Curiosità

M O T I V A Z I O N E

9027_1_processo_in_tribunale-misteriditalia.it9027_1_processo_in_tribunale-misteriditalia.it

SINTESI DEL PROCESSO
Il presente processo in sede di rinvio si svolge
attualmente (in seguito alle sentenze ed alle
impugnazioni che si sono susseguite) a carico di
Giovanni SCATTONE, Salvatore FERRARO e Francesco
LIPAROTA; imputati – tutti a piede libero – lo SCATTONE
di omicidio volontario e di porto e detenzione illegali
di arma comune da sparo, il FERRARO di favoreggiamento
personale e di porto e detenzione illegali di arma
comune da sparo, il LIPAROTA di favoreggiamento
personale.
Le imputazioni riguardano il ferimento avvenuto la
mattina del 9 maggio 1997 in un vialetto all’interno
della Città Universitaria di Roma della ventiduenne
studentessa Marta RUSSO, che morì il successivo 14
maggio; con i reati connessi e le conseguenti
vicissitudini processuali. Il processo si svolge in
questa sede di rinvio in seguito all’annullamento da
parte della Corte di Cassazione, con sentenza del 6
dicembre 2001, della sentenza della Corte di Assise di
Appello di Roma del 7 febbraio 2001.
* * * * *
5
Inizialmente Giovanni SCATTONE, Salvatore FERRARO
e Francesco LIPAROTA – i primi due “cultori” di
Filosofia del Diritto e assidui frequentatori di tale
Istituto della Facoltà di Giurisprudenza
nell’Università “LA SAPIENZA” di Roma, il terzo
impiegato nella medesima struttura – erano stati
accusati di omicidio volontario; mentre la segretaria
Gabriella ALLETTO era stata accusata di favoreggiamento
personale nei confronti dello SCATTONE, del FERRARO e
del LIPAROTA; inoltre erano stati accusati di
favoreggiamento personale il prof. Bruno ROMANO
Direttore dell’Istituto di Filosofia del Diritto,
Maurizio BASCIU e Maria URILLI, direttore e segretaria
della biblioteca del medesimo Istituto, e Marianna
MARCUCCI, studentessa amica del FERRARO.
Giovanni SCATTONE e Salvatore FERRARO, arrestati
con custodia in carcere per omicidio volontario il 15
giugno 1997, ottennero gli arresti domiciliari
rispettivamente il 22 dicembre e l’8 ottobre 1998, e
furono liberati per decorrenza dei termini di custodia
cautelare con la sentenza di primo grado; Francesco
LIPAROTA, arrestato anch’egli per lo stesso reato il 15
giugno 1997, ottenne gli arresti domiciliari il giorno
successivo e la liberazione il 12 gennaio 1998.
Anche per il prof. Bruno ROMANO furono disposti
gli arresti domiciliari l’11 giugno 1997 per il reato
di favoreggiamento personale; e così pure per il BASCIU
e per la URILLI il 17 giugno; fu disposta la
6
liberazione di tutti e tre il successivo 19 giugno
1997.
* * * * *
La Corte d’Assise di Roma, con sentenza
pronunciata il 1° giugno 1999 in seguito a giudizio
immediato, ha derubricato l’ipotesi di reato di
omicidio volontario in quella di omicidio colposo
semplice; ha ritenuto il solo Giovanni SCATTONE
colpevole di tale reato, con i connessi reati di
detenzione e porto di arma comune da sparo uniti col
vincolo della continuazione, e lo ha condannato alla
pena di sette anni di reclusione e 200.000 lire di
multa; ha qualificato per Salvatore FERRARO
l’originaria ipotesi di concorso in omicidio volontario
come favoreggiamento personale nei confronti dello
SCATTONE e lo ha condannato alla pena di quattro anni
di reclusione.
Anche per Francesco LIPAROTA la Corte d’Assise ha
qualificato l’ipotesi di omicidio volontario a suo
carico come favoreggiamento personale a favore di
Giovanni SCATTONE, ma lo ha assolto per aver agito in
stato di necessità; ha assolto Gabriella ALLETTO dal
reato contestatole di favoreggiamento personale,
anch’essa per aver agito in stato di necessità ai sensi
degli artt. 54 e 384 CP..
Ha inoltre assolto il Prof. Bruno ROMANO, il
BASCIU, la URILLI e la MARCUCCI dalle varie ipotesi di
favoreggiamento personale contestate a ciascuno: i
7
primi tre perché il fatto non sussiste, la MARCUCCI
perché il fatto non costituisce reato.
Ha infine applicato ai due imputati condannati le
pene accessorie pertinenti, nonché le statuizioni
civili del caso in ordine a danni e spese in favore
delle parti civili costituite (genitori e sorella di
Marta RUSSO e Università “La SAPIENZA”).
* * * * *
La Corte d’Assise d’Appello – appellanti gli
imputati condannati SCATTONE e FERRARO, l’imputato
assolto LIPAROTA, nonché la pubblica accusa – ha
confermato l’assoluzione del Prof. ROMANO; ha ritenuto
lo SCATTONE colpevole dell’uccisione di Marta RUSSO,
qualificando il fatto come omicidio colposo aggravato
dalla previsione dell’evento; ha escluso la
continuazione già riconosciutagli rispetto ai reati in
materia di armi, applicando le relative pene, e così
infliggendogli la pena complessiva di otto anni di
reclusione e due milioni di multa; ha confermato
l’affermazione di responsabilità del FERRARO e la
relativa pena quanto al favoreggiamento, aggiungendogli
la condanna per i reati di porto e detenzione di armi e
determinando la pena complessiva in sei anni di
reclusione e due milioni di multa; ha ritenuto anche il
LIPAROTA – assolto in primo grado – colpevole di
favoreggiamento personale, condannandolo a quattro anni
di reclusione; ha applicato a tutti le relative pene
accessorie, nonché le statuizioni civili del caso a
8
carico di SCATTONE e FERRARO ed a favore delle parti
civili costituite.
* * * * *
La Cassazione è stata investita con i ricorsi di
tutti e tre gli imputati condannati, che hanno chiesto
a vario titolo l’annullamento della sentenza di secondo
grado; nonché col ricorso del Procuratore Generale, il
quale – facendo acquiescenza all’attribuzione al
LIPAROTA ed al FERRARO del reato di favoreggiamento
personale e non del concorso in omicidio (reato che è
dunque per essi ormai fuori discussione,salva
l’applicabilità, in ogni caso, dell’art. 521 CPP) – ha
insistito per la qualificazione dell’omicidio in capo
allo SCATTONE sub specie del dolo eventuale e non della
mera colpa, sia pure aggravata dalla previsione
dell’evento; oltre che per una diversa valutazione –
(ferma restandone la utilizzabilità) delle
dichiarazioni rese da Rosangela VILLELLA, madre del
LIPAROTA, a cui la Corte d’Appello, non aveva
riconosciuto la credibilità.
La Suprema Corte ha accolto in maniera esplicita,
e “sia pure in un’ottica diversa da quella prospettata
dai ricorrenti”, soltanto “i ricorsi di SCATTONE e
FERRARO”, ma ha ravvisato che nella motivazione della
sentenza d’appello vi fosse un vizio giuridico di
fondo, e di conseguenza la ha annullata in toto. Ha
dunque rimesso il giudizio a questa Corte per una nuova
decisione, da adottarsi decidendo con gli stessi poteri
che aveva il giudice d’appello e con riferimento a
9
tutte le questioni giuridiche e di fatto che erano in
discussione nel processo – salvo ovviamente quelle su
cui, per mancanza di impugnazione, si è formato il
giudicato interno.
* * * * *
Oggetto del giudizio di rinvio dunque – secondo la
precisazione del giudice di legittimità – sarà la
responsabilità o meno di Giovanni SCATTONE in ordine
all’omicidio di Marta RUSSO ed ai reati in materia di
armi, e quella di Salvatore FERRARO in ordine al
favoreggiamento personale ed ai reati in materia di
armi; ma lo stesso giudizio di rinvio dovrà riguardare
anche la posizione di Francesco LIPAROTA,
“strettamente connessa” a quella di SCATTONE e FERRARO;
dovrà essere definito il titolo del reato eventualmente
attribuibile allo SCATTONE (omicidio colposo nelle sue
diverse gradazioni o volontario con dolo eventuale),
nonché dovrà essere presa una nuova decisione sulla
utilizzabilità delle dichiarazioni rese da Rosangela
VILLELLA, madre del LIPAROTA, dichiarazioni che
dovranno eventualmente essere nuovamente valutate.
Come si vedrà approfonditamente più avanti, la
Cassazione ha statuito che dovrà essere osservato il
principio di diritto stabilito dall’art. 192 comma 3
del CPP, tenendo distinte le dichiarazioni dei
“chiamanti” da quelle dei testimoni; ricercando, per le
prime, i necessari riscontri in funzione del contenuto
specifico di esse – nella specie “esclusivamente in
direzione della identificazione dell’autore dello
10
sparo” – e non sulla base di dati neutri od estranei,
come quelli di prova generica derivati dalle perizie o
come il cosiddetto “videoshock” di cui si parlerà.
In particolare, le sofisticate perizie tecniche
disposte dalla Corte d’Assise d’Appello dovevano
considerarsi sostanzialmente inutili perché era
prevedibile che ne sarebbero potute derivare soltanto
mere “compatibilità” circa il punto dal quale sarebbe
partito il colpo di pistola, ma non mai alcuna certezza
(tanto meno in ordine alla identificazione dell’autore
dello sparo); di tal che la prova generica è da
ritenersi in questo processo, per la Suprema Corte, del
tutto marginale.
* * * * *
* * * * *
* * * * *
11
L’ESPOSIZIONE DEL FATTO
Ai fini di una migliore comprensione di tutta la
vicenda in esame in questo processo, questa Corte
reputa utile premettere un’ampia esposizione in punto
di fatto – ripresa prevalentemente dai dati risultanti
dalla sentenza di primo grado ma con gli opportuni
riferimenti, su singoli punti, alle contrapposte tesi
delle parti e completata dalle ulteriori acquisizioni
istruttorie compiute in grado d’appello -, senza
effettuare, in questa fase preliminare della
motivazione, alcun esercizio di critica e di
valutazione sui dati medesimi.
Seguirà alla narrazione del fatto la sintesi della
sentenza di primo grado e dei motivi di impugnazione
formulati da tutte le parti, e l’indicazione della
decisione d’appello annullata dalla Cassazione.
Una approfondita disamina sarà svolta sulla
sentenza dei giudici di legittimità – di portata
davvero peculiare – e sulla situazione giuridica
attinente alle prove nel presente processo, che è
indubbiamente particolarmente delicata sia per lo
specifico atteggiamento delle fonti di prova (testimoni
e imputati di reato connesso), sia per la riforma
12
dell’art. 111 della Costituzione intervenuta nel
frattempo, e per questioni di diritto transitorio.
Naturalmente tutte le questioni in punto di fatto
saranno riesaminate, e se necessario ripercorse, in
sede di motivazione vera e propria della decisione di
questa Corte.
* * * * *
La studentessa ventiduenne Marta RUSSO fu attinta
il 9 maggio 1997 da un proiettile d’arma da fuoco alla
testa che le perforò il parietale sinistro penetrandole
nel cranio senza fuoriuscire; ella morì il 14 maggio,
senza aver mai ripreso conoscenza.
Secondo il racconto della sua amica Iolanda RICCI,
camminavano assieme, costei e Marta RUSSO, in un
vialetto all’interno della Città Universitaria di Roma,
poche decine di passi dopo aver lasciato un impianto
telefonico pubblico situato nell’ampio spiazzo di
fronte all’ingresso della Facoltà di Scienze Politiche.
Avevano appena superato, dopo aver girato sulla
sinistra, il “tunnel” ivi esistente, imboccando il
vialetto e percorrendone una trentina di metri, e
stavano camminando e chiacchierando l’una a fianco
all’altra, la RUSSO a sinistra della RICCI, quando la
vittima fu colpita e cadde ferita a morte.
* * * * *
Il cosiddetto “tunnel” non è altro che il piano
terreno transitabile, costituente una sorta di
13
porticato aperto, facente parte del corpo centrale di
un fabbricato alto quattro – cinque piani ed a forma di
“U”, i cui lunghi bracci racchiudono nel senso della
lunghezza il “vialetto” percorso dalle due ragazze.
Questo, largo all’incirca quattordici metri, esce
dal “tunnel”, si prolunga per una quarantina di metri,
e si dirige in leggerissima discesa ad incontrare uno
dei viali principali della Città Universitaria ed ampi
spazi aperti; è sovrastato ai due lati dai corpi di
fabbrica – alti, come detto, quattro o cinque piani -,
mentre al di sopra del ”tunnel” il braccio corto della
“U” è costituto, al primo piano, da un corridoio
finestrato che congiunge i due corpi di fabbrica
laterali.
Il fabbricato di destra – per chi percorra il
vialetto in discesa, nel senso in cui camminavano le
due ragazze – ospita la Facoltà di Giurisprudenza.
Quello di sinistra accoglie la facoltà di Statistica;
ma al primo piano vi si trova l’Istituto di Filosofia
del Diritto.
Sul lato destro il vialetto è fiancheggiato da una
larga scala metallica esterna antincendio (adiacente al
corpo di fabbricato di destra), la quale scende al
livello del viale partendo da un pianerottolo al primo
piano (il “ballatoio”, lo chiameranno i testi), dal
quale si può accedere alla Facoltà di Giurisprudenza.
Sotto ed oltre la scala è consentita la sosta di
automobili “a pettine”; e qui al momento del fatto vi
erano in effetti delle vetture parcheggiate in tal
modo, mentre altre, “una dietro l’altra”, ve n’erano
14
sul lato opposto, lasciando in mezzo al vialetto uno
spazio piuttosto ristretto; tanto che per il passaggio
di un autoveicolo (come fu per quello del prof.
MARONGIU di cui si dirà) i pedoni (i testi DRITTA e
RICCI e la stessa Marta RUSSO) si dovettero spostare
addossandosi alle auto in sosta.
Nel corpo di fabbricato sul lato sinistro vi sono
al piano terra la Facoltà di Statistica e al primo
piano l’Istituto di Filosofia del Diritto, entrambi con
otto finestre che si affacciano sul vialetto – numerate
in questo processo, per convenzione, con numeri
progressivi a partire dal “tunnel”.
La penultima finestra del piano terra (la n.7 di
Statistica) corrisponde ad un bagno pubblico attrezzato
anche per utenti disabili; è protetta da inferriate con
barre verticali equidistanti (13 centimetri) e il
davanzale è alto circa un metro e mezzo sul piano
stradale del vialetto. La quarta finestra del primo
piano (la n. 4) – sul cui davanzale, nella metà
sinistra, era alloggiato un condizionatore d’aria marca
EMERSON fuori uso – corrisponde alla Sala Assistenti
dell’Istituto di Filosofia del Diritto (anche detta
aula n. 6); il suo davanzale è alto, sempre sul piano
strada, circa cinque metri.
Marta Russo fu colpita al capo, nell’osso
parietale sinistro, e cadde quasi di fronte alla
finestra del bagno di Statistica, qualche passo più
avanti rispetto ad esso, e una dozzina di metri più
avanti rispetto alla proiezione della finestra n. 4
dell’Istituto di Filosofia del Diritto.
15
* * * * *
Tornando al racconto della testimone Iolanda
RICCI, le due ragazze scendevano lungo il vialetto
quando ella perse per un attimo di vista l’amica
(“probabilmente stavo guardando in terra”) e in
quell’istante udì “un colpo che era un colpo d’arma da
fuoco”. Subito Marta RUSSO crollò a terra (“con la
coda dell’occhio ho visto le gambe di Marta già a
terra”), e la RICCI, colta dall’emozione e dallo
spavento, si rifugiò tra le auto in sosta “a spina”
sulla propria destra, e dietro le spalle del teste
TROIANI che era sopraggiunto dalla fine del vialetto.
Può affermarsi con certezza che il motivo per cui
la RICCI aveva perso di vista per un attimo Marta RUSSO
e guardato in terra fu costituito dalla necessità di
dare il passo all’automobile “MINI 90” condotta dal
Prof. Cesare MARONGIU, che veniva loro incontro nel
vialetto, avanzando a bassa velocità; la teste,
certamente per lo shock del momento, ha un ricordo
evanescente di questo particolare, che tuttavia è
pacifico.
* * * * *
Riassumendo – in ordine al colpo d’arma da fuoco
di cui si è parlato – le constatazioni risultate dai
primi accertamenti in punto di fatto nonché le
conclusioni delle molte perizie d’ufficio e consulenze
di parte disposte nel corso dei due gradi di giudizio
di merito, può riferirsi:
16
– che Marta RUSSO morì dopo cinque giorni di
agonia, sì che nei primi giorni non si ebbero dati
precisi in ordine al proiettile che l’aveva colpita ed
alla inclinazione del colpo rispetto al capo della
vittima;
– che l’arma adoperata non fu mai rinvenuta;
– che si accertò essersi trattato di una pistola
calibro 22 Long Rifle, probabilmente una semiautomatica
di marca BERNARDELLI, certamente o quasi certamente
munita di silenziatore;
– che non fu ritrovato alcun bossolo;
– che Marta RUSSO fu colpita da un solo proiettile
che non si era frammentato durante la traiettoria,
sparato a distanza;
– che con elevatissima probabilità – in questo
caso, peraltro, anche per gli accertamenti successivi,
può quasi parlarsi di certezza – il proiettile
recuperato nel cranio della vittima era appartenuto ad
una cartuccia di marca ELEY;
– che fu attinta la zona dell’osso parietale
sinistro con direzione “quasi trasversale” e
“pressoché ortogonale”, e con frammentazione del
proiettile successiva all’impatto (una pallottola e
nove frammenti);
– che certamente il colpo era stato esploso da
sinistra e leggermente da dietro rispetto al capo della
vittima;
– che con altissima probabilità – ma con qualche
contrasto sul piano testimoniale e con qualche
controversia su quello peritale – il colpo proveniva,
17
sempre rispetto al capo della vittima, leggermente
dall’alto, ossia “con direzione moderatamente obliqua
dall’alto verso il basso” (15° per il perito prof.
TORRE, tra gli 8° e i 20° per il dott. DAZZI che
effettuò la TAC sulla ragazza ancora viva, attorno ai
23° secondo le perizie disposte in grado d’appello: ma
sempre con la conferma di una angolazione dall’alto,
oltrechè da dietro e – pacificamente – da sinistra).
* * * * *
Le prime indagini valsero ad escludere sia che
bersaglio dello sparatore potesse essere stato proprio
il Prof. MARONGIU, sia che si fosse trattato di un
agguato preordinato nei confronti di Marta RUSSO; ciò
per diverse ragioni, tra cui – decisiva in relazione
alle modalità dell’accaduto – l’assoluta estemporaneità
della decisione, presa pochi istanti prima del
ferimento da lei e dalla RICCI, circa la strada da
percorrere partendo dallo spiazzo antistante i
telefoni, da dove si potevano prendere molte direzioni
diverse.
Le indagini si esplicarono subito in ogni
direzione (“a tutto campo”: dal terrorismo all’ex
ragazzo di Marta RUSSO), con miriadi di rilievi tecnici
e con la formulazione di molte possibili ipotesi di
spiegazione e motivazione del delitto; ipotesi
ampiamente riassunte nella sentenza della Corte
d’Assise da pagina 24 a pagina 40, tutte verificate e
tutte escluse, con motivazione che in ogni caso si
18
intende qui richiamata, senza necessità di ulteriore
disamina.
Del resto, il tema delle possibili “piste
alternative” ben determinate e di un prematuro
abbandono di esse da parte degli inquirenti, pure
prospettato dalle difese degli imputati durante le
indagini e nel giudizio di primo grado, è stato
definitivamente lasciato cadere a causa della sua
inconsistenza sul piano concreto; salvo, ovviamente,
quanto si sta per precisare.
* * * * *
I sospetti si indirizzarono dapprima, come
accennato, verso la finestra del bagno uomini al piano
terra (finestra n. 7, corrispondente al bagno disabili
di Statistica), sia perché facilmente agibile da parte
di chiunque, sia per la sua posizione, quasi alla
stessa altezza del capo e pressoché ortogonale al punto
in cui passava la vittima al momento dello sparo.
In questo contesto particolari attenzioni furono
rivolte ai dipendenti della ditta “PUL.TRA” incaricata
delle pulizie all’Università, con sede nelle immediate
vicinanze del “vialetto” e con ovvio facile accesso a
quel bagno; ma i pur numerosi ed accurati controlli non
giunsero a raccogliere elementi di interesse per le
indagini.
Ancora più precisi e convinti furono i sospetti
nei confronti di Salvatore ZINGALE, un impiegato della
vicina Facoltà di Lettere, il quale pare fosse un
appassionato delle armi da fuoco e risultò tutt’altro
19
che in regola con i documenti, tanto che fu denunciato
per reati in materia di armi. Lo ZINGALE tuttavia
risultò munito di un alibi incontestabile per il giorno
e l’ora del ferimento di Marta RUSSO, e comunque fu
sottoposto a pedinamenti e controlli per circa un mese
senza che sia mai risultato alcunché a suo carico.
E’ interessante esporre fin d’ora che in relazione
ai sospetti sullo ZINGALE Salvatore furono subito
sottoposte ad intercettazione le utenze telefoniche di
Gabriella ALLETTO e di Francesco LIPAROTA, ritenuti in
rapporti con lui.
Nel frattempo però aveva preso corpo negli
inquirenti il convincimento che lo sparo fosse partito
dalla finestra n. 4 dell’aula 6 al piano superiore (la
Sala Assistenti dell’Istituto di Filosofia del Diritto
della Facoltà di Giurisprudenza), che resterà
stabilmente al centro di questo processo.
All’individuazione di tale ultima finestra si
giunse perché il consulente del PM dott. Giacomo FALSO,
che esaminò gli “STUB” prelevati sul posto, rinvenne su
quel davanzale – e solo su quel davanzale fra i
moltissimi prelievi effettuati a diverse riprese nei
giorni successivi al 9 maggio – una particella
“binaria” composta da antimonio e bario.
Questa fu da lui ritenuta, in base alla prevalente
letteratura internazionale da lui conosciuta, “sicuro
residuo di sparo”; con una conclusione, peraltro, che
era forse già all’epoca superata, ma che fu poi assai
contestata sul piano scientifico, non solo dai
20
consulenti di parte, ma anche dai periti d’ufficio
(perizia prof. TORRE ROMANINI BENEDETTI).
E’ ovvio che l’indicazione “sicura” – ritenuta
“scientifica” e senza alternative – che il colpo fosse
stato sparato dalla finestra della sala assistenti non
poteva che orientare le indagini, con molta
convinzione, verso le persone che si potevano essere
trovate al suo interno al momento del delitto.
* * * * *
Indipendentemente, comunque, dall’esattezza o meno
delle conclusioni a cui era giunto il dott. FALSO, è
evidentemente importante riferire sugli accertamenti
operati circa la provenienza e la direzione dello
sparo, pur tenendo presente la presa di distanze
operata dalla Cassazione nella sua sentenza in ordine
alla rilevanza probatoria di questo particolare; il
dato è importante anche perché tali accertamenti, che
confortavano l’indicazione proveniente dal dott. FALSO,
contribuirono ad indirizzare l’inchiesta e a dare corpo
alle ipotesi investigative; e ad ingenerare con esse i
relativi contrasti, dovuti questi ultimi al fatto che
le indagini, secondo i difensori degli imputati,
dovevano essere orientate non già verso l’aula 6
dell’Istituto di Filosofia del Diritto, ma verso altre
finestre, e in particolare proprio verso quella del
bagno di Statistica al piano terra; tesi questa tuttora
sostenuta anche in questo giudizio di rinvio.
21
* * * * *
Il tentativo di individuare il punto di sparo è
stato attuato durante le indagini e nel processo per
via peritale e per via testimoniale.
Va segnalato in proposito che i consulenti di
parte Prof. FEDERICO e dott. GENTILE hanno tentato di
dimostrare che l’udito umano non è capace, per la
conformazione e la posizione dei suoi organi, di
determinare con certezza l’altezza (la “quota”) del
punto di provenienza dei suoni in un luogo, come il
vialetto per cui è causa, non aperto, trattandosi di
sensazioni del tutto casuali dipendenti dal riverbero
delle onde sonore sugli ostacoli che esse incontrano
nel diffondersi.
Tali conclusioni sono state totalmente disattese
dai giudici di merito ed anch’esse sostanzialmente
abbandonate dalle difese degli imputati.
D’altra parte, sul piano della assoluta esattezza
scientifica, è risultato impossibile ricostruire con
precisione il percorso del proiettile, perché non si
potè disporre di dati assolutamente certi sul piano per
così dire “geometrico”. Occorre infatti tener presente:
– che il corpo della ragazza era stato
inevitabilmente mosso dagli immediati soccorritori
prima che venissero effettuati i rilievi tecnici;
– che perciò nemmeno il rilievo attinente alle
tracce di sangue rimaste in terra può essere
considerato di valore assoluto;
22
– che non si sa se e di quanto Marta RUSSO avesse
ruotato su sé stessa nel cadere;
– che non si conosce il punto preciso in cui si
trovava, in piedi, quando fu colpita;
– che non è possibile accertare di quanto si fosse
girata sulla sinistra per lasciar passare la MINI 90.
Inoltre, il tentativo di stabilire per via
testimoniale l’effettiva ed esattissima posizione ed
inclinazione del busto e della testa nell’attimo in cui
fu colpita era evidentemente velleitario e destinato a
non conseguire alcuna certezza; quello di ricostruire a
ritroso il percorso del proiettile, partendo
dall’angolo di impatto ricavabile dalla sua incidenza
sul capo della vittima era destinato anch’esso a
risultati di mera probabilità, attesa l’estrema
mobilità della testa in una persona che cammina e che
si sposta per scansare un’automobile.
In definitiva però, pur ammettendo che si tratta
di “compatibilità” e non di certezze, entrambe le
sentenze di merito, sia pure in diverso grado,
finiscono per accettare alcuni risultati, che in
sostanza propendono per una esplosione “dall’alto”,
ricollegandoli alle risultanze testimoniali auditive
circa la provenienza dello sparo, che in buona misura
li confermano.
Occorre tuttavia ancora una volta rimarcare il
fatto che la Cassazione ha con la sua sentenza
drasticamente ridotto l’importanza delle questioni
connesse ai risultati degli accertamenti tecnici circa
la provenienza e la direzione dello sparo, proprio
23
perché non si è riusciti ad andare oltre il campo delle
mere “compatibilità”.
* * * * *
Sul piano testimoniale, molte persone che al
momento del fatto erano presenti sul luogo hanno
contribuito a ricostruire il quadro del delitto, da
diversi angoli di visuale.
Intanto Iolanda RICCI, l’amica di Marta RUSSO, con
cui camminava quando fu colpita.
Scendevano dal “tunnel” lungo il vialetto, verso
il viale principale, costeggiando sulla destra la scala
antincendio e le auto parcheggiate a spina di pesce.
Nell’attimo in cui incrociarono la “MINI 90” del prof.
MARONGIU che veniva loro incontro, la RICCI udì uno
sparo e perse di vista l’amica, che vide un attimo
dopo, in terra, mentre chiudeva gli occhi che aveva
sbarrati e vitrei; ella stessa si rifugiò tra le auto
in sosta gridando “hanno sparato, hanno sparato”.
Richiesta dalla polizia, nel pomeriggio, se il
colpo poteva provenire dalla finestra del bagno al
piano terra, aveva risposto di “poterlo escludere
nella maniera più assoluta”, perché il colpo sarebbe
stato “troppo in linea” col suo orecchio; a suo dire il
rumore lo aveva “sentito da dietro”, e non proveniva da
altezza d’uomo, ma da più in alto, tanto che ella aveva
indicato il giorno stesso una finestra dell’aula
dell’Istituto di Filosofia del Diritto, “un’aula che
ha quattro finestre”, “praticamente sopra il tunnel”,
“l’ultima (finestra) a destra”.
24
* * * * *
Altri testimoni escussi a proposito della
provenienza del rumore dello sparo sono stati:
– Gianfranco TROIANI, che passando sul viale
principale in bicicletta sentì soltanto un rumore
“attufato” proveniente dal vialetto, vide il corpo di
Marta RUSSO per terra e si trattenne a confortare la
RICCI che era fuori di sé per lo shock;
– Roberto LASTRUCCI, che si trovava sul
“ballatoio” della scala antincendio, col “tunnel” alle
spalle; percepì un rumore “molto soft” che riconobbe
con certezza come uno sparo e vide una ragazza bionda
cadere.
Quanto alla direzione del colpo, gli venne di
guardare prima di fronte a sé, verso il palazzo di
Chimica e Biologia; poi a sinistra ed in alto, “verso
le finestre dell’aula 6 e comunque dove c’è l’Istituto
di Filosofia”;
– Francesca MARCATTILI, che si trovava sul
pianerottolo della medesima scala col predetto
LASTRUCCI e con Ferdinando PASTORE.
Racconta di aver visto le due ragazze incrociare
un’automobile e contemporaneamente una delle due
cadere. Ella udì “questo rumore”, che non associò ad
uno sparo, e che veniva “dall’area in cui mi trovavo”,
“dalla parte dove c’è la Facoltà di Statistica e
l’Istituto di Filosofia del Diritto” “da posizione
rialzata rispetto al luogo dove era la ragazza”;
25
– Ferdinando PASTORE, che era con gli altri due
sul ballatoio della scala antincendio, rivolto proprio
verso l’Istituto di Filosofia del Diritto, dove però
non guardava perché stava parlando. Sentì un rumore
sordo che non ricollegò ad uno sparo; udì un urlo e
vide la ragazza che cadeva; quanto alla provenienza
dello sparo, forse dette “un’occhiata verso l’alto”; ma
non si fece un’idea precisa della provenienza né sul
momento né dopo;
– Maria Grazia GUERRAZZI, che era sul viale
principale dove sbocca il vialetto, la cui confluenza
aveva appena superato sulla propria sinistra, quando
udì un rumore “sordo” ma molto forte, che la indusse a
tornare indietro di uno o due passi; fece in tempo a
vedere una ragazza ruotare su sé stessa e cadere; il
rumore era venuto “da sopra”, dall’alto;
– Luigi SCARNICCHIA, che si trovava sul viale
principale nei pressi dell’imbocco del vialetto; sentì
uno sparo dall’alto, soffocato, e vide la ragazza nel
momento in cui toccava per terra.
* * * * *
Si distingue dai predetti Paolo DRAMIS che situa
lo sparo in basso. Egli – che dopo i primi momenti di
indecisione telefonò al 118 per far venire un’ambulanza
– riferì che gli era sembrato che il colpo provenisse
“dal piano strada”.
* * * * *
26
Più articolata la deposizione di Andrea DITTA (che
a sua volta chiamò prima il 113 e poi il 118).
Egli guardava proprio la RUSSO e la RICCI, perché
“la RUSSO era proprio bella”, la RICCI un po’ più alta,
la RUSSO “con una bella chioma bionda”: camminando sul
vialetto in direzione opposta alla loro, egli incrociò
lo sguardo con Marta RUSSO fino a che entrambi si
spostarono per lasciar passare la MINI 90; proprio in
quell’attimo il DITTA udì “questo sparo sordo” e vide
la ragazza bionda cadere.
Quanto alla provenienza del rumore, sul primo
momento egli guardò in basso, “verso la finestra del
bagno” di Statistica. Peraltro in dibattimento ha
precisato invece che il rumore “non veniva dal basso”,
tanto che gli venne spontaneo di guardare le prime
finestre che aveva a tiro, – fra cui appunto quella del
bagno di Statistica -, ma poi rivolse l’attenzione a
tutto lo stabile, anche “verso l’alto”, “sopra la
testa”.
* * * * *
Si tratta di dati che secondo i giudici di merito,
pur nella loro approssimazione, sono pressoché unanimi
e confortano le conclusioni peritali circa la
provenienza del colpo, rispetto al capo della vittima,
da sinistra, leggermente da dietro e dall’alto.
* * * * *
Interessanti anche le dichiarazioni circa la
“qualità” del rumore udito, descritto quasi
27
all’unanimità come “sordo”, “attutito”, “soft” e
simili: uno scoppio soffocato (alla romana, un “botto
attufato”), come quello dei fucili ad aria compressa
del Luna Park (testi DITTA e MARCATTILI), o anche – per
Maria Cristina PULCINELLI ed altri fra cui lo stesso
prof. MARONGIU – come una bottiglia di plastica che si
schiaccia; tutte descrizioni, ancora una volta,
ritenute assolutamente in linea con i dati peritali che
giunsero, per altra via, a stabilire che quasi
certamente la pistola da cui partì il colpo era munita
di silenziatore.
Da segnalare infine che un teste, il dott.
Patrizio CARDINALI, giunse quando Marta RUSSO era già a
terra ed, essendo medico, cercò di soccorrerla
praticandole un massaggio cardiaco e la respirazione
bocca a bocca; naturalmente in tal modo modificò sia
pure di poco la postura del corpo a terra; si pensava
ad un malore, e solo quando le tolse la mano da dietro
la testa se la trovò intrisa di sangue.
* * * * *
Un altro dato estremamente importante è costituito
dall’ora del delitto.
Per una serie di coincidenze, il processo è
inusitatamente ricco, in proposito, di dati quasi
assolutamente certi, giacchè si incrociano gli orari
precisi – perché sincronizzati, con la tolleranza di
pochi secondi, sull’ora ufficiale fornita
dall’Osservatorio Astronomico Galileo FERRARIS di
Torino – di alcune telefonate. Si tratta in particolare
28
di quella terminata dalla RICCI pochi attimi prima che
si ricongiungesse con Marta RUSSO (e il colpo di
pistola la raggiunse dopo una settantina di passi) e
quelle effettuate poco dopo ai numeri 112, 113 e 118
per chiamare soccorso; pochi secondi prima, dunque, e
pochi secondi dopo il ferimento.
Si sono al riguardo ricostruite anche le mosse e
gli orari del prof. MARONGIU che passava in quel
momento e quelle dei testi DRAMIS e DITTA che
effettuarono le chiamate di soccorso. Inoltre si è
avuto l’ausilio – sempre con definizione dell’ora
esatta mediante strumentazioni automatiche – di
situazioni quali quella del già citato dott. CARDINALI,
che aveva effettuato un prelievo dal BANCOMAT attimi
prima di raggiungere la RUSSO, e quella della
bibliotecaria Gabriella PAPPALARDO che timbrò un
cartellino mentre sentiva dire che una ragazza si era
sentita male (rispettivamente poco prima del ferimento,
dunque, e poco dopo).
In definitiva entrambe le sentenze di merito hanno
concluso che Marta RUSSO fu colpita, con una
approssimazione di pochi secondi in più o in meno, alle
ore 11,42 del 9 maggio; che l’ambulanza giunse sul
luogo del ferimento alle 11,59 e arrivò, di ritorno, al
vicino Policlinico alle 12,08.
Va segnalato peraltro che le attentissime difese
di SCATTONE e di FERRARO ritengono che l’ora dello
sparo si debba anticipare di circa un minuto e mezzo,
situandolo attorno alle ore 11,40; il che – come si
vedrà a suo tempo – ha una certa rilevanza rispetto
29
alle dichiarazioni di una testimone importante come
Maria Chiara LIPARI.

30
LA SVOLTA NELLE INDAGINI
E’ proprio a questo punto, con riferimento all’ora
del delitto, che assume un importante rilievo la figura
della testimone Maria Chiara LIPARI.
Dai controlli effettuati nell’aula 6 del primo
piano – la sala assistenti dell’Istituto di Filosofia
del Diritto di cui era Direttore il Prof. Bruno ROMANO
– era risultato infatti che due telefonate erano state
fatte da quella stanza, verso la casa e lo studio del
padre della LIPARI – il Prof. Nicolò LIPARI –, quasi in
corrispondenza con l’ora del ferimento di Marta RUSSO,
stabilita come detto nelle ore 11,42: precisamente –
sempre con l’esattezza dei tabulati TELECOM
sincronizzati con l’Osservatorio di Torino – qualcuno
aveva parlato da quella stanza con l’abitazione della
LIPARI effettuando due chiamate (vedi in proposito la
precisa ricostruzione della sentenza di primo grado).
E’ bene precisare fin da questo momento, in
relazione all’orario, che in realtà si trattò di due
telefonate, di cui la prima risultò effettuata verso la
casa dei genitori della assistente dott.ssa Maria
Chiara LIPARI, e durò dalle ore 11,44 e 30” alle 11,44
e 46”; la seconda, durata dalle ore 11,45 e 09” alle
11,48 e 47”, fu effettuata verso lo studio del padre
della medesima, prof. Nicolò LIPARI.
Durante le indagini, però, si ritenne che la prima
telefonata fosse iniziata alle ore 11,44 e 30” e durata
31
pochi secondi (come infatti era stato), ma si ritenne
altresì, per un errore tecnico, che la seconda fosse
iniziata (e non terminata, come invece era) alle 11,48
e 47”; venne così a “crearsi”, fra le 11,44 e 46” e le
11, 48 e 47” un inesistente “buco” di circa quattro
minuti; intervallo nel quale, a detta della LIPARI,
ella uscì dalla stanza per farvi ritorno poco dopo.
Si tratta di un particolare, come si vedrà, che a
parere di questa Corte si è risolto a favore della tesi
accusatoria nei confronti degli attuali imputati; ma
poiché le difese lo hanno molto utilizzato per minare
l’attendibilità della teste LIPARI, è bene porlo subito
in evidenza per la sua notevole rilevanza probatoria,
che sarà evidenziata a suo luogo.
* * * * *
In ogni caso, risultò subito che ad effettuare
queste telefonate era stata appunto la dott.ssa Maria
Chiara LIPARI, assistente e collaboratrice del prof.
Bruno ROMANO, la quale, interrogata, cominciò a
riferire le circostanze di fatto nelle quali ebbe ad
effettuare tali chiamate e le persone che in quel
momento si trovavano nell’aula 6, facendo ben presto i
nomi di Gabriella ALLETTO e di Francesco LIPAROTA.
Ancora una volta, deve subito essere messo in
evidenza, per rimarcare l’importanza investigativa
assunta dalla testimonianza della LIPARI, l’altro
particolare costituito dalla particella “binaria” di
antimonio e bario che il dott. Giacomo FALSO,
consulente del PM, aveva repertato su una finestra
32
della sala assistenti, ritenendola “sicuro residuo di
sparo”: mettendo in collegamento questo dato con l’ora
accertata del ferimento (11,42) e con le telefonate
della LIPARI, di cui la prima alle 11,44 e 46, era
facile arguirne che ella si era trovata nell’aula 6
pochissimo tempo dopo lo sparo; gli inquirenti pertanto
ritennero, e la stessa LIPARI ritenne, che ella fosse
la chiave per risolvere il caso.
Le “rivelazioni” di Maria Chiara LIPARI – persona
informata sui fatti e testimone – hanno avuto un peso
assai notevole nell’evolversi delle indagini e del
processo. Esse – provenienti da una persona fortemente
motivata sul piano umano e morale per rendere giustizia
alla povera studentessa uccisa, e che ha profuso ogni
sforzo per estrarre e “recuperare” dai recessi della
memoria ogni pur minimo brandello di ricordo di quei
minuti – sono state indubbiamente contraddistinte da un
particolare carattere di “progressività” nei ricordi, i
quali si sono fatti man mano più particolareggiati col
procedere del tempo; e questo fatto ha suscitato
proteste e sospetti da parte delle risolute e
agguerrite difese degli imputati, nel senso che la
donna – indicata come “visionaria”, “fanatica”, o
“invasata” – poteva essere quanto meno suggestionata
dagli inquirenti, indicati a loro volta come
spasmodicamente tesi a risolvere “con ogni mezzo” un
caso di così forte impatto sull’opinione pubblica.
Per questi motivi è opportuno confrontare sin
d’ora le date dei passaggi principali, e dare subito
atto del fatto che i primi risultati dell’attività del
33
dott. Giacomo FALSO – che aveva effettuato i prelievi
presso l’aula 6 il giorno 15 maggio 1997 – furono
riferiti con nota del 26 maggio a firma del Dirigente
del Servizio Centrale di Polizia Scientifica dott.
MADDALENA; ma l’acquisizione del dato attinente al
ritrovamento sul davanzale dell’aula 6 della particella
binaria risale al giorno 21 di maggio; e proprio a
partire dal 21 di maggio la LIPARI – come del resto
quasi tutti coloro che orbitavano attorno all’Istituto
di Filosofia del Diritto – fu esaminata in sede di
indagini, per proseguire il 26 e il 27 dello stesso
mese, e poi ripetutamente più avanti, fino ad agosto.
Ella fece i nomi di Gabriella ALLETTO e di
Francesco LIPAROTA, come presenti nell’aula 6, fin
dallo stesso 21 maggio (più esattamente, alle ore 1,40
del 22 maggio), e solo molto più tardi quelli di
Salvatore FERRARO e di Giovanni SCATTONE, in giugno
avanzato il primo (ancora con delle riserve circa la
sicurezza del ricordo), addirittura l’8 agosto il
secondo – questa volta asserendo di aver raggiunto la
certezza su FERRARO.
Ovviamente i suoi verbali di esame quale persona
informata sui fatti redatti nel corso delle indagini
sono stati acquisiti al fascicolo del dibattimento in
seguito alle contestazioni, e da questi occorre partire
per ricostruire lo sviluppo dei suoi contributi
all’inchiesta.
* * * * *
34
Sintetizzando velocemente, in questa sede, la
“progressione” della LIPARI, va precisato che ella fu
esaminata due volte il giorno 21 maggio (più
precisamente, un verbale risulta aperto alle ore 1,40
del giorno 22, ma è sostanzialmente la prosecuzione di
quello del 21).
Dapprima, nel pomeriggio del 21 maggio, la donna è
piuttosto vaga: premesso che si era recata in aula 6
per telefonare ai suoi familiari, le pare di ricordare
che la stanza, la cui porta era chiusa ma non a chiave,
non fosse vuota; (“non ebbi la sensazione di vuoto”);
ebbe invece la sensazione “di un certo movimento”, ma
non vi fece caso; afferma che non le parve che vi
fossero donne e precisa di non aver sentito alcun
rumore che potesse somigliare ad uno sparo.
Poco dopo invece, nelle prime ore della notte sul
22 maggio, emergono – con una evidente progressione
all’interno della medesima verbalizzazione – molti
particolari, e segnatamente la presenza,nell’aula 6, di
Gabriella ALLETTO e di Francesco LIPAROTA.
Maria Chiara LIPARI ricorda ora di aver visto due
o forse tre persone, due certamente di sesso maschile e
una probabilmente di sesso femminile; ebbe la
sensazione netta di “una forte tensione nell’aria” (in
altri passaggi parlò di “un gelo”); uno dei tre uscì
dalla stanza, passandole vicino e bofonchiando un
“ciao”, e a questo punto la tensione si dissolse.
La LIPARI ritiene adesso di avere individuato, tra
quelle persone presenti, certamente Francesco LIPAROTA,
perché riportò la sensazione di una persona con pochi
35
capelli; la presenza femminile – non più probabile ma
certa – è identificabile in Gabriella ALLETTO, perché
ricorda di essersi chiesta “che ci fa qui Gabriella?”,
non essendo usuale che il personale di segreteria
frequentasse quella stanza.
Più o meno le stesse cose, con qualche dettaglio
più specifico, la LIPARI ripeté il 26 ed il 27 maggio,
dopo che gli inquirenti l’avevano fatta partecipare ad
una sorta di ricostruzione ambientale, ponendo dei
manichini nell’aula 6, dove a suo dire c’erano “tre,
forse quattro” persone. Aleggia sempre, infatti, nelle
sue dichiarazioni, oltre alla presenza di ALLETTO e di
LIPAROTA, anche quella di una terza e forse di una
quarta persona, di sesso maschile. Una è quella da cui
la LIPARI ricorda di essere stata salutata mentre
usciva; questa le diede la vaga sensazione che potesse
essere il collega Massimo MANCINI, anche se questi ha
una gran barba e molti peli, che ella nel frangente non
vide; forse ne riconobbe la voce “a livello
subliminale”.
In proposito è da dire anzi che la LIPARI ha poi
precisato in dibattimento – con l’analitica precisione
che sempre la distingue – che il nome di MANCINI le fu
“suggerito” da un funzionario di polizia; ma ha anche
chiarito che il termine “suggerito” è improprio, in
qualche modo sbagliato per eccesso, nel senso che le fu
soltanto prospettato “come possibilità”.
Nel verbale del 27 maggio 1997 ella chiarisce che
nella sala assistenti aveva visto tre persone; una di
sesso maschile sulla destra vicino alla finestra, e
36
altre due verso il centro della stanza, leggermente
sulla sinistra di essa LIPARI; queste erano la ALLETTO
ed il LIPAROTA, che parlottavano tra loro; quello
vicino alla finestra era pallido, con capelli castani,
e certamente non era MANCINI; non ricorda se quel
giorno avesse visto FERRARO, ma le pare di ricordare
che commentarono un libro di Pattaro.
Sta di fatto che Maria Chiara LIPARI ribadì la
presenza nell’aula 6 della ALLETTO e del LIPAROTA anche
il 13 giugno, in occasione di un confronto con costoro
che negavano, e che nei successivi esami, effettuati
sia ad opera della polizia giudiziaria che del PM,
confermando e precisando le precedenti dichiarazioni,
mai fece i nomi né di FERRARO né di SCATTONE come di
persone presenti nella sala assistenti.
Da notare peraltro che certamente ella aveva
accennato alla possibile presenza del FERRARO in aula 6
addirittura fin dal 24 maggio, in occasione di una sua
telefonata con i suoi familiari, che fu intercettata; e
dunque il nome di Salvatore FERRARO circolava tra gli
inquirenti quanto meno da quella data.
* * * * *
Nel descrivere questo quadro delle dichiarazioni
della LIPARI è doveroso porre nuovamente in evidenza
che ella disse, anche in dibattimento, che tra l’una e
l’altra delle telefonate effettuate dalla sala 6 uscì
dall’aula n. 6 e si recò in aula 4 per qualche minuto
per poi ritornare in sala assistenti; ma la cosa è
risultata impossibile, giacchè tale intervallo di tempo
37
– “l’inesistente buco di quattro minuti” a cui si è gia
accennato – in realtà non vi era stato: come aveva
spiegato in dibattimento il teste della TELECOM Luciano
LONGHI, infatti, l’orario rilevato delle 11,48 e 47
riguardava la fine della seconda telefonata, e non
l’inizio come si era erroneamente ritenuto.
Questa seconda chiamata era invece effettivamente
iniziata alle 11,45 e 09, e dunque a ridosso della
prima, terminata alle 11,44 e 46, e dunque non vi era
stato il tempo necessario per uscire dalla stanza tra
l’una e l’altra; anzi, tenendo conto del tempo
necessario per comporre il numero (tempo che non viene
conteggiato dagli apparecchi), evidentemente non vi fu
soluzione di continuità, nel senso che la LIPARI chiamò
prima casa sua, dove le rispose la governante dicendo
che il padre non c’era (e si tratta dei pochi secondi
della prima telefonata dalle ore 11,44 e 30” alle 11,44
e 46”) e immediatamente chiamò lo studio del padre –
col quale parlò circa quattro minuti fino alle 11,48 e
47 – impiegando i secondi tra le 11,44 e 46 e le 11,45
e 09 a comporre il numero.
Sta di fatto che Maria CHIARA LIPARI, erroneamente
fatta convinta dell’esistenza di questo “buco” di
quattro minuti, e certamente non ricordando di avere
inspiegabilmente trascorso in sala assistenti quattro
minuti senza telefonare e “con le mani in mano”, disse
che tra l’una telefonata e l’altra era uscita dalla
stanza recandosi in aula n. 4.
E’ altrettanto doveroso ripetere quanto già
anticipato, e cioè che le difese di FERRARO e di
38
SCATTONE vedono in questo particolare una precisa prova
dell’inquinamento probatorio – “contaminazione“ – dal
quale lamentano che siano state pervase le indagini; la
LIPARI, cioè, maldestramente informata che tra l’una
telefonata e l’altra passarono oltre quattro minuti –
tra le 11,44 e le 11,48 –, non potendo lasciare questo
“buco”, secondo le difese “si inventò” – così si
esprimono – di essere uscita dalla sala assistenti.
Ma questo, sempre secondo le difese degli
imputati, che – doverosamente – non hanno risparmiato
critiche feroci al modo con cui furono, a loro dire,
condotte le indagini, non è che un esempio; in realtà,
secondo le osservazioni difensive, spesso quanto mai
critiche, Maria Chiara LIPARI fu gravemente
condizionata dagli inquirenti in ogni passo della sua
“progressione” mnemonica – con “suggerimenti”, disegni,
piantine dell’aula 6 con la probabile indicazione delle
persone che vi si “dovevano” trovare, e con i già
menzionati “manichini”, collocati nel corso di un
“esperimento” non verbalizzato –, tanto da rendere le
sue ricostruzioni del tutto inattendibili, non
potendosi escludere che quei manichini avessero già dei
nomi, dati loro dagli inquirenti.
Opposte, ovviamente, e non meno vibranti e
convinte le osservazioni del Procuratore Generale e
delle parti civili.
* * * * *
Soltanto l’8 agosto 1997 – quasi due mesi dopo che
Gabriella ALLETTO aveva deciso di ammettere la presenza
39
propria e del LIPAROTA in aula 6, raccontando di aver
visto Giovanni SCATTONE sparare un colpo di pistola e
riporre l’arma in una borsa che sarebbe stata portata
via da Salvatore FERRARO – soltanto l’8 agosto, quasi
due mesi dopo gli arresti degli attuali imputati, la
LIPARI prese appuntamento con la polizia (all’aeroporto
di Fiumicino) per “aggiungere altri particolari”.
Precisò da un lato che fino ad allora aveva, per
cautela e scrupolo di coscienza, riferito soltanto
circostanze di cui si sentiva sicura avendone “un
ricordo nitido e certo”; dall’altro che l’essersi resa
conto dell’estrema gravità dell’accaduto l’aveva
condotta a riflettere più approfonditamente, riuscendo
a far affiorare con altrettanta certezza il ricordo di
ulteriori particolari.
