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Quella che pubblichiamo è la prima sentenza della Cassazione che annullò la sentenza
di condanna (22 anni a Sofri, Bompressi e Pietrostefani e 11 anni a Marino) per
l’omicidio Calabresi emessa dalla corte d’Appello di Milano nel luglio del 1991.
E’ una sentenza molto importante, non solo perché emessa dalla Sezioni Unite della
Cassazione, cioè dal massimo organo giudicante dell’ordinamento giudiziario italiano,
ma soprattutto perché, nella sua motivazione, è l’unico vero tentativo di approfondire
una vicenda, sempre trattata dagli altri organi giudicanti con una buona dose di
approssimazione.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Udienza pubblica del 21-X-92
Sentenza n. 16
Reg. Gen. n. 5322/92
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Gaetano Lo Coco Presidente
1. Dott. Bernardo Gambino Componente
2. “ Guido Guasco “
3. “ Vito Aliano “
4. “ Francesco Siena “
5. “ Vincenzo Auriemma “
6. “ Brunello Della Penna “
7. “ Umberto Feliciangeli “
8. “ Giorgio Lattanzi “
ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da
1) Marino Leonardo nato il 27-3-1946 a Pastorano
2) Bompressi Ovidio nato il 16-1-1947 a Massa
3) Pietrostefani Giorgio nato il 10-11-1943 a L’Aquila
4) Vigliardi Paravia Laura nata il 31-10-1942 a Firenze
5) Buffo Paolo nato il 25-8-1936 a Torino
6) Caccavari Francesco nato il 1-1-1947 a Crotone
7) Dell’Amico Pier Giorgio nato il 24-4-1949 a Massa
8) De Luca Enrico nato il 20-5-195o a Napoli
9) Olivero Gianni nato il 4-5-1943 a Vercelli
10) Sibona Roberto nato il 4-12-1942 a Villafranca Piemonte
11) Totolo Anna nata il 2 6-1-1950 ad Asti
12) Sofri Adriano – non ricorrente – nato il 1-8-1942 a Trieste
avverso la sentenza della Corte di Assise di Appello di Milano emessa in data 12-7-
1991 e ordinanze dibattimentali
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Brunello Della Penna
Udito, per la parte civile, l’avv. Avvocatura Generale dello Stato avv. Alfredo Angelucci
di Roma – avv. Odoardo Ascari di Modena – avv. Luigi Li Gotti di Roma. Udito il
Pubblico Ministero in persona dei Sostituto Procuratore Generale dott. Bruno Frangini
che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di Marino, Bompressi, Vigliardi Paravia,
Caccavari, De Luca, Pietrostefani e dichiararsi inammissibili gli altri.
Uditi i difensori avv. Gianfranco Maris di Milano – avv. Ivo Reina di Roma – avv. Ezio
Menzione di Pisa – avv. Giandomenico Pisapia di Milano – avv. Gaetano Pecorella di
Milano – avv. Marcello Gentili di Milano – avv. Marcello Gallo di Torino.
Svolgimento del processo
Il 17-5-72 intorno alle 9,I5 il commissario della Polizia di Stato Luigi Calabresi –
addetto all’ufficio Politico della questura di Milano – veniva assassinato con due colpi di
revolver esplosigli alle spalle da un giovane mentre era per aprire la sua vettura Fiat
500, parcheggiata vicino allo sparti- traffico della via Cherubini, all’altezza del civico n.
6, contrassegnante l’edificio ove egli abitava. I rilievi medico-legali evidenziavano ferite
da arma da fuoco alla regione occipitale e alla schiena. L’analisi balistica, consegnata
nella relazione tecnica del 29-9-72, stabiliva che il proiettile recuperato nel corpo della
vittima era di marca Fiocchi, cal. 38 sp. ed era stato esploso da un revolver Smith and
Wesson, a canna lunga
1
. Da molteplici testimonianze raccolte subito dopo il fatto fra
persone che avevano assistito all’episodio o a momenti di esso, era possibile una prima
ricostruzione, non priva di qualche sfasatura, dalla quale emergeva che un giovane
uomo, alto circa mt. 1,80/85, di corporatura longilinea, viso allungato, capelli castani
corti (ma taluno aveva riferito di capelli castani chiari tendenti al biondo, o biondi), si
era posto alle spalle del funzionario mentre costui stava traversando la strada,
accostandosi alla sua vettura, e nel momento in cui era chino per aprire la portiera gli
aveva sparato da distanza ravvicinata. Si era quindi allontanato guadagnando una
vettura Fiat 125 blu (dalla quale era disceso pochi minuti prima, secondo il teste Pappini
Pietro, o in attesa poco più avanti secondo il teste Gnappi Luciano) condotta da un’altra
persona (forse una donna secondo il Pappini, a giudicare dalla capigliatura). La vettura
si era allontanata rapidamente per via Cherubini nella direzione di via Mario Pagano,
mentre alcuni dei presenti si premuravano di dare l’allarme alla polizia dal telefono di
un negozio di frutta e verdura al civico 8 della via Che- rubini. La Fiat 125 blu, di cui
erano state rilevate almeno le cifre iniziali della targa, veniva recuperata abbandonata
con il motore ancora acceso in via Guido D’Arezzo angolo con via A. Giussano, di
fronte a un’agenzia bancaria. Riferirà 13 giorni dopo Dal Piva Adelia di avere notato la
125 giungere con due persone a bordo da lei viste di spalle, una delle quali appariva
essere una donna, queste erano passate su una vettura “Alfa Romeo Giulia” in sosta lì
vicino, allontanandosi poco prima del sopraggiungere della polizia. La 125 blu risultava
essere stata rubata nella notte tra il 15 e 16-5-72 in viale di porta Vercellina nei pressi
dei civico 20, là dove era stata parcheggiata dal suo proprietario. Non presentava
impronte papillari. Erano evidenti invece due ammaccature, una sul parafango.
posteriore sinistro e una sul parafango anteriore destro, parte mediana.
Tale ultima ammaccatura appariva contrapponibile a quella sul parafango anteriore
sinistro, all’altezza del fanale, rilevata sulla vettura Simca 1000 di Giuseppe Musicco.
1 In realtà nessuna perizia si era mai occupata della questione specifica della lunghezza della canna.
Costui riferiva che intorno alle ore 9, mentre dalla via Giotto era per immettersi nella
via Cherubini, era stato urtato con violenza da una vettura, che si era però allontanata
subito senza fermarsi.
Pochi minuti dopo aveva notato un gruppo di persone che si era raccolto in mezzo alla
via Cherubini ed aveva appreso dell’omicidio.
Sulla descrizione dei caratteri fisionomia della persona che aveva sparato, resa dai testi,
venivano compilati un identikit e un photophit, che erano pubblicati sulla stampa il 20-
5-722
. Ma le indagini volte in più direzioni, nell’arca dell’estrema sinistra (in particolare
su esponenti del movimento denominato “lotta continua”) e in quella dell’estrema destra,
non sortivano positivi risultati.
In questo contesto erano raccolte le dichiarazioni rese a partire dal 19-5-72 da Ferretti
Ugo, pregiudicato detenuto, il quale riferiva di essere stato intorno all’area del
movimento su detto, assistito e ospitato a causa del tragico episodio della morte di un
suo figlioletto durante un’operazione di sgombero di abitazioni abusivamente occupate,
ad opera della polizia. Accolto nel giro dei militanti di “lotta continua” in Italia e a
Francoforte, aveva sentito parlare con insistenza da parte di costoro della necessità di
uccidere il commissario Calabresi, al quale si faceva carico della morte dell’anarchico
Pinelli, caduto da una finestra della questura di Milano nel tempo in cui era stato lì
trattenuto per le indagini relative all’eccidio di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Simili voci emergevano nei successivi anni ’80 dalle molteplici dichiarazioni di persone
militanti della sinistra eversiva (Brigate rosse e Prima linea), apertesi alla collaborazione
con la giustizia, quali Roberto Sandalo, Marco Donat Cattin, Massimiliano Barbieri,
Michele Viscardi, Bonavita Alfredo e altri, le quali, per informazioni raccolte da ex
militanti del movimento “Lotta continua”, passati nelle file del terrorismo (come del
resto taluno di loro stessi), riferivano che l’omicidio del commissario Calabresi era
maturato nell’ambito del movimento ed era stato anche voluto dai suoi massimi
dirigenti, i quali avevano poi disputato fra loro sul- l’opportunità di rivendicarlo.
