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Whatsapp, il gesto che fanno quasi tutti ma che è reato penale: se ti beccano sei nei guai

WhatappWhatsapp, il gesto che fanno quasi tutti ma che è reato penale: se ti beccano sei nei guai - misteriditalia.it

La Suprema Corte ribadisce che la tutela del minore non giustifica l’accesso illecito a WhatsApp, anche se il telefono è sbloccato: serviva un provvedimento del giudice civile.

L’accesso abusivo a un sistema informatico può configurarsi anche quando non viene inserita una password, se è chiaro che l’azione avviene contro la volontà del legittimo titolare del dispositivo. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 3025/2025, che conferma la condanna a carico di un imputato per aver consultato il contenuto del telefono della ex compagna e utilizzato le conversazioni WhatsApp in un giudizio civile. Il caso riguarda il delicato bilanciamento tra diritto alla prova, tutela della privacy e interesse del minore: tre elementi che spesso si sovrappongono nelle cause di separazione, ma che in questa occasione vengono distinti con nettezza.

Accesso abusivo e messaggi privati: i confini della legge

La vicenda giudiziaria nasce dal ricorso presentato da A.A., già condannato nei primi due gradi di giudizio per accesso abusivo a sistema informatico (art. 615 ter c.p.) e violazione di corrispondenza (art. 616 c.p.). L’imputato aveva ottenuto l’accesso al telefono di B.B., la sua ex compagna, e aveva letto alcune conversazioni su WhatsApp tra lei e il suo datore di lavoro, poi presentate nel corso di un giudizio civile. Il dispositivo era protetto da password, ma nel momento del controllo da parte dell’uomo risultava già sbloccato. Su questo punto si fondava la tesi difensiva: nessuna forzatura tecnica, quindi nessun reato.

La Corte ha però rigettato la ricostruzione, ribadendo un principio già affermato da diverse sentenze precedenti: l’abusività non dipende solo dalla violazione di una barriera tecnica, ma anche e soprattutto dall’assenza di consenso da parte del titolare. Se l’ingresso nel sistema informatico avviene contro la sua volontà, è penalmente rilevante, a prescindere dal fatto che il telefono fosse momentaneamente accessibile.

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La Cassazione ha anche ricordato che la comunicazione delle credenziali in un momento antecedente non implica una licenza perpetua. È la finalità dell’accesso a fare la differenza: se l’intento è in contrasto con la volontà del titolare, l’azione diventa illecita.

A nulla è valsa, inoltre, l’argomentazione basata sull’interesse a proteggere il figlio minore. L’imputato invocava l’art. 51 del codice penale, che prevede la scriminante dell’esercizio di un diritto o dell’adempimento di un dovere, ma la Corte ha respinto l’eccezione. La protezione del minore, ha spiegato il collegio, non giustifica l’acquisizione di prove in modo illecito, soprattutto quando sono disponibili strumenti legali per ottenere le stesse informazioni, come un ordine di esibizione del giudice civile.

Privacy e diritto alla prova: la Corte chiude la porta agli accessi “fai da te”

Un altro aspetto importante chiarito dalla sentenza è quello relativo alla violazione della corrispondenza. La Corte ha ribadito che sottrarre e produrre in giudizio messaggi privati – comprese le chat di WhatsApp o la posta elettronica – integra il reato di cui all’art. 616 del c.p., a meno che non ricorra una “giusta causa”. Quest’ultima, però, è ammessa solo se non esiste altro modo legale per ottenere la documentazione.

Nel caso specifico, gli ermellini hanno sottolineato che l’esibizione delle conversazioni sarebbe potuta avvenire attraverso un provvedimento del giudice civile, anche con procedura d’urgenza. Non essendo stato fatto alcun tentativo in tal senso, la condotta si è trasformata in una violazione della privacy, non giustificabile nemmeno dalla volontà di difendere i propri diritti in un procedimento familiare.

La Corte ha richiamato sentenze precedenti, come la n. 12603/2017 e la n. 52075/2014, che hanno distinto chiaramente tra intercettazione illecita (art. 617 c.p.), che riguarda le comunicazioni in corso, e violazione della corrispondenza (art. 616 c.p.), che invece si riferisce alla consultazione e alla diffusione di comunicazioni archiviate. La linea interpretativa è netta: qualsiasi prelievo di contenuti da un dispositivo informatico protetto, in assenza di consenso o di provvedimento autorizzativo, è reato.

Nel respingere il ricorso, la Cassazione ha anche evidenziato l’assenza di elementi concreti che dimostrassero l’impossibilità di agire legalmente, ad esempio chiedendo al giudice l’accesso ai messaggi per motivi legati al minore. Di fatto, la scelta dell’imputato è apparsa motivata da finalità autonome, estranee alla tutela del figlio o alla difesa processuale, e per questo penalmente rilevante.

Con questa decisione, la Corte rafforza la tutela della privacy digitale, richiamando l’attenzione sulle modalità di acquisizione della prova nel processo civile, e ribadendo che l’inviolabilità delle comunicazioni è un principio che vale anche – e soprattutto – nell’era dei dispositivi personali e delle chat.

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