E così, si era man mano ricordata che mentre si
trovava ancora nel corridoio, qualche attimo prima di
entrare nella stanza 6, aveva udito un colpo – “un
tonfo” – proveniente dalla stanza medesima; all’interno
vi aveva visto – oltre a LIPAROTA ed ALLETTO – anche il
FERRARO, pallido e con espressione “dura”, che si era
girato di scatto verso la finestra ed era uscito quasi
subito; quanto alla quarta persona, della cui presenza
adesso era certa, aveva l’impressione che potesse
trattarsi di Giovanni SCATTONE.
E’ importante riferire che, come preciserà in
dibattimento e ribadirà sempre, ella non aveva notato
nel frangente – a parte il “gelo” o “tensione” –
particolari movimenti, come gesti scomposti o mani nei
capelli.
40
Infine, due persone, una dei quali forse ancora
SCATTONE e l’altra sconosciuta, erano nel corridoio
quando ella uscì dall’aula 6 dopo aver finito di
telefonare, e dopo che erano usciti anche la ALLETTO ed
il LIPAROTA. La ALLETTO, anzi, la ritrovò in
segreteria, “ripiegata” e “come accovacciata” su sé
stessa; in segreteria c’erano il BASCIU e la URILLI.
Ella andò via dalla Città Universitaria senza
essersi accorta di nulla; quando vi salì, l’orologio
della sua automobile segnava le 12,07.
* * * * *
Maria Chiara LIPARI ha ripetuto il suo racconto,
in qualità di testimone, in diverse udienze
dibattimentali, nelle quali ha ricostruito passo passo
– così come aveva fatto nel corso delle indagini –
anche le fasi precedenti e successive della mattinata
del 9 maggio.
E’ da notare che le impeccabili difese di FERRARO
e di SCATTONE, in relazione alle prime ore della
mattinata, l’hanno colta in fallo nel punto in cui ha
asserito di aver incontrato in Istituto Angelo ARIEMMA
e Andrea SIMARI che invece quel giorno certamente non
erano andati all’Università.
Sempre con riferimento alle fasi che precedettero
il suo ingresso in aula 6 per telefonare, è importante
in particolare la redazione di una lettera d’invito per
il prof. BISER di Monaco, da spedirgli in originale per
41
posta, previa, però, la formazione di una fotocopia al
fine di spedirla subito per fax.
Queste operazioni materiali, in sé incontroverse,
avevano coinvolto anche la segretaria Gabriella
ALLETTO, a cui la lettera fu consegnata dopo che era
stata dettata all’addetta di segreteria Maria URILLI.
Si tratta di particolari importanti perché la
ALLETTO, quando fece a sua volta le proprie
rivelazioni, disse che si era recata in sala assistenti
proprio per cercare Maria Chiara LIPARI, alla quale
doveva consegnare la fotocopia della lettera che non si
riusciva a spedire col fax dell’Istituto che era
guasto, e che la LIPARI pensava di spedire dallo studio
del padre.
* * * * *
Gabriella ALLETTO fu più volte esaminata nel corso
delle indagini, anch’essa a partire dal 21 maggio; fino
al 14 giugno affermò sempre di aver trascorso gran
parte della mattinata in aula 4, impegnata, da poco
dopo le 11 fino alle 12 circa, nel tentativo di spedire
il fax al prof. BISER; negando dunque, anche dopo le
affermazioni della LIPARI, di essersi trovata in sala
assistenti al momento delle telefonate della stessa
LIPARI e del ferimento di Marta RUSSO.
La prima circostanza sostenuta dalla ALLETTO è
stata però smentita dalla studentessa Cristiana
IANNETTI, la quale tentò di accedere in aula 4 per fare
delle fotocopie, trovandola chiusa a chiave, proprio
attorno alle 11,30-11,40 del 9 maggio; un tentativo che
ripeté, sempre infruttuosamente, dopo circa un quarto
42
d’ora. Inoltre il teste Stefano LA PORTA ha riferito
che fu chiamato dalla ALLETTO in aula 4 “non oltre le
11,30” per cercare di far funzionare il fax; non
riuscendovi, uscirono dalla stanza dopo un paio di
minuti e la ALLETTO chiuse la porta.
Resta così “scoperto” un lasso di tempo,
corrispondente con l’ora dello sparo, nel quale la
ALLETTO per così dire, “non ha un alibi”, e ben poteva
essersi recata in aula 6; tanto che la sentenza di
primo grado sostiene che già solo per questo essa era
sospettabile – e sospettata – di sapere qualcosa, anche
indipendentemente dalle dichiarazioni di Maria Chiara
LIPARI.
Occorre tuttavia anche dare atto del fatto che
molte persone sentite come testi (Luisa AVITABILE,
Simona SAGNOTTI e altri) ed anche i coimputati Maria
URILLI e Maurizio BASCIU hanno dichiarato che mentre
erano in corso le indagini la ALLETTO aveva loro sempre
assicurato di non essere entrata in aula 6.
E’ certamente innegabile, in ogni caso, che,
poiché fin dalla notte sul 22 maggio la LIPARI l’aveva
collocata, assieme al LIPAROTA, in aula 6 in momento
assai prossimo a quello in cui avvenne lo sparo, e
perché si ritenne CERTA, per la consulenza del dott.
FALSO, la presenza di residui di sparo sul davanzale
della finestra della medesima stanza, il ruolo della
ALLETTO – ed anche di Francesco LIPAROTA – divenne
centrale nelle indagini, tanto che si susseguirono i
loro esami e i frequenti e pressanti tentativi degli
43
inquirenti – PM e polizia – di convincerli a rivelare
quello che dovevano aver visto.
Gabriella ALLETTO decise di “collaborare”
(ammettendo di essersi trovata nell’aula 6 al momento
dello sparo e raccontando l’accaduto) soltanto il 14
giugno 1997: era il giorno successivo al confronto di
essa ALLETTO con la LIPARI, e veniva dopo che il giorno
11 era stato posto agli arresti domiciliari, per
favoreggiamento personale, il prof. ROMANO. Fino ad
allora, in numerose ed anche drammatiche occasioni,
ella si era sempre mantenuta nel più stretto
atteggiamento negativo, escludendo di essere stata
quella mattina in sala assistenti e di sapere qualcosa
di utile sul delitto.
* * * * *
La Cassazione ha escluso qualsiasi rilevanza
probatoria al fatto che – ovviamente – le dichiarazioni
della ALLETTO frutto dell’uno e dell’altro
atteggiamento siano contraddittorie tra di loro, e ha
giudicato come del tutto sterile il lavoro teso a porne
in luce le incongruenze. Così pure, per la Suprema
Corte è irrilevante sul piano probatorio, ai fini
sostenuti dalla difesa degli imputati, il cosiddetto
“videoshock”, che contiene la videoregistrazione
integrale dei colloqui tra Gabriella ALLETTO, il
cognato Gino DI MAURO ispettore di polizia, e i
magistrati della Procura dottori Carlo LA SPERANZA
Sostituto e Italo ORMANNI Procuratore Aggiunto.
44
Il contenuto di tale videoregistrazione è
emblematico, secondo le difese degli imputati, di un
certo “clima” di pressioni ed intimidazioni che avrebbe
pervaso le indagini a partire dal ritrovamento del
preteso residuo di sparo sulla finestra dell’aula 6.
Nel corso di tale colloquio, malgrado le pesanti
insistenze del DI MAURO, la donna giura “sulla testa
dei figli” di non sapere niente e di non essersi
trovata nell’aula 6 nelle note circostanze; e tuttavia,
non soltanto il DI MAURO, ma anche i magistrati
insistettero presso di lei perché dicesse quanto aveva
visto essendo presente in aula 6, cosa della quale essi
si ritenevano erano più che certi; prospettandole il
rischio che, in caso contrario, il suo silenzio potesse
essere interpretato con la necessità di coprire una sua
propria responsabilità nell’omicidio.
Pur tenendo conto dei surriferiti ammonimenti
della Suprema Corte circa l’irrilevanza in sé del
“videoshock”, è certo che quello dei “condizionamenti”
e della “contaminazioni” di vario tipo ipoteticamente
subite dalla ALLETTO – e prima ancora dalla LIPARI e
poi dal LIPAROTA – ad opera degli inquirenti
costituisce un tema importante di questo processo; e le
difese di tutti gli imputati non hanno mancato di porre
in luce tali “pressioni”, di far risaltare quelli che
interpretano come “aggiustamenti” ed inquinamenti, di
mettere in evidenza le coincidenze cronologiche tra
l’una e l’altra “rivelazione” della LIPARI e della
ALLETTO (e poi anche del LIPAROTA), ritenute
significative di una sorta di “costruzione” accusatoria
45
artificiosa, alla quale non sarebbe estraneo neppure il
ruolo, che si vedrà più avanti, di Giuliana OLZAI.
* * * * *
Sta di fatto che la ALLETTO, secondo le sue
spiegazioni, mutò atteggiamento dopo che alcuni
funzionari di polizia (della DIGOS, nello specifico,
subentrati ai colleghi della MOBILE), anziché
comportarsi con durezza (minacciandola di arresto,
prospettandole una imputazione per omicidio volontario
e alludendo a ventiquattro anni di galera), la
trattarono “gentilmente”, aiutandola a “tirar fuori
quello che aveva dentro” mediante la cortesia, la
serenità e i ragionamenti, finché “si era sentita
pronta”.
In precedenza, a suo dire, da un lato sentiva di
doversi “tener fuori” da una vicenda che non la
riguardava e che era solo foriera per lei di
grossissimi fastidi (“una valanga”, dice al cognato);
dall’altro le pressioni e le minacce degli inquirenti
“non la smuovevano di un millimetro” (sapeva che la
cosa “non la tangeva”), ed era soltanto “combattuta”:
per certi versi pensava che “fosse opportuno fare i
nomi”, per altri versi – la sua convenienza di “madre
di famiglia” – pensava di no.
Il 14 giugno 1997, dunque, Gabriella ALLETTO,
indagata per favoreggiamento e false dichiarazioni al
PM, cominciò a raccontare quello che a suo dire accadde
sotto i suoi occhi, essendo ella presente in sala
assistenti; e analoghe, particolareggiate dichiarazioni
46
la donna rese nelle forme dell’incidente probatorio il
31 luglio del 1997.
Ella – premesso l’antefatto, cioè la lettera da
spedire al professore tedesco, il fax che non
funzionava, l’incarico di redigere e consegnare alla
LIPARI una fotocopia della lettera e di fare delle
fotocopie del materiale da allegare all’invito – si
recò in aula 6 proprio per cercare Maria Chiara LIPARI
e darle le carte che aveva preparato. Il tutto è stato
ricostruito nei particolari – verbali di indagine e di
incidente probatorio alla mano – nel corso del
dibattimento di primo grado.
* * * * *
Questi i dati più salienti delle dichiarazioni:
– Nell’avvicinarsi ad aprire la porta dell’aula 6,
la ALLETTO incontrò un uomo che ne stava uscendo, sul
cui conto nulla si è mai più saputo (quello che i
giornalisti hanno universalmente definito “il quarto
uomo”.
– Entrando, ella vide Francesco LIPAROTA, quasi al
centro della stanza, verso sinistra; gli andò incontro
per due o tre passi e fece per chiedergli se sapesse
dov’era la LIPARI, quando accadde qualcosa che la
bloccò a metà della domanda.
– Aveva visto che nella stanza c’erano anche
Salvatore FERRARO e Giovanni SCATTONE.
– SCATTONE era messo di fianco (“a taglio”) nella
nicchia della finestra col condizionatore, sulla faccia
destra della nicchia; “guardava un po’ dentro e un po’
fuori”.
47
– tale finestra è quella denominata in atti come
“finestra n. 4 dell’aula 6”;
– FERRARO era dietro ad una delle due scrivanie
che stanno in fondo alla sala, tra le due finestre, e
guardava SCATTONE.
– FERRARO era di fronte a lei, ma non sa dire se
l’avesse vista entrare; certamente LIPAROTA l’aveva
vista.
– Non è chiaro se FERRARO e SCATTONE parlassero
tra loro oppure no, dal momento che la “dichiarante”
dice entrambe le cose: (incidente probatorio:
“SCATTONE stava parlando con FERRARO e si stava
girando”; “… no, non stavano parlando, è chiaro che
non stavano parlando”; udienza del 15 settembre 1998:
“Può darsi che dicevano, si parlavano, si dicevano
qualche cosa”; “… io non li ho sentiti, non ho sentito
parlare”.
– Essa ALLETTO stava chiedendo a LIPAROTA dove si
potesse trovare la LIPARI (“Francesco, sai…”), quando
sentì un “tonfo” (ed è la prima volta, il 14 giugno
1997, che per descrivere lo sparo viene usato questo
termine “tonfo”, che poi sarà usato anche dal LIPAROTA
nell’interrogatorio del 16 giugno e dalla LIPARI l’8 di
agosto).
– Sentì il “tonfo” attimi prima che SCATTONE si
girasse dalla finestra verso l’interno della stanza,
ruotando sulla propria sinistra.
– Vide anche “un bagliore”, “molta luce”, forse
per lo spostamento della tenda a doghe (che sono
verticali, di tela, non molto rigide).
48
– Vide che SCATTONE, “di taglio” nella nicchia
della finestra, con la sinistra spostava le doghe della
tenda; il braccio destro era teso e leggermente flesso
verso l’esterno.
– Vide che SCATTONE ritrasse la mano, nella quale
teneva una pistola di metallo nero lunga tra i 25 e i
30 centimetri (che la donna ha perfino disegnato in
dibattimento).
– Vide che FERRARO fece un gesto di disperazione,
si mise le mani nei capelli (per l’esattezza, “una
mano in testa, nei capelli” nell’incidente probatorio
del 31 luglio 1997, “entrambe le mani” all’udienza del
14 settembre 1998, questa volta “sulla nuca”).
– Non sa dire se SCATTONE la vide;
– Ella vide che SCATTONE uscì dal vano finestra
con la pistola e la mise nella borsa di FERRARO che era
sulla scrivania.
– Vide SCATTONE lasciare la stanza, ma un attimo
prima aveva fatto il suo ingresso Maria Chiara LIPARI.
– Riferisce la ALLETTO che quando entrò la LIPARI
si creò “un ghiaccio”, un’atmosfera di “gelo”.
– Vide che la LIPARI immediatamente si mise a
telefonare, spalle alla stanza.
– Vide che SCATTONE uscì salutandola “ciao Chiara”
(ma poco più tardi, nella stessa udienza dibattimentale
del 14 settembre 1998, la ALLETTO dirà di non aver
percepito le parole, ma solo un saluto “bofonchiato”).
– Riferisce la ALLETTO che a questo punto i
predetti uscirono tutti: prima Giovanni SCATTONE, poi
FERRARO con la borsa assieme a LIPAROTA; ultima essa
49
ALLETTO, che lasciò nella stanza Maria Chiara LIPARI,
ancora al telefono.
– Le sembra di ricordare che la borsa che FERRARO
aveva con sé fosse di cuoio marrone.
– Ella tornò in segreteria sgomenta per
l’accaduto; ma non cercò, “per paura, perché presa dal
panico” di capire cosa fosse successo.
– Udì giungere un’ambulanza e si affacciò a
curiosare assieme alla laureanda Irene CASTIGLIA; la
finestra della segreteria non dà sul vialetto, e lei
non vide nulla di significativo e non “collegò” le
cose; ipotizzarono con la CASTIGLIA un incidente con
qualche ciclomotore, o che qualcuno fosse stato “messo
sotto”.
– Giunse in segreteria il prof. ROMANO, che si
informò telefonicamente, apprendendo che una ragazza si
era sentita male; riferisce la ALLETTO che neppure
allora “collegò”, anche perché si diceva che la ragazza
fosse già a terra da lungo tempo.
– A suo dire, soltanto verso le ore 13 venne a
sapere che la ragazza era stata ferita con un colpo
d’arma da fuoco, e soltanto allora dovette
“ricollegare tutto” e “tenersi tutto dentro”.
Quanto all’effettiva consegna delle fotocopie alla
LIPARI, la ALLETTO, dopo aver dichiarato nel corso
dell’incidente probatorio che gliele aveva date “di
certo”, perché si era recata nell’aula 6 appositamente
per quel motivo, finisce per precisare poco dopo, nello
stesso atto, che “non riesce a focalizzare il
particolare”. Alla stessa conclusione si giunge in
50
dibattimento durante i suoi interrogatori; e
analogamente non ne fa cenno la LIPARI, nelle sue pur
minuziose descrizioni di quanto accaduto nella sala
assistenti.
* * * * *
In relazione a tali dichiarazioni accusatorie di
Gabriella ALLETTO, sinteticamente riferite, può dirsi
che i giudici di merito e la stessa Cassazione
evidenziano il fatto che la “dichiarante” non ebbe mai
più a recedere, mantenendo ferme le accuse anche nelle
accese udienze dibattimentali e in sede di confronto
con i due imputati. I difensori degli imputati, d’altra
parte, ne pongono in luce le contraddizioni interne, e
soprattutto – ancora una volta, e ancora una volta
vigorosamente contraddetti dalle loro controparti – il
modo con cui si manifestarono: dopo fortissime
pressioni e parecchi suggerimenti, con tempi e
contenuti sospetti ed inaffidabili, sulla falsariga
delle “fantasiose” dichiarazioni della LIPARI e di
errati accertamenti tecnici.
* * * * *
Le rivelazioni di Gabriella ALLETTO determinarono
l’arresto di Giovanni SCATTONE, Salvatore FERRARO e
Francesco LIPAROTA.
Quest’ultimo aveva sostenuto fino ad allora – il
14 giugno 1997 – di non sapere e di non ricordare
nulla: era convinto di aver trascorso l’intera
51
mattinata del 9 maggio nella “Sala Cataloghi”
dell’Istituto; non ricordava, ma non escludeva, di
essere stato nell’aula 6; ma comunque non ricordava di
essersi accorto di alcun avvenimento rilevante che
potesse essere collegato al ferimento di Marta RUSSO.
Il 13 giugno aveva sostenuto, con la ALLETTO che
anch’essa negava, il confronto con la LIPARI, e nella
tarda serata del 14, dopo le rivelazioni della stessa
ALLETTO, era stato arrestato, con l’accusa di concorso
in omicidio volontario.
Nel frangente mutò anch’egli l’atteggiamento
precedente e rese dichiarazioni accusatorie sul conto
di SCATTONE e di FERRARO.
* * * * *
E’ bene precisare che tutti (SCATTONE, FERRARO e
LIPAROTA) risultano arrestati il giorno 15 giugno 1997
nel senso che al momento della loro traduzione in
carcere era passata la mezzanotte, ma che si tratta di
arresti avvenuti nella notte a cavallo tra il 14 ed il
15, e in sostanza nella prosecuzione della tarda serata
di sabato 14 giugno.
Al momento di essere tradotto in carcere, dunque,
dopo una pesante giornata di attese e di contestazioni,
preso dallo sconforto Francesco LIPAROTA cominciò a
confidarsi negli uffici della Squadra Mobile con
l’agente Giuseppe SENESE, dicendogli che era stato
minacciato, che aveva paura e che voleva parlare col
magistrato. Accettando il consiglio dell’agente,
scrisse di suo pugno, su carta intestata della
52
Questura, un appunto nel quale dichiarava che non aveva
visto la pistola ma aveva visto SCATTONE e FERRARO
affacciati alla finestra; aveva udito uno sparo; aveva
taciuto perché minacciato di ritorsioni da parte loro e
di loro conoscenti; minacce proferite anche
successivamente, e rivolte nei confronti suoi e dei
suoi familiari.
* * * * *
Ancorché questa Corte abbia programmaticamente
inteso di effettuare questa preliminare esposizione in
punto di fatto riassumendo i dati – e i contrasti – di
causa senza effettuare alcun esercizio di critica e di
valutazione sui dati medesimi, non è inadeguato
descrivere come “oscillante” l’atteggiamento
processuale tenuto da Francesco LIPAROTA nei giorni
successivi.
Arrestato, come detto, durante la notte fra sabato
14 e domenica 15 giugno, egli fu interrogato dal GIP
lunedì 16 giugno, in sede di interrogatorio di
garanzia, alla presenza dei suoi difensori avv.ti
Giovanni ARICO’, Pasquale PAOLITTO e Roberto ANGELONI
quale sostituto dell’avv. ARICO’.
In tale, lungo e articolato atto:
– dapprima, dopo aver riconosciuto che il
foglietto con l’appunto era stato da lui scritto la
notte precedente, confermò tutte le accuse ivi
contenute, e si diffuse in particolari;
– poi tornò alla tesi di non sapere nulla e di non
ricordare neppure se quel giorno fosse entrato
53
nell’aula 6, spiegando che aveva scritto l’appunto
perché “non sapeva come uscire da questa storia”; la
verità era quella precedente, cioè che – testualmente –
“non mi ricordo assolutamente di questo episodio,
neanche di essere entrato in questo cavolo di aula”;
– infine – sempre nello stesso interrogatorio –
tornò ancora alla versione accusatoria, spiegando di
aver paura soprattutto di FERRARO, persona introdotta
in poco rassicuranti ambienti calabresi. Dopo aver
risposto ad alcune domande di chiarimento sullo
svolgimento dei fatti nell’aula 6 ed aver precisato
ulteriori particolari, ammise – dopo qualche insistenza
– di avere in precedenza confidato l’accaduto a sua
madre Rosangela VILLELLA.
Egli fu posto agli arresti domiciliari lo stesso
giorno 16 giugno.
* * * * *
E’ importante notare, a questo punto, che
immediatamente dopo aver appreso che il LIPAROTA si era
confidato con la madre Rosangela VILLELLA, gli
inquirenti si recarono a interrogarla la sera stessa
del 16 giugno: la donna, non avvalendosi della facoltà
di astenersi dal deporre quale parente dell’imputato,
disse che due o tre giorni dopo il delitto, vedendo il
figlio molto in ansia, lo aveva interpellato: egli le
aveva detto di aver visto FERRARO e SCATTONE dentro la
stanza, aggiungendo “So che hanno sparato e mi hanno
minacciato che mi ammazzano”. Madre e figlio si erano
54
messi a piangere per la preoccupazione, senza mai farne
parola con alcuno in quanto era un “segreto fra loro”.
Successivamente, tuttavia, la VILLELLA si è sempre
avvalsa della facoltà di astenersi dal deporre come
teste, ed è tuttora in predicato la utilizzabilità
giuridica delle cennate dichiarazioni rese nel corso
delle indagini; le quali peraltro – acquisite al
fascicolo del dibattimento e sempre ritenute
utilizzabili dai precedenti giudici di merito – sono
state ritenute inattendibili dal giudice d’appello
quanto al loro contenuto, mentre la Corte di primo
grado le aveva considerate veritiere ed importanti.
* * * * *
Ottenuti gli arresti domiciliari lo stesso 16
giugno subito dopo l’interrogatorio davanti al GIP, il
giorno successivo, 17 giugno, il LIPAROTA si presentò
in Procura e ritrattò ogni cosa: a causa della propria
debolezza psicologica aveva avuto paura del carcere, ma
ora “non resisteva più al rimorso”, “al rimorso di
aver detto qualcosa che… … …”. Non sapeva “se questi
sono colpevoli o innocenti”, non ricordava se fosse
stato o no in quella stanza (in proposito non aveva
“nessun alibi”), ma certamente non ricordava di avere
sentito o visto alcunché; non aveva udito alcuno sparo
né aveva visto delle persone. Tutto quanto asserito
dalla LIPARI e della ALLETTO “non faceva parte della
sua memoria”.
* * * * *
55
Successivamente il medesimo imputato – a
differenza di Gabriella ALLETTO – si è avvalso della
facoltà di non rispondere, sia in incidente probatorio
che nel dibattimento di primo grado, solo al termine
del quale ha voluto pronunciare una lunga dichiarazione
spontanea.
Con tale atto:
– ha positivamente escluso di essere stato, quella
mattina, in aula 6, assieme alla LIPARI, alla ALLETTO,
a FERRARO ed a SCATTONE;
– ha spiegato che all’epoca stava male
psicologicamente e assumeva degli psicofarmaci; non ha
mai ricordato nulla di “questo episodio dell’aula 6”,
ma poiché quella stanza faceva parte della sua normale
consuetudine di lavoro iniziarono a venirgli dei dubbi,
compreso “anche che potessi aver assistito al fatto e
non essermene accorto”;
– ha aggiunto che, sottoposto a continui e
pressanti interrogatori e spaventato dalle descrizioni
della vita in carcere che gli erano state fatte, aveva
deciso di confermare quanto detto dalla signora
ALLETTO; ma “quei fatti non fanno parte dei miei
ricordi”;
– ha chiarito di aver reso “delle false
affermazioni” nei confronti di FERRARO e di SCATTONE
perché gli inquirenti gli avevano fatto avere paura
fisica del carcere e del trattamento che avrebbe potuto
subire da parte degli altri detenuti;
– ha precisato che era “psicologicamente a pezzi”;
56
– ha aggiunto che si era sentito “prigioniero”
della polizia prima ancora di essere tradotto al
carcere di Regina Coeli, essendo stato tutto il giorno
guardato a vista;
– ha rivelato che aveva cominciato la sua falsa
“confessione”, parlando senza verbalizzazione, la notte
dell’arresto, davanti al dott. Nicolò D’ANGELO capo
della Squadra Mobile;
– ha spiegato che gli inquirenti, e in particolare
il sostituto dott. LA SPERANZA, gli avevano “descritto
ben dettagliatamente” la scena raccontata “dalla
signora ALLETTO”;
– ha aggiunto che di tale scena aveva avuto piena
contezza anche per mezzo dell’ordinanza di custodia
cautelare che gli era stata notificata, dove era
“perfettamente descritta”.
* * * * *
Queste ultime circostanze – circa la previa
perfetta conoscenza da parte del LIPAROTA delle
dichiarazioni della ALLETTO – sono evidentemente
connesse alla doverosa verifica da parte de giudice dei
loro rispettivi contenuti intrinseci: controllo da
farsi, ovviamente, mediante analisi incrociate degli
enunciati e dei particolari riferiti da ciascuno.
In proposito, il testo dell’ordinanza è in atti;
per il resto, la Corte d’Assise d’Appello ha provveduto
con rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a
ricostruire i contatti tra il LIPAROTA e gli inquirenti
(in particolare col dott. Carmine BELFIORE) durante la
57
permanenza dell’imputato in Questura in occasione del
suo arresto e della traduzione in carcere, nel periodo
di tempo in cui a suo dire sarebbe stato “imbeccato”.
Inoltre, come per la ALLETTO, la sentenza della
Cassazione ha escluso qualsiasi rilevanza probatoria
alle contraddizioni in punto di fatto che, ovviamente,
caratterizzano le dichiarazioni del LIPAROTA quali
frutto rispettivamente dell’uno e dell’altro suo
atteggiamento.
In quanto “chiamante” – sempre “in reità” anche
nei confronti di FERRARO, che oggi è anch’esso imputato
di favoreggiamento, ma non vi è concorso tra i due –
occorrerà prendere atto delle sue dichiarazioni
accusatorie, per sottoporle ad un adeguato vaglio di
attendibilità e credibilità e per ricercare poi, i
possibili riscontri esterni, atti ad attribuire, oppure
no, a quelle dichiarazioni valore di prova.
* * * * *
Il LIPAROTA disse dunque al GIP, in sede di
interrogatorio:
– che l’appunto della sera prima era stato scritto
in Questura da lui;
– che la mattina del 9 maggio era stato in aula 6,
e vi aveva visto il dott. SCATTONE e il dott. FERRARO
affacciati alla finestra;
– che era entrata la ALLETTO la quale lo aveva
chiamato;
– che mentre lui si girava aveva sentito “un
tonfo” che inizialmente non gli parve uno sparo;
58
– che i due (SCATTONE e FERRARO) “sono entrati
dentro” (evidentemente dal vano finestra); e che
SCATTONE aveva messo una mano in tasca;
– che egli non aveva visto alcuna pistola;
– che aveva visto un gesto di disperazione da
parte di FERRARO, che “si è messo le mani nei
capelli”;
– che egli si era fermato un attimo a parlare con
la ALLETTO;
– che aveva visto SCATTONE uscire con la sua
borsa, o almeno con quella che crede fosse la borsa di
SCATTONE (e non di FERRARO);
– che aveva capito che si era trattato di uno
sparo, e che era successo qualcosa di grave, dalle
espressioni dei due, perché avevano entrambi la faccia
“stravolta”;
– che aveva chiesto a FERRARO cosa fosse successo,
ma quello “non gliel’aveva voluto spiegare”;
– che nel momento in cui usciva SCATTONE era
entrata la LIPARI;
– che non aveva fatto caso al particolare se i due
si fossero salutati;
– che egli era uscito; e dopo di lui FERRARO,
mentre la ALLETTO gli sembra fosse rimasta nella
stanza;
– che, usciti nel corridoio, FERRARO gli aveva
intimato di non riferire quello che aveva visto, e che
in caso avesse detto qualcosa sarebbe stato fatto del
male a lui o ai suoi familiari;
59
– che l’espressione precisa usata dal FERRARO era
stata quella scritta nell’appunto, “ritorsioni”;
– che né FERRARO né SCATTONE gli spiegarono mai
cosa fosse accaduto, pur avendo incontrato, nei giorni
seguenti, sia l’uno che l’altro;
– che FERRARO anche successivamente, incontrandolo
all’Università, gli ricordò delle “ritorsioni”;
– che FERRARO in questo contesto aveva fatto
riferimento a sue “conoscenze in Calabria”, al padre
direttore di banca, “all’importanza che ha nel paese”;
– che nei giorni successivi egli andò con loro ad
una cena organizzata da una certa Lucia per
rassicurarli sul fatto che avrebbe taciuto (“per non
fargli vedere, non andando alla cena, che ero contro
di loro”;
– che non aveva parlato con nessuno dell’accaduto,
fuorché con sua madre, con la quale si era confidato.
* * * * *
Un ulteriore elemento di accusa si aggiunse due
mesi dopo il fatto, il 9 luglio 1997.
Giuliana OLZAI in detto giorno si presentò
spontaneamente in Procura ed espose:
– che il 9 maggio si trovava alla Città
Universitaria, nel Centro di Calcolo al piano terra
della Facoltà di Statistica;
– che a un certo punto si era accorta di “un
trambusto, un vociare”, un accorrere di persone, aveva
sentito dire che “avevano sparato” e aveva deciso di
andare a vedere;
60
– che uscita dalla stanza aveva percorso, per
pochi metri, “l’anditino” che congiunge le stanze di
lavoro con l’ingresso principale (“l’atrio”) della
Facoltà di Statistica;
– che giunta fuori dall’anditino, nell’atrio, si
era imbattuta in due persone – due ragazzi – di cui uno
aveva in mano una cartella, a cui aveva chiesto cosa
fosse successo;
– che queste l’avevano guardata senza rispondere e
poi avevano cominciato a correre verso l’adiacente
atrio di Scienze Politiche, uscendo dalla porta che dà
verso Scienze Politiche.
– che uno dei due giovani lo aveva rivisto anche
il 13 giugno, sempre nei locali dell’Università,
riconoscendolo e venendone riconosciuta tanto che si
spaventò molto.
– che lo stesso 13 giugno ne aveva informato
Silvano SALVATORE, direttore del Centro di Calcolo
della facoltà di Statistica dove preparava la tesi ed
il proprio marito Antonio MORETTI, dal quale si era
addirittura fatta venire a prendere per tornare subito
a casa.
– che aveva visto in televisione, il successivo 15
giugno, un servizio con la notizia dell’arresto di
Giovanni SCATTONE e Salvatore FERRARO, e aveva
riconosciuto in costoro le due persone che aveva
incontrato in quella occasione;
– che non aveva riferito subito questi fatti
perché lo stesso giorno 15 giugno era stato ricoverato
all’Ospedale di Aprilia, in gravissime condizioni, suo
61
padre, colpito da ictus cerebrale, in fin di vita e
abbisognevole di assistenza continua.
* * * * *
E’ necessario porre subito in evidenza l’estrema
importanza, dal punto di vista fattuale, delle
dichiarazioni della OLZAI: le finestre delle stanze di
Statistica si trovano al piano terra e danno
direttamente sul vialetto percorso da Marta RUSSO; una
di esse è proprio quella n. 7 del bagno disabili;
“l’anditino” di cui parla la OLZAI immette da queste
stanze nell’atrio d’ingresso di Statistica – al piano
terreno -, sul quale scende una scala interna
direttamente dal corridoio dell’Istituto di Filosofia
del Diritto sito al primo piano, corridoio sul quale si
apre l’aula 6.
I due giovani, però, secondo la sua narrazione,
non si avviarono alla vicinissima uscita (sulla destra
della OLZAI e alla loro sinistra), ma al contrario si
diressero sulla propria destra e poi in fondo,
raggiungendo l’adiacente atrio di Scienze Politiche,
dal quale si esce all’esterno, nel grande spiazzo con i
telefoni nel quale si erano incontrate Marta RUSSO e la
RICCI; spiazzo che è separato dal vialetto, anche
visivamente, per via del “tunnel”.
* * * * *
Continuando nel suo racconto, la OLZAI ha esposto
che dapprima, fra Statistica e Scienze Politiche dove
aveva seguito i due giovani, non vide niente, tanto che
62
tornò al Centro di Calcolo; ma poi, dalla finestra
della stanza, si accorse che davvero c’era una ragazza
per terra con un assembramento di persone e uscì di
nuovo. Giunse così al punto in cui c’era, a terra, il
corpo di una ragazza con attorno alcune persone; lei
scambiò qualche parola con l’amica di Marta RUSSO,
Iolanda RICCI – come è stato poi confermato anche da
quest’ultima -, e vide giungere prima il medico che
tentò il massaggio cardiaco e poi l’ambulanza.
Ha altresì aggiunto che aveva visto, sempre alla
televisione, anche la fotografia di LIPAROTA, che non
riconobbe e che non aveva mai visto; ha escluso di
essersi lasciata suggestionare da stampa e televisione;
ha precisato di avere una notevole capacità figurativa,
tanto da saper disegnare, in gioventù, il ritratto di
una persona dopo la visione di una fotografia; ha
ricordato di avere, del resto, subito riconosciuto in
Questura la Iolanda RICCI quando le fu mostrata.
* * * * *
Quanto alla specifica condotta delle due persone
incontrate, nel corso dei suoi diversi esami sia nel
corso delle indagini (fra cui un incidente probatorio)
che in dibattimento, la OLZAI ha precisato:
– che nel momento in cui le vide, una delle due
persone le stava di fronte, a circa due metri e mezzo
di distanza: e questa era quella che poi, per averlo
visto in televisione, ella ha riconosciuto come
Giovanni SCATTONE;
63
– che l’altra stava sulla destra, a un metro o
poco più da lei, di spalle, ed era quella poi
riconosciuta per Salvatore FERRARO;
– che la prima – il presunto SCATTONE – era
rimasta di fronte, mentre il supposto FERRARO si era
girato e l’aveva guardata;
– che dopo aver scambiato con essa OLZAI una lunga
occhiata, “FERRARO” aveva rivolto qualche parola
all’altro, e si era messo a correre verso l’atrio di
Scienze Politiche;
– che anche l’altro – “SCATTONE” – l’aveva
guardata e si era messo a correre assieme al compagno;
– che i due apparivano “concitati”, soprattutto
“quello di fronte” (il presunto “SCATTONE”) che
“gesticolava con le mani”; nessuno dei due aveva
risposto alla sua domanda su cosa fosse successo;
– che entrambi erano usciti di corsa dalla
medesima porta, che va verso Scienze Politiche, dopo
essersi girati qualche altra volta a guardarla;
– che lei li aveva seguiti, convinta che la
conducessero al luogo verso cui aveva visto accorrere
gente;
– che invece nello spiazzo esterno non trovò
niente e tornò indietro al Centro di Calcolo, salvo poi
uscire di nuovo come già detto;
– che quello da lei identificato per FERRARO aveva
con sé una borsa o una valigetta;
– che non aveva menzionato questo particolare nel
primo esame del 9 luglio perché ci aveva tenuto a
riferire “l’essenziale”.
64
Infine la OLZAI ha provveduto alla descrizione
degli abiti indossati dai due nel frangente: SCATTONE
aveva una camicia celeste a maniche lunghe, calzoni
scuri, blu o neri; FERRARO una sorta di blusa morbida
sulle spalle, di colore chiaro tendente al celeste, più
chiaro dei calzoni, che erano sul grigio.
* * * * *
Ha proseguito la teste rivelando di aver
nuovamente incontrato Giovanni SCATTONE il 13 giugno
1997 (venerdì), all’Università, nel pianerottolo del
secondo piano; si guardarono vicendevolmente a lungo;
lei lo riconobbe immediatamente come una delle due
persone incontrate nelle note circostanze il 9 maggio e
ne riportò una forte emozione, riandando con la mente a
quel giorno.
Proprio – a suo dire – per questa emozione
riportata, la OLZAI ne parlò subito a Silvano
SALVATORE, direttore del Centro di Calcolo,
raccontandogli entrambi gli episodi del 9 maggio e di
quella mattina.
Il SALVATORE le suggerì di parlarne con la
polizia, ma lei replicò che “ci voleva pensare”; poi il
gravissimo ictus cerebrale he colpì il padre proprio il
14 giugno fece passare tutto in seconda linea; ma quel
giorno si era così spaventata che si era fatta venire a
prendere dal marito Antonio MORETTI per andarsene
subito a casa.
Migliorate le condizioni del padre, ai primi di
luglio parlò di tutta la questione col giornalista
65
Carlo BONINI, il quale, non senza essersi assicurato,
comprensibilmente, una sorta di esclusiva
giornalistica, le prese un appuntamento col magistrato.
* * * * *
Ha infine riferito, la teste Giuliana OLZAI, di
minacce ricevute al proprio domicilio in seguito alla
sua testimonianza.
La sera del 20 agosto, sul tardi, squillò a casa
il telefono; rispose il marito, e qualcuno fece il nome
della loro figlia secondogenita, dicendo che era una
bella ragazza; la voce chiese poi quanto l’avessero
pagata per fare la testimonianza e che stesse attenta a
quello che diceva.
Fu in conseguenza di questo episodio che si
provvedette ad assumere la testimone con incidente
probatorio.
* * * * *
Anche la deposizione della OLZAI – che in un certo
senso “chiude” la narrazione del fatto ed esaurisce
l’esposizione degli elementi dell’accusa – è stata
oggetto di vibrate polemiche da parte delle difese
degli imputati, per via della sua tardività – due mesi
dopo il suo preteso incontro con i due giovani in fuga
e quasi un mese dopo l’arresto di SCATTONE e di
FERRARO, con le loro immagini esposte quotidianamente
in televisione ed in ogni edicola; per la
66
inattendibilità ed incontrollabilità del suo preteso
riconoscimento, in televisione, di due persone
intraviste fugacemente più di un mese prima; per il suo
essersi offerta direttamente in Procura, accompagnata e
presentata da un giornalista; per la sua figura di
sorella di due banditi sardi.
67
LE DICHIARAZIONI A DIFESA DEGLI IMPUTATI
GLI ALIBI
Sempre riassumendo il fatto, e sempre senza
l’esercizio di alcuna critica o valutazione, occorre
precisare che gli imputati Giovanni SCATTONE e
Salvatore FERRARO hanno sempre opposto alle accuse
mosse contro di loro un fermo e costante atteggiamento
di assoluta negazione di qualsiasi loro responsabilità:
non solo non è accaduto niente di quanto riferito a
loro carico da Gabriella ALLETTO, da Francesco LIPAROTA
e da Giuliana OLZAI, ma essi non si trovavano, al
momento del ferimento di Marta RUSSO, nell’aula 6
dell’Istituto di Filosofia del Diritto; ed anzi neppure
in Facoltà e, almeno quanto a FERRARO, neanche
all’Università.
Hanno dunque entrambi dedotto un alibi.
* * * * *
Giovanni SCATTONE in proposito ha dichiarato:
– che la mattina del 9 maggio uscì di casa dopo le
10, scese dalla Metropolitana a Piazza Bologna e si
recò a piedi in via Nomentana a Villa Mirafiori, sede
della Facoltà di Filosofia, dove giunse, per quanto può
ricostruire, tra le 10,45 e le 11,20.
– che si recò al terzo piano per trovare il prof.
Eugenio LECALDANO, nel suo studio;
68
– che dopo una sua breve attesa seduto in
corridoio, il professore uscì dalla stanza, lo vide e
si fermò per pochi minuti a parlare con lui;
– che il LECALDANO gli consegnò uno stampato
riguardante un seminario di studio (“UNIVERSALISMO IN
ETICA”) che si sarebbe dovuto tenere a Villa Mirafiori
il 16 giugno 1997;
– che in tale frangente il LECALDANO rientrò nella
stanza per prendere il programma del seminario, e dalla
porta aperta esso SCATTONE vide che nello studio
c’erano due persone da lui conosciute, il Dott. Simone
POLLO e la dott.ssa Laura CANAVACCI;
– che la data del seminario era stata spostata, da
quella originaria del 6 giugno, al 16 giugno; che lui
aveva avuto uno stampato con la data “vecchia”, e che
egli stesso aveva provveduto a correggerla di suo
pugno, come si vede nel reperto in atti;
– che andò via verso le 11,30, recandosi con
l’autobus “310” alla Città Universitaria.
* * * * *
In proposito è risultato:
– che effettivamente si svolse a Villa Mirafiori
un colloquio di pochi minuti tra il prof. LECALDANO e
lo SCATTONE nel corso del quale il LECALDANO diede a
SCATTONE il programma del seminario;
– che il professore non è in grado di riferire con
certezza se questo incontro sia avvenuto proprio il 9
maggio o in altra data;
69
– che la sera dell’8 maggio l’assistente di
LECALDANO, Virginio MARZOCCHI aveva lasciato al
professore i nuovi stampati del programma con la data
corretta;
– che il professore non ricorda se diede allo
SCATTONE lo stampato “vecchio” o quello corretto;
– che effettivamente il 9 maggio il dott. POLLO e
la dott.ssa CANAVACCI incontrarono il professor
LECALDANO per circa un quarto d’ora nel suo studio poco
dopo le 10,30;
– che il dott. POLLO e la dott.ssa CANAVACCI non
ricordano di aver visto in tale occasione lo SCATTONE,
che entrambi conoscono;
– che non ricordano che il Professore abbia
lasciato lo studio per uscire per qualche minuto.
* * * * *
In seguito a queste risultanze entrambe le
sentenze di merito hanno giudicato non provata la
presenza di SCATTONE a Villa Mirafiori la mattina del 9
maggio.
Ciò sia per la mancanza di sicure conferme al suo
racconto, sia perché Francesco LIPAROTA aveva
dichiarato di aver visto lo SCATTONE in Istituto verso
le ore 9,30, in circostanze che riguardavano anche la
presenza dei borsisti Benedetta FAEDI e Stefano LA
PORTA, e che sotto questo profilo sono rimaste
confermate.
* * * * *
70
Proseguendo nella ricostruzione della mattinata,
SCATTONE ha dichiarato:
– che si era recato da Villa Mirafiori a “La
Sapienza” con l’autobus “310”, giungendovi dopo le
11,30, certamente prima di mezzogiorno, recandosi alla
Facoltà di Lettere;
– che era certo dell’orario, perché doveva
ritirare nella Segreteria di Lettere un certificato; la
Segreteria chiude al pubblico a mezzogiorno, ed egli
preferiva arrivare nell’imminenza di quell’ora perché
si sfoltiscono le file agli sportelli;
– che però, avendo del tempo prima di mezzogiorno,
andò dapprima, sempre nella Facoltà di Lettere, a
verificare la data degli esami;
– che, almeno a quanto gli sembra di ricordare,
nella bacheca era strappato il foglio di prenotazioni;
– che ritirò in segreteria il certificato –
rilasciato a vista, non con prenotazione – N.
97K1102329, che è in atti;
– che successivamente si recò all’Istituto di
Filosofia del Diritto, dove giunse a suo dire, attorno
alle ore 12,15 – 12,30.
* * * * *
In proposito è risultato:
– che non è stato possibile dimostrare che nella
bacheca di Lettere, la mattina del 9 maggio, il foglio
delle prenotazioni fosse strappato;
71
– che dal certificato prodotto dallo SCATTONE non
è possibile risalire all’ora in cui fu emesso o
consegnato;
– che nessuno dei sei studenti esaminati fra
quelli che ritirarono nella stessa mattina analogo
certificato con numero progressivo prossimo a quello
dello SCATTONE lo ha riconosciuto come presente nella
fila o in segreteria;
– che SCATTONE non ha menzionato alcuni
particolari pur degni di nota, come la presenza fra le
persone in attesa del certificato di un invalido e il
malore da cui fu colpita una ragazza;
– che il personale di Segreteria non ricorda di
aver visto quel giorno SCATTONE né di conoscerlo;
– che può accadere che un certificato venga
consegnato anche non a vista o non di persona o in
altro giorno, se si tratta di richiedenti in qualche
modo noti o “dell’ambiente”.
Anche per questa parte della mattinata le Corti di
merito hanno ritenuto non provata la presenza di
SCATTONE a Lettere, e dunque il suo alibi.
* * * * *
Proseguendo, Giovanni SCATTONE ha affermato:
– che, ritirato il certificato, si recò
all’Istituto di Filosofia del Diritto, dove incontrò il
borsista Stefano LA PORTA, trattenendosi in
conversazione;
72
– che fece una telefonata dalla Sala Cataloghi,
parlando, dopo molti tentativi infruttuosi perché il
numero era occupato, con Salvatore FERRARO a casa sua;
– che non ricorda di aver incontrato, nello stesso
torno di tempo, Pierpaolo FIORINI;
– che se ne andò dall’Istituto qualche minuto dopo
le 13, senza aver saputo nulla del ferimento di Marta
RUSSO;
– che era diretto verso l’uscita principale, ma
vedendo un assembramento di persone pensò a scontri fra
studenti e cambiò strada uscendo su viale della Regina;
– che apprese del ferimento di una ragazza
all’Università per mezzo di una telefonata dell’amica
Marianna MARCUCCI nel primo pomeriggio, la quale lo
aveva appreso dal telegiornale. Egli accese la
televisione, ma, non essendovi notiziari in quel
momento, lesse un breve “flash” su “TELEVIDEO”.
In relazione alle predette circostanze è
risultato:
– che il teste Stefano LA PORTA ha riferito di
aver incontrato SCATTONE a Filosofia del Diritto tra le
12,15 e le 12,30; che gli sembrava provenire
dall’ingresso principale; che lo vide fare una
telefonata dalla Sala Cataloghi; che era tranquillo,
tanto che parlarono di logica giuridica e che SCATTONE
gli scrisse su un bigliettino – che è in atti – una
sorta di celebre “rompicapo” logico;
– che dai tabulati del centralino dell’Università
è risultata una telefonata – non risposta – dello
73
SCATTONE al FERRARO alle ore 12,44, mentre una
conversazione si svolse dalle 12.56 alle 12.59;
– che il teste Pier Paolo FIORINI riferì – anche
in dibattimento – di aver parlato, da casa, con la
LIPARI che si trovava in Istituto, verso le 11,40; che
egli giunse in Istituto verso le 12,10-12,15,
incontrando subito, nel corridoio, SCATTONE; che le
segretarie gli dissero che la LIPARI era appena andata
via; che poi ebbe un colloquio di qualche minuto col
prof. ROMANO, inframezzato da alcune telefonate; che
durante questo colloquio si accorse di un “trambusto” e
dalla finestra vide dalla finestra un’ambulanza ferma.
– che il prof. ROMANO fece due chiamate
telefoniche alle ore 12,18 e 12,19, mentre non si
conoscono i dati delle telefonate in entrata;
– che la LIPARI andò via dall’Istituto qualche
minuto prima di mezzogiorno.
– che le prime notizie pubbliche sul ferimento di
Marta RUSSO furono date alle 13,39 da “TELEVIDEO” e
brevissimamente nel corso del telegiornale delle 13,30.
* * * * *
Anche per quest’ultima parte della mattinata lo
SCATTONE non ha – secondo le sentenze di merito – un
alibi per l’ora delitto, accaduto alle 11,42; e ciò per
la dichiarazione del FIORINI di averlo incontrato nel
corridoio di Filosofia del Diritto in un orario che
doveva essere anticipato rispetto ai ricordi del teste
(12,10-12,15), dato il recentissimo allontanamento
della LIPARI dall’Istituto e la presenza, invece, prima
74
dell’incontro tra FIORINI e SCATTONE, dell’ambulanza
ferma: fatti entrambi da collocarsi con molta
precisione attorno alle ore 12. Le dichiarazioni del
FIORINI, anzi, sempre secondo i precedenti giudici di
merito, collocano lo SCATTONE in Istituto prima del
delitto, se è vero che dopo il loro incontro il FIORINI
vide l’ambulanza ferma.
* * * * *
Quanto a Salvatore FERRARO, il suo alibi consiste
in sostanza nell’essersi trattenuto in casa tutta la
mattina del 9 maggio, in una condizione di assoluta
“routine” e normalità.
In proposito queste sono le risultanze.
1) – Inizialmente, esaminato come persona
informata dei fatti, FERRARO ha dichiarato:
– che era rimasto tutta la mattinata in casa, dove
c’era anche la sorella Teresa;
– che aveva ricevuto, come al solito, molte
telefonate dalla sua amica Marianna MARCUCCI;
– che aveva ricevuto, verso le 12,15-12,30 una
telefonata da SCATTONE che si trovava in “Sala
Cataloghi” e che gli parlò del compleanno di Serena
MARCUCCI sorella di Marianna;
– che aveva appreso del ferimento di una ragazza
all’Università dopo le 13 dal telegiornale.
– che verso le 16-16,30 si era recato per
curiosità all’Università senza trovare nessuno e senza
neppure individuare il luogo del ferimento.