Riferivano che nel movimento era stata organizzata una struttura armata – filiazione del
servizio d’ordine – con il compito di assicurare i finanziamenti attraverso rapine e di
essere il braccio armato del movimento nella prospettiva rivoluzionaria in esso
vagheggiata.
Le notizie acquisite non andavano tuttavia oltre questo, e là dove si concretizzavano
attraverso più specifiche indicazioni per le quali si risaliva a persone determinate, quali
Franco Gavazzeri e Marco Fossati, alle quali veniva fatto carico di precise
responsabilità per l’omicidio, non pervenivano poi a risultati positivi attendibili, talché
l’accusa verso le persone indiziate veniva a cadere.
1/a. La svolta determinante per l’instaurazione del presente giudizio veniva nel luglio
del 1988 con la spontanea presentazione ai carabinieri di Leonardo Marino – già attivo
militante di “Lotta continua” all’epoca dei fatti – nei primi di detto mese.
Dopo una serie eli contatti con i carabinieri di Sarzana e Milano (come da costoro sarà
chiarito in giudizio), il Marino, a partire dal 20-7-88, iniziava la sequenza delle sue
dichiarazioni di chiamante in correità, che si articolerà nell’istruttoria e nel giudizio –
anche con confronti coi coimputati accusati -, connotandosi per successivi arricchimenti
del tessuto iniziale, con precisazioni, nuove circostanze via via ricordate, correzioni,
adattamenti e qualche confessato vuoto di me- moria, anche in relazione alle
contestazioni dei coimputati e all’approfondimento dell’indagine accuratamente
compiuta in sede di giudizio di primo grado.
I capisaldi della diffusa e articolata vicenda come narrata dal Marino sono i seguenti.
2 In realtà l’identikit pubblicato su diversi giornali non era quello del killer di Calabresi, ma quello – descritto da una
commessa – dell’acquirente di un ombrello, trovato poi nell’auto usata per l’attentato.
Militante sin dal 1969 di “Lotta continua”, movimento strutturato allora al vertice con
un comitato nazionale numeroso e ampiamente rappresentativo dei centri locali e con un
esecutivo ristretto a una diecina di persone, e dotato di un servizio d’ordine, il Marino
sosteneva che a partire dal 1970 egli era stato gradualmente coinvolto nell’attività di una
struttura illegale armata, la cui costituzione era stata decisa nell’ambito dell’esecutivo
per la pressione di taluni suoi membri, tra i quali Giorgio Pietrostefani, reclutandone i
componenti tra le file dei servizio d’ordine.
In quel periodo si recavano a Torino dove risiedeva il Marino – fino un certo momento
operaio della Fiat – il Pietrostefani e Ovidio Bompressi (conosciuto come “Enrico”), il
quale – attivista prima di “Potere operaio” e poi di “Lotta continua” a Massa – aveva il
compito di addestrare le reclute della struttura illegale.
I due erano frequentemente ospiti in Torino della famiglia di Paolo Buffo e della moglie
di costui, Vigliardi Paravia Laura, con la quale per alquanto tempo andavano a vivere
nello stesso appartamento il Marino e la sua convivente Maria Antonietta Bistolfi, per
una spontanea solidarietà sorta tra le due donne in particolare e per le difficoltà
economiche della coppia Marino-Bistolfi, sfrattata. Venivano compiute le rapine
all’armeria “Marco Leone di Torino” (con la refurtiva di questa veniva rifornito un
deposito sito nella zona di p.za Vittorio) il 18-12-70, quella del 25-3-71 in danno
dell’agenzia di Saluggia della Banca popolare di Novara e quella del 10-8-71 alla
fabbrica Nuovo Pignone di Massa; a queste ultime due partecipava lo stesso Marino. E
ancora, la rapina ai danni della casa editrice Einaudi il 28-8-72 e l’irruzione alla
CISNAL di Torino dell’11-1-73 con la partecipazione del dichiarante, e la rapina in
danno dell’armeria “Bocro” di Torino il 22-3-73.
Gli attivisti della struttura illegale si esercitano all’uso delle armi in una cascina di
Biandrate e a Corio Canavese, dove il Buffo aveva la disponibilità di una casa utilizzata
come base e deposito di armi. Nel novembre del 1971 il Pietrostefani e il Bompressi
cominciavano a parlare con il Marino del progetto di soppressione del commissario
Calabresi, deliberato da una parte dell’esecutivo, al quale il Bompressi lo sollecitava a
prendere parte come autista con lui, che sarebbe stato l’esecutore materiale. Il Marino
finiva per convincersi della necessità politica di un tale delitto, la cui esecuzione, fissata
per il giugno del 1972, veniva anticipata al maggio con l’intento di sfruttare l’onda
emotiva scaturita dalla morte dello studente anarchico Franco Serantini, avvenuta in
seguito a uno scontro con la polizia in Pisa il 7 maggio 19723
.
Prima di risolversi all’azione il Marino chiedeva un incontro con Adriano Sofri, leader
del movimento, che per alquanto tempo era stato a Torino e al quale egli era anche
affettivamente molto legato.
L’occasione dell’incontro era il comizio del 13-5-72 tenuto a Pisa dal Sofri per
commemorare la morte dei Serantini, al quale il Marino si recava con la Vigliardi su
sollecitazione dei Pietrostefani, il quale (secondo una prima versione del Marino)
partecipava anche lui all’incontro; ma tale presenza andava a dissolversi in successive
versioni fino a quella del dibattimento, nella quale il Marino finiva per dichiarare di
“non aver memoria” di essa, anche perché per lui allora contava solo il colloquio con
Sofri.
L’incontro con quest’ultimo, – uno dei punti più dibattuti nel giudizio, poiché in esso il
Marino sosteneva di avere ricevuto la conferma del mandato a uccidere -, aveva luogo
brevemente dopo il comizio in piazza, e dopo una breve sosta in un bar della stessa
piazza.
Il Sofri rassicurava il Marino, gli dava alcune istruzioni sul comportamento da tenere
nel caso fosse stato scoperto e l’invitava ad attendere a Torino istruzioni.
3 In realtà Franco Serantini morì in una cella del carcere di Pisa dove, nonostante fosse gravemente ferito per le
manganellate ricevute dalla polizia durante gli scontri, non gli fu prestata alcuna cura.
Più tardi nella serata Marino, come altri numerosi militanti, si recava a salutare il Sofri
nella casa in Pisa della sua ex moglie e quindi faceva ritorno nella stessa serata a
Torino.
La mattina successiva, il 14-5, il Marino riceveva la preannunziata telefonata di “Luigi”
(il basista di Milano per l’operazione delittuosa), che lo invitava a recarsi da lui il giorno
dopo e che lo riceveva alla stazione (il Marino sosteneva di averlo superficialmente
conosciuto in altra occasione) e quindi in un suo appartamento, ove già si trovava il
Bompressi.
La sera del 15-5, con l’aiuto dei “Luigi”, il Marino compiva il furto della Fiat 125 blu
mediante la forzatura del deflettore sinistro e portava la vettura al parcheggio in
prossimità della via Cherubini.
L’indomani 16-5 però l’azione non aveva luogo perché la mancanza della vettura della
vittima nel luogo ove era solitamente parcheggiata faceva ritenere che il Calabresi non
avesse pernottato a casa o fosse uscito prima del solito. Il Marino rientrava brevemente
a Torino per essere ancora a Milano nella stessa giornata.
