Il Caso Dyatlov è diventato negli anni un grande mistero, cosa accadde davvero quella notte tra i ghiacci?
Riapre il dibattito attorno all’enigma del passo di Dyatlov, una delle tragedie più misteriose e discusse della storia dell’alpinismo sovietico.
Dopo oltre sei decenni dall’inquietante scomparsa di nove escursionisti esperti sui monti degli Urali, una nuova ricerca scientifica fornisce elementi concreti per una spiegazione plausibile, superando molte delle teorie complottiste che hanno finora alimentato il mito di questo caso.
L’incidente del passo di Dyatlov: una tragedia irrisolta da oltre 60 anni
Il 23 gennaio 1959, un gruppo di dieci persone – nove studenti e un insegnante di sport dell’Istituto Politecnico degli Urali di Ekaterinburg – partì per una spedizione invernale di oltre 300 km nella regione montuosa del Kholat Saykhl, noto come la “montagna dei morti” nella lingua locale mansi. Uno degli studenti fu costretto a rientrare per problemi articolari, mentre il resto del gruppo proseguì con a capo il ventitreenne Igor Dyatlov. Il 1° febbraio, gli escursionisti montarono una tenda sulla pendenza innevata, ma da quel momento non si ebbero più notizie di loro.
Settimane dopo, una squadra di soccorso ritrovò la tenda, tagliata dall’interno e sepolta sotto la neve, e cominciarono a emergere particolari agghiaccianti: i corpi dei nove escursionisti furono rinvenuti sparsi sul pendio, alcuni parzialmente svestiti, con gravi fratture al cranio e al torace, e in alcuni casi privi di occhi o lingua. L’indagine ufficiale sovietica, svolta in clima di segretezza, attribuì la causa delle morti a una “forza naturale sconosciuta”, lasciando però in sospeso numerosi interrogativi e dando origine a numerose ipotesi che spaziavano da esperimenti militari segreti a incontri con creature leggendarie come lo yeti.
Negli ultimi anni, il caso è stato riesaminato dalle autorità russe, che nel 2019 hanno indicato una valanga come causa principale della tragedia, ma senza fornire sufficienti dettagli tecnici. Ora, un team di ricercatori svizzeri, guidato dall’ingegnere geotecnico Alexander Puzrin dell’ETH di Zurigo e da Johan Gaume dell’EPFL di Losanna, ha realizzato simulazioni avanzate che offrono una spiegazione più convincente. Le loro analisi dimostrano che, contrariamente a quanto si pensava, il pendio del Kholat Saykhl aveva un’inclinazione vicina ai 30 gradi, sufficiente a generare una valanga, anche se di dimensioni ridotte.
Inoltre, lo scavo effettuato dal gruppo per stabilire il campo ha destabilizzato la neve, mentre forti venti catabatici hanno trasportato ulteriore neve sulle pendici, aumentando il carico e innescando una valanga con un ritardo di circa nove ore. Questa spiegazione del fenomeno “ritardato” è supportata da studi precedenti di Puzrin che mostrano come un terremoto possa causare valanghe anche a distanza temporale di ore, suggerendo che eventi naturali possono manifestarsi con un certo ritardo.
Un aspetto chiave della ricerca riguarda la gravità delle lesioni riscontrate sui corpi, che finora non si accordava con le tipiche conseguenze di una valanga, spesso fatale per soffocamento piuttosto che per traumi contundenti. Per ricostruire l’impatto della neve, i ricercatori hanno utilizzato sofisticati modelli di simulazione ispirati agli effetti visivi del film d’animazione “Frozen” della Disney, combinandoli con dati sugli impatti corporei ricavati da test effettuati negli anni ’70 dalla General Motors su cadaveri per studiare l’effetto degli incidenti automobilistici.

Cosa accade quella notte: il caso Dyatlov – Misteriditalia.it
Le simulazioni indicano che un blocco compatto di neve di circa 5 metri di lunghezza, simile a un SUV, avrebbe potuto colpire gli escursionisti nel sonno causando fratture di costole e cranio senza ucciderli immediatamente. Questo spiegherebbe perché alcuni membri del gruppo sono stati trovati fuori dalla tenda, probabilmente nel tentativo di cercare aiuto o rifugio tra gli alberi, a circa 1,5 km di distanza.
Gli esperti esterni al team di ricerca hanno accolto con favore queste nuove evidenze: Jordy Hendrikx, direttore del laboratorio di neve e valanghe all’Università del Montana, ha definito le simulazioni “verosimili e capaci di illuminare un enigma storico”; Jim McElwaine, esperto di rischi geologici della Durham University, ha sottolineato come un blocco di neve così compatto possa generare lesioni così gravi; mentre Freddie Wilkinson, guida alpina professionista, ha confermato la plausibilità di una valanga di piccole dimensioni capace di provocare ferite traumatiche anche gravi.
Nonostante i progressi nella comprensione degli eventi, rimangono molte incognite. Per esempio, il fenomeno dello spogliamento paradossale di alcuni corpi e la presenza di tracce di radioattività sono ancora oggetto di discussione, con ipotesi che vanno dall’azione di animali necrofagi alla contaminazione da materiali presenti nelle lampade da campeggio usate dal gruppo.
La ricerca non si propone di risolvere definitivamente tutti gli aspetti del caso Dyatlov, ma offre una ricostruzione scientificamente fondata che restituisce dignità agli escursionisti, dimostrando che la tragedia non è stata il risultato di imprudenze o cause misteriose, bensì di un evento naturale raro e imprevedibile, capace di colpire anche alpinisti esperti. Questo lavoro contribuisce a dissipare parte dello scetticismo e delle teorie complottiste che hanno a lungo circondato il caso, ma probabilmente non riuscirà a cancellare del tutto il fascino oscuro di questa vicenda.
Il mistero del caso Dyatlov: accadde quella notte - Misteriditalia.it 