75
* * * * *
Successivamente, nel primo interrogatorio da
indagato, ha puntualizzato:
– che confermava di non essersi assolutamente
recato in Istituto la mattina del 9 maggio, nella quale
era rimasto a casa con la sorella Teresa;
– che – ricordando meglio in proposito – non aveva
in realtà ricevuto “molte telefonate” dalla MARCUCCI
perché questa era andata a trovarlo a casa;
– che la MARCUCCI era giunta verso le 10,30-11
trattenendosi circa un’ora o un’ora e mezza.
* * * * *
In dibattimento ha ancora precisato:
– che nel corso della mattinata del 9 maggio,
essendosi trattenuto a casa, aveva ricevuto alcune
telefonate: da Marianna MARCUCCI, Domenico ALBANESE,
Domenico CONDEMI – oltre a quella già citata di
SCATTONE dalla Sala Cataloghi, collocata dal FERRARO
verso le ore 12,15-12,30 e svoltasi in realtà, in base
ai tabulati, come già esposto, dalle 12,56 alle 12,59.
– che verso le 11,30 la sorella Teresa era uscita
per andare a fare ginnastica;
– che verso le 11,45 ricevette la visita della
Marianna MARCUCCI;
– che questa andò via verso le 12-12,30;
– che egli la accompagnò in strada, e furono visti
e salutati dalla sorella Teresa che tornava dalla
palestra;
76
– che, tornato a casa, ricevette la telefonata di
SCATTONE;
– che non molto tempo dopo apprese la notizia del
ferimento di Marta RUSSO dalla televisione.
– che se nelle sue dichiarazioni c’erano stati
errori, dimenticanze, piccole discrasie, ciò era dipeso
proprio dall’assoluta “normalità” della mattina del 9
maggio, nella quale non aveva fatto e non era successo
assolutamente nulla di notevole che potesse aiutarlo a
ricordare.
In definitiva l’alibi del FERRARO, prospettato con
successive modifiche che i giudici di merito hanno
interpretato come degli aggiustamenti più o meno
astuti, e che la difesa intende invece come
comprensibilissime imprecisioni, per chi non abbia
nulla da nascondere e non sia “preparato”, si fonda
sulle telefonate ricevute e sulle dichiarazioni di
Teresa FERRARO e di Marianna MARCUCCI.
* * * * *
Dagli accertamenti è risultato che la MARCUCCI
chiamò al telefono casa FERRARO soltanto alle 8,33,
alle 10,55, alle 13,05 e alle 14,07;
– che il telefono di FERRARO non fu usato da
nessuno, né in entrata né in uscita, tra le 11,17 e le
12,56;
– che la MARCUCCI effettuò una chiamata da un
apparecchio telefonico pubblico situato in un bar sotto
casa del FERRARO alle ore 11,37 e 12”;
77
– che però questa telefonata è risultata diretta a
casa della stessa MARCUCCI e non a casa del FERRARO
come la MARCUCCI aveva riferito.
* * * * *
In tale situazione, Marianna MARCUCCI fu indagata
e poi imputata per favoreggiamento, per aver confermato
l’iniziale tesi di FERRARO consistente nell’avere da
lei ricevuto “molte telefonate” la mattina del 9
maggio, tesi smentita dai tabulati della TELECOM.
Dopo aver reso dichiarazioni nel corso delle
indagini – anche in sede di interrogatorio come
indagata – nel dibattimento la MARCUCCI si è avvalsa
della facoltà di non rispondere.
* * * * *
Teresa FERRARO ha confermato la versione del
fratello dichiarando:
– che egli rimase in casa la mattina del 9 maggio
e che ella andò in palestra uscendo verso le 11,30;
– che in mattinata era pervenuta una telefonata da
parte di certo Domenico ALBANESE mentre si stava
cambiando per andare a ginnastica, alla quale rispose
Salvatore;
– che, di ritorno dalla palestra dopo circa tre
quarti d’ora, vide il fratello e Marianna MARCUCCI
sotto casa in via Pavia verso le ore 12,20-12,30;
78
– che li salutò, con qualche imbarazzo perché ella
aveva deciso di non andare, quella sera, alla festa di
una sorella della MARCUCCI.
* * * * *
La Corte d’Assise ha ritenuto che Teresa FERRARO e
Marianna MARCUCCI non coprano l’alibi prospettato
dall’imputato anche a causa della mendacità delle loro
dichiarazioni, definite non credibili non solo perché i
tempi riferiti dall’una e dall’altra non corrispondono
con gli accertamenti effettuati, ma per la ritenuta non
veridicità di fondo di quanto da esse affermato.
Così pure, la Corte di primo grado aveva valutato
come non veritiere le dichiarazioni della Teresa
FERRARO, disponendo anzi la trasmissione degli atti al
PM. Ciò in stretta relazione con le dichiarazioni della
Marianna MARCUCCI, la quale – osservano i primi giudici
– soltanto nella sua quinta deposizione, dopo l’arresto
del FERRARO, si era ricordata di poter essere stata
(forse) a casa di lui la mattina del 9 maggio; ma non
ha mai riferito di aver visto tornare dalla palestra
Teresa FERRARO, che pure a dire di questa l’avrebbe
salutata, né di essere stata accompagnata in strada
dall’imputato.
In definitiva, secondo le sentenze di merito,
l’alibi di FERRARO, che si fondava sulle telefonate,
sulla MARCUCCI e sulla sorella Teresa non è sostenuto
da nessuno dei punti di riferimento citati.
79
* * * * *
Per completezza va riferito di altre due
telefonate, menzionate nella sentenza impugnata, che
indirettamente incidono sull’alibi di FERRARO.
La prima è quella di Alessandra VOZZO. Disse la
MARCUCCI, nelle sue ultime versioni, di non essere
sicura di essere stata a casa del FERRARO la mattina
del 9 maggio, ma che la cosa si poteva controllare
perché mentre era lì era giunta una telefonata della
VOZZO.
Secondo il primo giudice la circostanza è smentita
per tabulas: la telefonata giunse alle 13,07, quando la
MARCUCCI era casa sua, tanto che aveva a sua volta
telefonato alle 13,05; il convincimento della stessa
VOZZO di aver telefonato più presto è rimasto privo di
una qualsiasi conferma.
La seconda è quella di Domenico CONDEMI.
Racconta la studentessa Ilaria PEPE che il giorno
dopo il ferimento di Marta RUSSO, commentando
l’accaduto con lei stessa e con LIPAROTA, FERRARO disse
che egli il 9 maggio (il giorno precedente) era stato
tutta la mattina in casa, e che attorno alle ore 12 gli
era arrivata una strana telefonata da parte di una
persona “di giù”, cioè della Calabria, che in
definitiva non si era capito cosa volesse. Il FERRARO,
nel raccontare questo episodio al LIPAROTA ed alla
PEPE, aveva scherzosamente commentato: “Forse si
voleva creare un alibi”.
L’imputato ha chiarito in udienza che si trattava
della chiamata di Domenico CONDEMI, ed è stato in ciò
80
parzialmente smentito, nel senso che effettivamente
costui fece, il 9 maggio, una ed una sola telefonata a
casa FERRARO, ma la fece non in mattinata bensì nel
pomeriggio, alle 15,44.
A detta del FERRARO il CONDEMI avrebbe solo
chiesto “dottore lei sarà in facoltà nei prossimi
giorni?”; e alla sua risposta affermativa ed alla
richiesta di cosa volesse, avrebbe mormorato “niente,
niente”, riattaccando subito.
* * * * *
Stabilito che la telefonata del CONDEMI non giova
all’alibi di FERRARO perché effettuata nel pomeriggio,
si riferisce, sempre per completezza, che si è voluto
vedere nell’episodio, leggendolo in chiave accusatoria,
una sorta di “obliquo segnale” mandato dal calabrese
FERRARO al calabrese LIPAROTA; nel senso che – in
sostanza – quest’ultimo doveva stare attento a quello
che diceva, perché esso FERRARO aveva già pronto un
alibi sostenuto dal “temibile” CONDEMI – un altro
calabrese che era stato latitante per tentato omicidio,
con amici o parenti esponenti della criminalità della
Locride (tentato omicidio, oltretutto, commesso con
una pistola).
Oltretutto, come risulta dal tabulato riportato a
pagina 706 della sentenza impugnata, la telefonata del
CONDEMI durò ben 105 secondi, un tempo che è stato
ritenuto incompatibile con le due sole battute
raccontate dal FERRARO.
81
Si sono dunque ipotizzati per Domenico CONDEMI, da
parte dell’accusa sia pubblica che privata, diversi
possibili ruoli nella vicenda per cui è causa: da
quello di fornitore della pistola a quello di “quarto
uomo” che la ALLETTO aveva visto uscire dall’aula 6, a
quello di “suggeritore” nei confronti di FERRARO. Il
quale FERRARO, subito dopo la telefonata di cui si
parla, chiusa alle 15,44, si recò, secondo le sue
stesse affermazioni, all’Università, da solo e per
pochi minuti: magari – nell’ottica dell’accusa – per
recuperare l’arma o il bossolo, l’una e l’altro mai
ritrovati dalla polizia.
Resta il fatto, riferito da Ilaria PEPE, che la
telefonata del CONDEMI fu menzionata dal FERRARO, e
che, almeno quanto all’orario, lo fu a sproposito.
L’episodio venne perciò inserito nel quadro del
tentativo che, secondo entrambe le sentenze di merito,
gli imputati ma soprattutto Salvatore FERRARO fecero
costantemente, di procurarsi un alibi (falso) per la
mattina del 9 maggio; sostenendo quest’ultimo, in
particolare, che alle 12 era in casa e ricevette una
telefonata.
* * * * *
Un tale (asserito) tentativo di ricerca dell’alibi
da parte degli imputati va a sua volta inserito,
secondo l’accusa, in quel “clima di omertà” creatosi
all’interno dell’Istituto di Filosofia del Diritto e
82
“contro” gli inquirenti, di cui parla anche la sentenza
della Cassazione.
Questo “clima” – testimoniato da numerose
conversazioni intercettate nelle quali diverse persone
facenti capo all’Istituto si istigano l’un l’altro alla
“resistenza” nei confronti degli inquirenti – avrebbe
sostenuto sia l’atteggiamento negativo di molte persone
informate dei fatti – in primo grado erano ben cinque
gli imputati di favoreggiamento, senza contare il
LIPAROTA e lo stesso FERRARO -, sia, appunto,
l’attività del FERRARO e dello SCATTONE, ma soprattutto
del primo, volta a cercare testimonianze compiacenti
proprio sull’alibi.
In definitiva però – e ovviamente le difese degli
attuali imputati non mancano di rilevarlo con forza –
nessuna “omertà” è stata dimostrata, tanto che tutti
gli imputati di favoreggiamento personale furono
assolti fin dal primo grado, e in appello è stata
confermata l’assoluzione anche per il prof. ROMANO, il
solo di costoro contro il quale l’accusa avesse
proposto impugnazione; peraltro, anche FERRARO e
LIPAROTA – originariamente accusati di omicidio in
concorso – devono ora rispondere soltanto di
favoreggiamento personale avendo tutte le parti fatto
acquiescenza rispetto al mutamento del titolo di reato
loro attribuito con le sentenze di merito.
83
LE RISULTANZE DEL GIUDIZIO DI APPELLO
Nel dibattimento che si è svolto in grado di
appello si sono acquisiti ulteriori elementi di fatto,
che certamente potranno e dovranno essere tuttora
considerati da questa Corte.
La Cassazione, infatti, ha annullato la sentenza
di appello, ma non il giudizio di secondo grado, in
nessuna sua parte; in particolare, pur sottoponendo a
critica la decisione di quel giudice – che ha disposto
nuove perizie tecniche riaprendo l’istruttoria
dibattimentale dopo la discussione finale – non ha
dichiarato la nullità né della relativa ordinanza né
delle perizie espletate in esecuzione di essa.
I nuovi elementi di fatto così acquisiti
riguardano:
– la sicura riaffermazione da parte della ALLETTO
del particolare secondo il quale mentre lei stava per
entrarvi uscì dall’aula 6 un uomo alto vestito di nero,
certamente estraneo all’ambiente in quanto a lei
sconosciuto, e mai identificato né indicato da altri;
– l’esposizione da parte dei funzionari di
polizia Nicolò D’ANGELO, Carmine BELFIORE e Giuseppe
SENESE dei loro contatti con LIPAROTA in occasione del
suo arresto, da cui è risultato che gli furono fatti i
nomi riferiti dalla ALLETTO, compreso quasi certamente
84
quello di Giovanni SCATTONE, ma non una minuta
descrizione delle posizioni e dei movimenti di
ciascuno;
– le nuove perizie balistica, chimica,
esplosivistica, nanometrica o “nanotecnologica”.
* * * * *
I risultati complessivi dei nuovi accertamenti
tecnici – che hanno tenuto conto, ovviamente, di tutti
i rilievi, gli elaborati e i pareri precedenti –
possono così riassumersi, di cui si dirà più ampiamente
in seguito:
– la carica di innesco della cartuccia che uccise
Marta RUSSO sicuramente conteneva Fosforo (senza
Antimonio) questo è ormai un dato certo, che conferma
l’ipotesi che si trattasse di una cartuccia di marca
ELEY, unica Casa conosciuta che adoperasse il Fosforo
nell’innesco;
– la particella binaria Antimonio-Bario repertata
sul davanzale della finestra dell’aula 6 certamente non
proviene dall’innesco della cartuccia che uccise Marta
RUSSO (o almeno non proviene soltanto dall’innesco);
– è stato trovato Antimonio – in diverse
associazioni con altre sostanze – sulla cute del cranio
della vittima, sui capelli e nella zona caudale del
proiettile repertato;
– queste particelle, per la loro posizione,
costituiscono tutte, quasi certamente, dei sicuri
85
residui di sparo lasciati dal proiettile, la cui
composizione contiene, antimonio quale indurente;
– vi sarebbe pertanto una traccia (una “scia”) di
antimonio che partendo dal citato davanzale raggiunge i
capelli dell’uccisa, la sua cute sul cranio e la zona
caudale del proiettile recuperato;
– nella zona caudale del proiettile sono state
individuate, tra le altre, sei particelle “quaternarie”
composte da Fosforo, Piombo, Calcio e Bario con
Silicio;
– all’interno della borsa di FERRARO è stata
repertata una particella composta anch’essa da Fosforo,
Piombo, Calcio e Bario, con Silicio, di composizione
simile all’innesco ELEY;
Inoltre, un risultato del tutto “paritario” sul
piano probatorio è stato ottenuto dalla nuova perizia
balistica tesa a ricostruire “a ritroso” il reale
percorso del proiettile (e dunque a determinare il
punto da cui fu sparato), prendendo in considerazione
la gamma di angolature ricavabili dalle caratteristiche
tutte della ferita prodotta e dalle diverse probabili
posture del capo della vittima. Si è trattato di un
lavoro che ha portato a “restringere” un campo di
indagine teoricamente sterminato: si sono infatti
determinate con precisione relativamente poche
traiettorie, aventi origine da diversi punti di sparo
ragionevolmente possibili, e ad un tempo collegabili a
posizioni della testa di Marta RUSSO fisiologicamente
accettabili, anche in funzione delle testimonianze
circa la sua posizione e le sue movenze nel frangente.
86
Tuttavia sono rimaste “compatibili”, in base alla
posizione della testa, quindici traiettorie (oppure
diciannove, a seconda della tolleranza di errore
prescelta) che intersecano tanto la finestra del bagno
quanto quella dell’aula 6; sei (oppure otto)
traiettorie che invece intersecano solo la finestra del
bagno; e altrettante che intersecano soltanto quella
dell’aula 6.
– all’esterno della borsa “TURBO” di SCATTONE
esiste una particella ternaria Antimonio-Piombo-Bario
che è considerata dalla letteratura un generico residuo
di sparo, ma essa è probabilmente effetto del
cosiddetto “inquinamento innocente” o accidentale, così
come altre tracce, però binarie, trovate sugli
indumenti suoi e di FERRARO; oltre ad una, addirittura
ternaria e sicuro residuo di sparo, trovata a “LA
SAPIENZA” nello studio di tale prof. COSTANTINO e
sicuramente lasciata dalle armi dei poliziotti;
– tre fibre di vetro sono state repertate nel
proiettile che uccise Marta RUSSO; durante la perizia
si rinvenne una fibra di vetro sul davanzale della
finestra n. 6 e “una presenza notevole” di fibre di
vetro nel bagno a piano terra; la Corte d’Assise
d’Appello ha respinto, dato il tempo trascorso, una
nuova perizia sui materiali eventualmente rinvenibili
nella stanza n. 6 e nel bagno disabili;
– altre particelle repertate sui davanzali di
altre finestre o su altri edifici potrebbero ritenersi
provento di inquinamento ambientale e non sono
87
compatibili con le altre particelle di interesse nel
processo.
* * * * *
88
LE DECISIONI DI MERITO
I MOTIVI DI IMPUGNAZIONE
In base agli elementi sopra esposti, la Corte
d’Assise di Roma con la sentenza impugnata, che è
oggetto di questo giudizio:
– ha condannato il solo SCATTONE per omicidio
colposo – ritenendo che avesse sparato imprudentemente,
senza sapere che l’arma fosse carica -, con i connessi
reati di detenzione e porto di arma comune da sparo,
alla pena di sette anni di reclusione e 200.000 lire di
multa;
– ha condannato il FERRARO per favoreggiamento nei
confronti dello SCATTONE alla pena di quattro anni di
reclusione;
– ha assolto il LIPAROTA, qualificando come
favoreggiamento personale i fatti attribuitigli, perché
non punibile per aver agito in stato di necessità;
– ha assolto dal reato di favoreggiamento la
ALLETTO, anch’essa per aver agito in stato di necessità
ai sensi degli artt. 54 e 384 del CP.;
– ha assolto dalle varie ipotesi di
favoreggiamento personale il Prof. ROMANO, il BASCIU,
la URILLI e la MARCUCCI, con formule varie;
– ha applicato le pene accessorie di legge;
89
– ha condannato SCATTONE e FERRARO al risarcimento
dei danni e alla rifusione delle spese in favore delle
parti civili Donato RUSSO, Aureliana JACOBONI in RUSSO,
Tiziana RUSSO, Università degli Studi di Roma “LA
SAPIENZA”; danni da liquidarsi in sede civile, con
provvisionale di 200 milioni di lire per ciascuno dei
tre congiunti della vittima, a carico di SCATTONE.
* * * * *
La Corte d’Assise d’Appello – appellanti gli
imputati SCATTONE e FERRARO, nonché la pubblica accusa
contro le assoluzioni degli imputati ROMANO e LIPAROTA
e contro la derubricazione del reato per SCATTONE -:
– ha confermato l’assoluzione del Prof. ROMANO;
– ha ritenuto lo SCATTONE colpevole di omicidio
colposo aggravato dalla previsione dell’evento, il
FERRARO colpevole di favoreggiamento e dei connessi
reati in materia di armi; il LIPAROTA colpevole di
favoreggiamento personale, infliggendo a ciascuno le
pene ritenute congrue con le connesse pene accessorie e
le relative statuizioni civili.
* * * * *
La sentenza di secondo grado, come detto, è stata
annullata in toto nei confronti dello SCATTONE e del
FERRARO – con conseguente estensione anche alla
posizione del LIPAROTA, strettamente connessa sul piano
probatorio – ed anche rispetto alla questione,
anch’essa connessa, della utilizzabilità (e rilevanza)
90
della deposizione di Rosangela VILLELLA; anche se in
altra parte della stessa sentenza (pagina 37) la
questione della utilizzabilità della VILLELLA sembra
data – incidenter tantum – per scontata.
La causa è stata rimessa a questa Corte con gli
stessi poteri – salvo ovviamente il giudicato interno
– che aveva il giudice d’appello tenendo conto dei
principi di diritto stabiliti dalla Suprema Corte:
tornano dunque in primo piano i motivi di impugnazione
avverso la sentenza di primo grado.
* * * * *
Con i motivi d’appello del Procuratore della
Repubblica si insiste perché il fatto di aver cagionato
la morte di Marta RUSSO, che la sentenza di appello ha
attribuito al solo SCATTONE e non anche al FERRARO (e
di cui ormai deve rispondere soltanto lo SCATTONE)
venga qualificato come omicidio volontario commesso con
dolo eventuale, o quanto meno, e in subordine, come
omicidio colposo con l’aggravante della previsione
dell’evento.
Lo SCATTONE portò e comunque maneggiò nell’aula 6
una pistola carica e munita di silenziatore; sparò
affacciandosi all’esterno; certamente si avvide del
viavai di persone che vi era nei viali dell’Università;
sparò dall’alto verso il basso e accettò dunque il
rischio di colpire qualcuno. Se davvero avesse ignorato
che l’arma fosse carica, l’avrebbe puntata all’interno
della stanza.
91
Anche il FERRARO, secondo il PM appellante –
coperta dal giudicato interno la derubricazione
dell’originaria imputazione di omicidio nel reato di
favoreggiamento -, deve rispondere anche dei reati di
detenzione e porto illegale di pistola originariamente
contestati; essi sono sussistenti, quanto meno per aver
portato via la pistola dopo il fatto nella sua borsa,
essendo del tutto attendibili, nei confronti del
FERRARO come dello SCATTONE, le dichiarazioni
accusatorie di ALLETTO e di LIPAROTA, confortate da
LIPARI e OLZAI.
Devono anzi essere ritenute utilizzabili, e
valorizzate dal punto di vista probatorio, le
dichiarazioni della VILLELLA, madre del LIPAROTA, che
costituiscono una terza voce a carico degli imputati
principali e in ordine al fatto principale.
Quanto al LIPAROTA, a parere dell’Ufficio
appellante (nel suo caso oltre al PM ha impugnato anche
il PG) non sussistono gli elementi costitutivi dello
stato di necessità che gli è stato riconosciuto, atti a
scagionarlo dal delitto di favoreggiamento personale.
Secondo il suo stesso racconto, FERRARO gli
avrebbe prospettato delle mai precisate “ritorsioni”,
del tutto indeterminate e fumose sia nell’an sia nel
quando; né il fatto che il padre del minacciante fosse
direttore di banca poteva ingenerare nel minacciato un
timore particolare.
Si chiede dunque la condanna del LIPAROTA per
favoreggiamento personale.
92
Nei motivi d’appello se ne chiedeva la condanna
anche per concorso nei reati di detenzione e porto
illegale di pistola, essendo evidente, per l’accusa, il
concorso morale da parte sua; da questi reati tuttavia
il LIPAROTA è stato assolto in grado d’appello senza
ulteriore impugnazione, onde rimane a suo carico –
anche per l’esplicita delimitazione del rinvio da parte
della Cassazione – il solo reato di favoreggiamento
personale.
* * * * *
Quanto alle impugnazioni degli imputati è da
precisare che furono presentati motivi d’appello anche
nell’interesse del LIPAROTA, malgrado fosse stato
assolto in primo grado. Si chiedeva infatti per lui
l’assoluzione piena nel merito, definendosi come
sbagliato l’aver ritenuto l’effettiva commissione da
parte sua di un favoreggiamento personale (con condotta
peraltro meramente omissiva) ed insoddisfacente il
“rimedio” riconosciutogli dello stato di necessità.
Peraltro, in linea generale si muove, come del
resto fanno gli altri due imputati, un appunto di fondo
alla sentenza di condanna, che è fondata su prove
assolutamente inidonee.
Le prove tecniche e di generica, per quanto
riviste e tardivamente rettificate, comunque si
avventurano nel campo delle probabilità e lasciano una
totale incertezza circa il reale svolgimento
dell’accaduto; quelle di specifica consistono in una
serie di dichiarazioni avventurose e inattendibili,
93
sempre diverse col procedere del tempo, e che comunque
nel loro complesso non raggiungono il livello della
prova piena.
E’, questo delle prove di specifica, un punto che
riguarda tutti gli imputati, ma che è stato ampiamente
trattato oralmente dalla difesa di LIPAROTA, con
osservazioni di cui si terrà conto in sede di
motivazione.
In ogni caso – prosegue la sua difesa – doveva
essere applicata l’esimente di cui all’art. 384 CP, per
due motivi:
– sotto il profilo dell’autofavoreggiamento
mediato, per essere stato costretto il LIPAROTA a
negare la propria presenza in aula 6 (e ad affermare
dunque la propria ignoranza sulla condotta di SCATTONE
e di FERRARO) dalla necessità di difendersi
dall’accusa, che gli veniva mossa, e per cui fu
addirittura tratto in arresto, di concorso in omicidio
volontario;
– sotto il profilo dell’ingiustificata disparità
di trattamento rispetto alla coimputata Gabriella
ALLETTO.
Sotto il primo profilo, anzi, essendo il LIPAROTA
imputato di omicidio in concorso con SCATTONE e
FERRARO, egli non poteva giuridicamente commettere il
reato di favoreggiamento, il quale riguarda, appunto,
chi non sia concorrente nel delitto; ed in ogni caso
egli, per respingere l’accusa di omicidio volontario
che gli veniva mossa, non poteva che negare la propria
presenza nell’aula 6 dalla quale secondo l’accusa si
94
era sparato, necessariamente negando, di conseguenza,
di aver visto o sentito alcunchè.
Quanto al secondo profilo, la situazione di
Gabriella ALLETTO e di Francesco LIPAROTA, a parte il
merito specifico della loro effettiva presenza o meno
nell’aula, era comunque identica: entrambi secondo
l’accusa si trovavano in aula 6; entrambi per lungo
tempo lo hanno negato; entrambi poi lo hanno ammesso;
entrambi hanno accusato FERRARO e SCATTONE; al termine
del processo di primo grado erano stati entrambi
assolti per lo stato di necessità dovuto alla
“pressione” che l’ambiente “omertoso” dell’Università
avrebbe esercitato su di loro, che rivestivano
qualifiche diverse ma in certo senso analoghe in quanto
entrambi dipendenti ed in posizione subordinata.
Sennonché l’accusa ha impugnato, in maniera del
tutto immotivata e ingiustificata, la sola assoluzione
del LIPAROTA, lasciando passare in giudicato quella
della ALLETTO: ritenendo valido per la donna, ma non
per il LIPAROTA, il peso della “pressione ambientale”,
che non si vede perché non dovesse opprimere anche lui,
per giunta direttamente minacciato dal FERRARO.
A meno che – osserva la difesa – ciò non sia
dipeso dal diverso atteggiamento processuale (la prima
ha tenuto ferme le accuse, il secondo le ha
ritrattate), trasformando rispettivamente in “premio”
ed in “vendetta” ciò che dovrebbe costituire soltanto
equo ed equilibrato esercizio di facoltà volte alla
ricerca di giustizia e verità.
95
In presenza della mancata impugnazione da parte
dell’accusa della assoluzione pronunciata nei confronti
della ALLETTO si è determinato, secondo la difesa del
LIPAROTA, un “giudicato interno” che rende irrevocabile
l’accertamento – “erga omnes” e dunque anche nei
confronti di LIPAROTA – circa l’esistenza ed il “peso”
del “clima” presente all’interno dell’Istituto di
Filosofia del Diritto.
L’impugnazione proposta a carico del solo LIPAROTA
determina, secondo la sua difesa, non soltanto una
ingiustizia oggettiva, ma una contraddittorietà
intrinseca rispetto ad un punto che in realtà è coperto
da giudicato: contraddittorietà tale da comportare, per
via dell’erroneo esercizio del potere di impugnazione
da parte del PM, la inammissibilità originaria del
gravame proposto contro il LIPAROTA.
L’atteggiamento dell’Ufficio del PM rivela anzi
una sostanziale mancanza di interesse, per la pubblica
accusa, a coltivare verso il LIPAROTA l’accertamento di
una situazione “gemellare” la cui “difesa” si era
abbandonata quanto ad una delle due sponde (la
ALLETTO).
Peraltro, la scriminante della necessità doveva
essere riconosciuta anche per il motivo che è da
ritenersi illogica la valutazione fatta circa il
pericolo costituito dalle minacce di FERRARO, che sono
più gravi proprio perché indeterminate e dunque non
fronteggiabili; quanto meno essa doveva essere
dichiarata sussistente sotto il profilo putativo
secondo la previsione dell’art. 59 comma 4 CP.
96
In proposito non si comprende, secondo la difesa
del LIPAROTA, secondo quale logica e coerenza la
pubblica accusa sostenga, per argomentare la
responsabilità di Giovanni SCATTONE e di Salvatore
FERRARO, che quest’ultimo avrebbe subito pesantemente
minacciato di “ritorsioni” il LIPAROTA, ma poi non
riconosca all’appellante di aver potuto subire un
qualsiasi effetto da queste minacce, ritenute certe.
Infine si critica sotto diversi profili l’entità
della pena inflitta.
* * * * *
Assai articolati gli appelli, anche con motivi
aggiunti, degli imputati SCATTONE e FERRARO.
Da parte di Salvatore FERRARO si contesta in primo
luogo l’impianto della sentenza impugnata, in quanto
essa contravviene ai più elementari canoni di
valutazione della prova.
Si prende il via da quello che viene definito come
un ormai conclamato errore di partenza – quello del
consulente del PM dott. FALSO, che fin dal 21 maggio
aveva creduto di individuare sul davanzale dell’aula 6
un sicuro residuo di sparo –, per “costruire” attorno
alle telefonate di Maria Chiara LIPARI tutta una storia
a tappe: con asseriti, inaffidabili, incredibili ed
impossibili riaffioramenti di memoria, espressi in fasi
progressive che man mano si evolvono dal nulla fino
alla compiuta rappresentazione di un fatto con ben
quattro protagonisti; il tutto sempre a posteriori, in
97
base a mere “impressioni” e con una quantità di altri
ricordi che si sono dimostrati certamente sbagliati, ma
che non hanno indotto i giudici a ritenere inaffidabile
l’intero racconto.
E’, per esempio, per l’appellante,
cronologicamente impossibile, ricostruendo con
attenzione e obiettività le sue mosse, che la LIPARI
abbia potuto udire il preteso “tonfo” del preteso
sparo, di cui peraltro si ricorda soltanto in agosto; è
diversa la posizione da lei volta per volta attribuita
alle persone a suo dire presenti nell’aula 6; è
grottesco il “balletto” riguardante il MANCINI che
appare e scompare dalla sala, senza barba, di cui però
ricorda la voce; è certamente sbagliato il ricordo, di
cui si è già parlato e che la LIPARI ha manifestato con
sicurezza anche in dibattimento, di essere uscita dalla
sala 6, tra una telefonata e l’altra, per recarsi in
aula 4.
Errore questo – dovuto al “buco” di quattro minuti
rivelatosi inesistente – particolarmente significativo
perché non casuale, ma “guidato” dalla necessità di
mentire per essersi in un primo tempo supposto di dover
“coprire” un intervallo di tempo tra l’una e l’altra
telefonata; “necessità di mentire” alla quale, secondo
le difese, Maria Chiara LIPARI non si sottrae affatto.
Proseguendo nella composizione di un quadro
totalmente artificiale di prove, gli inquirenti,
malgrado la inaffidabilità della LIPARI, puntano tutto
su Gabriella ALLETTO per risolvere il caso.
98
Illuminante, per l’appellante, è il ripercorrere
le fasi del suo voltafaccia, operato quando da “persona
informata dei fatti” ella è diventata “indagata”
(addirittura denunciata anch’essa dalla Squadra Mobile
per omicidio): le sue dichiarazioni sono perfettamente
opposte fra di loro, e si è “preferita” la seconda
“faccia” – quella accusatoria – senza fare uso di
corretti canoni valutativi.
In particolare, la spiegazione che essa ha
fornito, secondo cui dapprima avrebbe mentito per non
essere “coinvolta” in una testimonianza difficile, e
per il timore di venire magari anche offesa e denigrata
ed infine emarginata sul lavoro, non è sufficiente a
conferire affidabilità – ed anzi certezza di verità –
ad un cambiamento così drastico.
Né sono adeguate le altre spiegazioni introdotte
dai giudici, quali il suo preteso basso livello
culturale o lo scarso “senso civico”.
In realtà l’assoluta mancanza di reazione “a
caldo” della ALLETTO, perfino dopo aver saputo che era
stata ferita a morte una ragazza, dimostra che essa non
si sentiva per niente coinvolta, per la precisa ragione
che non sapeva nulla del fatto; e del resto moltissimi
testimoni e coimputati (BASCIU e URILLI, e poi
AVITABILE, NAPOLI, CAPPELLI, SAGNOTTI, ARMELLINI ed
altri), di cui i giudici di merito non avrebbero tenuto
conto e le cui dichiarazioni la difesa ha ripreso,
hanno affermato che ella durante le indagini diceva a
tutti di non essere stata in aula 6, anche dopo che
aveva capito che “non le conveniva dire che non c’era”.
99
Né si comprende, per l’appellante FERRARO, perché
la ALLETTO sarebbe andata in aula 6: non certo, come
dice, per cercare la LIPARI, posto che poi non si sa
più niente delle fotocopie o altre carte che le avrebbe
dovuto dare.
E’ evidente che le pressioni degli inquirenti, e
in particolare le insistenze del suo cognato
poliziotto, Gino DI MAURO – che le confermò il pericolo
di finire in carcere imputata di omicidio -, hanno
prodotto una breccia nel suo animo e nella sua mente,
inducendola ad accedere alle loro richieste. Dalla sua
stessa condotta emerge che ella si vide a un certo
punto “costretta” ad “allinearsi” alle dichiarazioni
della LIPARI, a cui gli inquirenti mostravano di
prestar fede senza riserve.
Il DI MAURO le diede anche un biglietto con
disegnata una “pianta” della stanza; cosa del tutto
inutile se non nell’ipotesi che vi fossero anche
scritti i nomi dei presunti “protagonisti” “collocati”
nella stanza; nomi che poi la ALLETTO puntualmente
fece, non perché quei “nomi” corrispondessero alla
verità, ma per sottrarsi alle pressioni divenute
insostenibili.
Ancor meno affidabile, sempre stando ai motivi
d’appello nell’interesse di FERRARO, le dichiarazioni
di Francesco LIPAROTA: il quale è anche lui bifronte.
Prima afferma di non essersi trovato affatto in aula 6,
di non aver affatto visto FERRARO, di non ricordare né
sapere niente di niente, e poi accusa.
100
La “debolezza” psicologica ed emotiva del
personaggio; il modo con cui è nata la sua
“collaborazione”, subito dopo l’arresto, accompagnato
da racconti terrorizzanti sulle condizioni di vita in
carcere e dalle indirette blandizie (“la ALLETTO ha
parlato e se ne sta tornando a casa”); l’assoluto
appiattimento delle sue dichiarazioni sul testo
dell’ordinanza di custodia in carcere, da cui potè
trarre le poche informazioni che poi fece diventare sua
“scienza”, e di cui ripeté perfino gli errori in punto
di fatto commessi dallo stesso GIP estensore del
provvedimento; l’immediata ritrattazione; i contrasti
fra l’una e l’altra delle sue versioni e con quelle di
Gabriella ALLETTO ne escludono qualsiasi credibilità.
La sua affermazione di essersi confidato con sua
madre, Rosangela VILLELLA, è chiaramente inattendibile
perché venuta in seguito a tutta una serie di
sollecitazioni al riguardo; e le dichiarazioni della
mamma, a loro volta – salva la loro inutilizzabilità
dal punto di vista della legge processuale, sulla quale
si insiste – non meritano alcuna attendibilità, sia per
l’evidente necessità di non smentire il figlio
arrestato e che stava per ottenere gli arresti
domiciliari per la sua “collaborazione”, sia perché fu
esaminata dopo che non era stato impedito ai difensori
del LIPAROTA di parlare con lei e di informarla della
situazione.
Giuliana OLZAI per la difesa di FERRARO è a sua
volta una teste quanto meno sconcertante, che si
presenta in modo sospetto ed assai tardivamente e che è
101
comunque del tutto inattendibile perché caduta in
errori e contraddizioni sugli abiti e sulle corporature
delle persone che avrebbe “riconosciuto” e che non
corrispondono agli attuali imputati.
Sempre nell’interesse dell’appellante FERRARO si
sostiene ancora che egli ha un validissimo alibi per la
mattina del 9 maggio, confermato dalla sorella Teresa,
da Marianna MARCUCCI e perfino da un telefonata
intercettata il giorno del suo arresto, da cui risulta
che anche la madre sapeva che egli si trovava a casa
quella mattina e che fu visto per strada, assieme alla
MARCUCCI, dalla sorella Teresa.
A tale quadro probatorio, del tutto inconsistente
in punto di prova specifica, si aggiungono, secondo
l’appellante, i mille dubbi e la nessuna certezza che
provengono dagli accertamenti tecnici immediati e dalle
perizie.
Concludendo dunque per la piena assoluzione del
FERRARO, si prospetta in subordine anche per lui la
tesi dell’autofavoreggiamento, ovviamente non punibile;
ed infine si contesta l’entità della pena inflitta e la
mancata concessione delle attenuanti generiche.
* * * * *
Per quanto riguarda l’appello di Giovanni
SCATTONE, anche la sua difesa muove critiche di fondo
alla sentenza di primo grado, fondata su elementi di
prova indiziaria incerti, frammentari e inattendibili;
il tutto assolutamente privo di seri riscontri, posto
102
che LIPARI, ALLETTO, LIPAROTA ed OLZAI non si
riscontrano affatto, ma sono anzi fonti “contaminate”
che si sono progressivamente e artificiosamente
allineate le une sulle altre.
Gabriella ALLETTO e Francesco LIPAROTA sono stati
addirittura costretti a mentire per difendersi
dall’ingiusta prospettazione di una ingiusta
incriminazione per omicidio; cosa che, addirittura, per
LIPAROTA è anche avvenuta.
Viene compiuto nei motivi originari ed aggiunti un
esame analitico e approfondito delle dichiarazioni di
Maria Chiara LIPARI e della sua personalità, giungendo
ad un giudizio di sua totale inaffidabilità.
E’ certo che la LIPARI nell’immediatezza non si
accorge di niente; poi è dispiaciuta e colpitissima per
l’assurda morte di una giovanissima ragazza innocente;
dodici giorni dopo le dicono che lei è l’unica
testimone utile, e subisce un fortissimo stress,
assumendo su di sé il compito di “fare giustizia”,
nella convinzione di poter “recuperare i ricordi”
secondo la sua esperienza psicanalitica, e sentendo su
di sé “tutti i mali del mondo”.
Le si mescolano, secondo l’appellante che si
avvale di un parere pro veritate, complessi di colpa e
di superiorità, l’intervento del SUPER-IO, concrete
pressioni degli investigatori, un montante disprezzo
verso l’ambiente dell’Istituto di Filosofia del Diritto
(secondo lei interessato soltanto a salvare l’immagine,
e sordo alla necessità di dare giustizia alla povera
ragazza ed ai suoi genitori), e tutto questo la conduce
103
ad un crescendo di rivelazioni fondate su pretesi
“ricordi”, in realtà falsati dal fatto di avere ella
perso qualsiasi carattere di indifferenza e di
terzietà, che costituiscono la caratteristica del
testimone.
Del resto, le sue dichiarazioni sono comunque
intessute di errori: ricorda di aver visto ARIEMMA e
SIMARI, che invece quella mattina non erano in
Istituto; colloca MANCINI, che nemmeno lui c’era,
addirittura dentro l’aula 6 e ne riconosce perfino la
voce; ricorda di essere uscita dall’aula 6 tra una
telefonata e l’altra, e certamente non è vero; senza
contare che soltanto ben settantotto giorni dopo il
fatto ricorda di aver sentito il “tonfo” e pensa di
poter affermare, sia pure non con certezza, la presenza
di Giovanni SCATTONE – ormai notoriamente arrestato –
in aula 6, dopo aver più volte dichiarato di non sapere
chi fosse la quarta persona.
Incostanza, disomogeneità, inverosimiglianza,
l’attestarsi su semplici “sensazioni”, il ricordare
“per ragionamento” e non “per percezioni”,
costituiscono per l’appellante dei limiti invalicabili
nella valutazione delle dichiarazioni della LIPARI, che
non possono costituire elemento di prova.
Gabriella ALLETTO, dal canto suo, si vide
costretta ad assecondare quelli che erano gli
evidentissimi ed anzi manifestati desideri degli
inquirenti: subì fortissime pressioni, fu accusata di
truffa per essere stata assunta quale invalida, le fu
prospettata la perdita del posto di lavoro, fu
104
minacciata di arresto addirittura per omicidio, le
furono prospettati ventiquattro anni di reclusione; fu
trattenuta in Questura per giornate e nottate intere, e
alla fine cedette, con evidenti allineamenti (frutto di
altrettanto evidenti contaminazioni) alle dichiarazioni
della Lipari di cui le era stato fatto conoscere il
contenuto.
Ella aveva dichiarato inizialmente di essere
stata, a cavallo del ferimento, tra le 11 e le 12
circa, in aula 4 a tentare di spedire il fax al Prof.
BISER; e non è vero, a parere dell’appellante, che la
teste Cristiana IANNETTI la smentisca, avendo trovato
la porta chiusa a chiave verso le 11,30; in realtà è la
IANNETTI ad essere smentita da Stefano LA PORTA.
Del resto, le frasi ricavabili dal suo colloquio
dell’11 giugno 1997 col cognato Gino DI MAURO,
sottoposto ad intercettazione, sono quanto mai
esplicite: “Giuro sulla testa dei miei figli”, “mi
converrebbe dire che c’ero ma non c’ero”,
“bisognerebbe sapere chi è il terzo”; frasi che ben si
accordano col contegno distaccato che ella tenne
nell’immediatezza del fatto – riferito per esempio
dalla teste dott.ssa RAGNO -, e che è proprio di chi
non è coinvolto.
Di fronte a tale atteggiamento, la ALLETTO –
osserva l’appellante – non ha spiegato il suo
rovesciamento di posizione, fornendo, riguardo alla sua
“risoluzione di collaborare”, delle motivazioni del
tutto inadeguate (la “gentilezza” dei nuovi
inquirenti), che ne confermano l’inattendibilità. Né
105
alcun rilievo può essere dato alla pretesa “autonomia”
della sua “chiamata in reità”, legata al fatto che ella
fece il nome di Giovanni SCATTONE che la LIPARI non
aveva fatto, dato che l’indicazione di SCATTONE come
“sospettato” era già uscita addirittura sui giornali.
Non tanto diversa, nei motivi d’appello prodotti
nell’interesse di SCATTONE, viene valutata la posizione
di Francesco LIPAROTA quale accusatore.
Pressioni, domande suggestive, blandizie, minacce
di arresto e poi l’arresto effettivo per omicidio –
quando già si sapeva che certamente non aveva sparato
né concorso nel delitto in altro modo; arresto
accompagnato dall’informazione che la ALLETTO se ne era
tornata tranquillamente a casa – ne hanno minato la già
fragile personalità (ai limiti del patologico sul piano
volitivo se non su quello intellettivo), inducendolo a
dire ciò che gli inquirenti volevano che dicesse, pur
di evitare il carcere.
Malgrado ciò, sono evidenti, secondo l’appellante,
le “fratture” tra le dichiarazioni sue e quelle di
Gabriella ALLETTO, nelle parti che non sono ricavabili
dall’ordinanza di custodia cautelare che egli si era
“studiato”: per esempio, non sa descrivere la pistola,
colloca i personaggi in posizioni differenti, e
“sbaglia” nell’indicare chi avrebbe portato via la
borsa.
Senza contare l’immediata e per lui rischiosa
ritrattazione, sempre da allora tenuta ferma.
Giuliana OLZAI è per l’appellante SCATTONE una
mitomane, una testimone tardiva e “provvidenziale”, ben
106
manovrata dalla polizia per rimettere in sesto una
accusa che vacillava dopo la ritrattazione di LIPAROTA;
che si presenta con insolite modalità – un giornalista
che la porta dal magistrato, perché lei dice di voler
evitare la Polizia -; che invece ha avuto con la
Polizia rapporti fiduciari (due suoi fratelli erano
coinvolti anni fa nel sequestro di persona di Dante
BELARDINELLI, ed ella lanciò un appello ai rapitori
perché rilasciassero l’ostaggio).
La sua testimonianza comunque non è lineare, ci
sono nelle sue varie versioni modifiche e
aggiustamenti, circa gli abiti dei due uomini da lei
asseritamene incontrati e in ordine alla borsa a suo
dire tenuta da uno dei due; inoltre risulta che il 12
giugno, quando ella avrebbe visto SCATTONE per la
seconda volta, questi certamente indossava calzoni
color crema e non scuri come da lei descritto.
Quanto all’alibi prospettato dall’appellante, esso
è perfettamente dimostrato, giacchè:
– il Prof. LECALDANO il 9 maggio era a Villa
Mirafiori e incontrò lo SCATTONE;
– l’incontro è certamente avvenuto di venerdì, e
non può essere avvenuto in altro giorno che il 9, sia
perché il Prof. LECALDANO dette allo SCATTONE il
programma “vecchio” per il convegno sull’ETICA, sia per
i dati sugli impegni del Professore ricavabili dalla
stessa agenda;
– il certificato della Segreteria della facoltà di
Lettere è del 9 maggio, è rilasciato a Giovanni
SCATTONE, è firmato dall’impiegata di sportello
107
Marcella FALSI, e non è lecito accettare come prova
contraria la mera ipotesi che possa essere stato
ritirato da altra persona o in altra data.
– infine il sopraggiungere dello SCATTONE in
Istituto di Filosofia del Diritto, con i relativi
orari, che sono successivi al ferimento di Marta RUSSO,
è dimostrato dalle testimonianze congiunte e
convergenti di Pierpaolo FIORINI e di Stefano LA PORTA.
E’ grave comunque, in diritto, il fatto che non
sia stata dimostrata l’indipendenza fra loro delle
dichiarazioni indizianti di Gabriella ALLETTO,
Francesco LIPAROTA e Giuliana OLZAI: la “autonomia”
delle fonti di riscontro è considerata essenziale dalla
giurisprudenza e dalla dottrina.
Naturalmente anche per l’imputato SCATTONE si
avanzano osservazioni e rilievi per quanto attiene alla
prova generica ed alle perizie tecniche; argomenti,
peraltro, che sono in parte superati dalla perizie
espletate in appello, in parte superati dalle
osservazioni della Cassazione, e per il resto analoghi
a quelli già trattati in precedenza.
Si chiede dunque, per SCATTONE, la piena
assoluzione dell’imputato; in subordine la riduzione
della pena al minimo edittale, il minimo aumento per la
continuazione, la revoca delle pene accessorie e i
doppi benefici, e la revoca della provvisionale in
favore delle parti civili.
* * * * *
108
* * * * *
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
I PRINCIPI DI DIRITTO
E LA PORTATA DEL RINVIO
109
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
Poiché questo giudizio comporta il riesame
completo delle risultanze probatorie alla luce dei
principi di diritto stabiliti dalla Cassazione con la
sentenza di annullamento, è opportuno procedere ad un
esame particolareggiato della decisione della Suprema
Corte in considerazione della sua complessa ed
articolata motivazione e della precisa indicazione
delle ragioni e dei limiti del rinvio.
* * * * *
La Corte di Cassazione dunque ha accolto –
testualmente – “i ricorsi di SCATTONE e di FERRARO”,
riscontrando, “sia pure in un’ottica diversa da quella
prospettata dai loro difensori”, una erronea
valutazione, da parte della Corte d’Assise d’Appello,
innanzitutto della prova specifica; valutazione
effettuata con violazione delle norme contenute
nell’art. 192 CPP.
Su questa erronea valutazione della prova è stata
fondata la stessa decisione di merito circa la
responsabilità dei due imputati. Tale eventuale
responsabilità, però, previa sostituzione dei criteri
errati utilizzati nel giudizio di appello con quelli
corretti dettati dalla Suprema Corte, costituisce
ancora un problema aperto – il principale thema
decidendum del processo –, che deve essere affrontato
ex novo con l’impiego dei corretti principi
interpretativi dettati in sentenza.
110
Precisa la Cassazione che la propria decisione
trascina con sé, per connessione, sia l’esame della
posizione del presunto favoreggiatore Francesco
LIPAROTA e della sua condizione psicologica in ordine
al fatto, sia, naturalmente, quella del titolo del
reato di cui eventualmente l’imputato Giovanni SCATTONE
dovrà rispondere: di qui la conseguenza che, restando
impregiudicati ed assorbiti i ricorsi in Cassazione del
Procuratore Generale e del LIPAROTA (che non sono stati
esplicitamente né accolti né respinti), l’ambito
decisionale demandato a questo Collegio è il più ampio,
con poteri pari – per quanto di ragione in relazione al
giudicato interno o progressivo – a quelli che aveva il
giudice d’appello. Tale ambito decisionale comprende
espressamente la responsabilità o meno di ciascuno dei
tre imputati, il titolo di reato al quale ricondurre
l’uccisione di Marta RUSSO, l’utilizzabilità della
testimonianza della VILLELLA e le statuizioni civili.
* * * * *
Quanto al vizio di motivazione che ha condotto
alla cassazione della sentenza annullata, esso risiede
testualmente nella “violazione della regola di
giudizio espressa dall’art. 192 comma 3 del CPP”, nel
senso che “ai fini della valutazione probatoria delle
dichiarazioni di un soggetto non si può prescindere
dalla qualifica formale al medesimo attribuibile nel
processo in cui sono state rese”.
La legge infatti, tra coloro che rendono
dichiarazioni accusatorie nell’ambito del processo,
111
distingue nettamente – ancor più ora, dopo la riforma
dell’art. 111 della Costituzione e le relative norme
attuative, ma anche al tempo del processo e delle
indagini – diverse posizioni processuali.
Si individua da un lato la figura del vero e
proprio testimone, tendenzialmente terzo, neutrale e
disinteressato, obbligato dalla legge a riferire tutta
la verità; dall’altro quella dell’indagato o imputato
che renda dichiarazioni a carico di un altro imputato e
sia quindi “chiamante in correità” o “in reità”. Il
“chiamante”, in quanto a sua volta indagato o imputato,
potrebbe non essere disinteressato nelle proprie
dichiarazioni, ed è perciò, in qualche misura,
sospettabile di mentire, quanto meno in propria difesa.