Il 17-5 aveva luogo l’impresa omicida.
Il Bompressi armato con una pistola che lo stesso Marino aveva prelevato dal deposito
gestito dal Buffo, si era appostato vicino all’ingresso dello stabile ove abitava il
Calabresi, in attesa, mostrandosi intento alla lettura del giornale.
Il Marino prelevava la vettura dal parcheggio e all’uscita (ma il luogo esatto, come il
momento e le modalità del fatto, costituiscono un altro punto fra i più controversi dei
giudizio) aveva luogo l’incidente con la vettura del Musicco (cfr. sopra par.fo I), che il
Marino risolveva invitando l’antagonista a spostarsi brevemente per dargli spazio,
mostrando di voler poi definire la questione; invece si allontanava immediatamente per
portarsi, dopo un breve giro, avanti al negozio di frutta e verdura, in attesa di fuggire
con il complice appena compiuta l’azione.
Difatti, messi a segno dal Bompressi i colpi mortali, egli, compiuta una breve
retromarcia per facilitare il complice, lo raccoglieva e si allontanava rapidamente in
direzione della via Mario Pagano, raggiungendo il luogo ove la vettura rubata veniva
poi recuperata.
Da lì, separatosi dal Bompressi, con la metropolitana si era recato alla stazione
ferroviaria dove di nuovo aveva incontrato il Bompressi, ma non il “Luigi” (come
sarebbe dovuto avvenire secondo gli accordi).
Sicché si era risolto a prendere il treno delle 9,40, ricevendo in consegna l’arma
impiegata nel delitto, che restituiva al deposito del Buffo.
Così la sera del 17-5 egli era a casa, dove, assente ancora per lavoro la sua convivente
Bistolfi, si incontrava con la Vigliardi, la quale con in mano “la Stampa Sera” con la
notizia dell’assassinio, gli chiedeva “come era andata” e dove fosse il Bompressi. Egli
aveva risposto brevemente che era rimasto a Milano senza aggiungere altro, pur
rendendosi conto che la sua interlocutrice era consapevole di quanto da loro commesso.
Il 20-5 pomeriggio il Marino si recava a Massa con la Vigliardi a un altro comizio del
Sofri, dove si incontrava brevemente con il dirigente, che gli esprimeva il suo
compiacimento per il buon lavoro fatto, e dove notava anche la presenza del Bompressi,
che però non avvicinava.
La Laura Vigliardi si era invece intrattenuta con costui e mentre erano per tornare a
Torino aveva fatto notare al Marino che il Bompressi si era schiarito i capelli, così
rendendosi ancora più somigliante all’identikit pubblicato sul giornale.
Dal Bompressi il Marino diceva di avere poi appreso che era rimasto tre giorni a casa
del “Luigi”, che il 20 mattina l’aveva accompagnato alla stazione ferroviaria con la sua
compagna, ricorrendo all’espediente di fargli tenere un bambino in braccio per dargli
l’immagine di un buon padre di famiglia e eludere così eventuali controlli della polizia.
Dal Pietrostefani – anche lui gli aveva espresso il suo compiacimento per la riuscita
dell’azione – aveva appreso che lui e il Sofri avevano atteso ansiosamente la notizia la
mattina del 17-5 accanto alle telescriventi nella redazione in Roma del quotidiano
“Lotta continua”.
Dopo il delitto il Marino aveva dato segni di irrequietezza morale, sicché il Pietrostefani
l’aveva indotto a recarsi a Roma per costituire e guidare il gruppo clandestino locale, ma
l’esperienza era durata poco per contrasti con i compagni del gruppo.
Rientrato a Torino riprendeva la militanza routinaria sino al tramonto di “Lotta
continua”; nonostante la fine di tale impegno politico partecipava ad altre rapine, quella
del luglio del 1979 in danno di una banca di Morgex e ancora nell’agosto dello stesso
anno quella in danno di uno sportello bancario in Pre Saint Didier (entrambe località
della Valle d’Aosta).
A tali ultime due imprese il Marino era spinto ormai – essendo stata sciolta “Lotta
continua” nel 1976 – da interesse personale di lucro, così come alla tentata rapina in
danno della sede RAI di Torino (che avrebbe potuto rendere un cospicuo profitto ove
fosse riuscita) sperimentata nel 1987.
Le imprese del Marino avevano tuttavia suscitato il disappunto di suoi ex compagni,
Giorgio Dell’Amico e Gianni Oliviero, coimputati in questo giudizio siccome chiamati
in correità per talune rapine.
Entrambi nel 1982 erano andati a cercarlo e gli avevano manifestato il loro risentimento
per la sua condotta, mostrando di essere preoccupati del fatto che egli potesse fare
propalazioni accusatorie nel caso fosse stato arrestato ovvero che, semmai coinvolto con
altre organizzazioni, potesse vantare, per accreditarsi con i nuovi compagni, le sue
passate imprese e le complicità avute, compromettendo in un caso o nell’altro la
sicurezza degli ex compagni.
Preoccupazioni i due gli manifestavano anche per l’insofferenza e il risentimento
espressi dalla Antonia Bistolfi per il mancato aiuto da parte degli ex compagni nelle
difficoltà economiche sue e del Marino.
Complessivamente il discorso era stato accompagnato da severe e oscure minacce.
In realtà la situazione economica della coppia Marino-Bistolfi non era certo facile.
I due, dopo un periodo di permanenza a Morgex, in Valle d’Aosta, si erano trasferiti a
Bocca di Magra, dove il Marino s’ingegnava a fare il venditore ambulante.
Più volte il Marino si era rivolto al Sofri per parlargli delle sue difficoltà psicologiche e
materiali e – come finiva per ammettere – per avere aiuto finanziario.
Però gli incontri con il vecchio compagno e dirigente una volta ammirato lo avevano
deluso, tanto che si era sentito strumentalizzato e buttato via.
Diverso il rapporto con il Bompressi, con il quale si era ripetutamente incontrato in
varie occasioni che ancora nel 1987 aveva testimoniato per lui in una controversia di
lavoro, e che egli aveva sentito a sé più vicino, sia perché ne aveva avvertito il travaglio
morale per le trascorse vicende, sia perché anche lui gli appariva come una persona
vittima della strumentalizzazione ad opera dei dirigenti di un tempo, Sofri e
Pietrostefani. E per tale ragione il Marino solo in un secondo momento, nel corso della
sequenza delle sue dichiarazioni, farà il nome del Bompressi, prima indicato so- lo
come “Enrico”.
Il travaglio psicologico, già insorto subito dopo il delitto, non lasciava il Marino, che
poco prima del Natale del 1987 si rivolgeva al parroco di Bocca di Magra, al quale
esternava il suo disagio e – come riferirà lo stesso don Regolo Vincenzi -, senza far
nomi, confidava di essere stato coinvolto in gravi fatti di terrorismo, che gli avrebbe
rivelato per il caso gli fosse successo qualcosa, perché si sentiva incalzato da vecchi
complici, i quali miravano a coinvolgerlo nuovamente.
Un successivo colloquio confidenziale il Marino aveva nel maggio del 1988 con il
senatore Flavio Bertone, vice Sindaco di La Spezia, del partito comunista (nel quale
Marino aveva per qualche tempo militato dopo lo scioglimento di “Lotta continua”
durante la sua permanenza a Morgex), sin quando si risolveva, come si è detto in
principio, a prendere contatto con i carabinieri per aprirsi la strada alla completa
rivelazione dei suoi trascorsi.
Nel corso delle sue dichiarazioni finirà per dire che si era reso conto che non poteva
risolvere i suoi problemi morali e psicologici, e liberarsi del passato se non rompendo in
maniera radicale e definitiva con tutti quelli con i quali aveva vissuto la stagione in cui
era maturato l’omicidio Calabresi.
