Sono passati più di quarant’anni dall’omicidio di Pippo Fava, giornalista e intellettuale siciliano ucciso il 5 gennaio 1984 davanti al Teatro Stabile di Catania.
La sua morte rappresenta una delle pagine più drammatiche della lotta contro la mafia in Italia, un giallo che ha visto coinvolti i clan mafiosi catanesi, in particolare il clan Santapaola. Fava, direttore del giornale antimafia I Siciliani, è stato un simbolo della denuncia coraggiosa contro le collusioni e l’illegalità che ancora oggi caratterizzano la lotta alla criminalità organizzata nel Sud Italia.
La sera di quel 5 gennaio 1984, Pippo Fava si trovava davanti all’ingresso del Teatro Stabile di Catania per assistere a uno spettacolo teatrale, la commedia Pensaci, Giacomino! di Luigi Pirandello, dove recitava sua nipote. Fu in quel momento che alcuni membri del clan Santapaola gli spararono cinque colpi di pistola, uccidendolo sul colpo. Fava aveva 58 anni e da poco dirigeva I Siciliani, un giornale che in pochi mesi aveva acquisito una grande notorietà per le sue inchieste scomode, incentrate su mafiosi e politici collusi.
Il giallo di Pippo Fava, il giornalista morto per la libertà
Già in passato, Fava aveva denunciato apertamente la presenza della mafia nella società e nelle istituzioni, attirandosi minacce e attentati, come quello del gennaio 1981, quando un ordigno esplose davanti alla sede del Giornale del Sud, di cui era stato direttore e nel quale aveva condotto diverse inchieste su boss mafiosi attivi a Catania, come Alfio Ferlito. La sua scrittura era diretta, aggressiva e senza compromessi, un tratto che lo rese inviso ai clan ma gli guadagnò il rispetto di chi combatteva la mafia.

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Una settimana prima dell’omicidio, nel dicembre 1983, Fava rilasciò un’intervista alla trasmissione Film Story di Enzo Biagi, nella quale denunciò l’infiltrazione mafiosa nelle più alte cariche dello Stato: «I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione», affermò, sottolineando come il fenomeno mafioso fosse molto più pervasivo e radicato di quanto comunemente si credesse. Queste parole sono ancora oggi considerate una delle cause scatenanti dell’azione omicida.
Nato a Palazzolo Acreide nel 1925, Fava si laureò in giurisprudenza a Catania e iniziò la sua carriera giornalistica nel 1952. Fu tra i primi a raccontare la mafia con un approccio critico e appassionato, firmando articoli e inchieste per l’Espresso Sera e il Giornale dell’Isola.
Oltre al giornalismo, coltivò passioni per il teatro, la letteratura e il cinema, scrivendo romanzi, saggi e spettacoli teatrali, quasi sempre incentrati sulla denuncia della criminalità organizzata. Tra le sue opere più note vi è la sceneggiatura del film Palermo o Wolfsburg (1980), tratto dal suo romanzo Passione di Michele, che racconta la tragica storia di un giovane palestinese emigrato in Germania, e che vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino.
Le indagini sull’omicidio di Pippo Fava iniziarono lentamente, ostacolate da false piste e reticenze. Nei primi anni successivi, diverse testimonianze di collaboratori di giustizia furono ritenute inattendibili o abbandonate per timore di ritorsioni. Solo nel 1993, grazie alle dichiarazioni del collaboratore Claudio Severino Samperi, fu avviata l’operazione “Orsa Maggiore”, che portò a 156 mandati di cattura contro il clan Santapaola, tra cui personaggi chiave come Nitto Santapaola e suo nipote Aldo Ercolano.
Il processo si concluse nel 2003 con la conferma da parte della Corte di Cassazione della condanna all’ergastolo per Santapaola e Ercolano, rispettivamente mandante ed esecutore dell’omicidio. Questo risultato rappresentò una vittoria significativa nella lotta contro la mafia catanese, benché la battaglia per la verità e la giustizia continuino ancora oggi.
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