Di qui tutto il pluridecennale e copiosissimo
dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla
“chiamata di correo”, come si diceva, “vestita” o
“ignuda”; l’acuirsi della rilevanza di questa tematica
in seguito al recente dilagare del fenomeno del
cosiddetto “pentitismo”; ed infine la sua
regolamentazione normativa nel nuovo Codice di
Procedura Penale, ancora seguita da un vero e proprio
travaglio interpretativo in dottrina e in
giurisprudenza, da contrastate pronunce della Corte
Costituzionale e da diverse riforme succedutesi negli
ultimi anni.
Tuttavia fin dal 1989 testimone e chiamante sono
soggetti ad una disciplina normativa distinta e
diversa; queste norme sono da osservarsi
obbligatoriamente da parte del giudice; la loro
112
violazione si traduce in vizio della motivazione per
inosservanza di legge.
Proprio questo è, per la Cassazione, l’errore di
fondo che inficia la sentenza annullata.
* * * * *
Secondo legge, dottrina e giurisprudenza, le
dichiarazioni del testimone, una volta accertata la sua
personale attendibilità, costituiscono, da un punto di
vista astratto, anche da sole, una “prova”, che non ha
bisogno di altri sostegni; le dichiarazioni del
“chiamante”, invece, oltre a dover sottostare ad un
preciso e articolato vaglio di attendibilità – sul
piano della autonomia e della spontaneità delle
dichiarazioni che siano tali di escludere ogni
collusione, del disinteresse ad accusare, della
coerenza, della fermezza, della precisione, della
intrinseca verosimiglianza e così via -, non bastano da
sole, ma richiedono, per poter essere considerate come
“prova”, un qualcosa di più (i cosiddetti “riscontri”
esterni): “altri elementi di prova – dice la legge –
che, valutati unitamente al contenuto delle
dichiarazioni, valgano a confermarne la attendibilità”.
L’errore riscontrato nella sentenza d’appello è
stato appunto quello di aver posto sullo stesso piano
tutti gli elementi di prova specifica – e in
particolare le dichiarazioni di Maria Chiara LIPARI e
Giuliana OLZAI, testimoni, e di Gabriella ALLETTO e
Francesco LIPAROTA, “chiamanti in reità” -, utilizzando
113
i medesimi parametri di giudizio e componendo un
mosaico che non tiene conto delle peculiarità
soggettive processuali delle varie “fonti”.
E’ da qui, dunque, che si trae il principio di
diritto a cui questa Corte di rinvio si dovrà attenere,
distinguendo opportunamente, sul piano valutativo, le
situazioni processuali delle “fonti”.
* * * * *
Ma la sentenza della Cassazione muove altre
critiche alla sentenza annullata, e stabilisce per
questa Corte ulteriori direttive che dovranno essere
seguite.
Occorrono al riguardo due premesse.
La prima.
Come meglio si è visto dalla narrazione del fatto,
delle indagini e del processo, buona parte del quadro
accusatorio verte sulle dichiarazioni di quattro
persone (a prescindere, in questo momento, dalle
modalità di acquisizione dei loro contributi e dalla
loro valutazione): due testimoni, Maria Chiara LIPARI e
Giuliana OLZAI, e due “chiamanti” in reità o correità,
Gabriella ALLETTO e Francesco LIPAROTA.
La distinzione non è di poco momento, giacchè
mentre i due chiamanti ALLETTO e LIPAROTA secondo
l’accusa assistettero allo sparo del colpo di pistola
che uccise Marta RUSSO, le due testimoni (LIPARI e
OLZAI) in realtà non videro niente “di penalmente
rilevante”, ma riferirono circostanze immediatamente
precedenti e susseguenti allo sparo: circostanze,
114
perciò, anche magari assai significative, ma non
determinanti per la attribuzione di responsabilità
penale – personale e specifica. E allora per la
Cassazione è inutile, o quasi, attardarsi sulla LIPARI
che alcune settimane dopo il fatto ricorda la presenza
di Ferraro dentro l’aula 6, e tre mesi dopo, “forse”,
anche quella di SCATTONE: i quali, l’uno e l’altro, per
lei non fanno niente “di penalmente rilevante”.
In realtà sono ALLETTO e LIPAROTA quelli che –
salvo attendibilità e riscontri – “c’erano”; quelli che
hanno “visto” e che “parlano”; e qui è il processo.
La seconda premessa.
Nel tentativo di esporre con ordine, razionalità
ed obiettività il materiale probatorio, divenuto man
mano estremamente complesso, la sentenza annullata – e
di più ancora, per verità, la sentenza di primo grado –
prendono l’avvio dal momento iniziale dell’episodio
(l’inopinata caduta di Marta RUSSO nel vialetto
dell’Università, stroncata da un colpo di pistola alla
testa), per poi ripercorrere passo passo tutto il
dipanarsi delle indagini.
Si espone come le investigazioni fossero partite
“a tutto campo” con diverse ipotesi di lavoro e
numerose persone sospette, e come poi si restrinsero,
per l’individuazione da parte del consulente chimico
della finestra da cui sarebbe partito il colpo (la
finestra n. 4 della stanza n. 6); fino a che Maria
Chiara LIPARI non ebbe ad indicare ALLETTO e LIPAROTA
come persone presenti nella stanza medesima, fino a che
la ALLETTO prima ed il LIPAROTA poi non ebbero a
115
dichiarare di aver visto SCATTONE sparare e uno dei due
uscire con la pistola nascosta in una borsa; fino a che
la OLZAI riferì di essersi imbattuta in FERRARO e
SCATTONE che affannosamente e turbati uscivano
dall’Istituto sostanzialmente sul retro, e praticamente
scappavano dallo stabile.
Una tipica narrazione “ad imbuto”, secondo una
tecnica usuale in casi consimili, che parte dalle prime
indifferenziate indagini “ad ampio spettro” e poi
mostra il progressivo restringimento del quadro
investigativo, fino a giungere alla specifica
individuazione dell’imputato come autore del fatto,
giustificata dalle indicazioni a suo carico man mano
emerse: una narrazione encomiabilmente accompagnata
dalla minuziosa esposizione critica degli elementi di
prova, con l’illustrazione delle innumerevoli
precisazioni, dei distinguo, dei controlli e delle
considerazioni che le particolarità del caso
richiedevano.
Ma proprio nel far ciò, nel seguire questo metodo
espositivo per così dire cronologico, è divenuto in
certo senso inevitabile che entrambe le sentenze di
merito cadessero, quasi inavvertitamente, nell’errore
individuato dalla Cassazione.
Nell’intento, cioè, di evidenziare i vari
“passaggi” da un risultato all’altro man mano
conseguito nelle investigazioni, si sono esposte le
diverse dichiarazioni “una dopo l’altra”, man mano che
le si acquisiva; ma in tal modo si sono inevitabilmente
messi “sullo stesso piano” i testimoni e i chiamanti
116
che man mano consentivano alle indagini di “procedere”
(nell’ottica accusatoria); se ne è valutata
l’attendibilità in modo per così dire paritario, man
mano che il relativo contributo veniva acquisito; si è
provveduto ad accurate osservazioni sul piano umano e
psicologico oltrechè su quello storico e fattuale,
anche eventualmente rispetto ai dati di generica
scaturenti dagli accertamenti tecnici; ma si è finito
col perdere di vista le regole obbligatorie dettate
dall’art. 192 comma 3 del CPP.
* * * * *
La Suprema Corte ha colto questa pecca sotto
entrambi i profili derivanti dalle osservazioni testè
riassunte, ed ha riconosciuto un difetto di motivazione
non soltanto nel dato astratto – ed incontrovertibile –
del diverso “status” processuale di chi è “chiamante”
rispetto a chi è testimone, e del conseguente diverso
“regime” di valutazione; bensì nel non aver inteso che
la regola contenuta nell’art. 192 comma 3 informa di sé
non solo la valutazione in senso stretto delle
dichiarazioni di testi e chiamanti, ma lo stesso
impianto argomentativo della decisione.
“In presenza della duplice chiamata in correità
della ALLETTO e del LIPAROTA – scrive la Cassazione –
l’approccio logico argomentativo nella valutazione
delle risultanze processuali andava assolutamente
ribaltato, prendendo l’avvio dalle dichiarazioni
accusatorie dei due indagati”.
117
Questa Corte condivide pienamente tale
impostazione (pur a prima vista sconcertante), giacchè
essa a ben vedere non riguarda soltanto l’astratta
“architettura” della motivazione, ma si appoggia a
robuste considerazioni concrete.
In effetti, il “chiamante” non è tanto un
“testimone” che per avventura rivesta la qualifica di
imputato o indagato, ma è colui che attribuisce ad un
altro soggetto una condotta costituente reato.
Nel caso di specie, mentre LIPARI ed OLZAI nulla
sanno, in sostanza, dell’omicidio, ALLETTO e LIPAROTA –
a prescindere in questo momento dalla loro
attendibilità – hanno dichiarato di avere assistito
allo sparo da parte di SCATTONE del colpo di pistola
che uccise Marta RUSSO: e allora è vero che bisogna
“partire” da qui, e verificare la portata probatoria
delle loro asserzioni accusatorie: in aderenza ad una
norma giuridica e ad una interpretazione di essa
nient’affatto bizzarra, che anzi rispecchia logica e
concretezza argomentative, perché lì è il nucleo
centrale dell’accusa, e dunque è lì, assai più che
altrove, che bisogna soffermarsi.
Era del tutto inutile, infatti, per la Cassazione,
non solo attardarsi sulla teste LIPARI che non ha visto
niente “di penalmente rilevante”, ma anche sui dati
peritali che non approdano ad alcuna certezza; e tanto
meno sul cosiddetto “videoshock”, che precede di alcuni
giorni le dichiarazioni della ALLETTO e non ha alcun
riferimento al loro contenuto.
118
Occorreva invece, al fine di risolvere il caso,
valutare le due chiamate di ALLETTO e di LIPAROTA,
considerate sia singolarmente che unitariamente;
applicare gli usuali criteri logici per saggiarne
l’attendibilità intrinseca di ciascuna, e poi, come
imposto dalla legge, ricercarne i riscontri: a
cominciare dal dato costituito dalla stessa duplicità
delle chiamate, per proseguire con le dichiarazioni –
in questo contesto sì, rilevanti – della LIPARI, della
OLZAI e della VILLELLA, fino a soppesare il significato
dell’eventuale esistenza, inesistenza o falsità degli
alibi proposti da SCATTONE e da FERRARO.
E’ questa e non altra, per la Suprema Corte, la
strada da seguire per giungere ad una decisione che
rispetti le norme di procedura e i criteri di
valutazione della prova dettati dal legislatore,
icasticamente definiti come di “valutazione guidata”.
Tale insegnamento, lo si ribadisce, trova in
questa Corte una adesione convinta, ben aldilà degli
obblighi scaturenti dai limiti del giudizio di rinvio a
norma dell’art. 627 CPP, proprio per il valore di
logicità e di concretezza che viene così attribuito
alla disciplina prevista dall’art. 192 CPP.
* * * * *
Ma anche rispetto ai “riscontri”, precisa ancora
la Cassazione, la sentenza annullata non aveva colto
del tutto nel segno.
119
Questi, infatti, non possono consistere
semplicemente in un qualsiasi elemento che in qualche
modo “torni buono” per l’accusa, come un qualsiasi
indizio valutabile di per sé; i “riscontri alle
dichiarazioni del chiamante” di cui parlano dottrina e
giurisprudenza – “estrinseci ed individualizzanti” –
devono consistere, secondo la legge, in “altri
elementi di prova che, valutati unitamente al
contenuto delle dichiarazioni, ne confermino
l’attendibilità”; e dunque i riscontri devono
ricercarsi in stretto collegamento con lo specifico
contenuto delle dichiarazioni: devono essere
“canalizzati”, o “focalizzati”, o “polarizzati” – sono
termini più volte adoperati dal giudice di legittimità
– in funzione di quelle dichiarazioni specifiche, e non
di altro.
Nel caso di specie, precisa la Suprema Corte, i
riscontri si devono ricercare “esclusivamente in
direzione dell’identificazione dell’autore dello
sparo”, perché in questo consiste il tenore delle
“chiamate”.
* * * * *
E’ per questo motivo che le sofisticate perizie
tecniche disposte dalla Corte d’Assise d’Appello erano
state disposte, secondo la Cassazione, non solo
forzando il limite di legge del “non poter decidere
allo stato degli atti” – addirittura dopo la
discussione finale e la camera di consiglio – ma
soprattutto inutilmente. Intanto non ne sarebbe mai
120
potuta derivare alcuna certezza, ma solo una
constatazione di “compatibilità” sostanzialmente neutra
sul piano penalistico; ma in ogni caso ben poco i
periti avrebbero potuto aggiungere o togliere alla
attendibilità delle dichiarazioni di ALLETTO e di
LIPAROTA o agli elementi concernenti la responsabilità
di SCATTONE.
Sulla base di questi principi, secondo la
Cassazione, la prova generica – salvi i dati oggettivi
immediatamente ricavabili sul luogo del delitto – non
ha alcuna rilevanza in questo processo, che si impernia
sulle due chiamate provenienti dalla ALLETTO e dal
LIPAROTA, le quali impongono “un tipo di verifica
giudiziaria normativamente diverso da quello compiuto
nella sentenza annullata”, secondo i principi di
diritto e i criteri fin qui esposti.
Infatti secondo la Suprema Corte in questo
processo hanno rilevanza soltanto le risultanze
“oggettive”, quali i rilievi tecnici sul luogo del
ferimento, i dati balistici di immediata acquisizione e
quelli autoptici.
Le conclusioni peritali, invece, e comunque la
problematica attinente alla prova generica (che pure ha
assunto nelle precedenti fasi di merito delle enormi
dimensioni) hanno nel caso di specie, per la
Cassazione, un ruolo del tutto marginale. E ciò – anche
a prescindere dalla loro ontologica ambiguità e
indeterminatezza sul piano accertativo, che si ferma
alla soglia delle mere “probabilità” e “compatibilità”
e dunque della “neutralità” -, proprio per la
121
inconferenza dei dati peritali rispetto al thema
decidendum individuato.
Ribadisce ancora una volta la Suprema Corte che la
valutazione delle chiamate da parte di Gabriella
ALLETTO e Francesco LIPAROTA doveva essere
“focalizzata” soltanto all’identificazione dell’autore
dello sparo. In questa prospettiva i dati peritali non
servono: non possono essere “canalizzati” sulle
dichiarazioni specifiche dei chiamanti, né affrancarsi
dall’insopprimibile limite dei loro risultati,
puramente indicativi di semplici “compatibilità” con
ipotesi diverse.
* * * * *
In definitiva dovrà essere osservato da questa
Corte il duplice principio di diritto per cui “ai fini
della valutazione probatoria delle dichiarazioni di un
soggetto non si può prescindere dalla qualifica
formale al medesimo attribuita nel processo in cui
sono state rese”; con la conseguenza che, ai sensi
dell’art. 192 comma 3 del CPP, le dichiarazioni dei
“chiamanti” Gabriella ALLETTO e Francesco LIPAROTA
“siano valutati unitamente altri elementi di prova che
valgano a confermarne l’attendibilità”.
A questo conseguono, a guisa di corollari, due
indicazioni:
1) la necessità che sul piano logico argomentativo
la presa in considerazione delle dichiarazioni dei
122
chiamanti preceda e non segua quella dei meri testimoni
di circostanze di contorno;
2) la necessità che la ricerca dei necessari
riscontri sia “canalizzata” o “polarizzata” sul
contenuto specifico delle dichiarazioni dei chiamanti e
non su dati neutri, come quelli di generica derivati
dalle perizie o estranei, come le immagini del
“videoshock”, secondo le deduzioni che le difese ne
traggono in punto di pretesa “coartazione” di Gabriella
ALLETTO.
E’ con l’osservanza di tutto quanto sopra che le
varie dichiarazioni accusatorie e, naturalmente, gli
alibi prospettati da Giovanni SCATTONE e Salvatore
FERRARO dovranno essere valutati da questa Corte.
123
LA DECISIONE DI QUESTA CORTE
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO DI RINVIO
E
MOTIVI DELLA DECISIONE
124
IL GIUDIZIO DI RINVIO
L’ACQUISIZIONE DELL’AUDIO INTEGRALE
RELATIVO AL “VIDEOSHOCK”
Nel corso di questo giudizio di rinvio, svoltosi
in diverse udienze, sono stati presenti fin dal primo
giorno gli imputati Giovanni SCATTONE e Salvatore
FERRARO; Francesco LIPAROTA, inizialmente non comparso
e dichiarato contumace, è comparso successivamente.
Così come nei precedenti gradi di giudizio, si
sono costituiti parte civile nei confronti dello
SCATTONE e del FERRARO l’Università “LA SAPIENZA” di
Roma nonché Donato RUSSO, Aureliana IACOBONI e Tiziana
RUSSO, rispettivamente padre, madre e sorella di Marta
RUSSO.
La Corte ha respinto la richiesta istruttoria
avanzata dalle difese di SCATTONE e FERRARO perché si
procedesse a nuova ispezione dei luoghi alla Città
Universitaria di Roma, in quanto priva di
giustificazione dal punto di vista probatorio ed
inutile sul piano della comprensione delle circostanze
di fatto da parte della stessa Corte.
125
Gli analoghi atti già compiuti sia dagli
inquirenti che dai precedenti giudici di merito,
debitamente videoregistrati; le ricostruzioni
effettuate in sede peritale, tradottesi anche in ottime
rappresentazioni grafiche elaborate elettronicamente in
forma tridimensionale, sotto diversi angoli di visuale;
le planimetrie, le molte fotografie e le accurate
trascrizioni forniscono alla Corte una informazione
nitidissima e dettagliata dei luoghi: sia di quelli che
furono teatro della vicenda principale (l’uccisione di
Marta RUSSO con la localizzazione del luogo del
ferimento e con l’ubicazione delle diverse finestre),
sia di quelli in cui si svolsero gli accadimenti
relativi alle circostanze di contorno, quali i
movimenti dei vari personaggi all’interno
dell’Istituto, la vicenda OLZAI, gli alibi degli
imputati.
* * * * *
Questa Corte di rinvio ha altresì deciso di
acquisire al fascicolo del dibattimento le trascrizioni
integrali delle parti audio delle bobine VHS
videoregistrate l’11 giugno 1997 nei locali della
Procura di Roma, in occasione dei colloqui intercorsi
tra Gabriella ALLETTO ed il suo cognato poliziotto Gino
DI MAURO; bobine che comprendono in modo integrale la
ripresa dell’intera lunga seduta (oltre quattro ore),
ivi compresi i momenti in cui erano presenti i
magistrati della Procura ed i loro interventi.
126
In proposito è bene precisare che di questo
incontro ALLETTO-DI MAURO fu a suo tempo effettuata una
intercettazione ambientale – per così dire “ufficiale”,
regolarmente autorizzata – che era stata espressamente
disposta dal GIP con esclusione dei momenti nei quali
fossero presenti nella stanza i magistrati della
Procura.
Al fine di consentire agli operatori esterni di
fermare e riavviare il nastro secondo le predette
disposizioni del GIP – ed anche, per la verità, allo
scopo di controllare il comportamento dello stesso DI
MAURO e l’eventualità di qualche cenno d’intesa con la
ALLETTO – si procedette, mediante una telecamera
nascosta, anche alla videoregistrazione di tutto
l’incontro, compresi gli interventi dei magistrati.
E’ proprio questo che parte della stampa ha
immaginificamente definito “il videoshock”.
* * * * *
Come si vedrà anche in parte motiva, quando questi
ultimi nastri furono prodotti ed esaminati nel corso
del giudizio di primo grado, si constatò:
– che il DI MAURO e i due magistrati inquirenti,
il Procuratore Aggiunto dott. ORMANNI e il Sostituto
dott. LA SPERANZA insistettero ripetutamente nel
chiedere alla ALLETTO che dicesse “la verità”, malgrado
ella continuasse a ribadire che non era stata in aula 6
e che non sapeva niente;
– che la donna fu chiaramente resa edotta delle
dichiarazioni della LIPARI, secondo le quali nell’aula
127
6 c’erano essa ALLETTO, il LIPAROTA ed il FERRARO, e
che c’era anche un’altra persona;
– che le fu contestato come ella stesse mentendo
nel collocarsi per l’intera ora tra le 11 e le 12 in
sala fax, e che restava “scoperto” proprio il periodo
in cui fu esploso dall’aula 6 il colpo di pistola;
– che non si pretendeva la lei altro che “la
verità”, nel senso che “certamente non era stata lei a
sparare”, e “poteva anche essere arrivata a cose
fatte”, ma non poteva negare di essere stata,
temporalmente a ridosso dello sparo, in sala
assistenti, dove l’aveva vista la LIPARI accanto al
LIPAROTA, il quale “non escludeva” tale circostanza;
– che le sue negazioni di tale fatto erano false,
incredibili e dannose per lei stessa, tanto che, se
avesse continuato in quell’atteggiamento insostenibile,
avrebbe finito per essere presa lei stessa, “contro la
verità”, per omicida;
– che a un certo punto la ALLETTO si era messa a
piangere, dicendo ripetutamente “non ce la faccio
più”;
– che in precedenza aveva giurato al cognato
“sulla testa dei ragazzini” di non essere entrata in
aula n. 6.
* * * * *
Da queste oltre quattro ore di videoregistrazione
fu tratto – e trasmesso dalle TV nazionali – il già
citato “videoshock”, della durata di qualche minuto.
128
Ne nacquero ovviamente roventi polemiche (un
settimanale ne distribuì uno stralcio di circa
mezz’ora; ne fu pubblicato il testo integrale perfino
in un volume), fino ad interessare il Consiglio
Superiore della Magistratura e perfino la Camera, dove
rispose ad una interrogazione lo stesso Presidente del
Consiglio.
La Corte d’Assise di primo grado ha esaminato in
pubblica udienza queste bobine integrali, comprensive
di “audio e di “video”, pur decidendo, con una
ordinanza che è stata impugnata dalla difesa di
Giovanni SCATTONE, di non acquisire il video al
fascicolo del dibattimento, e di non acquisire neppure
le trascrizioni relative alle parti “audio” che non
figurano nell’intercettazione ambientale e che sono
relative all’esame della ALLETTO da parte dei PM.
Questa Corte, anche in considerazione del tenore
delle arringhe difensive – che malgrado la sentenza
della Cassazione continuavano ad attribuire una
grandissima importanza allo svolgimento della giornata
dell’11 giugno 1997 -, per non lasciare ombra alcuna
sul processo, ha ritenuto non solo opportuna ma
indispensabile l’acquisizione dell’intero “audio” della
videoregistrazione integrale della giornata; “audio”
che peraltro, essendo un atto del PM, non richiedeva
alcuna autorizzazione del GIP.
Non è possibile, infatti, valutare criticamente le
dichiarazioni accusatorie di Gabriella ALLETTO, ai
sensi dell’art. 192 CPP., secondo le direttive della
Cassazione e alla luce delle accorate e puntuali
129
argomentazioni difensive, se non tenendo presente e
valutando, serenamente ma compiutamente, il suo
atteggiamento precedente e gli accadimenti di quella
seduta, documentati, oltre che nelle trascrizioni
dell’intercettazione “ufficiale”, anche nelle loro
trascrizioni auditive dei nastri VHS completi.
Appare del tutto superflua, invece, l’acquisizione
del “video” in quanto tale, che, anche secondo la
sentenza della Cassazione “non può aver rilievo se non
a fini extraprocessuali, ma non era e non è destinata
ad incidere in alcun modo sulla sua valutazione sui
meccanismi sottesi al libero convincimento del
giudice”.
* * * * *
Ovviamente, il giudizio sulla opportunità della
acquisizione è stato preceduto da quello – positivo –
sulla ammissibilità e utilizzabilità come fonte di
prova del contenuto “audio” dei nastri VHS.
Reputa infatti la Corte che – premesso e ribadito
che l’intercettazione ambientale fu regolarmente
autorizzata dal GIP con esclusione dei momenti in cui
intervenivano nella stanza i magistrati del Pubblico
Ministero – il fatto che siano stati videoregistrati
anche tali interventi non comporta, almeno nella parte
audio, che è quella che qui interessa, che si tratti di
intercettazioni ambientali “abusive” in quanto non
autorizzate dal GIP, ma che sia stata effettuata, per
fini propri del PM, la documentazione di proprie
attività – nella specie, l’esame a “SIT” della ALLETTO,
130
con redazione di verbale in forma sommaria – comunque
attinenti alle indagini: attività che è stata
documentata legittimamente in linea di diritto e
compiutamente in punto di fatto.
Del resto è notorio che le trascrizioni dell’audio
in questione sono di dominio pubblico, contenute in
diverse pubblicazioni in commercio oltre che esaminate
dal Consiglio Superiore della Magistratura; infine,
sono state prodotte dalle difese degli imputati nel
loro interesse ed anzi la loro mancata acquisizione in
primo grado, con apposita ordinanza espressamente
impugnata, costituisce tuttora uno dei motivi
d’appello, che in definitiva è stato accolto.
Posto che la stessa Cassazione nella sua sentenza
ha reputato “irrilevante” ma non “illegittimo” il
“videoshock”, nulla vieta, dunque, l’utilizzazione a
fini processuali della trascrizione integrale della
parte audio (non avendo alcuna rilevanza, in sé, la
parte “video” in senso stretto): tanto più che l’intera
registrazione fu esaminata ed ascoltata in udienza
pubblica in primo grado senza obiezioni, e sarebbe
davvero singolare che dopo tale attività, e dopo che
tutte le parti vi hanno fatto ampio riferimento in
discussione, questa Corte si debba rifare al verbale
riassuntivo dell’esame della ALLETTO dell’11 giugno
1997!.
* * * * *
131
Nel corso di numerose udienze si è svolta davanti
a questa Corte una assai articolata e completa
discussione finale, con repliche e controrepliche sia
da parte dell’accusa pubblica e privata che dei
difensori di tutti gli imputati, accompagnata dal
deposito di memorie scritte.
Al termine del dibattimento le parti hanno
formulato, come da verbale, le conclusioni sopra
riportate.
* * * * *
132
MOTIVI DELLA DECISIONE
I
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI IN DIRITTO
Ritiene la Corte di dover premettere alcune
considerazioni sul piano del diritto, e sul metodo col
quale ha impostato i criteri di valutazione probatoria
in questo processo, accanto a quelli, già illustrati in
narrativa, dettati dalla Cassazione nella sentenza di
annullamento; considerazioni necessarie per evitare
errori ulteriori rispetto a quelli commessi dai primi
giudici, avuto riguardo alle riforme, anche di rango
costituzionale, intervenute nel frattempo.
E’ ormai jus receptum che in un sistema
processuale, come quello attualmente in vigore in
Italia, fondato sul rito accusatorio – o quanto meno,
secondo la prevalente dottrina, “tendenzialmente
accusatorio” – la prova si forma nel dibattimento (e
nell’incidente probatorio, che del dibattimento è una
anticipazione).
133
Beninteso, la prova che in questo processo “si è
formata” nel dibattimento non è data soltanto dalle
effettive dichiarazioni che in dibattimento sono state
espresse, ma dal complesso di tutti i dati che in
ordine a quelle dichiarazioni si sono ricavati, anche
per mezzo delle contestazioni che ai sensi degli artt.
500 e 503 del CPP sono state rivolte al dichiarante,
consentendo di acquisire al fascicolo del dibattimento
i verbali delle dichiarazioni rese in precedenza.
E tuttavia non sfugge alla Corte la differenza,
non soltanto formale, tra la posizione di Gabriella
ALLETTO, che ha formulato le proprie accuse nel
dibattimento (sia deponendo quale imputata di reato
connesso che sostenendo un duplice confronto con gli
accusati) e prima ancora in incidente probatorio,
comunque in contraddittorio, e quella di Francesco
LIPAROTA, che in dibattimento ha rifiutato di
sottoporsi all’esame delle parti, rendendo soltanto una
dichiarazione spontanea di contenuto sostanzialmente
liberatorio per SCATTONE e FERRARO; e che ha mosso le
proprie accuse, poi ritrattate, soltanto nel corso di
un interrogatorio di garanzia davanti al GIP, fuori dal
contraddittorio.
Entrambi sono “chiamanti in reità”, ma la
situazione è manifestamente opposta nel contenuto e sul
piano del contraddittorio, a cui si è sottoposta la
sola ALLETTO: va dunque soppesato il merito delle
dichiarazioni, tenendo conto di tale differenza.
* * * * *
134
E’ bene in proposito impostare subito
correttamente, sul piano del diritto processuale, il
problema della valenza delle “dichiarazioni del
chiamante”, posto che si intrecciano fra loro la
disciplina dettata dall’art. 192 comma 3 CPP, sulla
valutazione delle dichiarazioni del coimputato o
imputato di reato connesso, e quella contenuta negli
art. 500 e 503 CPP, che pure regolano esplicitamente la
“valutazione” delle dichiarazioni in tal modo
acquisite, provenienti sia da testimoni che da
imputati, in ordine alle quali vi sia “difformità”
rispetto al contenuto della deposizione dibattimentale.
Ovvio che la rilevanza del tema in discussione
consiste proprio nel fatto che le dichiarazioni rese da
Gabriella ALLETTO e da Francesco LIPAROTA in
dibattimento sono “difformi” da quelle da ciascuno di
essi rese in qualche momento delle indagini.
Gabriella ALLETTO in dibattimento e in
contraddittorio ha espresso le sue accuse; ne deriva la
necessità che per trovare nelle sue parole degli
elementi a favore degli imputati occorre rifarsi alle
sue prime dichiarazioni negatorie, rese fuori dal
dibattimento; dichiarazioni che potranno essere utili
agli imputati soltanto se potranno essere considerate,
anche da punto di vista normativo, come prova dei fatti
in esse affermati.
Viceversa Francesco LIPAROTA, anche se non si è
mai sottoposto al contraddittorio, tuttavia in
dibattimento ha reso dichiarazioni liberatorie; perciò
135
– al contrario della ALLETTO – è soltanto in quelle
rese fuori dal dibattimento che si potranno trovare
elementi accusatori a carico degli imputati; elementi
che saranno utilizzabili, a loro volta, soltanto se
risulterà che le norme di legge consentono che quelle
dichiarazioni siano considerate come prova dei fatti in
esse affermati.
* * * * *
Intanto, nella ormai sempre più difficile ricerca
di quale sia la norma giuridica vigente e applicabile
al caso concreto, va detto che essa si individua
attualmente nella Legge 1° marzo 2001 n. 63, – di
attuazione della riforma dell’art. 111 della
Costituzione – e precisamente nei commi 3 e 4 dell’art.
26 della predetta legge, che è norma di diritto
transitorio.
E’ stato previsto dal legislatore, infatti un
“doppio regime” di carattere generale:
– per le difformi dichiarazioni “precedenti” che
siano acquisite al fascicolo del dibattimento dopo il
25 febbraio del 2000 è definitivamente bandita la
possibilità di un loro “recupero” probatorio: esse
servono soltanto a “stabilire la credibilità della
persona esaminata”, e non esiste più nella legge alcuna
previsione per cui esse possano essere valutate come
prova dei fatti in esse affermati.
– le dichiarazioni acquisite al fascicolo del
dibattimento prima del 25 febbraio del 2000 sono
soggette invece al regime transitorio di cui all’art.
136
26 della Legge 1° marzo 2001 n. 63; e poiché è pacifico
che le dichiarazioni rese in questo processo nel corso
delle indagini preliminari sono state acquisite al
fascicolo del dibattimento nel 1998 e nel 1999, è
questa la disciplina da applicarsi.
E’ importante porre in evidenza che la Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 381 del 2001 ha già
riconosciuto la piena legittimità della norma
transitoria, sia sotto il profilo che la legge
costituzionale n. 2 del 1999, istitutiva del “nuovo”
art. 111 della costituzione ha demandato alla legge
ordinaria la regolamentazione in ordine ai processi in
corso, sia sotto quello che la norma transitoria non si
limita a “mantenere in vita il precedente regime”, ma
introduce una importante novità, che è sufficiente a
soddisfare – nei processi in corso, per gli atti
acquisiti al fascicolo del dibattimento prima del 25
febbraio 2000 – la portata costituzionale del principio
de contraddittorio: le dichiarazioni rese fuori dal
contraddittorio da chi si sia “per libera scelta
sempre volontariamente sottratto all’esame
dell’imputato e del suo difensore” possono essere
corroborati da “altri elementi di prova che confermano
l’attendibilità” soltanto se questi siano stati
“assunti o formati con diverse modalità”.
* * * * *
Secondo tale complessa normativa, dunque, le
dichiarazioni rese precedentemente al dibattimento (sia
da ALLETTO che da LIPAROTA, nel caso di specie) hanno
137
una prima importante valenza, che è quella di dover
essere valutate “per stabilire la credibilità della
persona esaminata”; e sarà questo un primo delicato
compito di questa Corte di merito.
Scatta poi la seconda valenza, la possibilità,
cioè – conservata in via transitoria sia dal DL. n.
2/2000 che dalla Legge n. 63/2001 – che le
dichiarazioni difformi rese precedentemente al
dibattimento possano essere valutate come prova dei
fatti in esse affermati; con una normativa che, come è
noto, ha già superato il vaglio della Corte
Costituzionale (sentenza n. 381/2001).
Anche qui la “stella polare” è rappresentata dal
contraddittorio, nel senso che in linea di massima sono
le dichiarazioni rese in dibattimento quelle che
“valgono”, una volta che sia stata stabilita la
“credibilità della persona esaminata”: se la persona
esaminata in dibattimento, malgrado il confronto con le
dichiarazioni “difformi” rese in precedenza, supera il
vaglio di credibilità, nulla quaestio: la “prova” dei
fatti risiede nelle dichiarazioni dibattimentali, e
quelle “difformi” non contano più.
Con una precisazione, beninteso, atta a mitigare
l’assolutezza di tale affermazione: vale pur sempre il
principio della “divisibilità” delle dichiarazioni, per
cui non è che se una persona viene ritenuta
“credibile”, automaticamente tutte le sue dichiarazioni
dibattimentali sono “prova”, e tutte quelle precedenti
e difformi sono poste nel nulla: dottrina e
giurisprudenza in proposito distinguono tra
138
“attendibilità della persona” e “credibilità delle
dichiarazioni”, onde il giudizio sulla prova riguarda
non soltanto le “qualità“ della persona, ma ciascun
“fatto” sul quale si è determinata la “difformità”.
* * * * *
Invece, se a seguito del confronto tale
credibilità viene meno, non per questo i fatti
affermati nelle dichiarazioni rese durante le indagini
e fuori dal contraddittorio si possono intendere
provati.
E’ infatti chiaramente desumibile, dalla
previsione dell’art. 26, un ulteriore e preciso
distinguo:
– le dichiarazioni “precedenti” e “difformi”,
acquisite al fascicolo del dibattimento prima del
febbraio 2000 e provenienti da chi (come nel caso di
Gabriella ALLETTO) si è sottoposto al contraddittorio,
devono essere valutate a norma dei commi 3, 4, 5 e 6
del previgente art. 500 del CPP;
– quelle di chi (come Francesco LIPAROTA) “per
libera scelta si è sempre volontariamente sottratto
all’esame dell’imputato e del suo difensore”, pure
tempestivamente acquisite al fascicolo del
dibattimento, sono regolate invece dal comma 2
dell’art. 1 del DL n. 2/2000, convertito con Legge n.
35/2000.
Di conseguenza, a norma dell’art. 26 della Legge
1° marzo 2001 n. 63:
139
1) – le dichiarazioni “difformi” rese da Gabriella
ALLETTO fuori dal dibattimento ed acquisite in seguito
a contestazione (nella specie sarebbero a favore degli
imputati SCATTONE, FERRARO e LIPAROTA), possono essere
valutate, a norma del comma 3 del previgente art. 500
CPP, come prova dei fatti in esse affermati, ma per
questo è necessario:
– che le sue dichiarazioni dibattimentali non
abbiano superato il vaglio di credibilità;
– che concorrano “altri elementi di prova che
confermano l’attendibilità” di quelle precedenti.
2) – quelle rese dal LIPAROTA fuori dal
contraddittorio, invece, (e sarebbero nel caso di
specie a carico degli imputati) possono anch’esse
raggiungere lo stesso effetto (valere come prova dei
fatti in esse affermati, benché difformi da quelle rese
in dibattimento): però, a norma del DL n. 2/2000 e
della legge di conversione n. 35/2000, (essendosi egli
“per libera scelta sempre volontariamente sottratto
all’esame dell’imputato e del suo difensore”),
occorrono anche per lui due condizioni:
– che le sue dichiarazioni dibattimentali non
abbiano superato il vaglio di credibilità;
– che gli “altri elementi di prova che confermano
l’attendibilità” delle dichiarazioni precedenti, siano
stati “assunti o formati con diverse modalità”, ossia
non provengano da persone che si siano anch’esse
sottratte al contraddittorio.
* * * * *
140
Reputa questa Corte, al riguardo, che non sussista
alcuna contraddizione né conflitto fra le citate
complesse regole dibattimentali e la disciplina, in
parte assai simile, dettata dall’art. 192 comma 3 CPP
circa il valore probatorio delle dichiarazioni rese nei
confronti di una persona da un coimputato o da un
imputato in un procedimento connesso.
Va ribadito che detta norma – che costituisce un
caposaldo dell’attuale sistema processuale, ancor più
dopo la modifica dell’art. 111 della Costituzione – ha
un contenuto ed un valore preminente, di carattere per
così dire generale, più ampio ed insieme più penetrante
degli artt. 500 e 503 CPP: il 192 regola la valutazione
finale della prova, in vista della decisione sulla
responsabilità o meno dell’imputato; l’art. 26 della L.
63/2001, e con esso gli artt. 500 e 503 del CPP. e
l’art. 1 del DL n. 2/2000 convertito con Legge n.
35/2000, regolano il più limitato problema della
acquisizione e valutazione di dichiarazioni
dibattimentali e non, quando esse siano scandite nel
tempo e “difformi” tra loro.
Posto che, ai sensi delle norme richiamate
dall’art. 26, le dichiarazioni difformi rese in
precedenza possono essere acquisite e devono essere
valutate in un certo modo rispetto a quelle rese in
dibattimento, sarà al termine di entrambe queste
operazioni (sia di acquisizione che di valutazione) che
si sarà “formato” l’intero contributo fornito dalle
dichiarazioni del “chiamante”; e questo contributo così
141
“formato” sarà poi sottoposto “tutto intero” ai
criteri, preminenti, dettati dall’art. 192 comma 3 CPP
in ordine a quelle dichiarazioni.
* * * * *
Una ulteriore precisazione in diritto – un
corollario di quanto fin qui chiarito – riguarda le
dichiarazioni rese da Gabriella ALLETTO prima del
mutamento del suo atteggiamento (inizialmente non
“collaborativo”), quando era persona informata dei
fatti e addirittura già raggiunta da elementi di
sospetto circa un possibile favoreggiamento da parte
sua, sia pure nei confronti di ignoti, tale da
comportarne la deposizione con le garanzie previste per
l’imputato o l’indagato.
Tali dichiarazioni, dapprima espunte dal GIP dal
fascicolo del dibattimento, sono state poi recuperate
dalla Corte di primo grado e fanno ora parte a pieno
titolo del fascicolo del dibattimento in seguito alle
contestazioni effettuate.
E’ indubbio però che tali contestazioni sono state
mosse a Gabriella ALLETTO non dai suoi difensori nel
suo interesse o dal PM nell’interesse dell’accusa
(contro di lei o contro altri), bensì dai difensori dei
computati nell’interesse di questi ultimi.
Ciò con un duplice scopo: da un lato quello di
mettere in evidenza le contraddizioni che intercorrono
tra le affermazioni da lei formulate nella prima fase
delle indagini e quelle rese successivamente e poi
142
confermate al dibattimento; dall’altro – e forse
soprattutto – quello di far risaltare il “clima” di
pressioni, minacce, suggestioni e suggerimenti da parte
degli inquirenti, nel quale le seconde dichiarazioni
sarebbero maturate.
In sostanza, posto che la ALLETTO, imputata di
favoreggiamento, ha assunto la veste di “chiamante” in
reità nei confronti di SCATTONE, ma anche nei confronti
di FERRARO e di LIPAROTA, ora imputati di
favoreggiamento, ma non in concorso con lei, le
contestazioni che le sono state mosse la riguardavano
nella sua particolare e specifica qualità di
“chiamante”: sono state richiamate le sue prime
dichiarazioni non per quella parte a contenuto
difensivo verso sé stessa quale imputata, ma per
l’altra parte (di “testimonianza”, per così dire)
avente contenuto liberatorio nei confronti dei
coimputati, da lei stessa successivamente accusati.
E’ soltanto contro queste ultime dichiarazioni
(accusatorie) che si sono appuntate le contestazioni:
tanto che giustamente, e senza opposizione di alcuna
parte, la Corte di primo grado ha deciso di acquisire
al fascicolo del dibattimento, nell’interesse degli
altri imputati (SCATTONE, FERRARO e LIPAROTA), tutte le
dichiarazioni “precedenti” della ALLETTO, rese sia
quale indagata che quale persona informata dei fatti;
comprese quelle, appunto, già dichiarate inutilizzabili
dal GIP, da lei rese nella veste di persona informata
sui fatti quando già sussistevano a suo carico elementi
sufficienti per doverle attribuire le garanzie
143
spettanti alla persona indagata; che erano poi proprio
quelle nelle quali essa rifiutava fermamente di
ammettere la propria presenza nell’aula 6 e di sapere
alcunché sul ferimento di Marta RUSSO e sul conto degli
imputati.
* * * * *
Ma la questione della valenza delle dichiarazioni
rese fuori dal contraddittorio non riguarda soltanto
gli imputati di reato connesso ALLETTO e LIPAROTA.
Occorre prendere atto che sono state acquisite, in
seguito alle contestazioni provenienti di volta in
volta da ciascuna delle parti, numerose dichiarazioni
rese prima del dibattimento dalle più diverse persone,
che poi hanno assunto in udienza atteggiamenti
differenti ed opposti: Maria Chiara LIPARI ha
testimoniato, Rosangela VILLELLA no; gli imputati
ROMANO, URILLI e BASCIU – oltre a FERRARO e SCATTONE –
si sono sottoposti ad esame e controesame, ma la
MARCUCCI no; e così via.
In proposito è ovvio che, in mancanza di
dichiarazioni dibattimentali, non si potranno rinvenire
“difformità”; ma va tenuto presente che vale anche per
tutti costoro la disciplina prevista dall’art. 26 della
Legge n. 35/ 2001, e segnatamente quella di cui al
secondo comma dell’art. 1 DL n. 2/2000, richiamato dal
predetto art. 26.
Tale norma stabilisce che le dichiarazioni rese
nel corso delle indagini preliminari da tutti coloro
che “si sono sempre volontariamente sottratti
all’esame dell’imputato o del suo difensore” intanto
144
possono essere valutate come prova dei fatti in esse
affermati in quanto la loro attendibilità sia
confermata da “altri elementi di prova”, che però siano
“assunti o formati con diverse modalità”.
In altre parole, non potrebbero, ad esempio, le
dichiarazioni rese da Rosangela VILLELLA durante le
indagini (fatto salvo in questo momento il problema
della loro ventilata inutilizzabilità sotto altro e
diverso profilo), essere confermate e convalidate
(essendosi essa “sempre volontariamente sottratta
all’esame degli imputati e dei loro difensori”) per
mezzo delle dichiarazioni di Francesco LIPAROTA – che
si è anch’egli “sempre volontariamente sottratto
all’esame degli imputati e dei loro difensori”; e
viceversa, naturalmente, non potrà LIPAROTA essere
“confermato” dalla VILLELLA.
Ciò – beninteso – non solo e non tanto per quanto
riguarda la posizione dello stesso LIPAROTA quale
imputato, ma per quanto attiene alla posizione di
FERRARO e di SCATTONE, i quali non hanno potuto, né di
persona né con i loro difensori, esaminare né l’una né
l’altro.
Così pure, lo svolgimento della mattinata del 9
maggio per quanto attiene ai movimenti ed all’alibi di
FERRARO non potrebbe ricostruirsi sulla base delle sole
dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari
e fuori dal contraddittorio dalla MARCUCCI Marianna,
(che “si è sempre volontariamente sottratta all’esame
dell’imputato o del suo difensore”), ma occorre che
queste trovino conferma in altri elementi di prova, che
145
siano però – necessariamente – “assunti o formati con
diverse modalità”, ossia non consistano a loro volta in
dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio.
Le dichiarazioni difformi da quelle dibattimentali
rese durante le indagini preliminari da chi, invece, –
e sono i più – si è sottoposto al contraddittorio
dibattimentale, sono regolate nel caso di specie dai
commi 3, 4, 5 e 6 del previgente art. 500: nel senso
che devono anch’esse essere valutate “per stabilire la
credibilità della persona esaminata”, e possono
costituire prova dei fatti in esse (durante le
indagini) affermati soltanto se quel vaglio di
credibilità (delle dichiarazioni dibattimentali) non
sia stato superato e se inoltre sussistano, in ordine
al loro contenuto specifico, “altri elementi di prova
che ne confermano l’attendibilità”: elementi che però,
in questo caso, possono essere di qualsiasi genere o
specie, come provenienti da testimoni e
intercettazioni, o anche soltanto logici.
* * * * *
Concettualmente diverso – si ribadisce – (ancorché
difficile, all’atto pratico, da tenere separato
rispetto al primo) è il momento della valutazione della
prova ai sensi dell’art. 192 CPP, che riguarda la
valutazione per così dire finale, in vista della
decisione sulla responsabilità o meno dell’imputato.
Dottrina e giurisprudenza assolutamente concordi –
e ad esse questa Corte ritiene di doversi pienamente
allineare – hanno circondato le dichiarazioni del
146
“chiamante” di cautele ancora ulteriori rispetto alla
stessa previsione dell’art. 192 comma 3 CPP, stabilendo
per esse un preventivo vaglio di attendibilità
intrinseca – assai severo, preciso e articolato –, che
precede la stessa ricerca e valutazione dei “riscontri
esterni” (gli “altri elementi di prova che ne
confermano l’attendibilità”); nel senso che se non
fosse superato quel vaglio non si passerebbe neppure
alla considerazione dei “riscontri” e le dichiarazioni
sarebbero senz’altro reputate inattendibili e
disattese.
Sono stati più volte indicati, con elencazione
esemplificativa e non tassativa, i criteri della
fermezza, della coerenza, della precisione, della
intrinseca verosimiglianza delle dichiarazioni, e –
particolarmente rilevanti nel caso di specie – quelli
della autonomia e spontaneità e del disinteresse ad
accusare.
In relazione a questi ultimi non possono certo
trascurarsi le osservazioni delle difese di SCATTONE e
di FERRARO, che prospettano una assoluta mancanza di
“genuinità” – e di autonomia e spontaneità – nelle
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO e di Francesco
LIPAROTA (ivi compreso, quanto a quest’ultimo, il
“biglietto autografo” scritto poco prima di essere
tradotto in carcere), perché rese in un clima di
coartazione morale, per la necessità di liberarsi da
pressioni e minacce, nemmeno tanto velate, ed anzi per
LIPAROTA ben concrete, di arresto e di incriminazione;
pressioni accompagnate da, più o meno esplicite,
147
promesse di benevolenza da parte degli inquirenti in
caso di accondiscendenza da parte loro al desiderio di
chi li interrogava di vedersi confermate
“testimonialmente” le ipotesi investigative.
Il tutto – secondo le difese – in maniera che ne è
rimasta coartata la loro volontà, determinando sia la
ALLETTO che il LIPAROTA a rendere false dichiarazioni
ed a formulare false accuse, riferendo i dati di fatto
che venivano loro man mano, e ripetutamente, suggeriti.
Ovviamente, non vanno dimenticati né trascurati
gli argomenti, sostenuti con non minore vigoria e
rigore dal Procuratore Generale e dalle parti civili,
tesi a contrastare una tale impostazione e a difendere
la legalità delle indagini e la genuinità dei suoi
risultati.
Certamente tutto ciò rientra nel vaglio di
attendibilità preventivo a cui questa Corte intende
sottoporre le deposizioni dei “chiamanti”.
Le dichiarazioni “difformi” rispetto a quelle
dibattimentali, “precedentemente rese” da Gabriella
ALLETTO e Francesco LIPAROTA e acquisite al fascicolo
del dibattimento in seguito alle contestazioni, saranno
dunque valutate da questa Corte – facendo uso delle
regole sopra specificate imposte dall’art. 26 della
legge n. 63/2001 – in primo luogo “ai fini della
credibilità” dei dichiaranti; con specifico riferimento
alle osservazioni e argomentazioni delle difese degli
imputati in ordine alla “genuinità” delle dichiarazioni
accusatorie dell’una e dell’altro; e poi effettuando
l’analisi valutativa dei singoli fatti rilevanti in
148
causa da essi affermati e stabilendo quali siano quelli
“credibili” tra le “difformi” versioni.
Soltanto a questo punto si procederà all’ulteriore
passo indispensabile per il compiuto apprezzamento
delle dichiarazioni dei “chiamanti” – la ricerca e la
valutazione dei “riscontri esterni” – così come
richiesto dall’art. 192 comma 3 e come messo in
evidenza dalla sentenza della Cassazione.
* * * * *
Ovvio poi che un accurato vaglio di attendibilità
personale e di credibilità intrinseca sarà rivolto
anche alle deposizioni testimoniali: ma senza che ciò
comporti l’errore stigmatizzato dalla Cassazione per le
due prime sentenze.
Una tale attenta disamina, infatti, non significa
porre testimoni e chiamanti “sullo stesso piano” – ben
diversa essendo, nell’uno e nell’altro caso, l’esigenza
di effettivi “riscontri esterni” alle rispettive
dichiarazioni -; ma non va dimenticato che essa è
richiesta sempre, nei confronti di qualsiasi
dichiarazione di qualsiasi tipo, affinché il loro
contenuto possa costituire “prova” persuasiva ed
appagante nella formazione del libero – ma ragionevole
e controllabile – convincimento del giudice.