1/b. Alle chiamate in correità del Marino i coimputati per l’omicidio e le rapine
opponevano decise proteste di innocenza. In estrema sintesi, il Sofri, confermando il suo
passato di dirigente del movimento, negava la fisionomia degli organi dirigenziali
tratteggiata dal Marino, la esistenza di una struttura illegale (anche se ammetteva che da
vari militanti erano state commesse azioni illecite), e la risoluzione ed il mandato di
uccidere il Calabresi. Contestava decisamente l’incontro e il colloquio del 13-5-72 a
Pisa, dopo il comizio, introducendo una serie di puntualizzazioni su quell’evento, le
quali escludevano la plausibilità di un colloquio nel tempo, luogo e modalità affermati
dal Marino.
Deduceva numerosi testimoni a sostegno dei suoi assunti.
La mattina del 17-5 aveva appreso del delitto Calabresi da un giovane mentre stava
recandosi alla redazione del giornale “Lotta continua”.
Il Pietrostefani contestava del pari gli assunti del Marino sull’organizzazione verticistica
di “Lotta continua”, sulla struttura illegale e sul mandato per l’omicidio.
Ridimensionava anche le affermazioni sul suo impegno nel movimento, riferendosi
anche al fatto che in quel tempo egli si era trovato in stato di latitanza, e sui contatti
avuti con il Marino.
Il 17-5-72 era a Roma, ma non era stato affatto nella redazione di “Lotta continua”
sempre a causa della sua latitanza; aveva appreso la notizia dell’omicidio dal giovane
Cesare Colombo, un militante del movimento, che allora era in assiduo contatto con lui
per agevolargli i rapporti con i compagni della sede romana, di cui egli aveva l’incarico
di comporre alcuni dissidi per problemi politico-organizzativi.
Adduceva vari testimoni a discarico.
Il Bompressi contestava anche lui le affermazioni del Marino sull’organizzazione di
Lotta continua, sulla struttura illegale e sulla sua partecipazione all’omicidio (oltre che
alle rapine); in sede di giudizio di primo grado deduceva poi che il 17-5-72 egli si
trovava a Massa dove – come gli era stato ricordato da taluni compagni e amici tramite
un articolo pubblicato sul quotidiano “La Repubblica” – si era con essi incontrato la
mattina per mostrare loro un volantino predisposto in fretta alla notizia dell’assassinio e
distribuirne le copie da divulgare avanti alle fabbriche nell’intervallo del “cambio turno”
delle ore 14.
Indicava numerosi testi su tali circostanze.
1/c. Del complesso e numeroso testimoniale acquisito giova ricordare per la
completezza essenziale di un quadro pur necessariamente schematico della vicenda
processuale, le dichiarazioni di Maria Antonietta Bistolfi, convivente del Marino, e di
Vigliardi Paravia Laura, moglie del Buffo.
La Bistolfi sosteneva che era rimasta all’oscuro del coinvolgimento del suo compagno
nel delitto Calabresi, ma pochi giorni dopo il fatto, trovandosi in casa con la Vigliardi e
il Bompressi, che era però discosto da loro donne, aveva raccolto il breve e risentito
sfogo dell’amica, la quale, mostrandole l’identikit pubblicato sul giornale che teneva in
mano e alludendo al Bompressi, le aveva detto stizzita: “è lui, ma non lo vedi che è
identico!”.
Non aveva replicato né fatto domande, percependo il disagio e la tensione dell’amica,
ma nel 1987, allorquando aveva incontrato a Sarzana il Bompressi, alla ricerca dei
vecchi compagni con i quali pensava di lanciare un giornale, ne era rimasta turbata al
punto da rivolgersi, dopo qualche tempo, all’avvocato Zolezzi di La Spezia, al quale
aveva rivelato la confidenza della Vigliardi e aveva chiesto di rendere noto il fatto
qualora le fosse accaduto qualcosa.
Tale visita sarà ricordata dall’avvocato in giudizio, ma in termini del tutto generici (una
donna molto agitata gli aveva detto di essere depositaria della conoscenza di un grave
fatto confidatole da un’amica), ed escludendo che gli fosse stato fatto un qualsiasi
accenno all’omicidio del Calabresi che – pur non avendo della visita preso alcun
appunto – non avrebbe potuto dimenticare data la notorietà del caso.
La Vigliardi Paravia negava di essere stata a conoscenza delle responsabilità del Marino
e del Bompressi, di avere rilevato che costui si era schiarito i capelli e i contenuti
specifici dei colloqui così come riferiti dal Marino. E tanto le costava l’imputazione di
falsa testimonianza.
2. Venivano rinviati a giudizio, Marino, Bompressi, Pietrostefani e Sofri per omicidio
volontario aggravato del commissario Calabresi – capo 1); – Bompressi, Buffo Paolo,
Sibona Roberto per la rapina dell’armeria Marco Leone dei 18-12-70 – capo 3); –
Marino, Bompressi Buffo, Olivero Giovanni, Sibona e altri per la rapina alla Banca
Popolare di Novara, agenzia di Saluggia del 25-3-71 – capo 5); – Marino, Pietrostefani,
De Luca Enrico, Gracis Daniele e altro per la rapina in danno dell’editrice Einaudi in
Torino del 28-8-72 – capo 6); – Marino, Caccavari Francesco, Gracis e Totolo Anna per
la rapina ai danni della CISNAL di Torino della 1-1-73 – capo 7); Totolo Anna per
concorso nella rapina dell’armeria “Bocro” di Torino del 22-3-73 – capo 8); Vigliardi
Paravia Laura per falsa testimonianza – capo 2).
Era disposto anche il rinvio a giudizio degli imputati dei fatti di rapina successivamente
commessi in Torino e in Valle d’Aosta, ma la cognizione di tali delitti era poi rimessa ai
giudici specificamente competenti per materia e territorio.
La Corte d’assise di Milano con la sentenza 2-5-90 dichiarava Marino, Bompressi,
Pietrostefani e Sofri colpevoli di concorso nell’omicidio e li condannava alle pene
ritenute di giustizia con le attenuanti generiche equivalenti per gli ultinú tre, con le
medesime attenuanti, prevalenti, e l’attenuante prevista dall’art. 4 L. n. 15180 per il
Marino;
– proscioglieva per prescrizione gli imputati del fatto delittuoso in danno della
CISNAL, qualificato come tentativo;
– proscioglieva il Pietrostefani in ordine al reato di ricettazione, così qualificato il
fatto ascrittogli in relazione alle rapine del Nuovo Pignone di Massa e della editrice
Einaudi di Torino per prescrizione;
– assolveva il Sibona dall’imputazione di concorso nella rapina in danno dell’armeria
“M. Leone”;
– il Bompressi da quella di concorso nella rapina in danno del Nuovo Pignone di
Massa;
– la Totolo da quella di rapina in danno dell’armeria “Bocro”;
– proscioglieva ancora per prescrizione Marino, Bompressi, Buffo, Sibona, Gracis,
Oliviero, Dell’Amico e De Luca dagli altri reati di rapina loro ascritti;
– proscioglieva per amnistia la Vigliardi Paravia dall’imputazione di falsa
testimonianza.
– Con sentenza 12-7-91 la Corte di assise di appello confermava integralmente la
decisione del giudice di primo grado, con le statuizioni conseguenziali.
2/a. Riteneva la sentenza oggi impugnata, – in questo punto discostandosi dall’iter
logico-argomentativo dei primi giudici, che per il resto ripercorreva aderendo
sostanzialmente all’impostazione e alle valutazioni della motivazione della decisione di
primo grado – che, a prescindere dalle dichiarazioni del Marino, le acquisizioni
probatorie in atti consentivano di affermare che, per volontà di almeno parte
dell’esecutivo del movimento e comunque per scelta del Pietrostefani e del Sofri, si era
costituita a partire dal 1970 circa all’interno del movimento (come filiazione del servizio
d’ordine) una struttura clandestina armata come riferito dal Marino e che a tale
organizzazione, oltre che alla determinazione degli stessi su nominati esponenti
dell’esecutivo, era riferitile l’omicidio del Calabresi.
