il ministero della Difesa faccia chiarezza sulla vicenda, per non ritrovarci tra qualche anno a dover fare la conta di casi sospetti di malati e morti, come sta accadendo oggi con le missioni degli anni scorsi. Già abbiamo avuto l'esperienza dell'allora ministro Mattarella che negò alla Camera, l'utilizzo dell'uranio impoverito in Bosnia, salvo poi dover ammettere che erano stati sparati oltre 10.000 proiettili all'uranio” ha concluso l'ex parlamentare.

KOSOVO: DA ONU E BELGRADO SEGNALI PRECISI 

Si avvicina il momento della verità per lo status del Kosovo, attualmente ancora provincia serba, ma che aspira all’indipendenza.

E la tensione in Kosovo è destinata inevitabilmente a salire in occasione dell'annuncio della proposta di soluzione da parte del mediatore Onu, Martti Ahstisaari. Ne è convinto Douglas Earhart, comandante del contingente americano della Kfor.

Per Earhart, che comanda circa 1.500 uomini stanziati nella base di Camp Bondsteel, la proposta di Ahtisaaari “sarà molto ampia. Sicuramente scontenterà qualcuno, ma ci saranno anche alcune persone molto soddisfatte: è sempre così quando si ha a che fare con delle soluzioni di compromesso”.

Ormai mancano pochi giorni all'annuncio della proposta Onu sul futuro di Pristina: il dossier di Ahtissari dovrebbe essere presentato, infatti, entro l'inizio di febbraio.

La comunità internazionale in realtà difficilmente avrebbe potuto stabilire un timing peggiore per sbrigare la pratica Kosovo. 

Se da un  lato, difatti, le due parti restano lontanissime - Belgrado insiste sull'integrità territoriale, mentre Pristina non si smuove dalla sua richiesta d'indipendenza - dall'altro, a peggiorare il clima, ci sono state le elezioni politiche serbe svoltesi domenica scorsa che hanno visto la vittoria, ma senza sfondamento, degli ultranazionalisti del Partito radicale, assolutamente intransigenti sulla “pratica” Kosovo. Senza contare che tutte le forze politiche serbe sono praticamente sulla stessa linea per quanto riguarda il futuro della “culla della cultura della nazione”.

PENA DI MORTE: DALLAS CAPITALE DEGLI ERRORI GIUDIZIARI 

Dallas è diventata la capitale degli errori giudiziari.

Un test del Dna ha infatti appena scagionato James Waller, 50 anni, che ha trascorso 10 anni dietro le sbarre con l'accusa infamante di aver stuprato un ragazzino di 12 anni.

E il caso di Waller è il 12/mo errore giudiziario scoperto nella contea di Dallas da quando, nel 1989, il test genetico ha cominciato a far venire a galla negli Usa casi di innocenti in prigione.

Si tratta di più casi di quelli emersi in tutta la California, o in Florida, tanto per citare due dai maggiori stati del paese.

Nessuna contea americana ha un bilancio così negativo di errori giudiziari e solo tre stati - New York, Illinois e lo stesso Texas - hanno scoperto un numero maggiore di casi in cui è stato condannato un innocente.

 “Si tratta di errori stupefacenti e nel caso della contea di Dallas sono stati davvero troppi, è un imbarazzo internazionale - ha commentato il senatore dello stato Rodney Ellis, un democratico, chiedendo che siano avviate indagini per capire le ragioni del fenomeno.

I 12 casi di errori giudiziari sono emersi dalle revisioni avviate dopo la richiesta da parte di 400 detenuti nella contea di far ricorso ai test del Dna. L'esame genetico è ormai sempre più una routine nei casi criminali negli Usa e nel corso degli ultimi 20 anni ha tra l'altro permesso a oltre un centinaio di detenuti di lasciare il braccio della morte, dopo essere stati riconosciuti colpevoli.

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