* * * * *
* * * * *
149
II
L’ANTICIPAZIONE DEL GIUDIZIO FINALE DELLA CORTE
I
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Preliminarmente è necessario precisare che deve
intendersi qui richiamato tutto quanto finora esposto
nella presente sentenza quale indispensabile complesso
di presupposti di fatto e di diritto su cui fondare la
motivazione.
Allo stesso modo, occorre richiamare i consolidati
principi già esposti nella prima sentenza d’appello,
sul punto della reciproca integrazione motivazionale
delle sentenze di primo e secondo grado nelle parti in
cui la decisione sia conforme, dovendosi intendere
limitato il compito del giudice dell’impugnazione al
farsi carico dei dati e degli argomenti evidenziati con
i motivi di gravame, pur senza avere l’obbligo di
rispondere ad ogni singolo passaggio argomentativo,
essendo sufficiente una spiegazione esauriente dei
motivi a sostegno di una decisione diversa da quella
richiesta.
150
In particolare, in questa sede di rinvio ed in
considerazione dell’integrazione istruttoria svoltasi
in grado d’appello, devono essere tenute presenti, come
qui riportate per quanto di ragione, entrambe le
sentenze di merito, che sono ampiamente ricostruttive
del concreto svolgimento degli eventi e dei relativi
accertamenti, e che non sono a questo riguardo in
contrasto tra loro, anzi si integrano reciprocamente;
né l’accertamento e l’esposizione dei fatti – compresa
la narrazione contenuta nella sentenza di secondo grado
– sono stati oggetto dell’annullamento da parte del
Cassazione, che riguarda – non solo, ma soprattutto –
difetti della sentenza squisitamente giuridici e
addirittura processuali.
* * * * *

* * * * *

* * * * *

151
II
SINTESI DELLA DECISIONE
Reputa la Corte che al termine dell’attuale
giudizio di rinvio si debba riaffermare la
responsabilità degli imputati Giovanni SCATTONE,
Salvatore FERRARO e Francesco LIPAROTA, e che essa
trovi fondamento, principalmente, nelle dichiarazioni
accusatorie di Gabriella ALLETTO: le quali sono
risultate attendibili, credibili, convincenti,
riscontrate e veritiere al termine delle operazioni di
valutazione “guidata” previste ed imposte dalla legge.
Esse da un lato si sono rivelate in piena armonia con
tutti i dati di causa, dalle dichiarazioni testimoniali
– quelle di Maria Chiara LIPARI e specialmente quelle
di Giuliana OLZAI – ai dati di generica, dal fallimento
degli alibi di SCATTONE e FERRARO alle dichiarazioni di
Francesco LIPAROTA e Rosangela VILLELLA; dall’altro non
sono state smentite in alcun modo da nessun elemento o
accertamento di fatto che sia stato possibile
esaminare.
* * * * *
Ma in particolare – osserva fin d’ora la Corte –
esse sono continuamente costellate e pervase da tutta
una serie di espressioni spontanee, di notazioni
152
psicologiche, di moti dell’animo che costituiscono
autentici “accenti di verità” e che valgono a conferire
a tutta la sua narrazione accusatoria – naturalmente in
un quadro probatorio correttamente impostato dal punto
di vista giuridico, e non fondato soltanto su
impressioni epidermiche – una generale caratteristica
di sincerità e di genuinità: essendo ovviamente
impossibile che tali espressioni possano essere
suggerite o imposte.
Nell’immediatezza del contraddittorio, “a botta e
risposta” senza riflettere, esponendo il proprio
vissuto, rispondendo a domande e contestazioni,
ribattendo, talvolta, a vere provocazioni, ella si
esprime con parole che rendono dall’intimità dell’animo
la psicologia del momento: talvolta quella del momento
attuale (del “parlare”, dello spiegarsi, e perfino del
giustificarsi: “fino a un certo punto non me la sono
sentita; poi ho confessato”); talaltra quella del
momento di allora (“me lo sono tenuto dentro”, non
volevo essere coinvolta”. Addirittura: “Non ho
salutato: non me la sono sentita di salutare”, risponde
quando racconta di SCATTONE che dopo lo sparo è uscito
salutando la LIPARI, e le si chiede se lei lo ha
salutato.
Espressioni di questo genere (veritiere perché
immediate ed istintive, provenienti dal profondo)
valgono a collegare, con l’esternazione del “percorso”
interiore che le ha accompagnate, sia le rivelazioni in
sé che il fatto stesso di raccontarle: ed è quanto mai
convincente proprio l’esternazione di quei piccoli
153
passaggi intimi, spontanei e certamente non “studiati”
che esprimono insopprimibili “accenti di sincerità”
tali da far ritenere che ella abbia vissuto in prima
persona i fatti che ora racconta, rivivendo la
psicologia del momento.
“Un travaglio”, dice la ALLETTO, “un travaglio
tremendo”, da quel tragico 9 maggio 1997 fino al suo
ultimo atto processuale in primo grado, il confronto
con FERRARO del 7 ottobre 1998.
E’ assai convincente – malgrado i poderosi sforzi
in contrario delle acutissime difese degli imputati,
specie in relazione ai “condizionamenti” che ella
avrebbe subito – seguirla mentre descrive come sia
giunta dalla iniziale “chiusura” alla totale
“liberazione”, (“mi sono sentita pronta”, “sono
riuscita a parlare”) e poi alla difesa, con parole
semplici ma risolutive, della propria versione:
“Confessate è quello che dovete fare voi; io l’ho
fatto”.
“Sono riuscita a parlare”, “Confessate è quello
che dovete fare voi; io l’ho fatto”, “mi sono sentita
pronta” sono espressioni – assieme a tante altre che
man mano saranno evidenziate, ma è opportuno anticipare
fin d’ora il giudizio della Corte – che sono proprie
non certo di chi commette una calunnia, ma di chi viene
da un lungo “travaglio” interiore, e poi si abbandona
ad uno sfogo liberatorio di verità.
* * * * *
154
In sintesi, questa Corte ha ritenuto accertato,
per mezzo delle particolareggiate e ferme dichiarazioni
dibattimentali di Gabriella ALLETTO, Giuliana OLZAI e
Maria Chiara LIPARI:
– che Marta RUSSO fu colpita al capo, il 9 maggio
del 1997 alle ore 11,42 circa in un vialetto
dell’Università, da un proiettile di pistola cal. 22,
sparato, rispetto alla sua posizione, da sinistra,
dall’alto e leggermente da dietro;
– che pochi attimi prima dell’esplosione del
colpo, Gabriella ALLETTO entrava nella sala assistenti
dell’Istituto di Filosofia del Diritto (aula n. 6), da
cui, essendo quasi sulla porta, aveva visto uscire un
uomo sconosciuto;
– che nella stanza vi erano Francesco LIPAROTA,
Salvatore FERRARO e Giovanni SCATTONE;
– che quest’ultimo era nel vano della finestra di
destra, era parzialmente nascosto dalla tenda a doghe
verticali, aveva il braccio destro “teso” e fece
partire un colpo di pistola fuori dalla finestra,
nascondendo poi l’arma in una cartella che era sul
tavolo;
– che nel momento di sconcerto creatosi fra tutti
(FERRARO si era messo le mani nei capelli) era entrata
nell’aula Maria Chiara LIPARI mettendosi a fare una
telefonata con le spalle alla stanza;
– che si determinò – naturalmente – una fase di
stallo durata qualche minuto (il “gelo” di cui si è
parlato), nel quale tutti, eccetto la ignara LIPARI,
non sapevano evidentemente cosa fare;
155
– che SCATTONE era uscito dalla sala, e dopo di
lui erano usciti FERRARO e LIPAROTA, e poi anche la
ALLETTO, che lasciava la LIPARI ancora nell’aula n. 6,
intenta a telefonare;
– che Giovanni SCATTONE e Salvatore FERRARO
qualche minuto dopo lasciavano l’Istituto di Filosofia
attraverso una scala interna;
– che, attraverso l’atrio di Statistica e quello
di Scienze Politiche, uscivano all’esterno, in una zona
appartata rispetto al vialetto e all’assembramento di
persone attorno al corpo di Marta RUSSO;
– che nel percorrere detto tragitto si imbatterono
in Giuliana OLZAI, la quale li vide, fu colpita ed
attratta dal loro comportamento sconcertante, rivolse
loro la parola, e li seguì per un tratto;
– che la stessa OLZAI successivamente li
riconobbe, vedendoli in televisione in seguito al loro
arresto, e li identificò nei due giovani incontrati il
9 maggio, che allora non conosceva.
* * * * *
Premesso che – come si vedrà – molti dati di prova
generica combaciano perfettamente con tali risultanze e
nessuna vi si oppone, e che gli imputati hanno dedotto,
per l’ora delitto, alibi falsi o inconsistenti, è
importante notare fin d’ora come le dichiarazioni
accusatorie rese dall’imputata di reato connesso
Gabriella ALLETTO siano confortate esaustivamente dalle
testimonianze escusse: di particolare rilievo quella di
Maria Chiara LIPARI circa il “quadro” al momento del
156
delitto; ma specialmente significativa, perché salda i
dati in un tutto coerente (e oltretutto contribuisce a
smantellare gli alibi), la inequivocabile testimonianza
di Giuliana OLZAI.
Accanto alle dichiarazioni della ALLETTO stanno
quelle, pure accusatorie, di Francesco LIPAROTA, la cui
ritrattazione davanti al PM in sede di indagini e le
cui dichiarazioni spontanee nel dibattimento non sono
affatto convincenti. Numerosi elementi esterni, del
tutto genuini perché raccolti mediante intercettazioni
telefoniche dei suoi familiari, confermano che anche
LIPAROTA si trovava al momento delle sparo in aula sei,
e aveva visto che a sparare era stato Giovanni
SCATTONE; e già questi costituiscono ontologicamente
dei riscontri esterni (di carattere indiziario) alle
sue dichiarazioni accusatorie rese nell’interrogatorio.
Ma importanti riscontri – “esterni” rispetto alle
predette dichiarazioni di ALLETTO e di LIPAROTA e
“individualizzanti” rispetto alla responsabilità degli
imputati SCATTONE e FERRARO – si rinvengono nelle
dichiarazioni di Giuliana OLZAI e nella falsità degli
alibi, quanto meno di FERRARO.
157
LE DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
I
DA MARIA CHIARA LIPARI A GABRIELLA ALLETTO
Partendo dunque dalle dichiarazioni di Gabriella
ALLETTO, deve essere posta al centro dell’attenzione,
naturalmente, la “clamorosa svolta” della giornata del
14 giugno 1997, quando la dichiarante – per dirla con
la Cassazione – “in rotta decisa e convinta con
l’atteggiamento menzognero assunto fino a quel momento
si era decisa alla fine a cambiare versione,
raccontando quello che aveva visto mentre si trovava
con LIPAROTA nella sala assistenti”.
E va subito esposto chiaramente il fatto,
rilevantissimo, che tali “svolte” sono state due: la
prima – quella a cui accenna la Cassazione è avvenuta
il 14 giugno 1997, e se ne parlerà lungamente.
La seconda – non meno importante e apprezzabile –
è avvenuta davanti alla Corte d’Assise, nel corso del
giudizio di primo grado.
158
In dibattimento Gabriella ALLETTO, imputata di
favoreggiamento personale, aveva già dichiarato di
volersi avvalere della facoltà di non rispondere.
E tuttavia ella ha deciso di raccogliere una sorta
di quanto mai opportuna “allocuzione morale” del
Presidente della Corte, il quale – precisando
naturalmente di non voler costringere nessuno a
rinunciare ai propri diritti – ha fatto presente che in
questo processo così grave, che tanto ha scosso
l’opinione pubblica, solo chi conosce la verità, solo i
dichiaranti con le loro dichiarazioni apertamente
sottoposte alla dialettica dibattimentale, possono far
trionfare la verità.
E Gabriella ALLETTO, le cui dichiarazioni peraltro
già erano state raccolte, nel corso delle indagini, con
un lungo e particolareggiato incidente probatorio, ha
deciso di recedere dal proprio atteggiamento –
encomiabilmente, sia detto da un punto di vista morale,
indipendentemente dall’esito del processo – e di
sottoporsi ancora, per estenuanti e travagliate
giornate, al fuoco di fila delle domande di tutte le
parti e perfino ai confronti con gli imputati Giovanni
SCATTONE e Salvatore FERRARO, fornendo ai giudici la
possibilità di acquisire un convincimento pienamente
“garantito”.
Che altrettanto non sia stato fatto da altri
protagonisti o comprimari della vicenda (LIPAROTA,
VILLELLA, MARCUCCI) costituisce certo l’esercizio di
diritti insopprimibili, ma anche un limite
all’accertamento della verità.
159
Sta di fatto che Gabriella ALLETTO in tutti tali
frangenti – incidente probatorio e dibattimento – al di
là della sua più precisa e specifica qualificazione
processuale di indagata prima e di imputata poi per
favoreggiamento personale – si sia presentata come una
sorta di “teste oculare” del delitto, della cui
esecuzione – impregiudicata in questo momento la sua
attendibilità – ha fornito una descrizione
inequivocabile.
* * * * *
Tuttavia, nel quadro di una complessiva
valutazione delle sue dichiarazioni, questa Corte
ritiene necessario esaminare un punto preliminare, che
riguarda la sua stessa individuazione come persona
presente al momento dello sparo nella sala assistenti.
Senza voler sovvertire la corretta impostazione
“sistematica” della motivazione prescritta dalla
Cassazione – che impone di “partire” proprio dalle
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO – è indubbio che
costei è balzata al centro delle indagini e poi
dell’intero processo perché indicata da Maria Chiara
LIPARI come persona, appunto, presente in aula 6 fra le
11,40 e le 11,45 di quel 9 maggio; e dunque è
preliminare la verifica della veridicità di questo
punto, che costituisce il presupposto delle conoscenze
della ALLETTO in ordine al fatto per cui si procede.
* * * * *
160
La sentenza di primo grado ha offerto una
diligentissima ricostruzione della mattinata in
Istituto, che merita di essere riprodotta per intero,
quasi alla lettera:
– il 9 maggio all’Istituto di Filosofia del Diritto
sono presenti pochi assistenti, essendo quasi tutti
impegnati in un convegno a Teramo;
– il personale addetto alla gestione della segreteria
giunge all’Istituto tra le 7.30 e le 8.00. Sono
presenti ALLETTO, URILLI, LIPAROTA, il dr. BASCIU.
ALLETTO, URILLI e BASCIU stazionano nelle loro stanze,
spostandosi ove richiesti di qualche servizio;
LIPAROTA raggiunge la sua destinazione naturale (la
zona sala cataloghi biblioteca). Arriva in orario
imprecisato anche il bibliotecario ARIEMMA, che (per
una questione attinente alla timbratura del cartellino)
si è avvalso della facoltà di non rispondere
sull’orario di arrivo.
– intorno alle 8.20-8.30 giunge un gruppetto di
studenti, tra i quali CLAUDIO ORIOLO, BENIAMINO IORIO,
ANNA GARCEA, SIMONA QUARANTA, GIACOMO CALIENDO, SIMONE
BRUNO, FRANCESCO ESPOSITO. Tutti costoro (ed altri non
identificati) prendono posto nella sala lettura, o
sala laureandi, e si mettono a studiare. Non risulta
che nessuno di loro si sia recato in sala assistenti.
– Alle 9.00 giunge in Istituto la borsista Benedetta
FAEDI, incaricata di coadiuvare gli studenti
nell’attività di ricerca (con orario 9-12).
– sempre alle 9.00- 9.15 arrivano gli assistenti
TRONCARELLI e SAVARESE, che hanno un appuntamento per
161
andare a Teramo. Si affacciano per salutare il prof.
ROMANO e se ne vanno subito, alle 10.00;
– alle 9.30 giunge la laureanda Irene CASTIGLIA, che
deve parlare con il prof. ROMANO;
– intorno alle 9.45 arriva la dr.ssa LIPARI;
– alle 9.45 CASTIGLIA incontra ROMANO, dopo averlo
atteso 15 minuti circa. ROMANO parla anche con la
dr.ssa LIPARI. Si concorda la lettera da spedire a
BISER, il professore tedesco;
– il bibliotecario ARIEMMA va via in orario
imprecisato tra le 9.45 e le 10.00; –
– alle 10.50 arriva la dr.ssa AVITABILE:
– intorno alle 11.05-11.10 arriva la dr.ssa LODOLINI,
ricercatrice del prof. CAPAGGI. Parla con la LIPARI.
– alle 11.20 torna il prof. Bruno ROMANO (in una pausa
dei colloqui con gli studenti), parla con la
AVITABILE, telefona dal suo studio (alle 11.21), firma
la lettera a BISER redatta dalla LIPARI, si assenta
nuovamente;
– alle 11.30 la AVITABILE (che aveva fatto due
telefonate alle 11.07 e 11.08 e 2”) va via;
– intorno alle 11.30 ALLETTO, LA PORTA e Maria Chiara
LIPARI cercano di far partire il fax (l’orario si
accorda perfettamente con la firma di ROMANO, apposta
poco dopo la telefonata delle 11,21), ma l’apparecchio
non funziona.
A questo punto, durante le indagini, la ALLETTO
dichiara di essere rimasta sino alle 12.00 in aula 4,
dove c’è il fax; LA PORTA invece la vede uscire poco
dopo le 11.30 dalla aula 4; la IANNETTI cerca invano
162
di aprire l’aula 4, che era chiusa, per cercare la
ALLETTO, verso le 11,30.
Poco dopo, verso le 11.40 va via la LODOLINI. Dato che
costei ha parlato con la LIPARI, si capisce come
quest’ultima, dopo che l’altra è andata via, torni a
controllare – invano – la sorte della fotocopia della
lettera per il prof. BISER e poi entri a telefonare
nella sala assistenti, nella quale nel frattempo era
entrata la ALLETTO che la cercava.
– tra le 11.30 e le 11.45 CRISTIANA IANNETTI cerca
vanamente di farsi firmare l’autorizzazione al ritiro
di due volumi dalla ALLETTO, che di solito è nella
aula 4. Ma trova che l’aula 4 è ancora chiusa. Allora
se la fa firmare da BASCIU. Nella stanza di BASCIU c’è
uno studente esperto d’informatica, MARIO CASALINI;
– tra le 11.35 e le 11.50 il borsista GIUSEPPE GERACE,
accompagnato dalla sua amica FEDERICA GIUBILO, entra o
fa capolino per due volte nella Sala Cataloghi. Cerca
LIPAROTA, per l’organizzazione di una cena. Entrambe
le volte LIPAROTA non è in sala cataloghi e LA PORTA
riferisce al GERACE che si è allontanato;
– alle 11.42 circa MARTA RUSSO viene ferita;
– alle 11.44 Maria Chiara LIPARI entra nella sala
assistenti e vi si trattiene, effettuando due
telefonate, sino alle 11.48.47”, vedendo nella stanza
quanto meno ALLETTO e LIPAROTA;
– alle 11.58 arriva l’autoambulanza;
– intorno alle 12.00 va via Benedetta FAEDI;
163
– dopo l’arrivo dell’ambulanza, il prof. ROMANO,
FIORINI, ALLETTO, CASTIGLIA, URILLI e altri si
affacciano alla finestra;
– alle 12.08 l’ambulanza è già al Policlinico;
– alle 12.44, dalla Sala Cataloghi, SCATTONE cerca di
telefonare, non riuscendovi, a casa FERRARO dove non
risponde nessuno;
– alle 12.56.33” SCATTONE, sempre dalla Sala
Cataloghi, telefona a FERRARO e parla con lui sino
alle 12.59;
– alle 13.00 la signora RAGNO riferisce alla ALLETTO
che hanno sparato a una ragazza;
Questi, dunque, i dati di fatto rilevanti per la
ricostruzione dei movimenti di tutti e da tenere
presenti per la comprensione dell’intero episodio.
* * * * *
Osserva la Corte, sulla base di quanto sopra e di
quanto si dirà, che senza dubbio è certa, per via delle
telefonate da lei effettuate, la presenza della LIPARI
in aula 6; e che si può senza alcuna difficoltà fare
pieno affidamento sui ricordi di questa teste circa il
punto specifico riguardante la presenza di Gabriella
ALLETTO (e di Francesco LIPAROTA) in sala assistenti.
Infatti l’indicazione da parte sua della presenza
di queste due persone, a lei ben note, in aula 6, è
avvenuta subito fin dallo stesso 21 maggio (più
esattamente, alle ore 1,40 del 22 maggio) che era il
primo vero giorno di indagini nei confronti
dell’Istituto di Filosofia del Diritto e delle persone
164
che lo frequentavano, e non fa parte di quella discussa
“progressione” di ricordi, sempre più sicuri, precisi e
dettagliati nel tempo, di cui la LIPARI si è fatta
portatrice, né ha nulla di “subliminale”; non è stata
frutto di un suo ipotetico “furore” collaborativo
dettato da una sua eccessiva “ansia di giustizia”, né
delle “contaminazioni probatorie” denunciate dagli
appellanti.
* * * * *
Questa Corte ha ben presente la situazione
psicologica di Maria Chiara LIPARI nella drammatica
giornata del 21 maggio, quando, assieme alle altre
persone gravitanti attorno all’Istituto di Filosofia
del Diritto, fu convocata in Questura.
Fino a quel momento sapeva soltanto che una decina
di giorni prima una studentessa era stata uccisa
all’Università, proprio nei minuti in cui ella se ne
stava andando a casa senza essersi accorta di nulla, e
che le indagini brancolavano nel buio: si parlava senza
costrutto di mafia, di Brigate Rosse, di un fanatico di
armi.
Improvvisamente ella – persona sensibilissima e
reattiva – fu posta al centro di quel “mondo” di cui si
sentiva addosso “tutti i mali, per questa morte
ingiusta e assurda”, e caricata di “responsabilità”.
Venne a sapere che il colpo era certamente partito
dall’aula 6, nella quale, altrettanto certamente, si
era trovata essa stessa un paio di minuti dopo: per cui
165
aveva certamente visto qualcosa, e doveva assolutamente
ricordare che cosa e chi avesse visto.
Così, in una stanza della Questura, fra tante
persone in corso di interrogatorio, in mezzo ad una
attività frenetica, anche con qualche inelegante
sollecitazione di troppo (“Sputtano lei, sputtano suo
padre”) – cosa di cui non vi era, con la LIPARI, alcun
bisogno, ma comprensibile nella concitazione del
momento – una mattinata all’Università come le altre e
un momento banale come una telefonata a casa divennero
“una svolta nella vita”.
Ebbene, è incontrovertibile che, almeno per quanto
riguarda ALLETTO e LIPAROTA, la LIPARI ne ha ricordato
quasi subito la presenza, nell’arco dei diversi esami,
serrati e consecutivi, svoltisi durante quella giornata
del 21-22 maggio 1997 che, per via del “sicuro” residuo
di sparo sul davanzale della finestra dell’aula 6, era
divenuta in pratica la prima vera giornata di indagini;
e non è credibile in punto di fatto (a prescindere da
ogni altra considerazione) che già a quel momento –
come sostengono gli appellanti -, degli inquirenti
ansiosi di risolvere il caso avessero elaborato un
completo iter investigativo più o meno sostenibile, e
individuato in ALLETTO e LIPAROTA gli “anelli deboli”
(per giunta sbagliandosi di grosso sul conto della
ALLETTO) che li avrebbero portati, dopo diverse altre
tormentose settimane, ad una “soluzione” purchessia.
* * * * *
166
In particolare non ha alcun appiglio probatorio
l’ipotesi difensiva per cui il dott. Carmine BELFIORE
che conduceva le indagini avesse individuato subito,
“col suo fiuto poliziesco”, la ALLETTO ed il LIPAROTA
come le persone “sulle quali far leva” per venire a
capo del caso (gli “anelli deboli”, appunto); e che
qui, “in questo approccio poliziesco alla vicenda da
parte del BELFIORE” si trovi addirittura “ la radice”
che ha generato tutto il corso successivo
dell’inchiesta.
Secondo tale impostazione, sarebbe illuminante il
fatto che quelli di ALLETTO e LIPAROTA, per il tipo di
lavoro espletato, siano stati “i primi nomi venuti
alla mente del funzionario”; che questi due personaggi
siano stati i primi ad essere interrogati,
personalmente da lui, dopo il ritrovamento della
particella binaria sul davanzale; che proprio loro
siano stati nominati, dopo un lungo interrogatorio, da
Maria Chiara LIPARI: imbeccata, in sostanza, dallo
stesso BELFIORE, sulla sola scorta di una propria
intuizione investigativa, senza alcun riferimento a
realtà e verità.
Si tratta di una tesi priva di fondamento.
E’ vero che Gabriella ALLETTO e Francesco LIPAROTA
alla data del 21 di maggio 1997 erano già entrati nelle
indagini, ma non per il “fiuto“ di BELFIORE, bensì
soltanto perché amici di quel Salvatore ZINGALE che era
stato fino a quel momento l’unico sospettato o
indagato: per questo motivo le loro utenze telefoniche
erano state poste sotto controllo.
167
Ma anche l’utenza di Maria Chiara LIPARI – e dei
suoi parenti e amici – era stata posta sotto controllo,
ed ella si era abbandonata, a partire dallo stesso 22
maggio e nei giorni successivi, agli sfoghi più aspri
(torrentizi e incontrollati, veri “accenti di verità”)
nei confronti non solo dell’ambiente dell’Istituto, ma
degli stessi inquirenti: e non una sola volta può
cogliersi il minimo accenno all’ipotesi che le avessero
suggerito, o proposto, o imposto, un qualsiasi nome.
* * * * *
Proprio il 22 maggio Maria Chiara LIPARI parla col
suo amico JACOPO e racconta: “quando sono entrata per
telefonare a mia madre c’era gente nella stanza, e
questi fino alle cinque di mattina hanno voluto
assolutamente che dal subconscio, veramente da …
dall’ano proprio del cervello, mi venisse in mente
qualche faccia, qualche immagine, qualche… cioè in
parte sono anche riuscita a recuperare qualche
sensazione, qualche immagine”.
E poco più avanti: “(lo fanno) per intimidirti,
per costringerti… tutto il pomeriggio sono stati a
dirmi: lei e’ in una posizione delicata… lei sa, mors
tua vita mea…; cioè… non stava né in cielo né in terra
che io… stessi lì con dei ricordi precisi che però non
volevo dire… per paura …; … per cui loro mi dicevano
sì, però allora ti incolpiamo a te, per cui dilli…;
cioè non stava né in cielo né in terra proprio”.
E ancora puntualizza: “quest’ultimo interrogatorio
è stato due ore e mezzo con un certo Procuratore, e
168
‘sto Procuratore… è stato anche a tratti violento
insomma, … psicologicamente, verbalmente…; certo,
avrei potuto reagire di più, però non gli ho detto
niente, sai, perché… ho tentato di collaborare, a me
interessava collaborare…”.
Maria Chiara LIPARI non ha alcun bisogno di essere
né intimidita né costretta: ”a me interessava
collaborare…”; “non stava né in cielo né in terra che
io stessi lì con dei ricordi precisi che però non
volevo dire”. Ella non dimostra un particolare
trasporto verso gli inquirenti (“questi qui”; “’sto
Procuratore… violento”); e tuttavia è certo che essi,
malgrado le pressioni (“lei è in una posizione
delicata…, “però allora ti incolpiamo a te per cui (i
nomi) dilli”), mai le hanno “proposto” qualche nome da
fare: hanno, magari con impazienza, atteso “che mi
venisse in mente qualche faccia, qualche immagine,
qualche…”.
E la LIPARI conclude, con un senso come di
liberazione: “cioè in parte sono anche riuscita a
recuperare qualche sensazione, qualche immagine…
insomma un casino guarda, una cosa di un doloroso
guarda…”,
“Doloroso” non perché indotta a mentire, ma per la
fatica di tirar fuori, dall’ano proprio del cervello,
quelle sensazioni, quelle facce e quelle immagini che
ha saputo e potuto riferire: ALLETTO e LIPAROTA.
* * * * *
169
E’ vero che in un primo momento Maria Chiara
LIPARI, nel pomeriggio del 21 maggio, esordì dicendo:
“Mi pare che quando ho fatto la telefonata in sala
assistenti non c’era nessuno”; ma la sera stessa
precisò invece che qualcuno “era uscito
frettolosamente dalla stanza bofonchiando qualcosa”;
ribadì che l’impressione ricevuta nell’entrare in aula
6 era che la stanza “non fosse vuota”, ma che anzi vi
fosse stato “un certo movimento”, e disse anche: “non
mi pare che ci fossero donne”.
Poco più tardi, però, nello stesso contesto di
esame a “SIT”, corresse anche queste ultime
dichiarazioni, e riferì con sicurezza la presenza di
Francesco LIPAROTA (“rivisto” nella mente perché
stempiato e con pochi capelli) e di Gabriella ALLETTO
(richiamata alla memoria, con particolare vivezza, per
aver ella pensato sul momento: “che ci fa qui
Gabriella?” a causa della inusualità della sua presenza
in quella stanza).
E’ importante notare come la LIPARI ci tenne a
rimarcare che era inusuale la contemporanea presenza di
costoro in quella sala, in piedi, senza che svolgessero
alcuna attività.
Si tratta di un “modo” di riaffiorare dei ricordi,
dopo averci pensato meglio e più a fondo, facendo
“mente locale” e ritrovando concreti appigli e
collegamenti mnemonici, che la Corte valuta – quanto al
punto specifico – assolutamente “normale” e rientrante
nella comune quotidiana esperienza.
170
Del resto, lo stesso Salvatore FERRARO – per
esempio – quanto al proprio alibi riferisce dapprima di
essere stato tutta la mattina in casa e di aver
ricevuto “molte telefonate” da Marianna MARCUCCI; poi,
re melius perpensa, ricorda che le “molte telefonate”
non ci furono e che la MARCUCCI andò a casa sua di
persona; i difensori e lui stesso trovano
“normalissimo” un simile riaffiorare di ricordi, ma non
si vede perché un identico modo non debba essere
“normalissimo” anche per la LIPARI, almeno rispetto
alle sue prime dichiarazioni di qualche ora prima.
Tanto più appare affidabile questo ricordo in
quanto esso non è connesso a chissà quale suo
“esasperato” impegno, né a sue speciali elucubrazioni,
ma è riaffiorato in collegamento con precisi e concreti
elementi (i capelli radi, il “che ci fa qui
Gabriella?”, l’inusualità della loro contemporanea
presenza) che ne spiegano la genesi e gli conferiscono
vivezza e certezza; come può accadere ed accade
quotidianamente.
* * * * *
Una tesi contraria è insostenibile: a parte
l’assoluta mancanza di elementi probatori al riguardo,
è del tutto inverosimile che una persona moralmente fin
troppo “integralista” come Maria Chiara LIPARI abbia
potuto aderire ad una qualsiasi – ipotetica – proposta
del dott. BELFIORE, per quanto suadente, tendente a
farle “collocare” ALLETTO e LIPAROTA, contro verità,
dove voleva lui.
171
Così pure, è inverosimile che ella possa essersi
lasciata portare per il naso fino ad un tale risultato
“falso”, senza neppure accorgersene.
I ben tre elementi di cui sopra (i capelli radi,
il “che ci fa qui Gabriella?”, l’inusualità)
costituiscono uno di quegli “accenti di sincerità” di
cui si è parlato; ed è – al contrario – davvero
difficile attribuire al dott. BELFIORE un così sottile,
callido, immediato suggerimento, già facente parte fin
da prima del 21 maggio di un completo e “diabolico”
disegno.
Corrispondentemente va notato che Francesco
LIPAROTA perfino dopo aver ritrattato non ha mai
escluso di essersi trovato in quel frangente in sala
assistenti, pur senza accorgersi di nulla; e che la
ALLETTO, dopo aver deciso di cambiare versione, ha
confermato pienamente la presenza propria e di LIPAROTA
in aula 6.
Del resto, LIPAROTA “non ha alibi”, come dice lui
stesso al PM quando ritratta; e quello della ALLETTO
che sosteneva di essersi trattenuta fra le 11 e le 12
in aula fax era già stata smentito in punto di fatto
con la ricostruzione dei suoi movimenti e le
dichiarazioni di Stefano LA PORTA e di Cristiana
IANNETTI.
* * * * *
Non vi è dunque alcuna possibilità, a parere della
Corte, di dubitare delle affermazioni di Maria Chiara
172
LIPARI circa la presenza della ALLETTO (e del LIPAROTA)
in aula 6 quando ella vi entrò e li vide.
Naturalmente, ulteriori piene conferme della
presenza di Gabriella ALLETTO in sala assistenti nel
momento cruciale verranno più avanti, dalla analisi
contenutistica delle sue dichiarazioni e dalla
valutazione delle pressioni, dei condizionamenti e
degli inquinamenti a cui ella, secondo le difese degli
imputati SCATTONE e FERRARO, fu sottoposta: qui giova
aver stabilito che Gabriella ALLETTO è “entrata” nelle
indagini con un ruolo decisivo per via delle
dichiarazioni di Maria Chiara LIPARI, e che tali
dichiarazioni reggono – sul punto – a qualsiasi vaglio
critico.
* * * * *
Una conferma importante deriva, a contrario, dal
fatto che, ancor prima che la ALLETTO si decidesse ad
ammettere la propria presenza in aula 6, era fallito –
anzi, si era rivelato falso – il suo “alibi”,
consistente nell’essersi trattenuta a cercare di
trasmettere il fax in aula 4 da poco dopo le 11 (di
ritorno dalla Ragioneria, come si vedrà) fino a
mezzogiorno (quando, tornata in segreteria, vide con
Irene CASTIGLIA che era giunta un’ambulanza).
In proposito Stefano LA PORTA, uno studente
borsista, ha riferito di essersi prestato ad aiutare la
ALLETTO a far funzionare il fax, senza riuscirci e di
avervi rinunciato, uscendo dalla stanza assieme alla
173
stessa ALLETTO, che chiuse la porta a chiave;
lasciarono la stanza non oltre le 11,30.
Dal canto suo Cristiana IANNETTI ha riferito in
dibattimento di aver cercato, come al solito, perché le
servivano dei visti inerenti al ritiro di alcuni testi,
la ALLETTO in aula 4, trovando la stanza chiusa, per
ben due volte, fra le 11,15 e le 11,30 (ma nel corso
delle indagini, aveva detto che ciò avvenne tra le
11,30 e le 11,40, probabilmente con maggiore esattezza
per la freschezza del ricordo e per quanto riferito dal
LA PORTA).
Neppure l’operazione da lei svolta la mattina del
9 maggio in Ragioneria fornisce un alibi alla ALLETTO
per l’ora del delitto: si tratta di una ipotesi – come
si vedrà – avanzata dallo stesso BASCIU e dai difensori
di SCATTONE e FERRARO ma non dalla stessa ALLETTO, che
ben sapeva di essersi recata in Ragioneria, il 9
maggio, prima delle 11, e che “al massimo alle 11,20”
era già tornata.
Del resto, è quanto mai significativo un segno di
cedimento che emerge, proprio a questo proposito dalla
trascrizione dell’audio del “videoshock” (di cui si
parlerà ampiamente e che risale a prima della sua
“svolta collaborativa”).
Esaminata dal Procuratore Aggiunto dott. ORMANNI,
insiste nel dire di essere andata in aula 4 (“Io la
quattro l’ho trovata aperta, guardi, le posso
assicurare”); e poi, incalzata dal PM: “Io non sto
dicendo quando è entrata, sto dicendo quando è uscita”,
ammette: “Quando so’ uscita io c’ho un vuoto! Io me
174
ricordo che so’ andata in segreteria e basta!”; e non
sa replicare quando le si contesta: “Adesso è
diventato un vuoto?… … dalla sala fax alla segreteria
ci vogliono dodici secondi!”.
175
LE DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
II
IL CONTENUTO DELLE DICHIARAZIONI
Accertata dunque l’effettiva consistenza del
presupposto di fatto – la presenza di Gabriella ALLETTO
in aula 6 (sala assistenti) – che costituisce una sorta
di “condizione” per la stessa esistenza della sua
deposizione, si può intraprendere l’accurato esame
delle sue dichiarazioni – che la pongono per così dire
come “teste oculare” del delitto, o almeno dello sparo
– al fine di valutarle: e naturalmente saranno valutate
non come una testimonianza, ma come dichiarazioni
provenienti da persona imputata o indagata di reato
connesso (o dello stesso reato, rispetto all’ipotesi di
favoreggiamento che ora riguarda sia LIPAROTA che
FERRARO), secondo i dettami previsti dalla legge per
tali dichiarazioni.
* * * * *
Una più dettagliata esposizione del suo racconto è
contenuta nella parte narrativa di questa sentenza
(pagg. 38 e segg.) e nella sentenza di primo grado
dalla pagina 144 alla 183, da intendersi qui riportate
senza inutili ripetizioni; ora giova ricordare, per
sommi capi, che la ALLETTO, nell’approssimarsi alla
176
porta dell’aula 6, si era imbattuta in uno sconosciuto
che ne usciva, alto e vestito di nero, estraneo
all’ambiente dell’Istituto; una volta entrata, aveva
visto che nella stanza c’erano (oltre a Francesco
LIPAROTA) anche Salvatore FERRARO e Giovanni SCATTONE.
LIPAROTA era un po’ verso la sinistra della
stanza, per chi entra; FERRARO stava dietro ad una
delle due scrivanie in fondo alla sala tra le due
finestre, e SCATTONE era nella nicchia della finestra
di destra (quella che ha il condizionatore); era messo
di fianco, e “guardava un po’ dentro e un po’ fuori”.
Nel momento in cui ella stava chiedendo al
LIPAROTA dove si potesse trovare la LIPARI, sentì un
“tonfo” preceduto da “un bagliore”, (“molta luce”),
come per uno spostamento delle doghe verticali della
tenda.
Vide subito che SCATTONE si girava dalla finestra
verso l’interno della stanza ruotando sulla propria
sinistra, e che ritraeva il braccio destro, tenendo in
mano una pistola di metallo; uscito dal vano della
finestra con la pistola, la mise in una borsa,
probabilmente di FERRARO, che stava sulla scrivania.
Pochi istanti prima del “tonfo” ella aveva notato
che SCATTONE, “di taglio” nella nicchia della finestra,
spostava con la sinistra le doghe della tenda e aveva
“il braccio destro teso e leggermente flesso verso
l’esterno”. Dopo aver riposto la pistola nella borsa,
SCATTONE lasciò la stanza, ma un attimo prima vi era
entrata Maria Chiara LIPARI, che si mise a telefonare.
177
La tensione, scesa con un “gelo” all’ingresso
della LIPARI (“un ghiaccio“ dice la ALLETTO
nell’incidente probatorio), si sciolse quando SCATTONE
uscì, seguito poco attimi dopo da FERRARO, che uscì
assieme a LIPAROTA portando via la borsa, e poi da lei
stessa.
* * * * *
Questa la sintesi del suo racconto: e poiché Marta
RUSSO fu certamente attinta da un colpo di pistola;
poiché la finestra da cui la ALLETTO vide sparare si
affaccia esattamente sul vialetto in cui la ragazza fu
ferita; poiché la prima telefonata di Maria Chiara
LIPARI, secondo la ALLETTO che era nella stanza,
avvenne quasi immediatamente dopo lo sparo; poiché,
secondo gli accertamenti praticati aliunde, Marta RUSSO
fu colpita nel vialetto in quello stesso istante, è
evidente che quello fu il colpo che la uccise e che
Gabriella ALLETTO, secondo questo suo racconto,
assistette allo sparo.
Di qui la responsabilità di Giovanni SCATTONE
quale autore dell’omicidio e di Salvatore FERRARO e
Francesco LIPAROTA, nonché della stessa Gabriella
ALLETTO, quali testi reticenti e dunque favoreggiatori
(oltre alla ulteriore responsabilità di FERRARO in
relazione alla borsa nella quale fu portata via, col
suo concorso, la pistola); è dunque palese che le
dichiarazioni della ALLETTO assumono in questo processo
un ruolo assolutamente centrale.
178
* * * * *
E’ da mettere in rilievo fin d’ora il fatto che,
secondo le dichiarazioni dei funzionari di polizia che
conducevano le indagini Carmine BELFIORE e Lamberto
GIANNINI, essi “caddero dalle nuvole” quando, la sera
del 14 giugno 1997, Gabriella ALLETTO (che era
esaminata in quel momento da BELFIORE e da Domenico
VULPIANI della DIGOS) fece il nome di Giovanni SCATTONE
come autore dell’omicidio:
– il dott. Carmine BELFIORE nell’udienza del
10.9.1998 ha spiegato che “se per l’imputato FERRARO
già si aleggiava qualcosa, c’era qualcosa… per me
l’imputato SCATTONE è stato… io non sapevo nemmeno chi
fosse e nemmeno di chi si trattasse, tant’è che sono
uscito immediatamente fuori, ho detto: ma SCATTONE chi
è, perché io non avevo avuto occasione di incontrarlo
e nemmeno di saperlo”;
– il dott. Lamberto GIANNINI nella stessa udienza
ha riferito che “il collega BELFIORE… in serata mi
venne a prendere in giro perché mi disse non abbiamo
capito – dice – ma chi è SCATTONE?, insomma era stata
una grossa sorpresa il dottor SCATTONE, perché
effettivamente era… insomma noi ci eravamo proprio
passati sopra”.
* * * * *
Si tratta di un particolare che, se vero,
colorerebbe di autenticità e rafforzerebbe le
dichiarazioni della ALLETTO; ma che, proprio per ciò, è
179
stato fortemente contestato dalla difesa di Giovanni
SCATTONE e bollato come frutto di simulazione da parte
dei succitati funzionari, che già da tempo avrebbero
avuto SCATTONE nel mirino.
Proprio in considerazione dei suddetti rilievi da
parte della difesa di Giovanni SCATTONE, in grado
d’appello si è provveduto, a norma dell’art. 603 CPP, a
riesaminare i funzionari di polizia interessati alla
deposizione di Gabriella ALLETTO nel momento in cui
ella fece il nome di SCATTONE (Carmine BELFIORE e
Domenico VULPIANI procedenti all’esame, Lamberto
GIANNINI presente in ufficio subito interpellato dal
BELFIORE).
La rinnovazione parziale dell’istruzione
dibattimentale ha confermato:
– che FERRARO era “il soggetto di interesse”;
– che il telefono di SCATTONE era stato posto
sotto controllo, come “tantissimi telefoni”, non perché
interessasse SCATTONE ma – proprio come quello della
MARCUCCI – perché era ”amico di FERRARO”;
– che SCATTONE era investigativamente “una figura
marginale”;
– che quando la ALLETTO fece il nome di SCATTONE,
VULPIANI e BELFIORE si guardarono interrogativamente
senza reazioni per non “bloccare” la donna che si stava
“aprendo”;
– che il dott. BELFIORE a un certo punto uscì
dalla stanza, cercò GIANNINI e gli disse: “C’entra
pure SCATTONE; ma chi è ‘sto SCATTONE?”;
180
– che in prosieguo essi BELFIORE e GIANNINI
constatarono di aver “sottovalutato” la figura di
SCATTONE, e di non aver fatto caso alla circostanza che
fin dal 21 maggio Francesco LIPAROTA aveva dichiarato
di averlo visto in Istituto la mattina del ferimento di
Marta RUSSO verso le ore 9,30.
181
LE DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
III
LA VALUTAZIONE “GUIDATA” DELLE DICHIARAZIONI
LA CREDIBILITA’ SOGGETTIVA
Le dichiarazioni accusatorie di Gabriella ALLETTO
devono essere sottoposte al più attento vaglio critico,
tanto più in quanto provenienti non da una testimone,
ma (in dibattimento) da una imputata, o (nella fase
finale delle indagini) da una persona indagata o che
comunque doveva essere considerata indagata fin da
quando gli inquirenti cominciarono a ritenere il suo
comportamento così reticente e falso da configurare a
suo carico una ipotesi di favoreggiamento personale; né
può essere cancellato il fatto che ella fino al 14
giugno 1997, interrogata ripetutamente – specialmente
dopo che il 21 maggio, per via della consulenza del
dott. FALSO, si ritenne di aver raggiunto la “certezza”
che il colpo di pistola fosse partito dall’aula 6 –
ebbe sempre a sostenere di non sapere niente e di non
essersi trovata, la mattina del 9 maggio fra le 11 e le
12, in sala assistenti, descrivendo il proprio impegno
– in ora corrispondente al delitto – sul “fax” che non
ne voleva sapere di funzionare.
182
* * * * *
Con riferimento ai ben noti criteri individuati
dalla legge (art. 192 CPP) e dalla giurisprudenza per
la valutazione delle dichiarazioni del “chiamante” (ex
plurimis, Cass. Sez. VI, 6 luglio 2001 . 37022, AGATE,
Sez. II, 27 aprile 2001, n. 31643, FAIA, Sez. V, 20
febbraio 2000 n. 4888, ORLANDO, sulla scia di SS. UU.
22 febbraio 1993 n. 1653, MARINO), ritiene la Corte di
non doversi discostare da quanto costituisce ormai jus
receptum al riguardo, e di dover dunque fare
riferimento ai tre requisiti che consistono nella
credibilità personale del dichiarante, nella
attendibilità intrinseca delle dichiarazioni e –
superati i predetti punti – nella ulteriore necessaria
sussistenza di adeguati riscontri esterni.
A loro volta:
– la credibilità soggettiva della persona che,
imputata o indagata per lo stesso reato e per un reato
connesso o probatoriamente collegato, renda
dichiarazioni accusatorie sul conto di altri, deve
essere valutata sulla scorta di elementi quali il
carattere e il temperamento del soggetto, le sue
condizioni culturali e sociali, la sua vita anteatta, e
specialmente i rapporti con l’accusato nonché la genesi
e i motivi della “chiamata” (vedi Cass. Sez. V, 20
febbraio 2000 n. 4888, ORLANDO, e Sez. I, 17 dicembre
1998 n. 13272, ALLETTO);
– l’attendibilità intrinseca (cosiddetta
“consistenza”) delle dichiarazioni va soppesata in
relazione alle loro caratteristiche di autonomia,
183
spontaneità, disinteresse, coerenza, costanza e simili,
nonché al contenuto specifico dei fatti narrati
(verosimiglianza, precisione, completezza) (esauriente,
fra le altre, Cass., Sez. V, 10 agosto 2000 n. 9001,
MADONIA).
Di tutti questi principi si è tenuto conto nella
decisione e si darà conto in questa sede, ancorché
sussistano palesi esigenze di ordinata – ed anche
“economica” – esposizione argomentativa che non
consentiranno sempre una rigorosa distinzione fra l’uno
e l’altro criterio, i quali spesso si intrecciano tra
di loro.
* * * * *
Seguendo dunque l’elencazione sopra riportata, può
ben dirsi che sul carattere e sul temperamento di
Gabriella ALLETTO sono stati spesi fiumi d’inchiostro,
con valutazioni contrastanti quanto opinabili (né
potrebbe essere diversamente, data la natura
immateriale e sfuggente dell’argomento). L’accusa
pubblica, quella privata, il suo difensore nel giudizio
di primo grado, le agguerritissime difese degli altri
imputati, i giudici di merito e la stessa Cassazione si
sono espressi sul punto con le accentuazioni più varie;
quasi sempre ella è stata posta in contrapposizione con
Maria Chiara LIPARI, l’una “priva di senso civico” e
reticente fino a guadagnarsi una incriminazione
(finendo però poi per diventare decisiva per l’accusa),
l’altra invece animata da grande civismo,
184
straordinariamente collaborativa, “esemplare” o
“maniacale” a seconda dei punti di vista.
Questa Corte non intende abbandonarsi a
considerazioni moralistiche né trionfalistiche (con
riferimento ai due opposti atteggiamenti processuali
della ALLETTO), ma solo ricercare le ragioni di un
giudizio circa la sussistenza o meno di una sua
attendibilità.
In proposito, peraltro, ritiene la Corte che la
valutazione sul suo carattere e sul temperamento non
può essere scissa da quella sugli altri criteri
riguardanti le sue condizioni culturali e sociali e la
sua vita anteatta di “madre di famiglia”, come ella
stessa si definisce, quasi cinquantenne, diplomata,
incensurata, con un lavoro tranquillo e una vita
tranquilla; forse con ideali limitati ma certamente con
una solida quotidianità; con una profonda convinzione,
anche morale, di avere il diritto e il dovere di
difendere tale tranquillità; e con una adesione
istintiva a quel “non immischiarsi” nei fatti altrui
che costituisce, in Italia, una sorta di imperativo
categorico nei ceti piccolo-borghesi (e non solo);
specialmente se i fatti sono gravi o gravissimi, se i
protagonisti stanno “più in alto”, se il clamore
pubblico è grande.
Più che mai, poi, ciò avviene – basta vedere come
quasi sempre si comportano i terzi in occasione del più
banale degli incidenti stradali – quando ci sono di
mezzo “la giustizia” e i processi, ancora peggio se
penali: si profilano all’orizzonte inimicizie,
185
responsabilità, contestazioni, stress, seccature,
perdite di tempo, senza nessun tipo di “protezione” o
di “ritorno”: l’atteggiamento quasi automatico è quello
così ben descritto dal Procuratore Generale: come
avrebbero fatto molti al suo posto, “Gabriella ALLETTO
ha visto e ha girato la testa dall’altra parte”.
Non è vero, dunque, come hanno vigorosamente
sostenuto le difese degli imputati, che la spiegazione
del suo primo atteggiamento – quello “negativo” –
consistesse nel fatto che davvero non aveva visto
niente e davvero non era entrata nell’aula 6.
Non si tratta di interpretazioni o intuizioni
psicologiche, più o meno fondate: è la stessa ALLETTO
che spiega efficacemente – ecco alcuni degli “accenti
di sincerità” di cui si è parlato – il perché del suo
comportamento negativo: “Io non potevo essere
coinvolta in prima persona, perché mi sarebbe venuta
addosso una valanga” (udienza 15.9.1998,pag. 98); “Ho
evitato tutto questo (di “parlare”, ndr) per non
essere coinvolta e per proteggermi, coinvolta da tutto
quello che è stato dopo, per proteggermi” (udienza
14.9.1998, pag. 181).