Muoveva al riguardo dalle dichiarazioni di vari “collaboratori” (cfr. sopra par.fo I); dalla
vicenda dell’arresto di tre militanti del movimento (Manisco, Albonetti e Pedrazzini),
colti in possesso di armi di accertata provenienza dalla rapina all’armeria “Marco
Leone” di Torino; da documenti, pubblicazioni e dalla stessa campagna giornalistica
condotta dal foglio “Lotta continua” contro il Calabresi, attribuendo a tale giornale
anche una significativa rivendicazione “criptica” dell’omicidio e sottolineando gli
orientamenti “militaristi” emersi nel movimento, in special modo nel convegno di
Rimini del 1972, svoltosi in modo riservato, nel quale il Pietrostefani aveva avuto un
determinante ruolo
4
.
Considerava positivamente accertata, in sostanziale aderenza con la motivazione dei
primi giudici, la credibilità del Marino, – perché spinto esclusivamente da un travaglio
interiore e da un bisogno radicale di revisione del suo passato (la sentenza accenna a
questo riguardo a una catarsi) e di rottura drastica con esso -, e l’attendibilità intrinseca
delle sue dichiarazioni, perché nella loro parte sostanziale disinteressate, costanti e
coerenti.
Estrinsecamente le dichiarazioni di chiamata in correità dovevano ritenersi verificate,
secondo la sentenza impugnata, vuoi per la parte concernente l’organizzazione
“militare” del movimento, vuoi per la ricostruzione dei fatti delittuosi narrati – in specie
l’omicidio, vuoi ancora per le specifiche responsabilità dei chiamati in correità.
Sul primo punto, a parte le risultanze già ricordate e considerate autonomamente
probanti, ricordava le circostanze relative al deposito preso in locazione dal Buffo,
quelle concernenti le esercitazioni a fuoco in Biandrate e a Corio Canavese, e quelle
sull’acquisto di armi da malavitosi, con i quali il Sofri aveva intrattenuto rapporti
amichevoli, e sulla presenza in Torino del Pietrostefani e del Bompressi.
Riguardo al secondo punto, la sentenza ricordava la coerente corrispondenza dei fatti
altrimenti accertati attraverso indagini di polizia e giudiziarie, accertamenti di prova
specifica e generica, con la ricostruzione di essi resa dalle dichiarazioni del Marino.
Sul terzo punto, considerava il movente dell’omicidio manifestato dalla campagna di
stampa di “Lotta continua” e il suo collegamento con la morte del Serantini, che ne
aveva affrettato i tempi di esecuzione. Ricordava la vicenda dell’incontro a Pisa del
Marino e del Sofri e quella successiva dell’incontro a Massa del 20-5-72; gli incontri
ripetuti del Marino con il Pietrostefani a Torino prima del delitto, i colloqui preparatori,
le circostanze dell’attesa della notizia dell’esito dell’attentato da parte del Sofri e del
Pietrostefani; le circostanze dell’attentato e la corrispondenza dei caratteri somatici e
fisionomia dell’omicida con quelli del Bompressi, testimoniati e confermati, con
4 Si tratta di un’altra inesattezza: al convegno di Lotta continua, che si svolse a Rimini nell’aprile del 1972,
Pietrostefani, latitante in seguito ad un ordine di cattura per apologia di reato, fece solo una breve apparizione per non
rischiare l’arresto e non compromettere i lavori del convegno.
sottintesa consapevolezza del ruolo realmente avuto dall’amico nel fatto, dalle notazioni
ripetute della Vigliardi; la stessa inattendibilità (quando non addirittura la falsità) dei
testi d’alibi introdotti dagli imputati.
3. Con il ricorso per cassazione la difesa del Marino denunzia violazione di legge,
osservando che la Corte di Milano aveva in modo erroneo applicato l’attenuante prevista
dll’art. 4 del D.P.R. n. 625179, sostituendo la pena dell’ergastolo con quella di anni 16 di
reclusione e quindi riducendo questa per effetto delle riconosciute attenuanti generiche.
Mentre, avendo ritenuto le attenuanti prevalenti, avrebbe dovuto applicare l’una e le
altre sulla pena edittale base prevista per l’omicidio non circostanziato in aderenza alla
disposizione dell’art. 69, comma 2°, C.P.
I difensori di Bompressi e Pietrostefani hanno proposto diffusi e articolati motivi
principali e aggiunti – illustrati con memorie -, con i quali è stata in sostanza investita,
sotto il profilo della violazione di legge e della denunzia di carenza e/o vizi di
motivazione (praticamente in tutta la notoria gamma delle figure in cui si articola tale
secondo tipo di censure), tutto il complesso quadro valutativo delle molteplici risultanze
probatorie, alle quali si è sin qui sinteticamente fatto richiamo illustrando gli
accadimenti essenziali e lo snodarsi della vicenda processuale.
Si ricordano qui i temi dell’analisi critica difensiva comuni in sostanza a entrambi i
ricorrenti, e quindi quelli concernenti specificamente la posizione di ciascuno di essi. 1)
Dominante è la complessa tematica della metodologia della valutazione della prova
diretta e di quella indiziaria (o logica), disciplinata dall’art. 192 del vigente C.P.P.
(applicabile al presente giudizio per la disposizione dell’art. 245, comma 2 lett. b del
dlgs, n. 271/89).
Le censure difensive denunziano come, prescindendo dalla formale adesione ai criteri di
legge, la sentenza impugnata sia carente ed erronea nella valutazione della attendibilità
intrinseca delle dichiarazioni confessorie e di chiamata in correità del Marino, vuoi per
quanto attiene alla credibilità del personaggio, vuoi con riguardo alle caratteristiche
proprie delle sue rivelazioni e alle circostanze nelle quali sono scaturite e si sono
sviluppate in correlazione con l’evolversi delle acquisizioni processuali introdotte dalle
difese dei coimputati.
Denunziano ancora l’errore metodologico nella valutazione estrinseca dell’attendibilità
della chiamata in correità alla stregua degli “altri elementi di prova” (comma 3 del citato
art. 192).
Sono stati, secondo le difese, valorizzati elementi indiziari incerti, confutati e comunque
non sempre riferibili alla specificità delle circostanze essenziali da provare.
Non solo, illogicamente sono stati disattesi elementi probatori di segno contrario alle
indicazioni scaturenti dalle dichiarazioni accusatorie, in taluni casi mediante la
sistematica, artificiosa e preconcetta confutazione dell’attendibilità dei testi d’alibi o
comunque a discarico.
2) Il tema delle strutture politico-organizzative del movimento “Lotta continua”, del loro
ruolo e delle loro funzioni effettive, dell’esistenza di un servizio d’ordine e dell’attività
da esso svolta, della formazione della c.d. struttura illegale sorta dal servizio d’ordine
per lo svilupparsi di una tendenza “militarista” della quale si erano resi protagonisti i
ricorrenti e il Sofri in vario modo, e soprattutto della riferibilità dell’omicidio Calabresi
alla detta struttura, è trattato criticamente sotto diversi profili.
In primo luogo, quello dell’illegalità ed erroneità della valorizzazione delle dichiarazioni
di vari collaboratori di giustizia riferentisi a “voci” circolanti nell’ambiente della sinistra
eversiva (art. 349, 4° c., C.P.P. 1930), o comunque provenienti da referenti che non
avevano confermato le circostanze specifiche rivelate, rimaste in taluni casi addirittura
smentite.
