La notte del 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini viene massacrato all’Idroscalo di Ostia. Quasi cinquant’anni dopo, nuove rivelazioni riaprono il caso: e se quella notte non fosse stato solo un delitto passionale, ma un omicidio di Stato?
L’ultima notte di Pasolini
Roma, 1° novembre 1975. Pier Paolo Pasolini è nel pieno di una delle fasi più controverse e lucide della sua carriera. Scrittore, regista, poeta, polemista politico. Ha appena terminato Salò o le 120 giornate di Sodoma, un film che denuncia la violenza del potere e la complicità delle istituzioni.
Quella sera, Pasolini incontra un ragazzo di 17 anni, Giuseppe Pelosi, detto “Pino la rana”. I due si dirigono verso l’Idroscalo di Ostia. È l’ultima volta che lo vedono vivo.
Poche ore dopo, il corpo di Pasolini viene ritrovato sfigurato, straziato, irriconoscibile. Colpito più volte con un bastone, travolto dalla sua stessa auto. Una morte atroce, e, forse, un messaggio.
Un colpevole troppo comodo
Pelosi viene arrestato poche ore dopo alla guida della macchina di Pasolini. Confessa. Dice di averlo ucciso “per difendersi da un’aggressione”. Il caso sembra chiuso in poche settimane: un delitto omosessuale, una lite degenerata.
Ma fin da subito, qualcosa non torna.
La violenza del pestaggio, l’assenza di impronte estranee, le contraddizioni nei verbali, e soprattutto, il silenzio di Pelosi su altri nomi presenti quella notte.
Molti sospettano che il ragazzo sia stato solo un capro espiatorio, manipolato e spinto a prendersi la colpa. Del resto, un delitto “sessuale” era perfetto per screditare un intellettuale scomodo, comunista e omosessuale, che stava sfidando il potere in ogni sua forma.
La pista politica
Pasolini, pochi giorni prima della morte, aveva dichiarato: “So i nomi dei responsabili delle stragi di Milano, Brescia, Bologna. So i nomi, ma non ho le prove.”
Stava lavorando a un’inchiesta personale sul potere occulto in Italia, sui legami tra politica, servizi segreti e criminalità. Era convinto che dietro gli “anni di piombo” si muovesse una regia invisibile.
Aveva raccolto appunti, documenti, testimonianze. Materiale che, secondo alcuni, scomparve dopo l’omicidio.
Il suo romanzo incompiuto, Petrolio, conteneva riferimenti espliciti a corruzione, scandali energetici e trame internazionali. Troppo, forse, per essere solo una coincidenza.
Le confessioni mai ascoltate
Nel 2005, trent’anni dopo il delitto, Pelosi ritrattò la sua versione.
In un’intervista televisiva e poi davanti ai giudici, dichiarò: “Quella notte non ero solo. Erano in tre, forse quattro. Gente grande, che parlava romano e veniva da Roma. Mi dissero di stare zitto.”
Disse anche di aver sentito uno degli aggressori urlare: “Basta così, se no ammazzamo pure te!”
Una testimonianza che ribalta tutto. Ma, incredibilmente, non portò a nuove indagini. I giudici dichiararono il caso “prescritto”, e le nuove rivelazioni non bastarono a riaprirlo.
La confessione che nessuno ha voluto ascoltare.
Le piste scomode
Negli anni, le inchieste giornalistiche hanno tracciato diversi scenari alternativi:
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La pista neofascista: Pasolini sarebbe stato attirato in una trappola da ambienti dell’estrema destra, legati ai servizi segreti, che volevano punirlo per i suoi articoli e film.
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La pista “Petrolio”: l’omicidio come avvertimento, perché il regista stava per rivelare scandali energetici legati all’ENI e a poteri internazionali.
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La pista dei servizi deviati: Pasolini aveva contatti diretti con fonti interne all’intelligence, che forse lo avevano informato su verità indicibili.
Tutte ipotesi, nessuna certezza.
Ma in Italia, quando le ipotesi sono troppe, la verità è quasi sempre la più scomoda.
I testimoni dimenticati
Alcuni abitanti della zona dell’Idroscalo dichiararono di aver visto più auto quella notte. Di aver sentito urla di più persone, non una sola. Eppure, le loro deposizioni furono archiviate come “inattendibili”.

Pier Paolo Pasolini (Instagram recensireilmondo)
Altri parlarono di un gruppo di uomini arrivati in anticipo, forse per preparare un agguato. Persone che conoscevano Pasolini, o che lo avevano seguito.
Tra gli elementi mai chiariti, anche l’orario reale della morte, anticipato rispetto a quanto sostenuto nel processo. E le tracce di pneumatici diversi rispetto all’Alfa Romeo di Pasolini. Tutti dettagli che non entrarono mai nel verdetto finale.
L’intellettuale più pericoloso d’Italia
Pasolini non era solo un artista. Era una minaccia per il potere. Attaccava la borghesia, denunciava la manipolazione mediatica, smascherava l’ipocrisia del progresso.
Aveva capito, prima di tutti, che la televisione e la pubblicità stavano creando un nuovo fascismo culturale, più subdolo e più efficace.
Nel 1974 aveva scritto: “Il vero potere non si vede, non si elegge, non parla. Ma decide tutto.”
Forse, quella notte di novembre, il potere decise anche la sua fine.
Le nuove indagini e le ossa di Ostia
Nel 2010 e di nuovo nel 2022, la Procura di Roma ha riaperto le indagini, analizzando nuovi reperti biologici rinvenuti sull’auto e sui vestiti di Pasolini.
Tracce di DNA maschile sconosciuto furono trovate sul maglione e sulla camicia. Non appartenevano né a Pelosi né alle vittime note.
Un segno chiaro che altre persone erano presenti. Eppure, ancora una volta, il caso è rimasto sospeso. Troppi anni, troppi archivi, troppe verità scomode.
Un delitto che parla ancora
Ogni anniversario, scrittori, attori e registi ricordano Pasolini non solo come poeta, ma come profeta civile.
Uno che aveva previsto la mutazione dell’Italia: dalla società contadina alla società dei consumi, dal fascismo politico al fascismo del conformismo.
Il suo corpo massacrato è diventato un simbolo di ciò che accade a chi dice troppo.
Un avvertimento che ancora oggi sembra risuonare: “Chi tocca il potere, muore due volte: nella carne e nella memoria.”
Le ombre dietro la verità ufficiale
La versione giudiziaria è semplice: un delitto di passione, una lite, un giovane assassino. Ma la realtà, come spesso accade, è fatta di ombre che nessuno vuole rischiarare.
La verità su Pasolini è sepolta tra dossier spariti, registrazioni bruciate, testimoni mai ascoltati. E forse non è mai stata solo una questione di giustizia. Forse era — e resta — una questione di paura.
Pasolini scriveva: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”
Quelle parole, oggi, suonano come una condanna collettiva. Perché l’Italia sa, ma non vuole sapere, sa che l’omicidio di Pasolini non fu una semplice notte di violenza,
ma un’esecuzione. Un uomo libero, troppo libero, che aveva visto ciò che non si doveva vedere, e che aveva osato dirlo.
Per questo, forse, nessuno ha mai voluto ascoltare la confessione vera. Perché in quel momento, il silenzio diventava più sicuro della verità.
Pier Paolo Pasolini (Instagram thepmovies)