Con un atteggiamento, dunque, che la Corte valuta
come perfettamente logico, comprensibile, credibile, in
linea con la mentalità sopra descritta, Gabriella
ALLETTO taceva su quello che sapeva “per proteggersi”,
per non essere “coinvolta”, per non subire – lo dice
lei stessa – “quello che è successo dopo”.
E “dopo”, infatti, non è accaduto soltanto che
ella abbia caricato sulla propria coscienza lo
186
spiacevole peso di accusare due giovani che
respingevano qualsiasi responsabilità (cosa che non
voleva fare, perché non voleva “fare la spia”,
incidente probatorio 31.7.1997), ma sono esplose mille
polemiche e si sono riversati sulla ALLETTO tutti i
fastidi che aveva paventato.
Ella, come aveva previsto, ha dovuto subire
l’ostracismo sul posto di lavoro, ha dovuto trasferirsi
ad un altro servizio, è stata “vivisezionata” sulla
stampa, in televisione ed in aula, ha subito minacce e
molestie telefoniche, ha visto compromessa la pace
familiare: è proprio questa la “valanga” da cui voleva
tenersi lontana, ed è questa la dichiarata, e
comprensibile e reale ed unica ragione delle sue
reticenze iniziali.
Efficacissimo il suo dialogo col Presidente della
Corte all’udienza del 15 settembre 1998: “Signora, lei
ha detto “io mentivo a lui (al cognato DI MAURO)
perché…”? “Perché avevo una paura tremenda,
Presidente” “Paura tremenda per che cosa?” “E perché
sarei rientrata in Istituto e avrei trovato quello che
ho trovato”.
Non a caso Gabriella ALLETTO è stata assolta dal
reato di favoreggiamento per aver agito in stato di
necessità, con decisione ormai definitiva.
* * * * *
Continuando nell’applicazione dei criteri sopra
enunciati, si osserva, ancora, che nessun argomento può
trarsi, a detrimento della credibilità di Gabriella
187
ALLETTO, dai suoi rapporti con gli accusati: nessun
rancore la animava nei confronti di Giovanni SCATTONE –
la persona da lei direttamente accusata di aver
personalmente commesso l’omicidio -, né alcun possibile
motivo di astio – tale da motivare una così grave
calunnia – è stato mai adombrato neppure dall’imputato;
quanto a Salvatore FERRARO, i rapporti erano – per
affermazione di entrambi – ottimi, tanto che ella
nutriva quasi dell’affetto materno per questo ragazzo
calabrese che viveva a Roma praticamente solo (con una
sorella), che trascorreva le giornate in Istituto e che
era sempre gentile e disponibile con gli studenti.
* * * * *
Un più lungo discorso richiede un altro tema
cruciale delle deposizioni della ALLETTO, ossia la
genesi e i motivi della “chiamata”, che costituiscono,
secondo la giurisprudenza, un altro degli elementi di
valutazione in ordine alla credibilità soggettiva dei
dichiaranti.
Ancora una volta è la donna a fornire una
spiegazione psicologica e una ricostruzione storica del
tutto convincenti, sia sul piano razionale che su
quello emotivo; con molteplici ed evidenti “accenti di
verità”.
Il 9 maggio ella è scossa da quanto accaduto:
sulle prime (ecco gli “accenti di sincerità” della cui
importanza si è fatta menzione), ha “avuto una paura
tremenda”, viene “colta dal panico per quello che è
successo”, e quasi tenta una rimozione di ciò che ha
188
visto (“Tento di capire, ma me lo rimando giù”:
incidente probatorio, pag. 104 e segg.); poi, quando
giunge l’ambulanza, si affaccia con Irene CASTIGLIA
alla finestra della segreteria – che non dà sul
“vialetto” – ancora senza “collegare” gli eventi; si
pensa ad un incidente stradale, ad una caduta col
motorino, ma ancora “non capivamo cosa fosse successo”;
giunge il prof. ROMANO, si informa per telefono, sente
che una ragazza si è sentita male, e ancora – dice la
ALLETTO – “non ho avuto modo di collegare le due cose”;
solo più tardi, attorno alla una, quando ha saputo che
c’era stato il ferimento di una persona con un’arma da
fuoco, finalmente ammette anche a se stessa (udienza
14.9.98): “In quel momento ho dovuto ricollegare tutto
e tenermi tutto dentro…”.
* * * * *
“Tenermi tutto dentro”, dice la Alletto; e infatti
le scelte altrui sono già fatte: la pistola è sparita,
FERRARO è andato via, SCATTONE fa lo gnorri, LIPAROTA
tace, si parla di un incidente o di un malore; quando
giunge la notizia che qualcuno ha sparato a una
ragazza, nell’Istituto di Filosofia del Diritto nessuno
sa niente, né quel giorno né i giorni successivi.
Gabriella ALLETTO si accoda: sente che non tocca a
lei “fare la spia”, né “confessare” l’accaduto. Se
qualche innocente, come lo ZINGALE, rischia di passare
dei guai, pazienza (“a me non mi è parente lo
ZINGALE”); gli inquirenti se la sbrighino, chi ha
sparato si assuma lui le proprie responsabilità; lei ha
189
“girato la testa”, per dirla col PG, vuole solo
“proteggersi”, non vuole essere “coinvolta” né
affrontare “valanghe”. Dice – per ora senza eccessive
contestazioni – di aver passato la mattinata tra la
segreteria, la sala cataloghi e la sala fax, senza
menzionare l’aula assistenti.
* * * * *
Quando poi, il 21 di maggio, si stabilisce che sul
davanzale della finestra dell’aula 6 – proprio quella
da cui ella ha visto SCATTONE sparare – c’è un residuo
“sicuro” di polvere da sparo, scattano
contemporaneamente le frenetiche attività di polizia,
la forte collaborazione della LIPARI, “l’innegabile
clima di omertà” – così scrive la Cassazione –
nell’Istituto di Filosofia del Diritto, un enorme
battage sulla stampa con le più diverse prese di
posizione, e lo sconcerto dell’opinione pubblica.
Gli inquirenti prestano fede a Maria Chiara
LIPARI, che riferisce di essere stata in aula 6 qualche
momento dopo lo sparo e di avervi visto Gabriella
ALLETTO, Francesco LIPAROTA ed altre persone, e la
ALLETTO reagisce male alla pretesa degli investigatori
di sapere da lei come sono andate le cose: non è lei
che deve “confessare” (è singolare e significativo
l’uso di questo termine da parte della ALLETTO, quasi
che – e purtroppo è convinzione diffusa – l’aver visto
e il dover parlare siano un reato); lei dice alla
LIPARI (udienza 15.9.1998, pag. 99): “Io lavoro,
faccio la mia vita di tutti i giorni, perché deve
190
venire ad incolpare me?” (da notare ancora i
collegamenti tra “l’aver visto” e il concetto di
“colpa”, e tra la sua “vita di tutti i giorni” e il suo
“diritto” ad essere “lasciata fuori”); si trincera
sempre più fortemente a difesa della propria
“tranquillità”, e ancora insiste nel collocarsi in sala
fax all’ora del delitto, incurante del fatto che gli
accertamenti investigativi al riguardo (i testi
Cristiana IANNETTI e Stefano LA PORTA) cominciano a
smentirla.
Molto efficacemente la stessa ALLETTO – che anche
in relazione ai tentativi di far funzionare il fax si
era descritta come persona “testarda” e “ostinata” –
precisa che le insistenze, le pressioni e anche le
minacce degli inquirenti (di arresto per
favoreggiamento, di una possibile imputazione per
l’omicidio, con la prospettiva di ventiquattro anni di
reclusione) “non la muovevano di un millimetro”: i loro
sforzi per indurla a cambiare atteggiamento ed a
rivelare ciò che doveva per forza sapere, trovandosi
certamente nell’aula 6 al momento dello sparo,
“andavano completamente a vuoto”.
Sul cognato poliziotto DI MAURO dice: “E’ stato
tanto lo sforzo da parte sua, ma io ero abbastanza
dura in questa posizione; questo lo devo riconoscere e
mi dispiace di non averlo fatto prima” (udienza
14.9.1998, pag. 173); e d’altronde fu tale la sua
resistenza che i poliziotti le contestarono di aver
“preso degli psicofarmaci perché sta così tranquilla”.
191
* * * * *
Questa Corte non trova incrinature né fattuali né
psicologiche in tale ricostruzione, operata dalla
stessa ALLETTO: ancora una volta, non è vero, come
hanno sostenuto le difese degli imputati, che ella
sulle prime tacque perché non aveva visto niente e non
sapeva niente: la sua reticenza – nell’assordante
silenzio di chi aveva agito in prima persona – era
frutto di una scelta istintiva e razionale insieme,
della difesa strenua – e “ostinata” – della sua
tranquillità di “madre di famiglia”, del volersi
“proteggere”, del non assumersi “le responsabilità che
mi sono portata appresso” (udienza 14.9.98).
* * * * *
Si consideri inoltre che se da un lato la sua
difesa del proprio quieto vivere è ben descritta da lei
stessa e costituisce una motivazione valida di per sé
all’atteggiamento di reticenza, essa risulta altresì
suggerita, corroborata ed imposta dal silenzio serbato
da tutti i protagonisti, e dalla altrettanto forte
difesa della estraneità al delitto dell’Istituto di
Filosofia (la cosiddetta “omertà”).
Da un lato, SCATTONE e FERRARO, in qualità di
assistenti, si trovavano ai suoi occhi in posizione ben
superiore alla sua, semplice segretaria, e ben più
diretti destinatari del dovere di “confessare”. E’
significativo come nell’udienza del 22.9.1998, al
difensore del prof. Romano – che le dice che se per
192
chiarire le cose all’interno dell’Istituto “lei gli
avesse dato il primo mattone, si sarebbe potuto
costruire qualcosa” – ella ribatta quasi indignata:
“Io lo dovevo dare il primo mattone?”.
A proposito, poi, del “clima di omertà” (“un muro
di gomma” lo definisce uno degli inquirenti), pur
apprezzandosi le giuste assoluzioni pronunciate nei
precedenti gradi di giudizio nei confronti del BASCIU,
della URILLI e del Prof. ROMANO, si osserva come
indubitabilmente vi sia stata, all’interno
dell’Istituto, una immediata presa di distanze nei
confronti del delitto: non solo tacquero i quattro
presenti in aula 6 (ALLETTO compresa), ma è
significativo il fatto che la sensibile Maria Chiara
LIPARI fosse presa da una sorta di ribellione morale di
fronte alla cinica indifferenza che avvertì
nell’ambiente rispetto alla morte – con quelle modalità
– di una studentessa ventiduenne.
La ALLETTO dal canto suo riferisce di un
atteggiamento del prof. Bruno ROMANO – il capo
dell’Istituto – che lei definisce “non buono”: lungi
dal prendere atto della situazione, radunare tutti e
cercare di capire cosa fosse successo (ed è qui che si
sarebbe potuto portare “il primo mattone”), egli
esprime con insistenza l’idea apodittica che “noi non
c’entriamo niente”, “gli inquirenti non hanno niente
in mano”; legge tutti i giorni i quotidiani e commenta
negativamente le indagini (“ma che vogliono questi,
noi non c’entriamo”); tutti fatti che lei percepiva
193
allora e definisce più volte in dibattimento come un
“lavaggio del cervello”.
Gravissima poi, senza mezzi termini, questa Corte
giudica la telefonata (oggetto di intercettazione) che
Gabriella ALLETTO ebbe il 4 giugno 1997, nel fervore
delle indagini, ben dopo che Maria Chiara LIPARI aveva
fatto il suo nome e l’aveva posta in una situazione di
tempo e di luogo per cui doveva sapere tutto. Nel corso
del colloquio (pagina 274 e 275 della sentenza
impugnata) la sua interlocutrice la ammonisce e la
sprona reiteratamente: “Resistete, eh! … Alle
barricate! … Mi raccomando, tenete duro! … Tenete duro
al nemico”.
Chi parla, chi “raccomanda” di “resistere” al
“nemico” è addirittura la moglie del prof. ROMANO
sig.ra Carla AMADIO; e certo, con questi presupposti,
la ALLETTO non poteva che prevedere di essere isolata
nell’ambiente di lavoro e osteggiata ed emarginata
(“una mosca bianca” dice lei nell’incidente probatorio)
se avesse parlato.
Naturalmente, è molto probabile che la Sig.ra
AMADIO ROMANO fosse davvero convinta, in buona fede,
della estraneità dell’Istituto, e che
comprensibilmente, dal suo punto di vista, si
schierasse contro l’abbaglio preso dagli inquirenti;
oppure si può anche ipotizzare che “il nemico” non
fossero tanto gli investigatori che cercavano il
responsabile del delitto tra il personale
dell’Istituto, quanto giornalisti petulanti; e tuttavia
194
il “clima” nel quale la ALLETTO viveva il proprio
“travaglio” era questo.
Con quale animo – spiega – avrei potuto
“confessare” e l’indomani tornare in ufficio, in quella
situazione e in quell’ambiente?
La sua descrizione non potrebbe essere più nitida:
“E’ stato un travaglio, un travaglio tremendo, sin da
quando sono iniziati gli interrogatori e
contemporaneamente io andavo a lavorare, stavo sempre
in Istituto e per me frequentare l’Istituto in
contemporanea a questo che era successo, è stato sì
pesante.” (udienza 14.9.1998).
* * * * *
Il “clima” di cui si parla è ben riscontrato anche
da un’altra telefonata, intercorsa tra gli assistenti
Pierpaolo FIORINI e Gianluca SACCO ed intercettata.
Essa, se intesa in senso diretto, è ininfluente
perché avvenne il 15 giugno 1997, e cioè il giorno
successivo alle rivelazioni della ALLETTO (ed agli
arresti di SCATTONE, FERRARO e LIPAROTA): ma è ben
descrittiva dell’atteggiamento psicologico e morale
all’interno dell’Istituto.
Si manifesta l’idea di “fare un’opera di anti,
cioè andare proprio contro gli inquirenti, insomma
cominciare a minarli alle basi…”… “…questo fatto della
certezza che si è sparato da lì, ma poi…” … “… ha
detto MANCINI… … del 9 maggio, c’è stata una riunione
seminariale tenuta dentro l’aula assistenti; c’erano
quaranta persone, dappertutto, buttati anche sulla
195
finestra e sulle tende, può esserci la forte
probabilità che qualcuno che può aver avuto a che fare
con armi da sparo, con fuochi d’artificio, con un
militare, questo significa che quella prova lì è
fortemente, come dire, improbabile…” “… e poi cercare
altri elementi che possono inquinare ‘sta prova dello
STUB…”; “lo sappiamo che il problema è questo, lo
squilibrio tra parte di accusa e parte di difesa
perché il PM fa quello che vuole”… “ si comincia a
sparare a zero, eliminando questa prova…” “… a un
giornalista può interessare il fatto… cominciare a
dire ma forse la polizia ha preso una grande
cantonata…”; “… io andrei così insomma a minare
proprio il fondamento e andare senza passare per gli
inquirenti…”.
E’ trasparente un atteggiamento di pura ostilità,
più che di “laico” scetticismo sui risultati
investigativi; un proposito tutt’altro che attendista,
anzi decisamente inquinatorio, l’idea di “minare alla
base senza passare per gli inquirenti” più che di
offrire seri contributi, magari anche alternativi
all’indirizzo delle indagini; ed è ben pensabile che se
questo era l’atteggiamento il 15 giugno, non molto
diverso dovesse essere nei giorni precedenti.
E’ tutto questo che la ALLETTO vive e respira nei
lunghi convulsi giorni successivi al 21 maggio, e
comprensibilmente si convince che sarebbe impossibile,
per lei, raccontare ciò che ha visto, accusare gli
assistenti SCATTONE e FERRARO, e poi tornare a lavorare
nello stesso ufficio e tra le stesse persone.
196
* * * * *
Intanto, però, dopo il 21 di maggio, il tempo
trascorre, le indagini proseguono e la pressione
dell’ambiente, dell’opinione pubblica, degli stessi
inquirenti è sempre più forte, tanto che la situazione
si fa, per la ALLETTO, sempre più insostenibile, e la
sua stessa “ostinata” resistenza diventa man mano
sempre più difficile.
Maria Chiara LIPARI è sempre più decisa e
dettagliata nel confermare la presenza nell’aula 6 di
“Gabriella” e di LIPAROTA, in concomitanza con una
“atmosfera di forte tensione” ed assieme ad altre
persone che ormai identifica come “assistenti”; la
polizia è sempre più impaziente di sentirsi raccontare
come si sono svolti i fatti, e le contesta l’evidenza:
l’ora dello ferimento, il residuo di sparo sul
davanzale, la sua presenza in aula 6 “certificata”
dalla LIPARI, l’insostenibilità delle sue dichiarazioni
negative; la sua stessa coscienza le suggerisce “che
fosse opportuno fare i nomi”, “nell’ambito di casa si
respirava una tensione fuori della norma”, “c’era
sempre questa cosa che stava sulla mia testa e non
veniva fuori” (udienza 14.9.1998); anche se per altri
versi – la sua convenienza di “madre di famiglia” –
ancora pensava di riuscire a mantenersi sulla negativa.
Ma poi la situazione precipita rapidamente.
* * * * *
197
Quando l’11 giugno, nel corso dei colloqui col
cognato Gino DI MAURO e dell’esame da parte dei PM LA
SPERANZA e ORMANNI (il “videoshock”), viene posta di
fronte alle sue responsabilità e “spara” le ultime sue
cartucce (“Io non ci stavo là dentro, te lo giuro, Gì,
te lo giuro sui miei ragazzini, ha sbagliato la
LIPARI”); quando, il 12 giugno, apprende che il prof.
ROMANO è stato posto agli arresti domiciliari, dando
corpo all’idea che il tacere può comportare davvero
serie conseguenze; quando, il 13 giugno, il confronto
proprio con la LIPARI le rivela la fragilità del suo
“alibi” in sala fax e la tranquilla sicurezza della sua
interlocutrice; quando tutto ciò si compie Gabriella
ALLETTO è matura per “aprirsi”.
Ed infatti il 14 giugno, con “funzionari che
evidentemente hanno avuto un modo diverso di prendermi
… io me la sono sentita e ho parlato”.
* * * * *
Vi è in atti, relativamente a questa breccia che
cominciava ad aprirsi nell’animo della ALLETTO, un
“segnale” quanto mai significativo.
Giovedì 12 giugno, nella segreteria dell’Istituto,
una intercettazione ambientale coglie i brani di un
colloquio tra la ALLETTO e alcune persone, due uomini e
alcune donne nel corso del quale si commentano le
indagini e la sua posizione. Ella, che pure ha detto a
tutti che in aula 6 quel giorno “non c’era”, mette le
mani avanti e precisa: “ma forse non me convene, non
198
me convene de dì così, non mi conviene dire che non
c’ero, capito?”.
Del resto, la sua collega Laura CAPPELLI
all’udienza dell’11 novembre 1998 parla di un colloquio
esplicito, svoltosi in due fasi il 12 giugno 1997, nel
corso del quale la ALLETTO le disse: “Mi hanno messo
in mezzo, io in quella stanza non c’ero, però non mi
conviene dire che non c’ero”.
Alla immediata osservazione della CAPPELLI:
“Scusa, ma se dici che stavi nella stanza dovrai dire
anche chi c’era in quella stanza, dovrai inventarti
delle altre cose”, la ALLETTO ebbe a replicare: “I
nomi non li hanno fatti, come faccio a dirglielo se
non lo so, se non c’ero”; e poi il discorso proseguì
con altre farsi frasi piuttosto singolari: “Scusa, ma
ti stanno convincendo che anche tu eri in quella
stanza?” “Sì, mi stanno convincendo anche di questo”;
pronunciando queste parole – ci tiene a precisare la
CAPPELLI in udienza – “in un tono comunque preoccupato
e spaventato”.
Il particolare non è sfuggito alle attente difese,
che lo utilizzano per argomentare che, appunto, la
verità è che la ALLETTO nell’aula n. 6 “non c’era”, e
che il mutamento di rotta avverrà, il 14, di lì a due
giorni, non per “verità” ma per “convenienza”.
* * * * *
La Corte non condivide tale interpretazione, e
ritiene che la chiave interiore del discorso della
ALLETTO risieda tutta nella “valanga”: nella concreta
199
impossibilità di “parlare” e di presentarsi l’indomani
in ufficio, dopo aver “parlato”.
Il fatto di “parlare” avrebbe comportato di
accusare due assistenti – in fondo, dei “superiori” –
lei per prima e da sola; di crearsi – per tutta la vita
– almeno tre nemici personali, tutti più “importanti”
di lei nel suo ambiente di lavoro e nella vita in
genere; di smentire addirittura il Direttore prof.
ROMANO (“non hanno niente in mano”); di trascinare
nell’occhio del ciclone l’Istituto e l’intera
Università “LA SAPIENZA”, affrontando l’isolamento,
l’ostracismo, l’ostilità – e peggio – che si sarebbe
attratta.
Non aveva alcuna possibilità, Gabriella ALLETTO,
di spiegare in pubblico, nei colloqui intercettati con
i suoi colleghi, e neppure in quelli, da sola a sola,
con la CAPPELLI, tutte le sottigliezze dei suoi
interrogatori, tra cui la palese insostenibilità
dell’essere stata quasi un’ora, fino a mezzogiorno, in
aula fax; ed ancor meno suoi eventuali tentennamenti
morali o incipienti aperture ad una disponibilità a
“confessare”.
Era molto più semplice – in un ambiente assai
favorevole a considerare il lavoro della polizia come
una serie di angherie – anticipare a terzi che avrebbe
finito con l’ammettere qualcosa, sia pure perché “non
mi conviene di dire che non c’ero”; che la stavano
“convincendo” di aver visto qualcosa; che “i nomi”
stavano cominciando a “farglieli”. “Qui bisogna fa’
come dicono loro” aveva convenuto con la Prof.ssa
200
ARMELLINI, e non c’era motivo per cambiare
impostazione.
* * * * *
Ha “parlato”, dunque, Gabriella ALLETTO, la sera
del 14 giugno, e certamente ha “capitolato”, secondo
l’efficacissima espressione della difesa; ma ciò –
ritiene la Corte – non significa affatto che ella abbia
ceduto alle “pressioni” degli inquirenti e si sia
rassegnata a mentire ed a calunniare: “me la sono
sentita”, dice invece, “e ho parlato”, con parole che
certo non si attagliano ad una calunniatrice, e che –
ancora una volta – costituiscono uno dei tanti
“accenti di sincerità” su cui si può fare affidamento
per valutare l’intima attendibilità delle persone,
quando si tratti non di fatti materiali ma di moti
dell’animo.
Ella ha “capitolato”, ma soltanto rispetto al
proprio precedente atteggiamento di chiusura: “era una
specie di chiusura quella che avevo io; ci avevo tanta
paura. Questo è stato il punto… ci sono stati dei
funzionari che mi hanno aiutato a fare questa cosa
qui”;
“Ho trovato delle persone serene, tranquille… le
differenze sostanziali è che sono stata trattata da
persona” (udienza 15.9.1998).
Nessuna “capitolazione”, invece, quanto al
contenuto delle dichiarazioni, come si vedrà meglio più
avanti: “ho detto quello che ho visto”, “ho detto
201
tutto quello che sapevo, tutto quello che sapevo e
tutto quello che ho visto” (udienze 14.9 e 7.10.1998).
Non c’è spazio, in tale situazione, per dubitare
della attendibilità personale della ALLETTO.
* * * * *
Naturalmente non trascura questa Corte di
considerare adeguatamente anche la costanza,
l’insistenza, la forza, la “convinzione” con cui
Gabriella ALLETTO aveva affermato di non sapere
alcunché di quanto eventualmente accaduto in sala
assistenti, nella quale il 9 maggio non era entrata; e
non dimentica né sottovaluta la sua insistenza col
cognato: “Io non ci stavo là dentro… … ha sbagliato la
LIPARI”, accompagnata dall’accorata espressione (“te
lo giuro, Gì, te lo giuro sui miei ragazzini”).
Le difese non hanno mancato, naturalmente, di
valorizzare l’argomento; ma anche su questo punto è
stata la stessa dichiarante a spiegare in maniera
convincente il suo iter interiore: dapprima ha
illustrato chiaramente, nelle udienze del 14 e del 15
settembre 1998, proprio in risposta alle contestazioni
su queste specifiche parole, il suo “travaglio
tremendo” di “madre di famiglia” il suo voler evitare
“la valanga”, la necessità di non essere “coinvolta in
prima persona”; ma poi è stata ancora più esplicita e
compiuta, proprio nel difficile e delicato momento del
confronto con Salvatore FERRARO.
Il giovane imputato, intelligentemente, le dice:
“Io la conosco molto bene. Io so che è una bravissima
202
persona, che di norma non mente, sicuramente di norma
non giura sulla testa dei figli, perché lei sa
benissimo, che io so quanto lei vuole bene ai suoi
figli…”; e naturalmente la donna conferma: “Sì”; ed
egli continua: “Quindi, quando lei ha giurato sulla
testa dei suoi figli lei giurava la verità… cioè il
fatto che non aveva visto nessuno… “; ma a questo punto
lei lo interrompe: “No, signor Presidente: io mi
coprivo dietro un paravento, perché per me… era un
aiuto quello…”.
Mentiva, dunque, Gabriella ALLETTO, quando giurava
“sui ragazzini”; ma spiega bene che lo faceva nel loro
interesse, perché era una “madre di famiglia” che quei
ragazzini voleva proteggere; si “copriva dietro un
paravanto, un aiuto” per tenere sé stessa – e la
famiglia, e dunque proprio i “ragazzini” – lontani da
nemici potenti: non solo SCATTONE e FERRARO (e
LIPAROTA), ma anche tutti gli altri che in ogni modo
“difendevano” l’Università nel cui ambiente il delitto
“non poteva” essere stato commesso.
Ancora, mentre FERRARO insiste: “La testa dei suoi
figli…”, lei replica definitivamente: “No, no. Quello
di mentire in quel momento… basta, le cose sono andate
in questo modo, e io solamente dopo un mese ho deciso
di stare… di dire questa cosa. E’ stata una cosa molto
grave per me; ha stravolto la mia vita.
Sono stata anche minacciata, recentemente ho avuto
una lettera in cui mi dicevano “ti venga un cancro
alla gola”… E questo è quello che si aspetta una
persona dopo che dice la verità…?”
203
E’ nel corso di questa disputa, poche battute più
in là, che la ALLETTO conclude: “Io sono stanca di
questa situazione, voglio rientrare in seno alla mia
famiglia, tranquilla… confessate è quello che dovete
fare voi, io l’ho fatto… … quello che dovevo fare”.
* * * * *
Per concludere su questo argomento: spiega dunque
la ALLETTO che giurare “sulla testa dei figli” (più
esattamente “sui miei ragazzini”) era per lei “un
aiuto”, “un paravento” dietro al quale si “copriva”,
per cercare ancora di salvarsi dalla “valanga” che ben
sapeva le sarebbe venuta addosso.
“Giura” durante il colloquio del “videoshock”,
parlando col cognato Gino DI MAURO; ed è lei stessa
spontaneamente, nell’udienza del 14.9.1998, a
chiedergli scusa in sua assenza (in un duetto col
Presidente della Corte): a “riconoscere” a Gino che “è
stato tanto lo sforzo da parte sua”, ma che lei era
“dura” e “ostinata”.
E conclude: “questo lo devo riconoscere e mi
dispiace di non averlo fatto prima”.
Si può ragionevolmente pensare – riflette la Corte
– che questo sia l’atteggiamento di una calunniatrice?
che si possa chiedere scusa per non essersi decisa
prima a calunniare qualcuno?
204
DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
IV
LA VALUTAZIONE “GUIDATA” DELLE DICHIARAZIONI
L’ATTENDIBILITA’ INTRINSECA
VEROSIMIGLIANZA PRECISIONE E COMPLETEZZA
COSTANZA E SALDEZZA
Assai più complesso l’apprezzamento sulla
“credibilità intrinseca” delle sue dichiarazioni, e
assai più articolata l’analisi e la valutazione del
loro contenuto fattuale e della loro portata
probatoria.
Poche parole sono da spendersi sugli elementi
costituiti da fattori sostanzialmente incontroversi,
come la precisione e la completezza della narrazione, o
la costanza e saldezza nel mantenere ferme le
dichiarazioni accusatorie.
La ALLETTO ha esposto minutamente e senza
contraddizioni rilevanti ogni più piccolo particolare
della vicenda, dalla lettera per il prof. BISER al
malfunzionamento del fax, dalla propria intenzione di
cercare la LIPARI in sala assistenti a ciò che vide e
che accadde al suo interno, dall’incontro, sulla porta,
con uno sconosciuto che ne usciva, all’ingresso della
205
LIPARI, dalle mosse proprie e di ciascun protagonista,
sino alle fasi successive: il saluto “bofonchiato”,
l’uscita di tutti dalla stanza, il ritorno in
segreteria, l’arrivo dell’ambulanza, la notizia del
ferimento di una ragazza, fino al termine della
mattinata.
Né meno chiara ed aperta è stata la sua
ricostruzione dei giorni successivi, degli incontri
fatti e delle cose dette (le mezze confidenze al BASCIU
ed alla URILLI di cui si dirà, per esempio), dei suoi
contatti, stressanti e tempestosi, con gli inquirenti e
col cognato DI MAURO.
Il tutto – il racconto di una serie di momenti, di
mosse, di gesti, di fatti materiali e di atteggiamenti
interiori – accompagnato, come si è in parte già visto,
da una precisa, efficace e persuasiva esposizione dei
suoi stati d’animo – gli “accenti di verità” che
descrivono assai bene il già menzionato “travaglio” -:
dalla sorpresa allo smarrimento (ed al panico e al
turbamento) del primo giorno; dall’aver dovuto
“collegare” la notizia del ferimento della ragazza con
la scena dello sparo a cui aveva suo malgrado
assistito, alla sua progressiva “chiusura”; il
susseguirsi dei giorni, degli interrogatori, dei suoi
silenzi; le insistenze, le pressioni, la sua
resistenza; il suo ufficio, tra scetticismo,
indifferenza e “omertà”; la sua famiglia, con la
stanchezza di tutti; il suo isolamento interiore; fino
ai funzionari “gentili”, al poter “dialogare” con loro
ed alla liberazione finale.
206
Una precisione e una completezza, dunque, e
insieme una sincerità di esposizione del tutto
esaustive.
* * * * *
Una volta avvenuta, poi, la “clamorosa svolta” del
14 giugno, la ALLETTO ha mantenuto sempre un costante e
solido atteggiamento di tranquilla conferma delle sue
rivelazioni accusatorie: ha affrontato mille
contestazioni in un lunghissimo e drammatico incidente
probatorio (il 31.7.1997); ed ha serenamente risposto a
tutte le parti, in esame ed in controesame, per diverse
udienze dibattimentali.
In particolare, si è sottoposta a confronto in
aula sia con Giovanni SCATTONE che con Salvatore
FERRARO. Ha in tale frangente dimostrato una
comprensibile “emozione” (udienze del 15.9.1998,
confronto con SCATTONE; del 7.10.1998, confronto con
FERRARO), ma anche una dignitosa, pacifica e quasi
paziente fermezza: “ho detto tutto quello che ho
visto, dott. SCATTONE”; “non credo che è colpa mia (che
egli fosse in carcere, ndr), è solamente colpa sua”; e
a FERRARO: “io solamente dopo un mese ho deciso … di
dire questa cosa”; “non rischiavo di andare in carcere
… non mi sono messa paura neanche l’11 quando c’è
stato l’interrogatorio, se ha ben notato (il
“videoshock”, ndr); “Confessate è quello che dovete
fare voi; io l’ho fatto quello che dovevo fare”.
* * * * *
207
Quanto alla verosimiglianza, lo svolgimento dei
fatti in sé, per come è stato narrato dalla
dichiarante, non suscita in astratto problemi di sorta,
essendo ben possibile che taluno si affacci ad una
finestra con una pistola, che parta un colpo –
volutamente o no -, che uno “spettatore” si metta le
mani nei capelli, che si crei un’atmosfera di “gelo”,
che l’arma venga occultata in una borsa e portata via,
che tutti i presenti si allontanino più o meno alla
chetichella.
Questo ha riferito la ALLETTO, e questo non ha in
sé – per quanto attiene alla valutazione delle sue
dichiarazioni – nulla di inverosimile.
Ella vi ha assistito per caso, in modo imprevisto
per chi si trovava dentro la stanza, e certo del tutto
imprevedibile per lei; e tuttavia il suo racconto è
nitido, logico, consequenziale.
I difensori degli imputati hanno invece
prospettato con vigore l’inverosimiglianza in concreto
della versione della ALLETTO, e cioè l’assurdità logica
e umana – intesa dunque come vera e propria
impossibilità – che un giovane sano di mente,
assistente universitario, si metta a sparare con una
pistola verso i passanti, dai locali del proprio
Istituto e in pieno giorno, in presenza di altre
persone e senza neppure chiudere la porta, tanto da
consentire l’ingresso, nel giro di pochi secondi, di
ben altri due estranei (Gabriella ALLETTO e Maria
Chiara LIPARI).
208
E’ questo certamente un argomento di notevole
spessore, adeguatamente valorizzato dalle accorte
difese degli imputati, e specialmente da quelle di
Giovanni SCATTONE e di Salvatore FERRARO; ma in
proposito si osserva fin d’ora che avventatezza,
impulsività ed imprudenza comportano appunto l’adozione
di comportamenti fuori dalla norma e dalla normalità,
tanto da determinare condotte ed eventi che si
riterrebbero, a priori, se non “assurdi” e impossibili,
certamente assai improbabili.
Nel caso in esame non ha torto la sentenza di
primo grado nel constatare che certamente – purtroppo –
Marta RUSSO è morta; che certamente ha perso la vita
nelle circostanze ben note di tempo e di luogo; che
chiunque potesse essere stato l’autore del fatto,
questo non sarebbe risultato né meno “assurdo” né meno
reale; di tal che questo di una presunta assurdità
“generica” dell’episodio non è un argomento efficace.
Ma anche con riferimento specifico agli attuali
imputati e alle accuse a loro carico, si osserva che
pur essendo certamente improbabile l’accaduto – “il
diavolo ci ha messo la coda”, ha immaginificamente
esordito il PG nella sua requisitoria – non vi era,
neppure a priori, alcuna vera “assurdità”.
Non va dimenticato che, come la ALLETTO ha sempre
ribadito (né avrebbe alcun senso una menzogna al
riguardo), uno sconosciuto era uscito dalla stessa
porta nel momento in cui ella le si avvicinò per
entrare; e dunque non solo la presenza di una pistola
in quella stanza è spiegabile con un qualche interesse
209
di questa persona – per nasconderla, per venderla, per
mostrarla – ma, in punto di fatto, la porta non era
chiusa a chiave perché quest’uomo stava uscendo, e
nessuno poté chiuderla nemmeno dall’interno, per il
quasi contemporaneo improvviso sopraggiungere di
Gabriella ALLETTO.
Ella, inoltre, entrò nella stanza quando SCATTONE
era già, armato, nella nicchia della finestra; il colpo
fu esploso quasi contemporaneamente all’ingresso della
ALLETTO – ecco forse il motivo delle mani nei capelli
di FERRARO – e senza che SCATTONE avesse mostrato di
essersi accorto della sua presenza.
* * * * *
E’ ben possibile, dunque, e per niente assurdo,
che SCATTONE si sia avvicinato alla finestra con la
pistola in mano e abbia sporto il braccio sentendosi
protetto dal condizionatore e dalle doghe che
impedivano la vista dall’esterno; che lo abbia fatto
con tranquillità – o gesticolando con l’arma, come per
provarne la mira, o a caso – sapendo per certo che
nella stanza vi erano solo FERRARO e LIPAROTA: persone
amiche, da ritenersi, se non addirittura suoi complici
rispetto al possesso dell’arma, certamente da lui
facilmente controllabili.
E’ ben possibile poi che il seguito sia
irrimediabilmente accaduto nel giro di pochi istanti: o
in modo del tutto indipendente dalla imprevista
presenza nella stanza di Gabriella ALLETTO, di cui egli
neppure si sia accorto, almeno fino a sparo avvenuto;
210
come pure non è escluso neppure che lo sparo sia stato
determinato dall’atto impulsivo di ritirare la mano
proprio quando di lei si accorse.
Sta di fatto che processualmente risulta che
Gabriella ALLETTO ha visto, che LIPAROTA – già presente
nell’aula quando vi era lo sconosciuto e quando
SCATTONE impugnò la pistola – ha sostanzialmente
confermato il suo racconto, sia pure con tutte le
problematiche che saranno a suo luogo esaminate; che
Maria Chiara LIPARI ha parlato dell’atmosfera di
“forte tensione” percepita al suo ingresso in sala
assistenti; che, in definitiva, nulla, sul piano della
verosimiglianza, depone per una “impossibilità in
concreto”, dal punto di vista logico e umano, che sia
accaduto quanto Gabriella ALLETTO ha raccontato.
Per affermare una siffatta “impossibilità”
bisognerebbe ricorrere a petizioni di principio: (del
tipo “gli assistenti universitari non sparano dalle
finestre dell’’Università”, o simili); che però si
tradurrebbero in una presunta “impossibilità” non in
concreto ma in astratto, purtroppo smentita dalla forza
degli eventi.
* * * * *
211
LE DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
V
LA VALUTAZIONE “GUIDATA” DELLE DICHIARAZIONI
L’ATTENDIBILITA’ INTRINSECA
AUTONOMIA, SPONTANEITA’ E DISINTERESSE
LE TESI DIFENSIVE: PRESSIONI E INQUINAMENTI
IL METODO DI VALUTAZIONE ADOTTATO DALLA CORTE
Si è giunti ora – continuando a “sfogliare” i
criteri di giudizio sopra elencati – ad uno dei punti
davvero centrali del processo, che attiene alla
valutazione contenutistica delle dichiarazioni di
Gabriella ALLETTO dal punto di vista della spontaneità
e del suo disinteresse ad accusare: il che è quanto
dire – in considerazione del suo ruolo probatorio, del
suo duplice atteggiamento susseguitosi nel tempo, del
modo tormentato con cui tale atteggiamento si è evoluto
– che devono essere giudicati i parametri decisivi in
ordine alla veridicità o falsità di quanto da lei
dichiarato.
* * * * *
212
E’ facile, quanto al disinteresse ad accusare,
ribadire che la ALLETTO non aveva alcun astio nei
confronti né di SCATTONE né di FERRARO (ché anzi era in
rapporti buoni col primo e ottimi col secondo), e
osservare che non ha certo usufruito dei benefici
previsti dalla legge sui “pentiti” né ha conseguito
alcun altro tipo di utilità.
Quanto alla spontaneità, e alla autonomia del suo
racconto, una volta avviato il radicale mutamento di
atteggiamento che l’ha portata a riferire quanto aveva
visto, il suo racconto è stato “totale”: immediato,
sereno, particolareggiato, argomentato, completo,
ripetuto e confermato.
Moltissimi particolari – a cominciare dal ruolo di
Giovanni SCATTONE, ma anche lo sconosciuto che era
uscito dalla sala assistenti, la pistola lunga 25-30
centimetri, lo spostamento delle doghe, le mani nei
capelli, l’occultamento dell’arma nella borsa, l’ordine
di uscita delle persone – compaiono per la prima volta:
e se da un lato è davvero arduo immaginare che tutto le
sia stato suggerito così minutamente, dall’altro
praticamente nulla di quanto da lei riferito ha trovato
smentita né in accertamenti di fatto né in alcuna
dichiarazione (tranne ovviamente quelle negatorie degli
imputati).
* * * * *
In definitiva, ritiene la Corte che a questo punto
sia stato superato con successo sia l’esame della
213
credibilità soggettiva di Gabriella ALLETTO che quello
della attendibilità intrinseca (“consistenza”) delle
sue dichiarazioni: carattere e temperamento del
soggetto, sue condizioni culturali e sociali, vita
anteatta, rapporti con gli accusati, genesi e motivi
della “chiamata”, coerenza, costanza, precisione,
completezza, verosimiglianza, spontaneità,
disinteresse, tutto è stato esaminato e valutato senza
rinvenire falle rilevanti.
Si può dunque concludere, ai sensi dell’art. 500
CPP, commi 3 e 4, così come tenuto in vita dall’art. 26
comma 3 della Legge 1 marzo 2001 n. 63, per una piena
attendibilità delle dichiarazioni dibattimentali rese
da Gabriella ALLETTO in primo e in secondo grado; e
decidere che quelle di contenuto difforme da lei rese
nel corso delle indagini e acquisite al fascicolo del
dibattimento, (“in aula 6 non c’ero e non so niente”),
non possano costituire “prova dei fatti in esse
affermati” non sussistendo in atti “altri elementi di
prova che ne confermano l’attendibilità”.
* * * * *
Del tutto diverse, invece, le osservazioni delle
difese degli imputati, sia nei motivi d’appello che
nelle puntualissime discussioni orali.
Secondo la loro impostazione, infatti, –
energicamente ribadita nel corso di questo giudizio –
le dichiarazioni della ALLETTO non sarebbero
“spontanee” e frutto genuino dei suoi ricordi, ma
praticamente dettate, e ricalcate per “contaminazione”
214
su quelle della LIPARI che le erano state illustrate
nei particolari: si tratterebbe di una “spontaneità”
apparente, inficiata dai condizionamenti, dai
suggerimenti, dagli inquinamenti, dalle contaminazioni
della prova che sulla ALLETTO e per mezzo della ALLETTO
– e non solo – caratterizzarono la conduzione delle
indagini.
Le furono “fatti i nomi”, le si riferirono punto
per punto le dichiarazioni di Maria Chiara LIPARI, fu
resa edotta delle telefonate di costei, della “tensione
nell’aria”, dell’identità e della posizione di ciascuno
dentro la stanza, del saluto “bofonchiato”: insomma,
Gabriella ALLETTO fu posta in condizioni di potersi
“allineare” perfettamente.
In questo quadro – sempre secondo la difesa –
certamente si nominarono, e si situarono dentro l’aula
n. 6, sia LIPAROTA che FERRARO; certamente si parlò non
di uno (in ipotesi, FERRARO) ma di due assistenti che
“cazzeggiavano con una pistola”; e in definitiva anche
il nome di SCATTONE “era nell’aria” (intervistato da
“il MESSAGGERO”, come “sospettato”, il 30 maggio;
sottoposto ad intercettazione telefonica fin dal 6
giugno; sentito a sommarie informazioni – ma
“duramente” secondo la sua difesa – il 12 giugno); e
questo nome, che con FERRARO formava per gli inquirenti
una sorta di “coppia fissa” di assistenti, le fu
suggerito.
* * * * *
215
Si insiste particolarmente sul punto delle “coppie
di assistenti”: secondo i difensori di SCATTONE e di
FERRARO, gli inquirenti avrebbero subito ipotizzato
(naturalmente, dopo il rinvenimento della particella
binaria e dopo le prime rivelazioni di Maria Chiara
LIPARI) il coinvolgimento di una “coppia di
assistenti”:
– certamente una “coppia” perché quello che la
LIPARI aveva visto e che quasi certamente era Salvatore
FERRARO (ne aveva parlato solo con i propri genitori,
il 24 maggio, e mai con gli inquirenti, ma la
telefonata era stato intercettata) non era solo nella
stanza (a parte, naturalmente, ALLETTO e LIPAROTA),
dalla quale era uscito un altro con un “saluto
bofonchiato”;
– certamente “assistenti” perché quello che era
uscito l’aveva salutata dandole del “tu” (“Ciao
Chiara”) – e dunque era un suo collega.
La polizia aveva poi accertato – o si era convinta
– non solo che gli assistenti (oltre una ventina)
fossero soliti agire in coppia, o per amicizia
personale o per affinità di interessi e di materie, ma
che FERRARO e SCATTONE “facessero coppia fissa”, di tal
che sarebbe stato impossibile avere una indicazione
investigativa su FERRARO e non pensare automaticamente
a SCATTONE.
* * * * *
Il contenuto delle dichiarazioni di Gabriella
ALLETTO sarebbe dunque interamente fittizio, e proprio
216
i parametri ora in esame – autonomia, spontaneità e
disinteresse, oppure il loro contrario – lo
dimostrerebbero.
Ci sarebbe infatti anche un indubbio – e
formidabile – interesse ad accusare FERRARO e SCATTONE
da parte di Gabriella ALLETTO, per due ragioni ben
precise:
– per salvarsi dall’arresto (essendo sempre
immanente e spesso imminente quello per
favoreggiamento, ed essendole stata prospettata perfino
dai magistrati della Procura l’accusa di concorso in
omicidio, anche a voler prescindere dai ventiquattro
anni di reclusione);
– per porre fine agli insistiti, stressanti e
tormentosi interrogatori, a quel “massacro” morale e
fisico così ben descritto nelle memorie e nelle
arringhe e simboleggiato, se così si può dire, dal
“videoshock” e da quel “non ce la faccio più” che la
ALLETTO, piangente, oppose in quella seduta al
Procuratore Aggiunto dott. Italo ORMANNI che
severamente la ammoniva: “la prenderemo per omicida”.
La decisione di “collaborare”, secondo tale punto
di vista, le fu praticamente estorta, sia con le
minacce di arresto per favoreggiamento o per omicidio e
con la prospettazione di ventiquattro anni di carcere,
sia con l’ulteriore – e gravissima – minaccia di farle
perdere il posto di lavoro quale “falsa invalida”.
* * * * *
217
Quanto sopra con riferimento specifico a Gabriella
ALLETTO: ma occorre riconoscere che le difese degli
imputati – soprattutto quelle di SCATTONE e FERRARO
-hanno sempre sostenuto fin dal primo grado, con
estremo vigore e dovizia di argomenti (basta leggere le
corpose e minuziose memorie scritte versate in atti) –
che tutta la causa è “viziata” fin dal 21 maggio del
1997, “dal “falso” accertamento del dott. FALSO”; e
hanno energicamente ribadito, con accoramento e rigore,
anche in questo giudizio le medesime doglianze.
Le indagini, secondo questa tesi, sono state tutte
senza mezzi termini “ inquinate”, e le prove – da quel
punto in poi – “costruite” (in particolare dai
funzionari di polizia Carmine BELFIORE e Lamberto
GIANNINI; meno da Alberto INTINI, “autore” soltanto
della “operazione OLZAI”, però in combutta con Nicolò
D’ANGELO, Capo della MOBILE), per la necessità di
“risolvere” un caso di straordinario rilievo; e ciò non
solo quanto a Gabriella ALLETTO e alla sua
“capitolazione” che si sta ora analizzando, ma per
mezzo di un lungo percorso:
– speculando oltre misura – sia pure in buona fede
– sulla errata individuazione di sicuri residui di
sparo sul davanzale della finestra n. 4, e sulla
apparente coincidenza delle telefonate in partenza
dall’aula 6;
– approfittando dei “disturbi caratteriali” di
Maria Chiara LIPARI, invogliandola, lusingandola,
provocandola, “guidandola” nella sua progressiva – e
fantasiosa, dunque falsa – “ricostruzione” mnemonica;
218
– ipotizzando subito, senza alcun fondamento, che
autori del delitto fossero stati proprio “due”
assistenti e trasformando subito tale ipotesi in
certezza da conseguire ad ogni costo;
– convincendosi che gli assistenti fossero soliti,
in Istituto, lavorare a “coppie”, e che Giovanni
SCATTONE formasse una “coppia” con Salvatore FERRARO;
– individuando ben presto i quattro soli
assistenti (LIPARI, AVITABILE, FIORINI e SCATTONE)
presenti quella mattina in Istituto;
– scartando subito, oltre, ovviamente, alla
LIPARI, anche la AVITABILE (giacché l’unica donna vista
da Maria Chiara LIPARI era la ALLETTO) ed il FIORINI (a
cui la LIPARI aveva fornito una sorta di alibi
telefonico); di tal che non rimaneva che SCATTONE;
– sottoponendo tutti – inizialmente perfino la
LIPARI – a ripetuti estenuanti interrogatori durissimi,
stressanti e talvolta terrorizzanti;
– riversando i dati in tal modo “ottenuti” dalla
LIPARI – abilmente guidata – sulla ormai sfinita
Gabriella ALLETTO, – che in aula 6 non c’era stata – e
fingendo sorpresa al nome di Giovanni SCATTONE fatto da
quest’ultima;
– riversando ancora il tutto, con ogni
particolare, sul fragile e terrorizzato Francesco
LIPAROTA, e facendogli scrivere il biglietto di appunti
prima di condurlo in carcere;
– inducendo la LIPARI, sia pure assai tardivamente
(l’8 agosto 1997), a “collocare” in sala assistenti
219
dapprima – e “con sicurezza” – Salvatore FERRARO e poi
– con probabilità – anche Giovanni SCATTONE;
– inventando e realizzando, a suggello di tutto il
“quadro”, l’operazione OLZAI (o almeno accogliendo e
utilizzando una “mitomane”), che avrebbe visto i due
imputati fuggire dall’Università – manco a dirlo, con
una borsa in mano – pochi minuti dopo il delitto.
* * * * *
Per la verità, a fronte di così gravi affermazioni
non può tacersi che nei motivi d’appello entrambe le
difese di SCATTONE e di FERRARO protestano contro la
riduttiva interpretazione contenuta nella sentenza di
primo grado, e insistono nel precisare di ”non aver
mai inteso parlare di “complotto” precostituito posto
in essere né dagli inquirenti né da altri ai danni dei
due giovani assistenti”, e di aver sempre riconosciuto
agli inquirenti una sostanziale buona fede, almeno
iniziale.
Costoro – spiega la difesa di SCATTONE, ma quella
di FERRARO non se ne discosta – certamente “pressati”
per la soluzione del caso, furono “sviati” in buona
fede dal risultato, ritenuto “scientifico” e certo,
costituito dal reperimento della particella binaria sul
davanzale della finestra n. 4; furono indotti, da
questo dato di fatto, a porre in essere “tutti gli
sforzi” per pervenire all’identificazione della persona
che aveva sparato, magari con dei complici; cedettero,
in questa comprensibile ansia, ad “irregolarità e
manifeste forzature (casi LIPARI, ALLETTO E LIPAROTA)”;
220
e finirono col “contaminare” l’uno con l’altro i
dichiaranti e con l’influenzare negativamente la
genuinità delle indagini e le loro stesse risultanze.