In secondo luogo, quello dell’erronea e illogica lettura di documenti espressi a diversi
livelli e in varie circostanze da “Lotta continua”, e di articoli del foglio del movimento,
estrapolati dalla considerazione dei contesto storico nel quale erano stati formati e
travisati nel loro senso proprio. Infine, l’illogica e illegittima valutazione di circostanze
non dimostrate con sicurezza, di taglio marginale e tutt’al più allusive di iniziative
devianti dei servizi d’ordine per l’autofinanziamento, la promozione di una violenza
diffusa di piazza e di un’azione di massa, quest’ultima peraltro solo nella prospettiva di
una realizzazione a venire di aspirazioni o attese rivoluzionarie.
3) L’analisi dell’episodio dell’incontro tra il Marino e Adriano Sofri a Pisa la sera del 13-
5-72 subito dopo il comizio, nel quale il leader di Lotta continua avrebbe confermato il
mandato a uccidere.
Il vaglio critico difensivo investe la contraddizione del Marino sulla presenza al
colloquio dei Pietrostefani (prima affermata, poi messa in dubbio da un deciso non
ricordo); la valorizzazione da parte delle sentenze dei giudici di merito delle ritenute
menzogne difensive sulle circostanze del fatto (il corteo, la pioggia torrenziale e
l’allontanamento precipitoso dei partecipanti al comizio, la chiusura dei bar aprentisi
sulla piazza o siti nelle immediate vicinanze, l’assenza di taluni esponenti del
movimento ricordati dal Marino), tutte maliziosamente introdotte per dimostrare
fallacemente e infine con effetto controproducente (secondo la sentenza impugnata) la
inattendibilità della chiamata in correità; ovvero la svalutazione del senso di circostanze
vere, come quella della visita del Marino e di numerosi altri militanti in casa dell’ex
moglie del Sofri, ritenuta dalla sentenza un’opportunità del tutto improbabile per un
colloquio del tipo di quello ricordato dal denunziante.
4) La deposizione della Bistolfi Maria Antonietta (Antonia) convivente del Marino,
considerata come attendibile e significativo riscontro del confitente, ma ritenuta invece
non credibile dalle difese, le quali denunziano l’inadeguato e illogico apprezzamento
della smentita venuta dalla deposizione dell’avv. Zolezzi sul contenuto della confidenza
ricevuta e della impossibile correlazione tra l’iniziativa della Bistolfi del colloquio con
l’avvocato e la spinta a questa da lei indicata nel turbamento provocatole dall’incontro
con il Bompressi a Sarzana alquanti mesi prima.
La difesa dei Pietrostefani, con riguardo alla posizione pro- pria del ricorrente, ha
denunziato l’erroneità dei criteri metodologici seguiti dalla sentenza impugnata nella
valutazione della prova sul presunto mandato a uccidere e sulla responsabilità
dell’imputato per esso.
Ha in sostanza osservato in proposito che la sentenza ha eluso il punto nodale della
regiudicanda che è non solo e non tanto l’individuazione della prova dell’esistenza dei
ripetuti e frequenti colloqui con il Marino (attraverso i quali il ricorrente avrebbe
determinato l’interlocutore all’azione e ne avrebbe discusso la necessità politica e le
modalità), ma soprattutto dell’effettività di un siffatto oggetto dei colloqui. E per quanto
possa apparire problematico una tale prova, – rileva la difesa -, non per questo è
consentito acquietarsi, come teorizzato dalla sentenza, ad una prova meno appagante e
rigorosa, confidando nella sola parola del Marino senza riscontri specifici e mirati
sull’oggetto proprio, essendo irrilevante la valorizzazione – peraltro contestata –
sull’esistenza della struttura illegale, sulla Linea militarista e sulla riferibilità ad esse
dell’omicidio Calabresi.
La prova del concorso morale non può desumersi invero dall’appartenenza dell’imputato
ad un’organizzazione criminosa, anche se in posizione dirigenziale, ma deve scaturire da
una acquisizione probatoria che lo riguarda personalmente. Quindi la difesa affronta con
il ricorso i temi specifici della plausibilità e attendibilità degli incontri tra il ricorrente e
il Marino in Torino, individuando gli aspetti a suo avviso contraddittori delle
dichiarazioni accusatorie e gli elementi che le smentiscono (non valutati o illogicamente
svalutati dalla sentenza), e tra questi le dichiarazioni della Bistolfi (che ha ricordato di
non avere constatato la frequenza del ricorrente nella sede torinese di “Lotta continua”),
i controlli del la polizia su tale sede e sui suoi frequentatori, la latitanza dell’imputato,
che gli sconsigliava la frequentazione di quella e altre sedi.
Considerando d’altra parte la poca rilevanza di sporadiche apparizioni del ricorrente in
talune manifestazioni del movimento, come il congresso di Rimini del 1972.
Esamina criticamente le valutazioni della sentenza sull’attendibilità del Marino riguardo
alla presenza dell’imputato e del Sofri la mattina del 17-5-72 nella redazione romana di
“Lotta continua” in attesa della notizia dell’assassinio, censurando la scorrettezza e
l’illogicità del discredito dei testi della difesa sul punto e sulle circostanze
dell’apprendimento della detta notizia, rassegnate dall’imputato, e l’apprezzamento
positivo della dichiarazione del Buffo (che aveva in primo tempo riconosciuto – ma con
incertezza – la presenza del Pietrostefani nella redazione, salvo a ritrattare in giudizio);
– sulla simile posizione del Sofri in riferimento alla stessa circostanza del modo in cui
anche lui era venuto (a suo dire) a conoscenza della notizia su ricordata;
– sulla vicenda della permanenza a Roma dello stesso ricorrente anche in correlazione
con quella del Marino, che sarebbe stata voluta dal primo perché organizzasse la
colonna romana clandestina del movimento, ponendo la “base” nell’appartamento di
via del Gonfalone.
La difesa del Bompressi ha soffermato la sua attenzione critica sui seguenti punti
interessanti la posizione propria del suo assistito, censurando:
– per incompletezza e incongruenza la motivazione della sentenza sulla pretesa
corrispondenza dei caratteri fisionomia dell’imputato all’identikit, e dei medesimi e
di quelli somatici alle descrizioni non coerenti dei testi dell’omicidio;
– per analoghi vizi e per l’illogica e scorretta svalutazione o non considerazione dei
testi a difesa sulla circostanza della manipolazione della pettinatura e del colore dei
capelli dell’imputato, sul suo asserito incontro al comizio di Massa del 20-5-72 con
la Vigliardi (che ad avviso della difesa a Massa invece non c’era) e sugli
apprezzamenti che la stessa avrebbe fatto con il Marino riguardo alle dette
trasformazioni;
– per simili carenze, l’analisi della sentenza sulla ricostruzione della vicenda articolata
dell’omicidio, (incontro con il “Luigi” – non fatto identificare dal Marino -,
permanenza in casa dei “Luigi”, furto della vettura, incidente automobilistico con la
vettura del Musicco, esecuzione dell’omicidio con riguardo particolare alla
svalutazione delle testimonianze del Musicco e del Pappini, fuga dopo il fatto con
riferimento particolare alle indicazioni del chiamante in correità sulla via seguita per
allontanarsi dal luogo del fatto e alla testimonianza della Del Piva Adelia (cfr. sopra
par.fo 1), screditata dalla sentenza impugnata, appariva gravemente inficiata da vizi
di motivazione;
– per l’erronea considerazione delle conclusioni peritali sulle caratteristiche dell’arma
impiegata nel delitto e delle indicazioni desumibili dai registri dell’armeria
“M.Leone” di Torino, che illogicamente sarebbero state ritenute conclusive in ordine
all’accertamento della provenienza dell’arma della rapina ai danni di quella armeria;
– per l’irragionevole valutazione di circostanze irrilevanti, come l’episodio della
rilevazione della targa della vettura del Calabresi da parte del giovane Zambarbieri,
non appartenente a “Lotta continua”, ma ad un gruppuscolo dell’estrema sinistra non
legato al movimento;
– per il travisamento della circostanza della presenza dell’imputato in Torino e
l’indebita sua lettura nella consistenza e nelle finalità;
– per la scorrettezza metodologica e l’illogicità della svalutazione delle testimonianze
indicate in giudizio dall’imputato sulla sua presenza a Massa la mattina del 17-5-72,
sulle circostanze in cui egli aveva appresa la notizia dell’assassinio e sull’episodio
dei volantino predisposto per il comizio di Sofri del giorno 20 successivo,
frettolosamente integrato con la notizia dell’omicidio;
– per il travisamento circa un attivismo illegale dell’imputato, strettamente legato alla
sua partecipazione al servizio d’ordine e agli scontri di piazza nei quali poteva essere
stato coinvolto e non ad altro; sulla sua condanna per la disponibilità di un fucile,
residuato bellico, e di indicazioni rese dal “pentito” Sandalo sulla sua presunta
attività libraria, lasciata l’attività politica, quando egli in effetti si era dedicato al
giornalismo ed aveva solo scritto un libro di poesie (cose ben diverse dall’attività
libraria).