Si sarebbero dunque certamente verificati “eccessi,
sbavature, forzature, vere e proprie illegalità”, ma
senza alcun “complotto”.
Lo stesso SCATTONE (udienza 9.9.1998), alla
domanda: “Perché, secondo Lei, queste quattro persone
(LIPARI, ALLETTO, LIPAROTA e OLZAI, ndr) si sarebbero
in qualche modo ingegnate per ordire ai suoi danni
questa congiura?”, ha risposto: “no, no, non credo che
ci sia né una congiura, né un accordo. Io ritengo che
le testimonianze siano a catena, cioè siano state
l’una conseguenza dell’altra, e tutte siano partite da
un presupposto errato, e cioè che si fosse sparato da
lì”.
* * * * *
Questa Corte non intende sottrarsi al proprio
compito, che è quello – per riprendere le parole di una
memoria difensiva – di procedere “all’esame accurato,
spassionato e senza riguardi per chicchessia”, di tutto
il materiale probatorio, “al fine di controllare la
correttezza delle premesse di partenza, la linearità
degli sviluppi e la congruenza degli esiti delle
indagini”.
Va detto anzi che, essendo questo delle
“pressioni” da un lato e delle “contaminazioni”
dall’altro un tema che informa di sé tutto questo
processo, appare necessario affrontarlo espressamente;
221
e lo si farà ora una volta per tutte, con l’avvertenza
che tale trattazione e le sue conclusioni non
riguarderanno soltanto la figura e il ruolo di
Gabriella ALLETTO che si sta analizzando, ma anche
Maria Chiara LIPARI, Francesco LIPAROTA e in genere
tutte le deposizioni e dichiarazioni rese nel corso
delle indagini, compresa, per quanto di ragione,
Giuliana OLZAI.
* * * * *
Quanto alle denunciate “pressioni”, dunque, reputa
la Corte che sia da farsi immediatamente una
considerazione risolutiva: mai, nemmeno nel
“videoshock”; mai, in nessuna delle pur franche
conversazioni intercettate (in cui non mancano verso
gli inquirenti gli epiteti più scurrili); mai, nemmeno
durante il “travaglio”; mai, né la LIPARI né la ALLETTO
e neppure LIPAROTA neanche quando ha ritrattato; mai,
nessuno degli appartenenti al pur ostile ambiente
dell’Istituto; mai è stato insinuato che a taluno sia
stato chiesto, o intimato, o suggerito o proposto:
“devi dire questo e questo”; mai nessuno ha denunciato
o dichiarato che gli stato “richiesto” di fare un certo
nome, di rivelare la presenza di una certa persona, di
esporre un fatto in modo predeterminato.
“Pressioni” fin che si vuole – ma in realtà
“contestazioni” e “insistenze” e “ammonizioni” -, però
sempre e soltanto dirette a vincere una resistenza, una
renitenza, un silenzio, una “amnesia”; a superare un
atteggiamento illecito che in diritto penale si chiama
222
reticenza (vera o supposta, ma in tal caso in buona
fede e non senza ragioni); mai, però, non tanto la
richiesta di una dichiarazione falsa, ma neppure di una
dichiarazione in nessun modo compiacente o comunque
“guidata”.
E’ significativa la puntualizzazione della attenta
Maria Chiara LIPARI, che raccontando in udienza il
momento in cui rammentò “a livello subliminale” la voce
di Massimo MANCINI, disse che il nome di costui le era
stato “suggerito” da un funzionario di polizia; ella si
volle immediatamente correggere, precisando di aver
adoperato impropriamente il termine “suggerito”,
giacché quel nome in realtà le era stato soltanto
prospettato “come possibilità”.
Se altri veri “suggerimenti” vi fossero stati –
osserva la Corte – gli altri assistenti di Filosofia,
assai meno benevoli verso gli inquirenti, e in genere
gli appartenenti al personale dell’Istituto, non
avrebbero certo mancato di proclamarlo e di
raccontarselo nelle numerosissime telefonate
intercettate!
* * * * *
Questa Corte ha presenti le molte polemiche, fino
ai più alti livelli istituzionali, che accompagnarono
diversi momenti delle indagini e del processo, specie
dopo il “videoshock”: ve n’è traccia nelle due sentenze
di merito, negli atti di impugnazione e perfino nella
sentenza della Cassazione; e si è accennato, in questo
223
stesso giudizio di rinvio, agli strascichi, giudiziari
e non, che ne seguirono.
Ora che tali polemiche sono sopite, che gli
strascichi sono chiusi, che non vi è più – si spera –
il sospetto che il giudicante voglia indebitamente
“assolvere” Procura o Polizia, può ben dirsi da parte
di questa Corte che, specialmente in presenza di un
caso di omicidio come quello per cui è causa,
“contestazioni” e “insistenze” e “ammonizioni”
costituivano, nelle condizioni date, il dovere degli
inquirenti.
La persona informata sui fatti che venga sentita
dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 351 CPP.
(come erano tutti coloro di cui si parla) ha l’obbligo
giuridico di rispondere, e di rispondere secondo verità
(e, ovviamente, completezza) alle domande che le sono
rivolte (art. 198 CPP., richiamato ex artt. 351 e 362).
Questo è ovviamente un presupposto e un caposaldo
fondamentale per la concreta realizzabilità di
qualsiasi inchiesta: se chiunque potesse gratuitamente
prendersi gioco degli inquirenti, nessuna indagine
potrebbe avere successo.
E’ per questo che tale obbligo giuridico di verità
e completezza è esplicitamente previsto dalla legge, è
imposto dall’art. 198 CPP, ed è anche sanzionato
penalmente: a parte l’ipotizzabilità del reato di cui
all’art. 371 bis nel caso in cui – come la ALLETTO l’11
giugno 1997 – le persone informate dei fatti siano
interrogate del pubblico ministero, esse, in caso di
falsità o reticenza, possono commettere, anche con
224
dichiarazioni rese direttamente e soltanto alla
polizia, il reato di favoreggiamento personale.
* * * * *
Sennonché è del tutto evidente che nel corso delle
indagini né il pubblico ministero né la polizia
giudiziaria possono fungere da semplici notai, e
debbano limitarsi a registrare ciò che i comparenti
dichiarano; ed è altrettanto palese, per converso, che
non ogni esitazione, contraddizione o riserva mentale
della persona esaminata dovrà comportare
automaticamente l’avvio della procedura di cui all’art.
63 CPP, con sospensione dell’esame, nomina del
difensore, avviso della facoltà di non rispondere e
conseguente aborto sul nascere di qualsiasi inchiesta.
E’ vero, anzi, esattamente il contrario.
Ai sensi degli artt. 326, 348 e segg., 358 CPP, è
dovere della polizia giudiziaria e del pubblico
ministero portare avanti utilmente le indagini,
evitando che i reati cui agli artt. 378 e 371 bis CP
siano commessi; e perciò muovendo al dichiarante, per
l’appunto, quelle “contestazioni” e “insistenze” e
“ammonizioni” di cui si è detto; facendogli “rilevare”
(art. 207 CPP.) che sta rendendo dichiarazioni
“contraddittorie, incomplete o contrastanti” con altri
dati acquisiti, e cercando di ottenere, con la verità,
notizie utili alle indagini.
Non è – come si insinua – che l’inquirente,
poliziotto o pubblico ministero che sia, ritenga di
“possedere la verità” in forza dell’impiego, e che
225
perciò sia o si senta autorizzato a “torturare”
chicchessia solo per la necessità di vedersi avallata
questa “verità” precostituita; è il contrario: è la
persona che gli siede davanti a possedere dentro di sé
la verità (il proprio brandello verità, ovviamente); ma
assai spesso è proprio questa persona a voler “girare
la testa dall’altra parte”; è proprio quella verità,
sono proprio quelle informazioni di cui
“sfortunatamente” si è venuti a conoscenza che si tenta
di tacere, di negare, di nascondere, di coprire: anche
senza una vera “omertà” ideologica (da “antistato”), ma
semplicemente “per non fare la spia”, come dice
Gabriella ALLETTO, per non crearsi dei nemici, per non
avere seccature, per non assumersi responsabilità.
In tale situazione non resta all’inquirente,
ancorato in buona fede a dati certi o ritenuti tali,
che esercitare il suo difficile dovere di equilibrata e
ragionevole (ma altrettanto ferma) “insistenza”, con le
“contestazioni” e le “ammonizioni” del caso.
* * * * *
Questa è, a parere della Corte e fuori da
ingigantimenti, strumentalizzazioni e distorsioni di
parte, la vera portata delle “coartazioni” lamentate;
questo è il significato ultimo della frase “clou” di
tutto questo “crescendo” di asserite vessazioni, quando
il dott. ORMANNI, l’11 giugno, alla ALLETTO che insiste
nel collocarsi fuori dall’aula 6, e dice “me
prenderanno per scema, per fissata…” ribatte
226
spazientito “No, la prenderanno, la prenderemo per
omicida!”.
Le parole usate, nel loro testo completo, sono
inequivocabili: “noi la prenderemo per omicida, contro
la verità; se lei continua a mentire e a non dire chi
c’era in quella stanza, noi, contro la verità, la
dovremo prendere per omicida”.
E’ palese che l’accento è sulla “verità”, non
sulla qualifica di “omicida”: non vi è alcuna minaccia
né alcuna prospettazione di una effettiva (ed
impossibile, perché “contro la verità”) incriminazione
per omicidio; vi è soltanto la doverosa contestazione
dialettica della incongruenza di un atteggiamento
insistito “contro la verità” e della impossibilità di
continuare a mantenerlo. Anche quando si dice:
“Significa che l’omicidio l’ha fatto lei… … questa è
la linea del pubblico ministero”, il tutto è inserito
in un discorso ben chiaro:
“se lei si ostina a non dire la verità significa che,
contro la verità, c’è la condanna a 24 anni di
reclusione, per cui lei preferisce dire la bugia”.
* * * * *
Del resto, nel corpo dello stesso atto (audio del
“videoshock”) più volte il sostituto LA SPERANZA le fa
capire di essere dalla parte sua in relazione al
trattamento, indubbiamente pesante, riservatole dalla
polizia (sono in atti verbali della ALLETTO, per
esempio del 27 maggio, aperti alle ore 2, alle ore
5,30, alle ore 7 e alle ore 12):
227
ALLETTO: “M’hanno distrutta!”
LA SPERANZA “e lo so, viene qui malfidata, perché dopo
il trattamento che le hanno fatto!..” e più avanti:
LA SPERANZA “Complimenti dico (è LA SPERANZA che
riferisce alla ALLETTO una propria ipotetica ramanzina
ai poliziotti, ndr) perché se questa era lì dentro e
aveva un minimo de .. collaborare, con quello che
avete combinato questa qui proprio non dirà mai
nulla…”. E ancora – tenendo presente che il cognato
Gino DI MAURO è lì presente: …l’unica persona che
poteva in qualche modo rassicurarla era il cognato e
l’avete buttato fuori”.
Più avanti molto serenamente la rassicura: “se c’è
uno che non ha sparato, è lei”; “io non la vedo che si
chiude con un ragazzo lì dentro e “senta signora le
faccio vedere una pistola”, perché lei gli dice
“senti, cammina, che c’ho due figli”.
Talvolta sembra anzi che quasi le suggerisca una
facile scappatoia: “ma non è detto che lei abbia
visto… (quello) che ha sparato”; “può darsi pure che
lei sia dentro e già lì ci fossero già delle persone”
“lei non è che se deve inventà niente”.
Sempre il dott. LA SPERANZA espone lealmente alla
ALLETTO la propria tesi: lei era “lì dentro” con altri,
magari per caso, ma solo lei è veramente “preziosa”,
perché solo lei, che certamente non ha sparato, può
essere “teste”; chiunque altro può aver sparato e
dunque non potrebbe mai essere un semplice testimone;
lui “resiste” contro chi la vorrebbe incriminare (“qui
la polizia non riusciamo più a tenerla, che sta
228
spingendo!”; “Io sono un perditempo, sono considerato
quello che vuol frenare le cose”); e resiste perché “a
me non mi serve un indagato in più, mi serve un
testimone in più”).
Ancora più avanti, verso la fine della seduta,
questa volta esaminata dal dott. ORMANNI, la ALLETTO
piange: “Io la ringrazio tanto, la ringrazio per tutto
quello che… … state cercando de fa’ per me … per
aiutarmi…”; e poi “Lo so che me state a aiutà, ma io
che ci posso sapè… …io non lo so quello che devo fà”….
Infine, per due volte torna un ben preciso
discorso di Gabriella ALLETTO: “Lei vorrà qualche cosa
di concreto ma io non…”; “non si aspetti grandi cose
da me, perché io non so niente”: ebbene, entrambe le
volte il “terribile” Procuratore ORMANNI, quello che
apparentemente l’aveva “minacciata” di “prenderla per
omicida” le dice quasi conciliante “va beh, mi dica
quello che sa”; “la concretezza la lasci valutare a
me”; e alla replica: “ma io non so niente” ripete e
chiarisce con estrema correttezza: “mi dica quello che
sa; io voglio capire quello che è successo quel
giorno”.
Quanto ai ventiquattro anni di reclusione la
stessa ALLETTO è lapidaria: “ma io non l’avevo fatto…
sapevo che non mi tangeva” (udienza 19.9.98).
E’ questa la “coartazione” che ha fatto gridare al
Medioevo giudiziario?
* * * * *
229
Né è mai stato diverso da questo l’atteggiamento
degli organi di polizia, quasi stupiti di essersi
trovati davanti ad “un muro di gomma”, in
quell’ambiente “elevato” di Filosofia del Diritto da
cui “dovrebbero uscire magistrati, avvocati, insomma
gente che ha a che fare con la legge”.
Quanto mai espressivo lo sfogo di Lamberto
GIANNINI riferito dalla dott.ssa Luisa AVITABILE:
“Sembra di stare a Tor Bella Monaca: nessuno si
ricorda mai niente… …insomma sappiamo che il colpo è
partito da quella finestra e nessuno parla… nessuno si
ricorda di niente”.
* * * * *
Proprio la AVITABILE – autrice di un discusso
“memoriale” versato in atti – potrebbe essere un altro
esempio “clou” in ordine alle citate “pressioni”,
operate questa volta non da magistrati della Procura ma
da funzionari di polizia.
Persona particolarmente emotiva, fu sottoposta a
diversi stringenti interrogatori il 21, il 24 e il 29
maggio; e ciò comprensibilmente, giacché, essendo stata
presente in Istituto la mattina del 9 maggio, gli
investigatori insistevano a chiederle “chi avesse
visto”: ma nessuno mai le ha fatto un solo nome che
ella dovesse “confermare”.
Il 17 giugno 1997, dopo che Gabriella ALLETTO
aveva parlato e dopo che Francesco LIPAROTA, dopo aver
a sua volta parlato, aveva – quello stesso giorno 17! –
ritrattato, ancora una volta la dott.ssa AVITABILE fu
230
convocata, le fu chiaramente detto che avrebbe dovuto
“collaborare” se non voleva “cambiare veste” e
diventare imputata, e fu minacciata di arresto.
Tutto questo può ritenersi vero, perché la
AVITABILE, spaventata, raccontò l’accaduto a diverse
persone, si rivolse successivamente ad un legale, e
scrisse il cennato “memoriale”; e perché Pierpaolo
FIORINI, anch’egli in Questura lo stesso giorno, ha
dichiarato di aver sentito “le urla” e le minacce di
arresto.
Però la situazione era quella dianzi descritta
(sembra di essere a Tor Bella Monaca… il colpo è
partito da quella finestra e nessuno parla), e una
certa insistenza era giustificata: ma nessuno degli
inquirenti, pur presumendo, magari a torto, che la
AVITABILE fosse reticente, e pur pretendendo, con
minacce di arresto, che “collaborasse” le ordinò, le
intimò, le richiese, le propose di dire una cosa
specifica sul conto di chicchessia: e questo pur avendo
essi ben chiaro, dopo le rivelazioni della ALLETTO, il
quadro accusatorio.
In definitiva, reputa la Corte che se durante le
indagini furono fatte ”pressioni” (e certamente ne
furono fatte), fu nel senso e con le modalità suddette;
furono probabilmente doverose, e comunque – ed è quello
che qui conta – furono del tutto irrilevanti sul
contenuto concreto delle deposizioni (l’autonomia e la
spontaneità che si stanno esaminando), posto che magari
qualcuno sarà stato stressato e qualcun altro
spaventato, ma a nessuno è stato mai chiesto, o
231
intimato, o suggerito o proposto di dire qualcosa di
specifico, bensì solo la verità, senza “blocchi”,
amnesie, muri di gomma e simili.
* * * * *
Quanto alle “contaminazioni”, il discorso è
diverso, non essendo irrilevante in punto di prova il
fatto – che la Corte ritiene si sia certamente
verificato – per cui una inevitabile circolazione di
notizie nell’ambito delle indagini abbia finito
talvolta per rendere edotto qualcuno dei dichiaranti di
quanto era stato già dichiarato da altri o accertato
altrimenti.
Con ciò è divenuto inefficace, rispetto a questi
casi, il tradizionale ed usuale metodo di controllo
delle dichiarazioni di ciascuno, che consiste nel
metterle a raffronto con altre risultanze acquisite
aliunde, o con altre dichiarazioni verificate
concernenti i medesimi argomenti.
Il che non significa affatto che vi sia stata mala
fede da parte degli inquirenti, e tanto meno che le
indagini siano state artificiosamente “costruite” con
prove a carico di SCATTONE e FERRARO sostanzialmente
apparenti; si è trattato invece di una circolazione di
notizie (indubbiamente verificatasi) fra le persone
interessate alle indagini, da ritenersi inevitabile
date le circostanze.
* * * * *
Intanto già il fatto in sé era accaduto in luogo
pubblico e aperto al pubblico, in piena mattina, con
232
grande concorso di persone e in luoghi notissimi e
frequentatissimi, tanto che gli stessi rilievi si
svolsero – come risulta dalle fotografie in atti – con
una folla di curiosi: di tal che molti elementi di
fatto, come l’ora del delitto, l’uso di una pistola, il
mancato ritrovamento del bossolo e simili rientrarono
immediatamente nel notorio.
Inoltre si trattò di un delitto eclatante, che
aveva comportato la morte di una ignara ed innocente
studentessa ventiduenne in un luogo, come i viali
dell’Università di Roma, che si doveva ritenere del
tutto sicuro e certamente immune da colpi d’arma da
fuoco; un delitto che per queste caratteristiche
suscitò una forte impressione nell’opinione pubblica e
che, anche per gli sviluppi delle indagini, attrasse
per molti mesi una attenzione spasmodica da parte di
stampa e televisione.
Infine è da considerare che le indagini,
specialmente dopo il giorno 21 di maggio, si
concentrarono sull’ambiente ristrettissimo
dell’Istituto di Filosofia del Diritto, composto da
poche persone che si conoscevano bene, e che
mantenevano continui ed intrecciatissimi contatti tra
di loro; e che l’attenzione degli organi di
informazione si esplicò anche in interventi diretti,
come interviste ed “inchieste”, che davano per scontato
l’interesse degli inquirenti verso “gli assistenti” e
pubblicarono, di costoro, nomi e rapporti
interpersonali, nonché movimenti e comportamenti di
ciascuno nella mattinata del 9 maggio.
233
Così, praticamente fin dall’inizio, e per tutta la
durata dell’inchiesta – ma per forza di cose e senza
malizia, anzi spesso contro la volontà e gli interessi
degli inquirenti – nessun punto saliente delle indagini
è rimasto segreto se non (forse) per poche ore: dagli
orientamenti della polizia verso il bagno di Statistica
ai sospetti su Salvatore ZINGALE, dalla particella
binaria rinvenuta sulla finestra n. 4 alle telefonate
di Maria Chiara LIPARI, al ruolo centrale man mano
assunto da Gabriella ALLETTO e Francesco LIPAROTA.
Dopo il 21 di maggio e il ritrovamento della
particella binaria sul davanzale della sala assistenti,
fu chiaro a tutti quali fossero i dati che gli
inquirenti andavano cercando (l’identità delle persone
presenti in quell’aula n. 6 la mattina del 9 maggio), e
suscitarono scalpore – nonché commenti e interviste, e
conseguente circolazione di notizie – prima l’arresto
del prof. Bruno ROMANO e poi le rivelazioni della
ALLETTO e del LIPAROTA, con le reazioni che ne
derivarono.
* * * * *
In una inchiesta di tal fatta, poi, svolta in un
ambiente ristretto e con forti contrasti, è altrettanto
inevitabile che sia scattato un altro – legittimo, anzi
doveroso – meccanismo di circolazione delle notizie,
che è quello delle indispensabili contestazioni che
devono essere mosse (“rilevate”: art. 207 CPP.) a chi
sta rendendo dichiarazioni “contraddittorie, incomplete
o contrastanti” con altri dati acquisiti; a chi, non
234
necessariamente in mala fede, non col suo silenzio o
con la menzogna, ma anche soltanto con la dimenticanza
o l’errore, rischia di bloccare o fuorviare
l’inchiesta.
Si tratta di contestazioni che sono indispensabili
per superare un ostacolo, per chiarire una apparente
contraddizione, per verificare un dato, per correggere
un errore; ma è evidente che in tal modo sarà
inevitabile porre a conoscenza il dichiarante delle
risultanze che gli si contestano.
Non è il caso – come invece hanno fatto le difese
di SCATTONE e di FERRARO, meno quella di LIPAROTA – di
pensare a comportamenti scientemente scorretti, quando
non ad intenti fraudolenti, da parte di chi, navigando
nell’ignoto di una difficile indagine, ha il dovere di
saggiare la solidità di un terreno prima di
avventurarvisi; e ancor meno è accettabile che sia
“letta” come una indebita rivelazione di dati a cui
l’imputato possa “ispirarsi” (LIPAROTA, nella specie),
la motivazione di un’ordinanza di custodia in carcere a
suo carico: atto a forma quanto mai “vincolata”, con la
obbligatoria enunciazione dei “concreti” indizi e degli
specifici elementi di fatto da cui si desumono.
E tuttavia occorre riconoscere che una certa
circolazione di notizie vi è stata, e che vi sono
state, in una attività così fitta svolta in un ambito
così ristretto, correlazioni fra i diversi dichiaranti.
Così è risultato che – anche se non vi sono state
quelle “testimonianze a catena” di cui ha parlato
Giovanni SCATTONE, nel senso da lui inteso che ”siano
235
state l’una conseguenza dell’altra” -, tuttavia una
notevole intercomunicazione indubbiamente vi è stata; e
questa Corte ha ben presente il fatto che, pur senza
tutta la malizia che vi si è voluto vedere, ciò ha
riguardato specificamente Maria Chiara LIPARI,
Gabriella ALLETTO e Francesco LIPAROTA; nel senso che
quando resero le loro dichiarazioni, la ALLETTO
certamente sapeva cosa avesse detto la LIPARI, e
LIPAROTA certamente sapeva, almeno per sommi capi ma
non nei particolari, cosa avessero detto entrambe.
Ecco dunque ribadita la difficoltà del controllo
incrociato di tali dichiarazioni; tanto più che non è
possibile stabilire se le dichiarazioni rese dagli
altri fossero note a ciascuno “per sommi capi” o “nei
minimi particolari”; il tutto complicato dal fatto che,
per esempio, LIPAROTA ha puntualizzato di aver sì
ripetuto la versione della ALLETTO, ma con delle
“varianti”, “allo scopo di essere più attendibile”!!!
E tuttavia a questo tipo di controllo – e ad ogni
altro possibile – si è proceduto e si procederà, a
cominciare naturalmente con l’esame dei dati di fatto;
tenendo conto delle doglianze e delle argomentazioni
critiche mosse dagli appellanti, e con l’ausilio
prezioso di quegli “accenti di sincerità e di verità”
che potranno conferire a dichiarazioni altrimenti
“fredde” i caratteri dell’autenticità e della
genuinità.
236
LE DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
VI
LA VALUTAZIONE “GUIDATA” DELLE DICHIARAZIONI
L’ATTENDIBILITA’ INTRINSECA
CONTROLLO DEL CONTENUTO E “ACCENTI DI VERITA’”
Riprendendo dunque la valutazione delle
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO, può ripetersi, ora,
che esse superano assai bene l’esame della loro
spontaneità e del disinteresse della donna ad accusare
LIPAROTA, FERRARO e SCATTONE; fattori questi
(spontaneità e disinteresse) che saranno esaminati
assieme, essendo le due facce della stessa medaglia.
Sempre più chiari i motivi della sua iniziale
“ostinazione” a non confidare quanto aveva visto: “non
potevo parlare con qualcuno, anzi… non ho mai parlato
con nessuno, ho cercato sempre di trattenermi, di non
mettere in giro voci o cose (e vedremo che da un certo
punto in poi questo atteggiamento non sarà più così
assoluto, ndr) perché per la riservatezza della cosa
proprio non avrei voluto parlarne con nessuno … … per
tutte le responsabilità che mi sono portata appresso”
(udienza 14.9.1998).
* * * * *
Il 14 giugno ella “capitola” e decide di parlare.
237
Quel giorno – osservano le difese – la donna fu
“prelevata” dal suo ufficio a metà mattina e introdotta
in Questura alle ore 11, ma è solo la sera alle 20 che
ha inizio la verbalizzazione della sua “resa”. Vengono
perciò insinuati in proposito mille sospetti, e si
chiede a gran voce di sapere “cosa sia successo” in
quelle nove ore, cosa e chi abbia condotto la ALLETTO
all’inspiegabile e incredibile “voltafaccia”.
Questa Corte non ha motivo per ritenere né false
né insufficienti le spiegazioni fornite al riguardo
dalla stessa interessata e dai funzionari esaminati,
spiegazioni già sottoposte al vaglio dei giudici di
merito: la ALLETTO – per dirla con le sue stesse parole
– fu “trattata da persona”, “presa in un altro modo”,
“messa in condizioni di dialogare con persone
“gentili”; e ciò – si badi – non a caso, ma per via di
una intuizione in tal senso che il dott. Domenico
VULPIANI della DIGOS ebbe, come ha spiegato in
dibattimento sia in primo che in secondo grado,
nell’esaminare l’atteggiamento della donna nella
videoregistrazione della drammatica giornata dell’11
giugno, che era stata effettuata, con materiale tecnico
del SISDE, appunto dalla DIGOS.
Nel verbale di polizia delle ore 20 del 14 giugno
la ALLETTO ci tiene a precisare: “… mi sono decisa a
confessare solo adesso quanto a mia conoscenza perché
finora ho avuto paura delle conseguenze alle quali
sarei andata incontro se avessi parlato.
238
Avevo però anche una specie di blocco psicologico
che oggi, dopo essere stata a lungo interrogata, col
vostro aiuto sono riuscita a superare”.
Poco dopo (ore 21,40) interrogata dal magistrato,
ripete la predetta spiegazione (“sono stata agganciata
nel verso giusto dal punto mio psicologico)” e ne
aggiunge un’altra, anch’essa credibilissima e fornita
di riscontro: “devo anche aggiungere che nei confronti
di FERRARO avvertivo una sorta di compassione, dato
che fino a quel momento era stato un ragazzo
abbastanza cordiale e aperto e quindi con lui si era
instaurato una sorta di rapporto privilegiato”:
insomma, non solo non voleva in genere, come già si è
rilevato, essere la prima a “fare la spia”, ma non lo
voleva fare contro un giovane per cui nutriva quasi
dell’affetto materno.
Le difese hanno energicamente insistito sul
menzionato “inspiegabile buco di nove ore” nella
verbalizzazione della giornata del 14 maggio, e hanno
ironizzato sul misterioso fluido psicologico che
sarebbe stato capace di sciogliere l’altrettanto
misterioso blocco psicologico della donna; un “fluido”
che ha conquistato la ALLETTO là dove non erano
riuscite le pressioni e le minacce di arresto, di
incriminazione per omicidio, di licenziamento quale
supposta “falsa invalida”.
* * * * *
239
Va precisato in proposito che la valutazione della
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO deve essere
compiuta, secondo quanto stabilito in questo processo
dalla Cassazione, con riferimento al loro contenuto
intrinseco e che “nessuna concreta rilevanza può e
deve essere attribuita… …alle circostanze che
attengono al periodo immediatamente precedente alla
“risoluzione” del 14 giugno 1997, e (che) come tali
sono del tutto estranee alla genesi delle
dichiarazioni accusatorie della donna”; ed è appunto in
relazione al loro contenuto intrinseco che esse saranno
valutate; ma è palese, comunque, che non ci fu nessun
”fluido”.
La verità è che l’allora Commissario Lamberto
GIANNINI usava un po’ le maniere forti, minacciava e
urlava, tanto che non sono poche le persone esaminate,
anche al di fuori dall’ambiente dell’Istituto (quelle
attorno alla PUL.TRA, per esempio), che si sono
lamentate di ciò; ma questa condotta, lo sappiamo, a
Gabriella ALLETTO non faceva nessun effetto, “non la
muovevano di un millimetro”; quando invece fu “presa
in un altro modo”, da persone “gentili”, e messa a suo
agio attraverso non un interrogatorio ma un “dialogo”
pacato, durato (perché no?) l’intera giornata, fu
allora che “si sentì pronta” e che “riuscì” a parlare.
In ogni caso, questa Corte non può che ribadire
gli argomenti che militano a favore della
inverosimiglianza – questa volta sì, autentica
impossibilità – di una calunnia premeditata ed
estremamente grave (l’accusa era di omicidio
240
volontario) nei confronti di due giovani innocenti – o
tre, perché c’era anche LIPAROTA – da parte del fior
fiore della polizia romana (da GIANNINI a INTINI, da
VULPIANI a BELFIORE allo stesso Nicolò D’ANGELO capo
della Mobile); con la connivenza – o, peggio, sotto la
direzione – di un Sostituto e di un Procuratore
Aggiunto; il tutto non per chissà quale irresistibile
motivazione, ma al solo scopo, abbastanza futile, di
“risolvere” un caso, sia pure nella ferma convinzione,
dovuta alla consulenza del dott. FALSO, di aver colto
nel segno.
* * * * *
Il punto centrale, in relazione alle dichiarazioni
di Gabriella ALLETTO, è costituito certamente dalle sue
accuse nei confronti di Giovanni SCATTONE; ma
ugualmente importante è il fatto che ella abbia
rivelato anche la presenza di FERRARO in sala
assistenti.
Sempre in punto di autonomia del contributo
probatorio della ALLETTO, infatti, questa Corte non può
trascurare di porre in evidenza un dato: gli inquirenti
prestavano fede ai ricordi di Maria Chiara LIPARI, e il
14 giugno essi sapevano e davano per scontato che in
aula assistenti erano stati presenti ALLETTO e
LIPAROTA: fermi, in piedi, un po’ sulla sinistra per
chi entra; e che vi fosse in aula 6 almeno un’altra
persona.
Nient’altro.
241
A Gabriella ALLETTO si contestava, sia pure con
tutta la durezza del videoshock, di aver mentito
negando di essere entrata in quell’aula.
Nient’altro.
Nessuno mostrava di sapere in quale preciso attimo
– rispetto allo sparo – lei fosse entrata, né cosa
avesse visto.
Le bastava, per trarsi d’impaccio e per allinearsi
alla LIPARI – il che era poi tutto quanto gli
inquirenti potessero pretendere da lei – le bastava
ammettere solamente di essere entrata per qualche
istante in sala assistenti, senza aver visto niente,
tranne LIPAROTA e qualche altra persona indistinta –
perfino una persona sconosciuta -, senza farci caso e
senza essersi accorta di alcuno sparo; al limite,
poteva anche aver visto sparare uno sconosciuto.
Sarebbe stata inattaccabile.
E’ importantissimo, sul piano probatorio, il fatto
che lo stesso sostituto dott. LA SPERANZA glielo avesse
in fondo prospettato (“ma non è detto che lei abbia
visto… (quello) che ha sparato”; “può darsi pure che
lei sia dentro e già lì ci fossero già delle persone”):
cioè che anche lei, come la LIPARI, fosse arrivata dopo
lo sparo senza nemmeno essersi accorta di nulla.
Maria Chiara LIPARI non aveva visto niente, gli
altri avrebbero continuato a tacere, gli inquirenti
“non avevano niente in mano”, lei era stata già
severamente “torchiata”: poteva ritrattare la bugia del
non essere entrata in quell’aula, e tanto sarebbe
bastato.
242
Perché tirare in ballo – a sorpresa – Giovanni
SCATTONE? Perché farlo sparare? Perché fornire tutti
quei particolari specifici in punto di fatto?
Perché accettare di essere proprio lei – quando
bastava dire “non ci ho badato” – a confermare per
prima, e a malincuore come sopra spiegato, il nome di
Salvatore FERRARO?
Perché “rovinare” due giovani e potenti – almeno
rispetto a lei, suoi “superiori”?
E non è che la ALLETTO non fosse sensibile alla
sicurezza ed alla tranquillità sua e della sua
famiglia: vi è un punto illuminante nel confronto con
SCATTONE in dibattimento, quando le pare di cogliere
una minaccia in una espressione dell’imputato “Finché
vivrò. Spero di vivere a lungo” e insorge, rivolta al
Presidente: “Non mi piace questa cosa che ha
affermato”.
* * * * *
In proposito è davvero illuminante – ed
estremamente convincente – un brano tratto proprio da
quel “videoshock” il cui testo “audio” questa Corte ha
acquisito anche nelle parti che comprendono gli
interventi del Pubblico Ministero.
Il dott. LA SPERANZA detta il verbale di esame
della ALLETTO, nel quale le si contesta, per via della
sua reticenza, che “la dottoressa LIPARI ha più volte
riferito che intorno alle 11,43 la signora ALLETTO si
trovava all’interno della stanza n. 6 con altre
243
persone, fra cui il LIPAROTA ed altre il cui nome non
si intende rivelare”.
A questo punto il dott. LA SPERANZA espone un suo
ragionamento, secondo il quale, dovendosi esaminare una
pistola, naturalmente solo per “giocare” (“perché
sennò, se voglio ammazzà una persona, me faccio il
vuoto attorno, no?), era necessaria la presenza di un
impiegato amministrativo che avesse la chiave della
stanza (dato che gli assistenti non hanno le chiavi),
per chiudere la porta per qualche minuto: questo
impiegato era ovviamente LIPAROTA, non ALLETTO (“io
non la vedo che si chiude con un ragazzo lì dentro e
“senta signora le faccio vedere una pistola”, perché
lei gli dice “senti, cammina, che c’ho due figli”;
“Non chiamo però lei (si dice, secondo LA SPERANZA, da
parte di un ipotetico assistente, ndr), chiamo
LIPAROTA, perché con LIPAROTA so’ più… … so’ più così…
(in confidenza, ndr).
Dunque la ALLETTO sa che per l’inquirente è
pacifico che LIPAROTA è complice dello sparatore, è
colui che apre la porta dell’aula 6 (se è chiusa a
chiave) e che comunque la deve chiudere per evitare
sorprese; colui che – sia pure ritenuto “mezzo scemo” o
“ubriaco” – conosce del fatto non soltanto l’epilogo ma
anche i prodromi.
Invece essa ALLETTO – sempre per quanto le dice LA
SPERANZA – è quella che entra per caso, che non sa
nient’altro che quello che ha visto di sfuggita: e
potrebbe anche non aver visto niente di significativo
244
in punto di fatto, ma soltanto chi erano le persone
presenti.
E’ proprio questo che gli inquirenti le
contestano: di negare la sua presenza in sala
assistenti non per voler tacere su una azione vista, ma
per non rivelare chi c’era.
Il dott. LA SPERANZA è chiarissimo su questo
punto: “Io penso che lei… ci sia arrivata a cose
fatte”.
E allora bastava dire: “Sono entrata un momento,
ho parlato con LIPAROTA; forse c’erano altre persone,
ma non ricordo chi fossero, né ho badato a cosa
stessero facendo; la LIPARI non c’era, ma è arrivata
dopo di me mettendosi a telefonare; le ho dato le
fotocopie e sono uscita”; oppure offrire una delle
tante risposte o ricostruzione innocue sopra indicate
(o altre ancora possibili).
Perché una resistenza così strenua su una
insostenibile negativa assoluta?
E poi, “capitolando”, perché non ripiegare sulla
inespugnabile posizione intermedia?
Perché inventarsi lo sconosciuto che usciva?
Perché inventarsi SCATTONE come sparatore?
Perché imbarcarsi a riferire tanti particolari
sulle sue mosse?
Perché coinvolgere Salvatore FERRARO, per cui
aveva quasi un sentimento materno, inventandosi i
particolari delle mani nei capelli e della borsa?
Perché fare quei nomi, che lei sapeva (non solo
quello di SCATTONE, ma anche quello di FERRARO, a parte
245
le ipotesi degli inquirenti) non essere stati
concretamente “fatti” da nessuno?
* * * * *
Sempre in tema di valutazione della ALLETTO, si è
detto che già da tempo il nome di Salvatore FERRARO
“circolava” fra gli inquirenti, e che tale nome le fu
“fatto” più di quanto non appaia dagli atti scritti.
Ciò è certamente vero, appunto, per FERRARO; ma è
da escludere in relazione alla ben più importante
rivelazione circa la presenza ed il ruolo di Giovanni
SCATTONE.
Infatti il viso “pallido” di FERRARO era “tornato
in mente in un flash” alla LIPARI quasi subito; ella ne
aveva parlato col padre prof. Nicolò fin dal 24 maggio
e la cosa era giunta alle orecchie della polizia per
mezzo di una intercettazione telefonica; anche se la
LIPARI non si risolse mai, con gli inquirenti, a
parlare di FERRARO fino all’8 di agosto (e allora parlò
di “certezza”), con i suoi si diceva “sempre più
sicura” del fatto che in aula 6 ci fosse “il
calabrese”, e gli inquirenti lo sapevano.
E’ pacifico, in sostanza, che al momento delle sue
rivelazioni, Gabriella ALLETTO aveva potuto intuire,
per mezzo di diverse fonti – da ultimo perfino il
sostituto dott. LA SPERANZA – non solo che era stata
affermata la presenza, in sala assistenti, di lei
stessa e di LIPAROTA, ma che si ventilava anche quella
di Salvatore FERRARO.
246
Ma non se ne aveva la certezza. E – soprattutto,
nessuno aveva mai sospettato di Giovanni SCATTONE.
Ciò è risultato chiaramente all’udienza del
15.9.1998, quando ella ha ammesso: “Io sin da subito
ho sentito questi nomi; quasi immediatamente ai primi
interrogatori”.
La frase ha suscitato l’ironico sconcerto di un
difensore di SCATTONE (“E così ce lo dice?!”); ma
immediatamente la ALLETTO ha spontaneamente precisato:
“TRANNE SCATTONE, TUTTO IL RESTO DEI NOMI”.
Poco più avanti, il Presidente la invita “a
ritornare sull’ultima frase” che si era percepita male,
e la donna chiarisce: “I nomi sono questi: i nomi
della dottoressa LIPARI, di LIPAROTA e del dottor
FERRARO, tranne SCATTONE. Non l’ho mai sentito fare il
nome di SCATTONE. Questo ho detto.”
* * * * *
“Tranne SCATTONE, tutto il resto dei nomi”.
“I nomi della dottoressa LIPARI, di LIPAROTA e del
dottor FERRARO, tranne SCATTONE. Non l’ho mai sentito
fare il nome di SCATTONE”.
Questa Corte non può che rimarcare tali pacate ed
inequivocabili precisazioni della ALLETTO, in udienza
pubblica, addirittura in Corte d’Assise: una
calunniatrice – pur sempre una ”madre di famiglia”, non
un criminale incallito – non avrebbe certo rivendicato
così puntualmente la propria responsabilità esclusiva
nel “fare il nome” di un accusato!
247
Una responsabilità che lei sapeva bene (la
“sentiva” su di sé, non a caso parlava di “valanga” e
di “confessione”) essere non solo giuridica – penale e
civile – ma anche morale e sociale sul posto di lavoro!
* * * * *
Già si è detto, poi, come non sia vero che il
dott. Carmine BELFIORE, “col suo fiuto poliziesco”,
avesse subito rivolto le sue attenzioni sulla ALLETTO e
sul LIPAROTA perché li aveva individuati come persone
“sulle quali far leva” per risolvere il caso; è vero
invece che l’uno e l’altra entrarono sì nelle indagini
prima del 21 maggio, ma in modo assolutamente
trasparente, solo perché amici di Salvatore ZINGALE, e
il loro telefono fu posto sotto controllo per questo
motivo.
Non è vero inoltre – e lo si è gia discusso – che
Maria Chiara LIPARI sia stata dal dott. BELFIORE (e
neppure da altri) indotta, costretta, plagiata,
suggestionata o simili, perché “collocasse” in aula 6
la ALLETTO ed il LIPAROTA.
Se fosse stato così facile plagiarla, almeno il
nome di FERRARO (che lei già aveva in mente) sarebbe
venuto fuori, da lei, ben prima dell’8 di agosto!.
Ancora: non sono riconducibili ad elementi di
prova (e neppure valgono a suscitare dubbi nella Corte)
le varie e indimostrate illazioni circa le presunte
manovre compiute per “costruire” una apparente
corrispondenza nelle dichiarazioni: i “nomi” che
sarebbero stati assegnati ai “manichini“ allestiti in
248
sala assistenti per la LIPARI; la “piantina” che le
sarebbe stata consegnata, munita di nomi; il disegno –
ancora una piantina con nomi – che il dott. LA SPERANZA
avrebbe consegnato alla ALLETTO nell’esame dell’11
giugno.
Tutte illazioni, si ripete, e sospetti gratuiti,
superati non foss’altro che dalle incertezze,
esitazioni e difficoltà con cui la verità è venuta a
galla: cosa che sarebbe inspiegabile per una falsa
verità preconfezionata con tanto anticipo e tanta
attenzione da un siffatto concorso di autorevoli e
capaci investigatori.
* * * * *
Non è vero, infine, che Gabriella ALLETTO, quando
dovette “capitolare”, abbia parlato praticamente
“sotto dettatura” degli inquirenti, assecondando in
tutto le loro tesi.
Ella anzi rivelò moltissimi particolari nuovi che
nessun inquirente in vena di inquinamenti avrebbe avuto
alcun interesse a “dettare”: dallo “sconosciuto” alle
“mani nei capelli”, dal “tonfo” alla “atmosfera di
gelo“ alla borsa, probabilmente di FERRARO, in cui fu
portata via la pistola.
Di straordinaria importanza una considerazione su
un dato che risulta, in maniera convergente, dalle
dichiarazioni della ALLETTO e di Maria Chiara LIPARI:
nessuna delle due ricorda più nulla delle famose
fotocopie della lettera al prof. BISER.
249
Passi per la LIPARI, che forse – così le sembra di
ricordare in via di ipotesi – aveva provveduto da sé a
farsi una fotocopia: e comunque aveva dato un incarico,
non lo si era potuto eseguire, pensava di poterlo fare
da casa, e ad un certo punto se n’era andata.
Ma Gabriella ALLETTO?
Gabriella ALLETTO aveva effettivamente trascorso
parecchio tempo attorno al fax cercando di farlo
funzionare; e aveva davvero avuto l’incarico di fare
delle fotocopie della lettera, perché una la doveva
mettere agli atti d’ufficio, un’altra – per ciò che lei
sapeva – la doveva dare certamente alla LIPARI perché
facesse il fax a BISER dallo studio del padre.
Era l’occupazione principale della mattinata, e
ben si spiega che la ALLETTO fosse andata in aula 6
apposta per questo, per cercarvi la LIPARI!!
Ebbene, ella entra in sala assistenti si rivolge a
LIPAROTA; poi, dopo qualche istante, sopraggiunge la
LIPARI che si mette tranquillamente a telefonare, e la
ALLETTO se ne va, se ne torna in segreteria senza
consegnarle le fotocopie che erano lo scopo dell’intera
mattinata!
“Guardi, non riesco a focalizzare”, dice la
ALLETTO nell’incidente probatorio richiesta
insistentemente di dire se e quando abbia consegnato le
fotocopie a Maria Chiara LIPARI: majora premunt, è il
caso di dire: dopo aver visto SCATTONE sparare e
FERRARO con le mani nei capelli, la consegna delle
fotocopie passa certamente in seconda linea, nel clima
250
di “forte tensione” e di “gelo” che si crea proprio
quando arriva Maria Chiara LIPARI!!
* * * * *
Straordinaria – nella stessa “chiave” psicologica
– anche la vivezza con cui la ALLETTO ricostruisce il
momento in cui SCATTONE se ne va, col saluto
“bofonchiato”, e poi se ne vanno tutti, prima FERRARO e
LIPAROTA e poi lei: al PM che le chiede se qualcun
altro abbia salutato, se LIPAROTA abbia salutato,
risponde “no”; e all’ulteriore domanda: “Lei ha
salutato?” non si limita a rispondere “no”, ma aggiunge
– in pubblica udienza, ad oltre un anno di distanza dal
fatto – un “Non m’è uscito il saluto” che scolpisce dal
vivo il momento di “ghiaccio” che andava vivendo.
O Gabriella ALLETTO è non solo un’attrice
consumata ma anche una grande psicologa e una
straordinaria drammaturga o più semplicemente narra il
suo reale vissuto.
* * * * *
Estremamente significativo è il particolare
relativo allo “sconosciuto” che la donna ha riferito di
aver visto uscire dalla stanza pochi attimi prima che
lei vi entrasse: un particolare che la ALLETTO non ha
riferito subito, quando il 14 giugno 1997 “riuscì a
parlare”, ma successivamente, nel corso ed anzi al
termine di un interrogatorio svoltosi il 2 luglio:
“Vorrei a questo punto precisare una circostanza che
finora non ho rivelato in quanto non essendone sicura
251
pensavo che non fosse utile per nessuno. Ricordo che
quando stavo entrando nella stanza n. 6, quasi
contemporaneamente è uscita una persona di sesso
maschile di cui però a tutt’oggi non riesco ancora a
visualizzare la fisionomia. Questo ricordo è molto
sfocato perché in quel momento io stavo cercando la
LIPARI. Io ritengo che sia uscito quasi
contemporaneamente allo sparo”.
“Quasi contemporaneamente allo sparo”, dice
Gabriella ALLETTO, ed a scanso di equivoci è bene
precisare che ciò vuol dire “poco prima”, e che in
nessun caso può significare “poco dopo”.
E’ da tener presente, peraltro, che le indagini
attivate dalla polizia intese alla identificazione
dello “sconosciuto” dettero esito negativo.
E allora ci si chiede: se tutto il racconto della
ALLETTO è una “invenzione” della polizia, a che pro la
polizia avrebbe “corretto” la prima versione,
inventando, dopo quasi venti giorni, e suggerendo alla
ALLETTO, l’esistenza di un “quarto uomo” non
identificabile?
Che necessità c’era? Davvero quella di
giustificare il fatto che la porta della sala
assistenti fosse aperta? O di “inventare” una possibile
provenienza della pistola?
E’ credibile una simile machiavellica sottigliezza
fraudolenta, e contemporaneamente prendere le distanze,
come fanno le difese di FERRARO e SCATTONE, dalla
denuncia di un “complotto”?
Un complotto tanto “enorme” quanto impossibile?
252
E se invece il primo racconto della ALLETTO era
una sua personale – e compiacente – invenzione, a che
pro inventarsi, dopo quasi venti giorni, un “quarto
uomo”, quando nella sua deposizione non era stato
rilevato nessun “buco”, e prendersi la briga di
introdurre spontaneamente questo nuovo elemento,
rendendolo del tutto irrilevante col farlo uscire prima
dello sparo?
E se invece la storia del “quarto uomo” è vera –
riconfermata dalla ALLETTO nello scrupoloso supplemento
di istruttoria svoltosi in grado di appello – come
scindere la verità di questo particolare dalla verità
del resto del suo racconto?
* * * * *
Ma la ipotizzata “dettatura” delle dichiarazioni
accusatorie della ALLETTO da parte della polizia non è
vera per un altro importantissimo particolare: la donna
si mise in aperto contrasto con la teste “privilegiata”
Maria Chiara LIPARI su una circostanza tutt’altro che
marginale, giacché non la fece uscire dalla sala
assistenti fra l’una e l’altra delle sue telefonate.
La erronea circostanza attinente all’apparente
“buco” di quattro minuti fra le due telefonate era – si
badi bene – ben nota agli inquirenti, e ritenuta così
importante che essi indussero, secondo le difese, la
LIPARI alla menzogna.
Ma la stessa – erronea – circostanza è stata
portata a conoscenza anche della stessa Gabriella
ALLETTO. Se ne parla proprio nei colloqui intercettati
253
dell’11 giugno; e non in modo marginale, ma a lungo e
con specificità, discutendo se la LIPARI, che sostiene
di essersi recata in aula 4 (quella del fax), lo abbia
fatto prima o dopo essere andata in aula 6. La ALLETTO,
quando capisce che la LIPARI colloca il proprio
spostamento “durante” le telefonate in aula 6 – cosa
che lei sa bene non essere avvenuta – non può
trattenere un motto di fastidio (“quella è sciroccata,
guarda, è una stonata, Gino… …è anoressica”), ma si
guarda bene dal correggere sé stessa; e neppure gli
inquirenti la inducono a tanto.
Questa Corte non può che rimarcare il fatto che
questa frattura sia rimasta tale perfino nel
dibattimento e che l’“uscita” della LIPARI dall’aula 6
tra una telefonata e l’altra si sia rivelata, a
posteriori, materialmente impossibile, dando ragione a
Gabriella ALLETTO.
Ovviamente, tutto ciò non fa che aggiungere forti
argomenti sia alla correttezza della polizia che alla
credibilità della dichiarante.
* * * * *
Ma soprattutto, non è vero che la ALLETTO parlò
sotto dettatura degli inquirenti, proprio perché fece
il nome di SCATTONE.