Sia la difesa del Pietrostefani che quella del Bompressi hanno anche dedotto motivi
circa le statuizioni della sentenza riguardo alle imputazioni per il concorso nelle rapine
contestate.
La difesa del ricorrente De Luca Enrico ha confutato l’affermazione dell’inammissibilità
della sua rinunzia alla prescrizione ed ha censurato il mancato proscioglimento nel
merito dall’accusa di concorso in rapina.
Per Caccavari Francesco il difensore ha rilevato la illogicità della valutazione come
riscontri della chiamata in correità per la tentata rapina alla CISNAL torinese nei
confronti del ricorrente, della testimonianza di Papandrea, e della sua presunta
appartenenza alla struttura illegale.
La Vigliardi Paravia Laura si è del pari doluta della mancata assoluzione nel merito ex
art. 152 GPP 1930, confutando la presenza di qualsiasi elemento probatorio di conforto
alle dichiarazioni del Marino, e osservando come sull’episodio del suo incontro a Torino
dopo l’omicidio con costui era stata valorizzata, imputandole una testimonianza falsa,
l’opinione del “pentito” sul senso di un fatto e su una battuta attribuitale.
3/a. 1 suindicati ricorsi, iscritti al n. 5322 del registro generale inizialmente in carico
alla 1/a sez. penale di questa corte, il 4-5-92 venivano assegnati alla 6/a sez. in
esecuzione del decreto del Primo Presidente 7-11-91.
Con istanza 13-7-92 la procura generale presso questa Corte chiedeva l’assegnazione
alle sezioni unite dei ricorsi, prospettando l’esigenza che fosse risolto il contrasto
giurisprudenziale tra le sezioni su un aspetto di rilievo dell’interpretazione dell’art. 1.92,
comma 3, C.P.P. vigente, per quanto attiene al senso dell’inciso “altri elementi di prova”
ed al suo rapporto nella valutazione probatoria complessiva con la chiamata in correità.
Secondo un orientamento, tali elementi probatori debbono 94 riferirsi a fatti che
riguardano direttamente la persona dell’incolpato in relazione allo specifico reato che gli
si addebita”, devono essere “univocamente interpretabili come conferma dell’accusa” e
riguardare “tutti i fatti denunziati e non soltanto alcuni di essi”.
Per altro orientamento i detti elementi “non debbono afferire direttamente al fatto reale
oggetto dell’accusa, in quanto essi servono solo a confermare ab extrinseco
l’attendibilità del chiamante in correità” e perciò “possono essere solo di natura logica,
ovvero riguardare taluni soltanto dei chiamati o dei fatti riferiti dal chiamante”.
In accoglimento di tale istanza il primo presidente della corte disponeva il 15-7-92
l’assegnazione dei ricorsi a queste sezioni unite.
Motivi della decisione.
I. All’analisi della sentenza impugnata è opportuno pre- mettere una breve osservazione
di ordine metodologico.
I problemi relativi all’interpretazione dell’art. 192, comma 3, CCP vigente, per la parte
concernente la corretta valutazione della chiamata in correità “unitamente agli elementi
di prova che ne confermano la attendibilità”, e nei termini indicati dall’istanza, sopra
richiamata, del procuratore generale, presuppongono nell’ordine logico la risoluzione
degli interrogativi che la stessa chiamata in correità, in sé considerata, pone sotto un
duplice aspetto.
In primo luogo, occorre sciogliere il problema della credibilità del dichiarante
(confitente e accusatore) in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socioeconomiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità, ecc., e alla
genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all’accusa dei coautori
e complici.
In secondo luogo, si pone il problema della verifica dell’intrinseca consistenza e delle
caratteristiche delle sue dichiarazioni, alla luce dei criteri che l’esperienza
giurisprudenziale ha individuato, come la precisione, la coerenza, la costanza, la
spontaneità e così via.
Ovviamente, i problemi ora cennati e quel relativi ai riscontri c.d. esterni,
concettualmente distinti, possono concretamente intrecciarsi – come pure accade nel
caso presente -, e tuttavia il giudice deve compiere l’esame seguendo l’ordine logico
indicato, perché non si può procedere a una valutazione unitaria della chiamata in
correità e degli “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”, se prima non
si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé,
indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa.
1/a. Ora, lo studio della motivazione della sentenza impugnata, alla stregua dei motivi
dei ricorsi, porta a rilevare, in molteplici e decisivi momenti, errori di carattere
metodologico, carenze e vizi, i quali finiscono per distaccarla dai principi, più volte
affermati da questa corte, secondo i quali il tessuto argomentativo deve connotarsi per la
completezza dell’esame di tutte le risultanze processuali, per l’aderenza ad esse, e per la
logicità della sua struttura.
Seguendo l’ordine logico sopra ricordato, il problema della credibilità del personaggio
Marino è stato risolto dai giudici di merito sostanzialmente ed esclusivamente in base
alla circostanza che egli – del tutto insospettato – si sia risolto, dopo 16 anni, a
dichiararsi colpevole di un grave delitto.
Ma a parte il fatto che questo stesso elemento, certo suggestivo, presenta pure di per sé
qualche ambiguità indicativa (che alla sentenza di primo grado sembra non essere del
tutto sfuggita), è certo che l’esame compiuto nella sentenza impugnata ha sorvolato su
altre circostanze significative che avrebbero potuto anche portare ad una conclusione
diversa da quella della piena credibilità, cui la sentenza è approdata con estrema
sicurezza.
La rilevanza di tale manchevole esame è stata determinante nell’economia della
sentenza impugnata, perché il convincimento acquisito della genuinità del pentimento
del Marino, e quindi della sua certa credibilità, ha finito per spingere i giudici verso uno
sforzo costante diretto a dimostrare la verità della versione dei fatti resa dal Marino,
superando sia i discordanti risultati delle indagini svolte prima delle sue rivelazioni, sia
le contrarie acquisizioni successive.
Sull’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del Marino si è affermato che esse sono
caratterizzate da spontaneità, sono circostanziate, costanti e intrinsecamente coerenti.
Eppure si è dato atto che in esse non mancano errori, contraddizioni, rettifiche ed
aggiustamenti progressivi, sovente correlati alle contestazioni dei coimputati chiamati in
causa; ma il problema posto da tutto questo è stato sciolto richiamando solo e
sostanzialmente il lungo tempo trascorso dai fatti (circostanza questa che però non è
stata considerata nell’apprezzamento dell’attendibilità dei testimoni indotti dal- la difesa,
e neppure per quelli dell’accusa, quando le loro deposizioni in tutto o in parte non
collimavano con la versione del Marino).
Il primo approccio con il tema della verifica esterna delle dichiarazioni del Marino
avrebbe dovuto richiamare innanzi tutto l’esigenza della verifica della credibilità della
sua compagna, Antonia Bistolfi, i cui comportamenti, singolarmente paralleli e
contrappuntistici rispetto a quelli del Marino nella vicenda precedente alle rivelazioni di
quest’ultimo, ponevano alcuni rilevanti interrogativi che i giudici di merito non hanno
colto o ai quali hanno dato una risposta unidimensionale, trascurando anche l’esame
della personalità di questa teste, dichiaratamente animata da profondi risentimenti verso
il Sofri, il Pietrostefani e verso lo stesso Bompressi (pur amico del Marino anche dopo
la stagione della militanza in “Lotta continua”), ed in definitiva verso tutti i vecchi
compagni.
Un pregnante elemento di riscontro alle dichiarazioni del Marino è stato individuato
dalla sentenza di primo grado nella presunta riferibilità dell’omicidio del commissario
Calabresi all’organizzazione di “Lotta continua”, e in particolare al suo comitato
esecutivo e alla sua c.d. struttura illegale. E dalla riferibilità del delitto a
un’organizzazione delinquenziale (la struttura illegale occulta) si è passati senz’altro alla
riferibilità del delitto ai suoi capi – che in quanto tali non potevano non sapere e non
essere coinvolti – secondo una presunzione generica, che, come si vedrà, questa corte ha
più volte censurato.
Ma la forza di essa è stata tale nel convincimento dei giudici che la sentenza di appello è
pervenuta addirittura all’affermazione che essa offriva la prova della responsabilità del
Sofri e del Pietrostefani a prescindere anche dalle rivelazioni dei Marino.
Eppure, nella utilizzazione e nella valutazione degli stessi elementi probatori ritenuti
idonei a dimostrare la pregiudiziale riferibilità dell’omicidio alla c.d. struttura illegale e
al comitato esecutivo di “lotta continua”, sono emersi errori di diritto e vizi di
motivazione, perché si è fatto ricorso a testimonianze su voci correnti o comunque a
testimonianze de relato riferentisi a fonti informative non controllabili o non controllate.
0 ancora si è desunta tale riferibilità da circostanze (la campagna di stampa del foglio di
“Lotta continua” e la c.d. rivendicazione criptica), la cui valutazione è censurabile per
incompletezza e illogicità del procedimento, perché considerate al di fuori del contesto
storico di esasperata e faziosa lotta politica allora diffusa.
Nella verifica del mandato a uccidere – denunziato dal Marino – si è fatto ricorso a due
criteri chiaramente illegittimi, affermandosi in primis che la difficoltà della prova del
concorso morale legittima, per ciò solo, la valorizzazione di una sorta di probatio
semiplena.
Sicché si è fatto ricorso ad elementi indiziari generici, quali le frequentazioni tra il
Pietrostefani e il Marino a Torino e altrove, o l’incontro dopo il comizio dei 13 maggio
1972 a Pisa e quello successivo prima del comizio di Massa del 20 seguente tra il Sofri
e lo stesso Marino.
Per valorizzare poi tali circostanze in chiave accusatoria si è enunciato il singolare
principio che la dimostrazione di un fatto affermato dall’accusa sia desumibile dalla
mancata prova dell’assunto difensivo che quel fatto non si è verificato o si è verificato in
circostanze diverse e incompatibili con la tesi accusatoria, ricorrendosi in questo modo
ad una patente ed illegittima inversione dell’onere della prova.
Lo stesso criterio è stato adottato in relazione alla verifica del fatto che – secondo il
Marino – il Pietrostefani gli avrebbe confidato, e cioè che egli ed il Sofri la mattina del
giorno del delitto erano nella redazione di “Lotta continua” in Roma, in “spasmodica”
attesa della notizia dell’omicidio. Il concorso materiale dei Bompressi è stato ritenuto
verificato da circostanze generiche e contraddittorie e da controversi episodi affermati
solo dal Marino e non riscontrati, o riscontrati da circostanze di lettura obiettivamente
ambigua (ci si riferisce agli episodi dell’incontro tra la Vigliardi Paravia e il Marino la
sera del 17 maggio 1972, e dei commenti attribuiti alla prima sullo schiarimento dei
capelli dei Bompressi e sulla modificazione della sua pettinatura).
In tutti i casi i criteri di valutazione della attendibilità dei testi addotti dalla difesa
denunziano una puntigliosa ricerca di qualsiasi sfasatura delle deposizioni su
circostanze di rilievo marginale, tra l’altro utilizzate in modo contraddittorio.
Tanto è avvenuto anche nella valutazione dell’alibi del Bompressi, che, essendo
comunque da ritenersi – secondo la stessa sentenza impugnata – un alibi fallito, non
avrebbe potuto essere valorizzato come elemento di prova a carico dell’imputato.
Nella stessa ricostruzione critica dell’omicidio i contrasti tra le dichiarazioni del Marino
e quelle di taluni testi (questi non della difesa e al coperto da sospetti di solidarietà
politica c/o amicale) sono stati risolti, senza congruo e logico esame, a favore della
versione dell’imputato, trascurando rilevanti e sintomatiche sue contraddizioni.
Per tale complesso di violazioni della legge processuale e di carenze e vizi della
motivazione – che partitamente e nei punti più significativi si andranno a dimostrare – le
articolate censure dei ricorrenti Pietrostefani e Bompressi per la parte della sentenza che
riguarda l’imputazione di concorso in omicidio, risultano giustificate e impongono
l’annullamento della sentenza impugnata, con effetti estensivi anche nei confronti del
Sofri, non ricorrente, e del Marino, non ricorrente per tale parte, considerato che le
deficienze di motivazione rilevate investono radicalmente la sua stessa confessione.
2. I giudici di merito hanno uniformemente risolto il delicato problema della credibilità
del Marino, affermando che l’avere egli reso le sue dichiarazioni confessorie e di
chiamata in correità a 16 anni dal fatto, esponendosi a gravi conseguenze per sé e la sua
famiglia, senza essere stato sino a quel momento in alcun modo sospettato, costituisce
un certo ed univoco indizio della genuinità del suo sentimento di catartica liberazione,
del resto radicatosi gradualmente sin dall’indomani dell’omicidio.
Questa centrale considerazione è accompagnata da brevi cenni sulla personalità
dell’imputato – considerato un uomo buono e dedito alla famiglia – per bocca dello
stesso Sofri, della Vigliardi Paravia, del m.llo dei carabinieri di Ameglia e del parroco
di Bocca di Magra, don Regolo Vincenzi; dalla rievocazione degli incontri prima con il
parroco e poi con il senatore, v. sindaco di La Spezia, Flavio Bertone, e da quelli con gli
ex compagni D’Amico e Olivero, i quali – a suo dire – l’avevano minacciato per le troppo
aperte recriminazioni della Bistolfi verso i vecchi compagni e per la preoccupazione che
da lei o da lui stesso potessero partire indiscrezioni sui fatti passati, compromettenti.
Da tali circostanze, i giudici hanno tratto, per un verso, la conferma dell’autenticità del
pentimento, alimentato anche dalla consapevolezza che occorreva liberarsi dalla paura
dei compagni e complici di una volta; e, per altro verso, la confutazione che le
rivelazioni potessero avere tratto origine da oscuri complotti, supposti in considerazione
dei prolungati contatti dell’imputato con i carabinieri prima che costoro si
preoccupassero di verbalizzarne le dichiarazioni.
L’esame in questi termini si presenta sicuramente incompleto per l’omessa
considerazione di taluni, significativi aspetti indicati dai ricorrenti, che avrebbero potuto
eventualmente portare a diverse conclusioni.
La stessa risoluzione di confessare dopo sedici anni un grave episodio di terrorismo,
chiamando in causa i complici – in sé considerata – ha dei possibili risvolti ambigui e
inquietanti, i quali avrebbero meritato una più approfondita e completa riflessione.
Il Marino stesso – al quale certo la fortuna non aveva arriso dopo la esaltante militanza
politica del passato (ricca di entusiasmi e solidarietà) – ha ammesso di essersi rivolto al
Sofri ed altri per aiuti economici e di avere tratto un profondo senso di frustrazione e la
coscienza di essere stato strumentalizzato e buttato via