Già si è detto della “sorpresa” del dott. BELFIORE
al nome di SCATTONE, che quasi nemmeno aveva presente;
e della correlativa incredulità della sua difesa, che
invece ipotizza un “suggerimento” anche su tale nome.
Ma c’è un dato di fatto incontrovertibile.
254
E’ importante notare che Giovanni SCATTONE era
stato sentito, come tutti gli altri, il 21 di maggio e
aveva esposto quali fossero stati i propri movimenti la
mattina del 9 (a Villa Mirafiori, alla Segreteria della
Facoltà di Lettere, in Istituto solo dopo le 12).
Ebbene, risulta dagli atti con assoluta certezza
che questo suo alibi non fu controllato prima delle
rivelazioni della ALLETTO; e perciò gli inquirenti, se
davvero la avessero indotta ad “inventarsi” il nome di
SCATTONE, lo avrebbero fatto “al buio”: rischiando, per
via di un alibi in ipotesi “ferreo”, un clamoroso
autogol: altro che “fingere sorpresa” al nome di
SCATTONE!
* * * * *
Osserva ancora la Corte, sempre in punto di
attendibilità intrinseca, che in tutto lo svolgimento
del processo Gabriella ALLETTO si è sempre rivelata non
solo coriacea e “ostinata”, ma anche piuttosto astuta,
abilissima – nelle “strettoie” – a cambiare argomento
ed a menare il can per l’aia, capace di finezze perfino
lessicali; previdente e abile nel mettere le mani
avanti (“non mi conviene dire che non c’ero, capito?”);
ma soprattutto prontissima a cogliere le opportunità
che le venivano offerte dallo svilupparsi dei vari
esami per cercare di ritagliarsi (nel periodo in cui si
attestava sulla negativa) uno spazio che fosse
collimante con le dichiarazioni degli altri.
Così si “colloca” in sala fax fra le 11 e le 12,
cercando di smentire le opposte testimonianze; e nei
255
lunghi ed estenuanti interrogatori non perde mai
contezza di sé, ed anzi, come risulta dalla
trascrizione audio del “videoshock”, cerca di sapere
meglio che può che cosa abbiano detto la LIPARI e il
LIPAROTA, pur non mancando di qualificarli l’una
“stonata” e l’altro “addormentato”.
Ma a tratti – ecco il fondamento dell’intuizione
del dott. VULPIANI, secondo il quale, “presa in un
altro modo”, Gabriella ALLETTO poteva indursi a
“parlare” – la donna ha degli improvvisi ed impulsivi
cedimenti, delle sbavature, delle “debolezze”: si
abbandona a domande od a commenti che rivelano – con
vivace e credibilissima spontaneità – il dato interiore
vero, secondo il quale ella sapeva di essere stata in
aula 6 e di aver visto.
Così, per esempio, quando il dott. LA SPERANZA le
riassume le rivelazioni della LIPARI, le spiega che
costei è entrata per telefonare, che c’è il riscontro
del tabulato, che l’ora è proprio un minuto dopo lo
sparo, e “ha fatto una descrizione di tante altre
cose”, la ALLETTO non riesce a contenersi, e domanda,
incredula: “(tante altre cose) che so’ successe nella
sei?!”; alla risposta negativa del sostituto: “No, ha
fatto tutta una serie di riscontri” commenta con un
“Ah, ecco!”, che sancisce con efficacissima sintesi la
verità: come se dicesse: “Ah, ecco, mi pareva strano!
Come può la LIPARI fare una descrizione delle cose che
so’ successe nella sei? Io che c’ero so bene che al
momento cruciale lei non c’era!”.
256
* * * * *
Ancora assai significativo – sembra di vederla
dentro la sala assistenti, e sembra di assistere con
lei alla scena – è il momento in cui il cognato DI
MAURO, sempre nella stessa seduta intercettata,
riprendendo un argomento del dott. LA SPERANZA che
aveva parlato di “vaso caduto in testa”, cerca di farle
capire che in fondo l’omicidio è stata una disgrazia,
che non è stato poi così grave, che “la metteranno sul
colposo”; che finisce per pagare di più lei, col
favoreggiamento, che i veri autori dell’episodio; che
insomma le conviene “parlare” perché non vale la pena
di rischiare tanto, per coprire quella che è stata, in
fondo, “una sbadataggine”.
Gabriella ALLETTO – davvero “testimone oculare” –
replica: “… quindi questa persona non è che… ha fatto
così…; questo si è dovuto mette all’angolo estremo
della finestra perché c’è quell’armamentario
dell’EMERSON (il vecchio condizionatore fuori uso,
ndr.), quindi si è dovuto proprio… mette in posizione
per poter fare questa cosa, non è stata una
sbadataggine!”.
A parte quello sulla “sbadataggine” o meno, che è
pur sempre un giudizio personale ed opinabile, come si
spiega, se non per aver ella vissuto la scena, l’uso da
parte della ALLETTO, di tutta quella mimica?
L’uso del verbo all’indicativo?
Non sembra di vedere già – e siamo all’11 giugno –
in quella persona che ”si è dovuto mette all’angolo
estremo della finestra, si è dovuto proprio… mette in
257
posizione”, il Giovanni SCATTONE messo “a taglio” nella
“nicchia” della finestra, “col braccio destro teso e
leggermente flesso” di cui parlerà di lì a tre giorni?
Si può credere, di fronte a questa descrizione
così spontanea e così improvvisata ed estemporanea –
nel divenire occasionale di un dialogo col cognato –,
ad una invenzione della ALLETTO?
Ad una sua ricostruzione “tecnica” immaginata con
tanta realistica immedesimazione? Ad una calunnia?
* * * * *
Invece, chi la preoccupa, malgrado tutto, è
proprio Francesco LIPAROTA.
Il Dott. LA SPERANZA le ha rivelato che costui non
si è affatto “chiamato fuori”, ma ha detto
semplicemente che “non esclude” niente; che lui va in
sala assistenti tutti i giorni parecchie volte, e che
certamente ciò può essere successo anche la mattina del
9 maggio; che gli sembra di ricordare che forse a un
certo punto c’è stata anche la ALLETTO: (“LIPAROTA
dice così: “Lì dentro ce stavo, nun ce stavo, so’
entrato, nun so’ entrato, non escludo di aver visto la
signora ALLETTO”).
Appena il Sostituto esce dalla stanza, la donna
cerca di portare il cognato dalla sua parte, con una
perspicace puntualizzazione di sottile sapore
“giudiziario”: “Ma “mi pare”, ha detto LIPAROTA, ho
visto la Signora; no che mi ha visto, mi sembra di
aver visto”.
258
* * * * *
Successivamente – sempre negli intervalli in cui i
due cognati sono soli per l’assenza del Sostituto – più
volte commentano che non solo la LIPARI, ma anche
LIPAROTA ha detto di averla vista in aula 6, e
riassumono i risultati delle rivelazioni: secondo tali
dati nella stanza c’erano, oltre alla ALLETTO,
LIPAROTA, FERRARO e una terza persona.
Si appalesa, nel seguito dei colloqui, l’astuto
tentativo della ALLETTO di apprendere più che può su
ciò che hanno detto gli altri, onde potersi regolare
nell’atteggiamento da tenere, delimitando sia le
proprie negazioni che le proprie responsabilità.
In questo modo si spiegano le varie allusioni alle
persone che, assieme al LIPAROTA, erano nella stanza:
pian piano, diventa scontata la presenza nell’aula 6 di
Salvatore FERRARO, benché questi non sia mai stato
collocato dal PM in tale situazione; e poi
“Bisognerebbe sapere chi è il terzo”, sonda col cognato
e col PM, “(sapere) chi è quell’altro oltre a FERRARO”,
per capire se vogliono da lei una “confessione”, come
la chiama, o solo una conferma di cosa già nota.
E’ – questa del capire i limiti in cui può
mantenere la propria negativa – la vera ragione della
suddetta frase (“Bisognerebbe sapere chi è quell’altro
oltre a FERRARO”), che in sostanza significa: “sanno
della LIPARI, sanno di me, sanno di LIPAROTA, sanno di
FERRARO; magari sanno pure dell’altro e io mi sto
dannando inutilmente”).
259
* * * * *
Sulla predetta frase (“Bisognerebbe sapere chi è
quell’altro oltre a FERRARO”) i difensori,
naturalmente, hanno molto battuto; ma non è da
condividere l’interpretazione, da essi ipotizzata, di
una sorta di confessione da parte della donna del fatto
di non essere stata in aula 6 e di non aver visto
niente: il suo vero intento è proprio quello di sapere
cosa sanno gli inquirenti, cosa ha detto LIPAROTA.
Lo dimostrano, nell’immediato seguito del
discorso, non tanto la risposta del DI MAURO: “Tu è
meglio che non lo sai”, quanto lo scoramento della
ALLETTO per un ben più grave (per lei) sbarramento:
“Solo che non possono uscì ‘ste notizie da qua; cioè
io non mi posso mette a andà a dì… a quello (LIPAROTA,
ndr.) “guarda che mi hanno detto che tu mi hai visto
là dentro, io non ci sono stata””.
E più tardi ripete: “Non so se io posso avere una
possibilità di dialogo con questi, dopo che sono
venuta qua… … gli vado a dì a quello “A Francè, ma che
sei andato a dì che ce stavo pure io dentro alla sei?!
Se io posso andà da Francesco, visto e considerato…”; e
poi si chiede: “… sa o non sa che io oggi so’ venuta
qui?”.
E’ del tutto evidente il perché della
preoccupazione della ALLETTO: lei sa bene che Francesco
LIPAROTA da un lato sa tutto dell’episodio, dall’altro
certamente l’ha vista nella stanza al momento dello
sparo; e sa che, essendo uno che “non ci sta con la
testa”, può cedere facilmente alle “pressioni”, dicendo
260
la verità e facendola così passare davvero per
favoreggiatrice; se fosse possibile bisognerebbe
interpellarlo, sapere esattamente che cosa ha già detto
e magari istruirlo per bene.
* * * * *
Infine, un’ultima interessante notazione riguardo
a Salvatore FERRARO ed al modo ed al momento col quale
“viene fuori” il suo nome nel corso delle diverse
deposizioni di Gabriella ALLETTO.
E’ straordinariamente preciso in proposito
l’atteggiamento della dichiarante:
– quanto a SCATTONE – lo si è visto – ella
rivendica che quel nome non le era stato fatto da
nessuno (”Non l’ho mai sentito fare il nome di
SCATTONE. Questo ho detto”: udienza 15.9.1998);
– quanto a FERRARO, si è detto poc’anzi che nel
corso della lunga seduta intercettata dell’11 giugno la
presenza nell’aula 6 di Salvatore FERRARO diventa
“piano piano” scontata, benché mai il PM lo avesse
nominato collocandolo in tale situazione.
Sembrerà strano (ed è certamente assai
significativo), ma è così: è agevole controllare
l’intera trascrizione del “videoshock” per constatare
che in effetti quel giorno il nome di FERRARO “venne
fuori” soltanto perché il dott. LA SPERANZA chiese alla
ALLETTO:
1) se FERRARO frequentasse l’Istituto;
2)quali fossero i suoi rapporti con la LIPARI.
Tutto qui.
261
Curiosamente però, nel successivo dipanarsi dei
discorsi tra la ALLETTO e il DI MAURO, Salvatore
FERRARO entra “pian piano” a far parte di coloro che
“si sa” che erano nell’aula n. 6, tanto che
“bisognerebbe sapere chi è il terzo” (“il terzo”,
evidentemente, oltre a LIPAROTA ed FERRARO).
Ancora straordinariamente precisa è la ALLETTO sul
punto, sempre all’udienza del 15.9.1998.
Le si chiede: “Signora, il nome di FERRARO emerge
per la prima volta durante l’esame dell’11 giugno?”
“Sì” è la risposta; “Chi ha fatto questo nome?” “Non
ricordo, però è venuto fuori nei discorsi”.
Chi pone queste domande è la difesa di FERRARO,
che mostra “sorpresa”, sostenendo che il nome di questo
imputato l’11 giugno “non era ancora agli atti del
processo”; il PM obbietta: “ma quando mai”, ricordando
che già il 24 maggio era stata intercettata una
conversazione tra Maria Chiara LIPARI e i suoi genitori
nella quale la teste diceva di avere la sensazione che
il 9 maggio in sala assistenti vi fosse Salvatore
FERRARO.
Ma il punto non è questo: il punto è che – e il
tutto è incontrovertibile, perché l’intera serata è
intercettata e trascritta parola per parola – il PM
nomina FERRARO soltanto ponendo alla ALLETTO due
“innocenti” domande, sostanzialmente prive di qualsiasi
allusività, e la ALLETTO automaticamente percepisce che
“dai discorsi” “viene fuori” che “si sa” che FERRARO
era presente in sala assistenti!
262
Intuizione freudiana, si direbbe: o Gabriella
ALLETTO è un genio, o chi “sa” è lei!
* * * * *
Non dimentica questa Corte che, come già si è
visto, Laura CAPPELLI ha riferito in udienza di alcune
sue chiacchierate con la Alletto che un giorno le
disse: “Mi hanno messo in mezzo, io in quella stanza
non c’ero, però non mi conviene dire che non c’ero”, e
poi spiegò: “I nomi non li hanno fatti, come faccio a
dirglielo se non lo so, se non c’ero”; successivamente
però precisò anche: “Due nomi me li hanno fatti”.
Su questi “due nomi” che le sarebbero stati
“fatti” si è disquisito nel corso del processo; ma
osserva la Corte che è rimasto accertato senza alcun
dubbio, sempre nella stessa udienza dell’11.11.1998 e
per mezzo delle parole della stessa CAPPELLI, che uno
di questi nomi è quello di Francesco LIPAROTA; e poiché
l’altro è palesemente quello di Maria Chiara LIPARI,
viene meno anche questo tentativo di dimostrare che “i
nomi” di SCATTONE e di FERRARO, fatti dalla ALLETTO
quando “ha parlato” fossero in realtà di provenienza,
per così dire, poliziesca.
* * * * *
Importanti, ancora, due telefonate che secondo i
difensori sia di SCATTONE che di FERRARO sollevano
molti dubbi sulla genuinità di Gabriella ALLETTO.
263
La prima è quella che la donna fece al dott.
BELFIORE la mattina del 18 giugno 1997, dopo la sua
“confessione”.
“Sto abbastanza male”, dice la donna, che poi
spiega: “Niente, non è successo niente, solo che alla
luce dei fatti non sto serena per niente”.
Non è mai esplicitato quali siano i “fatti” alla
cui “luce” la donna non sta “serena”: ma è molto
probabile – secondo l’ipotesi, condivisibile, della
difesa – che ella sia delusa perché né FERRARO né
SCATTONE hanno confessato, ed anzi LIPAROTA ha
ritrattato; addirittura i suoi colleghi Maurizio BASCIU
e Maria URILLI sono stati arrestati, il giorno
precedente, 17 giugno, per aver taciuto quanto loro
riferito proprio da Gabriella ALLETTO, ed è ovvio che
lei stia “abbastanza male” e che “non stia serena per
niente”, anche – si può pensare per i suoi colleghi,
che nella sua ottica non avevano fatto niente di grave.
Lo stesso BELFIORE afferma che l’atteggiamento
negativo degli arrestati ha lasciato “perplessi” gli
stessi inquirenti; e la donna rincara: “Sì, a voi
perplessi, a me non me fa… non me fa vivere, tant’è
che ho dovuto prende un sonnifero perché non sto
tranquilla, non sto serena, ho bisogno di
rassicurazioni”.
Il dott. BELFIORE la richiama alle sue
responsabilità (“lei ha fatto una scelta”), suscitando
ancora l’inquietudine della donna: “non me lo dica che
ancora non ce credo e vivo ancora…”;
264
Questa Corte non ravvisa in questo colloquio alcun
sintomo di mendacità della “confessione” della ALLETTO,
ma solo il segno di una sua legittima, e comunque
comprensibile, preoccupazione.
Ella – non va dimenticato – è pur sempre
desiderosa di non avere troppi fastidi, e intimorita
dalla “valanga” che le cadrà addosso nel suo ambiente
di lavoro, tanto che per sottrarsene, nel giorno di
questa telefonata è in congedo, e non tornerà ancora in
ufficio per parecchi giorni.
Contrariamente alle aspettative, ella è rimasta
sola ad accusare tutti (“una mosca bianca”, ha detto in
udienza), ed è ovvio che non sia “serena” e che chieda
“rassicurazioni”.
* * * * *
La seconda telefonata è dell’indomani, 17 giugno
1997, quando la ALLETTO telefona a Maurizio BASCIU.
Si svolge questo colloquio:
“ALLETTO: “Sapessi Maurì, che travaglio che c’ho
avuto” – BASCIU: “eh ma non …non sembrava, non s’era
capito, non s’era capito nulla di questo, capito?” –
ALLETTO: “lo so, è stata… è stata una cosa troppo
angosciante, guarda” – BASCIU: “vabbè, poi ci
racconterai, però non ho capito perché non lo potevi
dire subito” – ALLETTO: “eh, Maurì lo potevi dì, e se
uno non correla le cose come fa?” – BASCIU: “cioè non
t’eri resa ben conto?” – ALLETTO: “no, no
assolutamente Maurì, una cosa che proprio ho rimandato
indietro me so proprio bevuta” – BASCIU: “poi piano
265
piano t’è riuscita fuori?” – ALLETTO: “ma no m’è
riuscita fuori, è che loro mi hanno aiutato tanto
guarda, perché “ma come, stava dentro, stava dentro, e
– dice – ma non si ricorda? Ma non riesce a venì fuori
da sta cosa che c’ha lei?” qua e là, insomma, è stato…
quando me so resa conto ma guarda me so pianta l’anima
mia, me devi crede”.
Anche questo dialogo non vale, secondo la Corte,
ad inficiare le dichiarazioni accusatorie della
ALLETTO: la quale espone fin da subito ciò che poi, con
mirabile coerenza, ripeterà in udienza quasi un anno
dopo: non aveva “correlato”, aveva “mandato indietro”
tutto (“me so’ bevuta”), ha avuto bisogno di essere
“aiutata” a far “uscire” quello che aveva dentro.
Nulla di più naturale, poi, e di più femminile e
materno, della icastica chiusa: ”quando me so resa
conto… …me so pianta l’anima mia, me devi crede”.
* * * * *
Quanto alle velate confidenze che la ALLETTO ha
dichiarato di aver fatto, durante le indagini e prima
della sua “svolta” del 14 giugno, a Maurizio BASCIU e
Maria URILLI, [(“purtroppo c’entra anche Salvatore
(FERRARO”); e addirittura “Potrebbero essere coinvolti
FERRARO e SCATTONE”: ma in udienza la ALLETTO ha
spiegato che non aveva mai nominato SCATTONE, anche se
lo aveva visto nell’aula 6, perché “non rientrava nei
miei interessi”)], i due sono stati assolti dall’accusa
di favoreggiamento che era fondata proprio su questi
presupposti; ed in realtà non si può ritenere raggiunta
266
la prova di tali confidenze, né del loro preciso
tenore, pur senza, per questo, dover attribuire alla
ALLETTO la patente di bugiarda.
E’ vero anzi che il BASCIU, in una sua
conversazione – intercettata – proprio con la URILLI,
commentando la condotta della ALLETTO (URILLI: “Con
lei che stava lì nella mia stanza, che si è letto i
giornali e tutto, a non capire minimamente. Ha saputo
proprio simulare bene Gabriella”), aveva precisato:
“Adesso certe cose, certe frasi hanno un altro
significato”.
Tali “certe frasi” che “adesso” “hanno un altro
significato” sono ovviamente – se non altre – almeno
quelle riferite dallo stesso BASCIU, per cui la ALLETTO
si chiedeva spesso “Ma quando confesseranno!?”.
* * * * *
Reputa questa Corte che il quadro generale fin qui
descritto circa le dichiarazioni di Gabriella ALLETTO,
anche nel loro evolversi nel tempo, la esima dal
replicare particolareggiatamente ad ulteriori argomenti
difensivi, ai quali peraltro è doveroso far cenno:
– è vero che la ALLETTO ebbe a ripetere più volte
nell’ambiente dell’Istituto di Filosofia del Diritto, a
colleghi e assistenti (BASCIU e URILLI, CAPPELLI e
SAGNOTTI, AVITABILE e ARMELLINI), dopo le “rivelazioni”
di Maria Chiara LIPARI, di non essere affatto entrata
in sala assistenti la mattina del 9 maggio e di non
sapere nulla del fatto; ma poiché ciò è accaduto prima
267
della svolta del 14 giugno, è evidente che non poteva
essere diversamente;
– è vero che le persone sopra nominate, e forse
anche altre, hanno dichiarato di aver visto in quei
giorni la ALLETTO assai “stressata” (il BASCIU dice
“allo stremo”) per gli estenuanti interrogatori a cui
veniva sottoposta; ma ciò era in un certo senso “mal
comune” (vedi AVITABILE, per esempio), e comunque non
dimostra la falsità delle dichiarazioni successive;
– è vero che la ALLETTO non mostrò una particolare
emozione quando l’impiegata Giuliana RAGNO, verso le
13,15 del 9 maggio, incontrandola in bagno, le disse
che avevano sparato ad una ragazza e che non si era
trattato di un malore, come la stessa ALLETTO aveva
affermato riferendo notizie apprese dal prof. ROMANO.
Tuttavia non si vede quali argomenti si possano
trarre da questo episodio in ordine alla verità o meno
delle dichiarazioni accusatorie da lei rese dopo
qualche tempo. E’ ovvio che secondo le regole di vita
della ALLETTO non erano quelli né il momento né il
luogo né la persona per esternare alcunché;
– è vero che la mattina del 14 giugno la ALLETTO
si recò in Ragioneria, accompagnata dal dott. BASCIU,
per verificare a quale ora, nella mattinata del 9
maggio, avesse colà svolto una certa operazione; ma non
è affatto detto che ciò costituisse un suo “disperato
tentativo” di trovare un alibi per il momento dello
sparo. Questa non è che una mera ipotesi dello stesso
BASCIU – oltre che dei difensori di SCATTONE e FERRARO
–, dal momento che la ALLETTO non gli spiegò il motivo
268
di quel controllo, motivo che tuttavia egli ritenne
fosse “evidente”.
Ma intanto va precisato che la donna, quando si
fece accompagnare in Ragioneria per il controllo – era
l’ormai famoso 14 giugno – non era stata ancora
convocata in Questura, giacché fu prelevata
dall’ufficio, poco dopo, senza preavviso (udienza
22.9.1998).
Inoltre tale ipotesi è smentita dalla stessa
ALLETTO, la quale già sapeva da sé che l’ora non
coincideva; infatti, pur essendo rimasto l’accertamento
senza esito, ella ricorda di essere andata in
Ragioneria, il 9 maggio, prima delle 11, e che alle
11,20 era già tornata; senza contare che ciò smentisce
ulteriormente, se ce ne fosse bisogno, la primitiva
tesi della ALLETTO, di essere stata sempre in sala FAX,
testardamente intenta a cercare di far funzionare
l’apparecchio, dalle 11 a mezzogiorno!
L’orario dell’incombenza svolta in Ragioneria
dalla ALLETTO la mattina del 9 maggio è dunque del
tutto irrilevante rispetto al fatto; e sembra davvero
romanzesca l’ulteriore ipotesi difensiva secondo la
quale ella avrebbe ugualmente tentato il controllo in
Ragioneria, nella speranza che vi fosse un errore nella
registrazione dell’ora che le potesse giovare!
E quand’anche così fosse, appare chiaro che una
registrazione temporale erronea le avrebbe fornito un
“alibi” falso, e le avrebbe consentito – nella sua
ottica di non essere “coinvolta” che la mattina del 14
giugno ancora coltivava – di non accusare nessuno; ma
269
ciò non significa affatto che siano false e calunniose
le affermazione accusatorie poi avanzate!
270
LE DICHIARAZIONI DI GABRIELLA ALLETTO
VII
I CONFRONTI CON SCATTONE E FERRARO
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Per concludere su Gabriella ALLETTO, questa Corte
la ritiene pienamente attendibile.
Secondo le difese – che pure rifuggono dall’idea
di un “complotto” – la volontà “decisionista” della
polizia, tesa a “risolvere” il caso in tutti i modi e
in breve tempo, avrebbe trovato terreno fertile prima
nel consulente FALSO (ma in definitiva è vero che fino
a poco tempo prima del suo “errore” la letteratura
internazionale univocamente definiva come “sicuro
residuo di sparo” la particella binaria di antimonio e
bario), poi in Maria Chiara LIPARI e nella sua
particolare personalità, e poi ancora nella “debolezza”
di Francesco LIPAROTA e nella “duttilità” di Gabriella
ALLETTO: perché di duttilità si deve parlare, se una
persona è capace di modificare la propria precedente
versione, fermamente sostenuta per lungo tempo, con
un’altra tutta diversa ed estremamente
particolareggiata.
271
Un’altra versione, quest’ultima, in ipotesi
fornitale dalla polizia, che sarebbe completamente
falsa ed eteroindotta ma tutt’altro che imparaticcia,
anzi precisa ed articolata, nonché intrisa di
moltissimi particolari sia di fatto che psicologici,
sempre riferiti con esattezza anche più di un anno
dopo.
Gabriella ALLETTO dovrebbe dunque possedere un
doppia personalità degna dell’inventiva di R. L.
STEVENSON; una mutevolezza di atteggiamento per la
quale viene offerta, e fortemente sostenuta dalle
difese, la spiegazione della “doppia convenienza”: una
ferma negazione fino a quando le “conviene” cercare di
restar fuori dalla vicenda, una altrettanto ferma
collaborazione quando capisce che le “conviene” non
essere arrestata per favoreggiamento e non rischiare
addirittura una incriminazione per omicidio.
Questa Corte non condivide tale impostazione, nel
senso che se certamente quello della sua “convenienza”
ma non per puro egoismo, ma come “madre di famiglia”,
consacrata alla difesa delle sue condizioni di lavoro e
del quieto vivere, è stato il criterio a cui Gabriella
ALLETTO si è uniformata nella prima fase, l’ipotetica
sopravvenuta “convenienza” a non essere arrestata non
spiega le sue nuove dichiarazioni, né dal punto di
vista fattuale né da quello psicologico: né –
soprattutto – ne dimostra la falsità!!
272
In punto di fatto si è ormai ampiamente dimostrato
che il dipanarsi dei più minuti particolari negli
avvenimenti narrati dalla ALLETTO, sempre
corrispondenti alla realtà controllabile, non può che
provenire da lei stessa, dalla sua memoria, giacché
nessuno può averglieli non tanto suggeriti, quanto
inculcati al punto da renderla capace di esprimersi con
tanta naturalezza ed efficacia, e da reggere, fin da
subito, e poi a distanza di mesi e fino ad oltre un
anno dai fatti, alle mille e mille contestazioni dei
formidabili difensori.
Psicologicamente – ecco il richiamo al “DOTTOR
JEKILL” – la tesi delle difese comporta la necessità di
assumere Gabriella ALLETTO anzitutto come un vero e
proprio “mostro” di scelleratezza e di nequizia,
capace, per la propria presunta “convenienza”, dapprima
di tener testa (alla ricerca del ripudio di qualsiasi
responsabilità) a pressioni e minacce giurando sui
figli, e poi di mentire a sangue freddo, per anni, in
modo completo e “organico”, perfidamente convincente,
ponendo in essere una crudelissima calunnia verso delle
persone innocenti, con le quali era in buoni od ottimi
rapporti e che conosceva come “bravi ragazzi”.
273
Addirittura la donna – se l’impostazione delle
difese fosse vera – avrebbe dovuto, in udienza, a
“svolta” avvenuta, avere l’accortezza e il coraggio – e
la perfidia – di “ricordarsi” che il prof. ROMANO,
sostenendo che “noi non c’entriamo niente, non hanno
niente in mano” in fondo la difendeva mentre lei diceva
la verità (e cioè, appunto, di non sapere niente, ”non
hanno niente in mano” e di prendersi la briga e di
avere la protervia di definire “non buono” questo
atteggiamento, giungendo fino ad usare l’espressione di
“lavaggio del cervello”, nei confronti di un
potentissimo uomo che la difendeva nella sua negazione,
e che – in quest’ottica, che è la tesi della difesa –
difendeva la verità!
Ma questa estrema nequizia non sarebbe sufficiente
a configurare il soggetto che la difesa degli imputati
è costretta ad ipotizzare: il “mostro”, deve essere
oltretutto, necessariamente e totalmente stupido – cosa
che la ALLETTO, invece, certamente non è -, del tutto
incapace, pur dopo tanta resistenza di fronte a tutta
la “inquisizione” di Roma, di trovare una via d’uscita.
* * * * *
Ma se questa Corte respinge una tale “lettura”
della personalità di Gabriella ALLETTO e si orienta in
direzione radicalmente diversa, non è certo per una
valutazione aprioristicamente positiva (ora si dice
“buonista”) della donna, ma per solidi argomenti
probatori.
274
In realtà, le difese degli imputati – specialmente
SCATTONE e FERRARO -, per tentare di “smontare”, sul
piano psicologico e umano, le dichiarazioni accusatorie
di Gabriella ALLETTO sono costrette a costruirle una
personalità opposta rispetto a quella rivelata dalla
donna in tutto l’arco del processo: una personalità,
secondo le difese, caratterizzata dal massimo della
malvagità (la sentenza impugnata, e più ancora quella
di appello, dipingono la ALLETTO come “piccolo
borghese”, “egoista”, “priva di senso civico”, mossa
dalla “convenienza”: su tutto ciò si può in parte
convenire, ma la callida perfidia è un’altra cosa); una
personalità spietatamente malvagia ma necessariamente
contraddistinta, nel contempo, anche da una integrale
stolidità sul piano dell’intelligenza: caratteristica
questa che invece certamente la ALLETTO non ha.
Da un lato – osserva questa Corte – non
corrisponde al “tipo” psicologico di Gabriella ALLETTO
la disumana spietatezza che sarebbe stata necessaria
per attribuire falsamente a due giovani innocenti – con
uno dei quali in buoni rapporti, ma con l’altro in
relazione di quasi materno affetto – un così atroce
delitto; e ciò per un motivo consistente in mera viltà
di fronte alle “pressioni” degli investigatori; non
solo tenendo ferme le accuse per oltre un anno (anzi
più di due, se si fa riferimento all’udienza in cui fu
nuovamente sentita in grado d’appello), ma anzi
“recitando” magistralmente, accompagnando le accuse con
numerose e vivaci espressioni di apparente sincerità,
anche in sede di confronto diretto.
275
E’ invece assai coerente con la personalità che
nel corso di tutto il processo si è delineata con
nettezza, l’evoluzione subita da una “madre di
famiglia”, “testarda e ostinata”:
– che dapprima si “protegge” per “evitare di
essere coinvolta”, di ritrovarsi come “una mosca
bianca” a subire una “valanga”;
– che poi, messa alle strette, “giura”, anche sui
suoi “ragazzini” (ma sempre per il loro bene, come “un
paravento, un aiuto”) di non essere entrata in aula 6;
– che intanto comincia a mettere le mani avanti, a
far sapere che “purtroppo c’entra anche Salvatore”, che
“forse non le conviene” resistere alle pressioni, che
forse “la stanno convincendo”;
-che pensa dentro di sé che “non vuol fare la
spia”, ma che “per una circostanza pensava fosse
opportuno fare i nomi e per un’altra no”;
– che finalmente, “trattata da persona”, “con
persone gentili” e “agganciata nel modo psicologico”
“suo”, “si sente pronta” e “confessa”;
– che quando lo fa lo fa “a testa alta” e una
volta per tutte: schietta, precisa, nitida, ferma,
coerente, esauriente.
Perfino in Corte d’Assise d’Appello, interrogata
sul “quarto uomo” e richiesta se confermasse la
circostanza, la ALLETTO risponde “certamente; come
anche tutto il resto, d’altra parte”.
* * * * *
276
La sua intelligenza, d’altro canto, (“scaltra”
l’ha definita la sentenza impugnata), è facilmente
desumibile dal suo stesso modo di porgersi, dalla
scioltezza del dialogo, dalla perfetta comprensione di
ogni domanda, dalla congruità di ogni risposta, dal suo
stesso eloquio, non solo sempre appropriato ma anche
“sottile” ed accorto.
Ella capisce al volo le implicazioni di ciò di cui
le si parla e sa reagire alle situazioni con
immediatezza e spesso con efficacia, come dimostrano
alcuni esempi tratti a caso dalla trascrizione
dell’audio dell’11 giugno:
“LA SPERANZA: Comunque, perché avete deciso di non
parlare, con i telefoni?
ALLETTO : No, no, noi ci parliamo eccome!
LA SPERANZA No, quando.. chi è, adesso non mi
ricordo, chi è del… Non è lei..sua madre…
ALLETTO: Mia figlia, probabilmente, che c’ha 15 anni.
LA SPERANZA: Ha detto: “Non parliamo, non parliamo per
telefono, che è sotto controllo”.
ALLETTO: No, ma infatti io gli ho detto, dico “Sare’,
che caspita te.., perché quelle so’ cose che mia
figlia.. .. si parlava di amorazzi tra de loro, gli ho
detto non fare che a casa sua (dell’interlocutore di
“Saretta”, ndr) dicono “il telefono è sotto controllo”
pe’ ‘na cosa mia, una cosa che sappiamo giù in
ufficio”
Più avanti, LA SPERANZA torna sull’argomento: “Le
assicuro che non abbiamo tutti questi telefoni che lei
s’immagina sotto controllo.. se no diventiamo matti,
277
no? Ovviamente qualcuno ce l’abbiamo, qualcuno, fra
cui il suo…” e lei pronta “Ma di casa o d’ufficio, non
ho capito?”.
LA SPERANZA: “Di casa! Risponde sua madre, dice non
parlare perché il telefono è sotto controllo”; e la
ALLETTO: “va bè, ma quella c’ha 75 anni, soffre de…”.
In sostanza, è “SARETTA” che si diverte a dire
agli amichetti che hanno il telefono sotto controllo, o
è la mamma 75enne che “soffre de..”, ma “noi ci
parliamo, eccome!”; però sarebbe meglio sapere se è
intercettato quello di casa o quello dell’ufficio!
In un altro momento, il dott. ORMANNI prova a
“stringerla”:
ORMANNI: Perché ci sono i testimoni che l’hanno vista!
Quindi non ci sta niente da fare.
ALLETTO: Si.
ORMANNI: Lei è uscita dalla stanza dei fax insieme
alla dottoressa Lipari
ALLETTO: Sì
ORMANNI: E allora: siccome la dottoressa Lipari stava
in sala assistenti dopo essere uscita dalla sala dei
fax, dopo… e siccome lei, fino adesso ha sempre
detto che da lì è andata direttamente in segreteria,
e, arrivata in segreteria, ha sentito la sirena
dell’ambulanza che andava via…
ALLETTO: Sì…
ORMANNI: Allora: si accorge anche lei che c’è un vuoto
in tutta questa storia?
ALLETTO: Sì
278
ORMANNI: Perché? Perché lei è uscita dalla sala fax
prima che sparassero, prima, è andata in segreteria
quando ha sentito la sirena dell’ambulanza che se ne
andava… Cioè, prima hanno sparato, si sono
accorti…
ALLETTO: Non riesco a seguirla, perché so’ stanca!
Guardi, non, veramente…
Certo non basta una semplice lamentela per un po’
di stanchezza a “fermare” il magistrato, ma la donna
mostra di aver ben capito che quel “vuoto in tutta
questa storia” è il vero punctum dolens!
Più avanti ancora, è sempre ORMANNI che la
incalza:
ORMANNI: signora, lei chi vuole coprire?
ALLETTO: oh dio, arrivati a ‘sto punto vorrei coprì
davvero qualcuno!
Il magistrato la incoraggia:
ORMANNI: Guardi che lei… che quello che lei mi dice
adesso.. Ho fatto uscire anche suo cognato … quello
che lei mi dice adesso non esce da nessuna parte!
ALLETTO: Sì, lo so.
ORMANNI: Se lei si… eventualmente si potesse
preoccupare del fatto che qualcuno un domani sappia
quello che lei ha detto: non lo saprà nessuno, né
domani, né fra un mese, né fra sei, non lo saprà
nessuno! Ho fatto uscire per questo anche cognato!…
ALLETTO Sì, l’ho visto!
ORMANNI: … perché le cose rimangano fra me e lei!
E la donna, visto che il magistrato ha fatto
uscire il cognato e le ha assicurato la massima
279
riservatezza… si imbarca in tutta una storia
assolutamente priva di significato, ma “brutta,
tremenda”, che porta completamente fuori strada il
discorso!
ALLETTO: Non lo so, io sinceramente, cioè… è una
storia brutta, storia che non… tremenda! Io non…
io non ne sono neanche i nomi, de ‘sta storia, io non
so niente!!! In mezzo a tutta ‘sta storia… non…
non lo so! Non lo so! So solo che loro se dovevano
incontrare…
ORMANNI: Chi?
ALLETTO: Gli assistenti!
ORMANNI: Chi?
ALLETTO: Si dovevano incontrare, quelli de… gli
assistenti di Carcaterra con quelli di Romano.
ORMANNI: Uhm
ALLETTO: .. ma io, che sto dicendo ‘ste cose a lei?
ORMANNI: … niente, le… le dica, perché no! E
allora?
ALLETTO: … E allora non ce sono andati quelli de
Carcaterra, sì perché, dice che la Sagnotti c’aveva un
problema a una gamba, Ferra… la Ferragamo doveva
partorire… S’è ritrovata da sola Avitabile, povera
disgraziata, con Fiorini che glie voleva fa’
l’interrogatorio riguardo agli interrogatori. Voleva
fare… sapere cosa, probabilmente aveva detto…
Questa è una cosa di due tre giorni fa. Io le altre
cose non… non le posso sapere, perché non frequento
il loro giro, ha capito? Sono al di fuori!
ORMANNI: Eh, lo so!
280
Osserva la Corte che “menare il can per l’aia” è
il minimo che si possa pensare di questa divagazione:
davvero questa è una persona che non ha altre risorse
che la malvagità?
Ma per chiudere l’argomento sulla personalità
della donna, basta citare il punto in cui, sempre nel
corso del “disumano” “videoshock”, la “terrorizzata”
ALLETTO, in un momento di pausa si preoccupa… di
confortare il cognato: ”Mo’, Gì, non te fa prende dal
mal di stomaco…”.
Questa è Gabriella ALLETTO.
Altro che la cervellotica ipotesi, che pure ha
circolato negli organi di informazione, di una
“vittima della autorevolezza dell’autorità” (come
Galileo, che dentro di sé mormora “eppur si muove” ma
ufficialmente abiura, e si sottomette non alla tortura
che non gli è stata inflitta ma ad un – malinteso –
magistero della Chiesa): una sorta di “sindrome di
Stoccolma” per cui l’inquirente si fa, agli occhi del
succubo, prima “inquisitore” e poi malintesa “guida
morale” a cui sottomettersi, “confermando” quella
“verità” che esso evidentemente, dall’alto della sua
superiorità, non può non conoscere!
Certamente Gabriella ALLETTO è lontanissima da
tutto questo.
* * * * *
Tra l’altro è dimostrato dagli atti – se n’è più
volte fatta menzione, vedi esame dell’11 giugno – che
gli inquirenti, e proprio i pubblici ministeri che la
281
esaminarono più volte, non sapevano nulla – e glielo
dicevano – proprio sulla questione centrale del chi
avesse fatto e che cosa fosse successo nei momenti
cruciali dello sparo.
D’altra parte – non nel ‘600 ma nell’anno di
grazia 1997 – il “clima” diffuso nei confronti degli
inquirenti all’interno dell’Istituto, era certamente
poco favorevole al sorgere di queste pretese figure
carismatiche indiscusse e indiscutibili, e andava – il
clima – sempre aggravandosi anche per la campagna di
stampa che accompagnavano le indagini, con commenti
tutt’altro che favorevoli. Senza dire che perfino il
pavido Galileo ha saputo in definitiva resistere
all’Inquisizione e non si è lasciato convincere dalla
“Autorità”, tanto che il messaggio che da lui ci è
giunto (“Eppur si muove”) è opposto a quello che gli
veniva richiesto.
* * * * *
Alla luce di tutte queste considerazioni – tratte
dalle carte processuali – è davvero impensabile che una
donna così presente a se stessa, riflessiva e insieme
pronta, non sia stata capace di liberarsi dalle
strettoie in cui PM e polizia l’avevano posta, e non
abbia capito che in realtà gli stessi inquirenti
mostravano di non sapere quale potesse essere il suo
contributo; non abbia pensato di poter “sgusciar via”
facilmente, ammettendo tutto ciò che essi potevano
ragionevolmente pretendere da lei, ossia nulla di
compromettente.
282
E’ da considerare, inoltre, che ella in realtà
aveva avuto parecchio tempo per riflettere, fin dal 9
maggio, e poi più ancora dopo l’11 giugno e fino al 14,
conoscendo perfettamente, anche per via del confronto
con la LIPARI del giorno 12, tutte le – scarse – carte
dell’avversario.
Una persona non totalmente stupida e “mossa dalla
convenienza” sarebbe stata certo capace di trovare una
via d’uscita diversa dalla calunnia, che comportava non
solo il martirio di due innocenti, ma anche la
“valanga” per lei; e una via d’uscita era facile
trovarla: gli era stata offerta – lo si è visto –
dagli stessi inquirenti, dal dott. LA SPERANZA in
persona, perfino dal dott. ORMANNI.
Essi sapevano che in sala assistenti si erano
trovati la ALLETTO ed il LIPAROTA in un momento
prossimo allo sparo, ma non sapevano che qualcuno vi
avesse assistito, anzi, propendevano per il contrario
(“ma non è detto che lei abbia visto… (quello) che ha
sparato”; “Io penso che lei… ci sia arrivata a cose
fatte”.
Era dunque spalancato un “commodus discessus”, una
via intermedia e sostenibilissima: “sì, sono entrata
un momento in aula 6 appena prima di LIPARI, ma non ho
notato niente di strano; a parte LIPAROTA, non mi
ricordo chi altro vi fosse; è sopraggiunta subito lei
stessa, le ho dato le fotocopie e sono uscita”; oppure
di aver visto qualcuno, uno sconosciuto, o perfino
FERRARO e SCATTONE senza alcuno sparo; o – al limite –
di aver visto sparare uno sconosciuto, in una indagine
283
in cui aleggiavano diversi “sconosciuti”, a partire da
quello che avrebbe sparato dal bagno!
Una serie di soluzioni semplici e indolori,
credibile o no ma di fatto insuperabile, che avrebbe
disarmato gli inquirenti senza comportare per lei alcun
ruolo di “spia” né alcuna “confessione”; una soluzione
che non solo era immaginabile da parte di una persona
“scaltra” come Gabriella ALLETTO, ma che le era stata
posta sotto gli occhi e quasi suggerita, dal momento
che era quella di LIPAROTA, che le era stata ampiamente
illustrata.
Una soluzione ovvia, che avrebbe conseguito il
duplice risultato di coniugare efficacemente, da un
lato, le “pressioni” degli investigatori con la sua
(asserita) nuova “convenienza” di assecondarli per non
essere arrestata, dall’altro di non infrangere
rovinosamente l’altra, e ben più importante,
“convenienza” – fino ad allora strenuamente perseguita
-, che era quella di poter tornare in Istituto senza
passare per “spia” e “mosca bianca”, senza subire “la
valanga” a cui inevitabilmente si sottoponeva con la
calunnia verso FERRARO e verso SCATTONE, e senza
procurarsi gravissime inimicizie per la vita,
caricandosi la coscienza di così gravi responsabilità.
Quanto poi alla ventilata accusa diretta di
omicidio, senza una ipotesi di “mandato” da parte sua
ma commesso in concorso con ignoti esecutori materiali,
perfino la ALLETTO capiva bene che “non la tangeva”.
* * * * *
284
Un “mostro” dunque dovrebbe essere Gabriella
ALLETTO per impersonare il ruolo che le difese le
assegnano, inestricabilmente intrecciato di cinismo e
di stupidità al massimo grado: tanto sprovveduta da non
accorgersi delle favorevoli vie d’uscita presenti nella
situazione; tanto incoerente da cedere
inspiegabilmente, di fronte alle medesime “pressioni”
verbali a cui aveva saputo così bene resistere; e tanto
stupida da scegliere la strada di una tremenda menzogna
calunniosa senza considerare che questo le avrebbe
comunque “stravolto la vita”, reso invivibile
l’ambiente di lavoro in Istituto e creato dei nemici
per sé e per quella sua famiglia che era così ansiosa
di proteggere.
Una immagine di Gabriella ALLETTO, rileva la
Corte, in contraddizione assoluta col quadro che invece
– come si è visto – emerge da tutta la sua condotta;
dalle sue dichiarazioni testuali, dalle sue ragionate
osservazioni, dalle sue pronte risposte, dalle sue
immediate repliche, dalla sua sincera spontaneità,
dalla coerenza logica e fattuale che caratterizza tutto
il suo narrato.
285
Il fatto è che è questa – ipotetica – calcolatrice
gretta e meschina, che dovrebbe essere spietata ma in
definitiva anche ottusa, è stata però capace, fin dal
quasi immediato incidente probatorio (31 luglio 1997) e
poi nei mesi e negli anni, di mantenere fermissime e
coerenti le sue accuse, tenendo testa alle
contestazioni più smaliziate, rispondendo a domande
minuziose, e commentando i singoli passi, volta a
volta, con appropriate osservazioni, sottili distinguo
e moti dell’anima istintivi, quanto mai genuini e
convincenti.
E così ella è riuscita a fornire non solo
spiegazioni plausibili e approfondite su sè stessa (sui
propri “prima” e “dopo”, in relazione anche alle altre
persone dell’ambiente ed ai diversi rapporti
intersoggettivi), ma anche di ricostruire l’episodio
in sé – come si è visto – con una sua inattaccabile
coerenza interna.
* * * * *
L’ultima riprova proviene dai confronti.
Questi costituiscono un particolare tipo di atto
istruttorio, previsto dalla legge fra chi abbia già
reso dichiarazioni, teso non soltanto a cercare di
dirimere ed appianare – appunto “confrontando” le
versioni – le discrepanze in punto di fatto che si
possono riscontrare tra le dichiarazioni di diversi
soggetti; ma anche (e specialmente quando si tratti di
posizioni opposte ed inconciliabili), a porre a
“confronto” le persone, verificando il reciproco
approccio tra i contendenti, le loro argomentazioni e
286
perfino il comportamento (la fermezza, la franchezza,
la sicurezza di sé) di ciascuno: operando, soprattutto
in quell’autentico “teatro” – inteso in senso positivo
– che è il dibattimento quale sede di formazione della
prova, non tanto una tenzone tra ragionamenti
dialettici quanto uno scontro di coscienze.
In questo processo, come è ben chiaro, nulla era
più inconciliabile che una “teste oculare” posta di
fronte a due imputati che si proclamavano innocenti;
Gabriella ALLETTO ha accettato di affrontare questi
delicati, difficili, drammatici, dolorosi momenti – la
situazione di massima assunzione di responsabilità da
parte sua -, e al termine può ben dirsi che ne sia
uscita del tutto vincitrice e, ancora una volta, quanto
mai convincente.
Ritiene utile, questa Corte, riportare ancora una
volta per intero le trascrizioni dei due confronti –
gia riportate nella sentenza di primo grado -, proprio
allo scopo di apprezzare meglio le espressioni degli
uni e dell’altra.
* * * * *
CONFRONTO SCATTONE – ALLETTO, udienza 7.10.1998
SCATTONE: Signora Alletto lei qua, in questa aula ha
raccontato un sacco di balle….
P.M.: Vorrei che il confronto fosse tenuto in maniera
civile….
PRESIDENTE: Alla verità si arriva non con le contestazioni, con le proteste, ma con la serenità.
287
SCATTONE: Certamente, signor Presidente, però siccome
io sono accusato di un omicidio che non ho commesso…
vorrei fare presente che ci sono delle intercettazioni
in cui lei (Alletto) parla, ed è chiarissimo che lei
non sa nemmeno chi deve accusare. Questo fino al 12
giugno. C’è una intercettazione in cui lei dice: “Non
so chi è quell’altro con Ferraro”, il 12 lei dice:
“Non mi hanno detto chi è quell’altro, ma se io ci
stavo lo sapevo chi c’era”, poi lei qui in aula
dice…
P.M.: Presidente, chiedo scusa, io devo
interrompere… non è un confronto! Non è un
confronto, questa è una arringa difensiva….
PRESIDENTE: Per favore, non interrompa, Pubblico
Ministero. L’imputato ha diritto di difendersi come
meglio crede.
P.M.: Sì, ma questo è un confronto, ribadisco.
PRESIDENTE: E’ un confronto, certamente.
SCATTONE: Poi lei in quest’aula ha detto: “Io li ho
accusati quando sono stata messa alle strette” …. e
lei non accusava perché non sapeva ancora chi
accusare, perché le mancava ancora un nome, che
evidentemente glielo hanno fatto il 14.
ALLETTO: Se riesco a seguire … tutto il filo del
discorso e me lo auguro che riesco, nonostante
l’emozione che ci ho, Presidente.
PRESIDENTE: Guardi che l’emozione colpisce anche
l’imputato. E’ una cosa comune.
ALLETTO: Sì, lo so. Io voglio dire che se fosse
possibile avere il nastro del 14, se ce ne fosse uno,
288
si saprebbe che le persone che hanno interrogato me
quel giorno, erano delle persone molto serene e molto
diverse da come si sono comportati, come continuo a
dirlo questo, come si sono comportati in altre
occasioni; le occasioni a cui sono stata io sottoposta
per interrogatori, sono state moltissime, non è stato
un solo interrogatorio. Però in quella circostanza io
mi sono sentita pronta e ho detto tutto quello che
sapevo, tutto quello che sapevo e tutto quello che ho
visto, dottor Scattone.
SCATTONE: Ma che ha visto lei? Non ha visto niente!
ALLETTO: Come non ho visto niente!
SCATTONE: Noi quella mattina non ci siamo proprio
visti!
ALLETTO: Non fa niente se non ci siamo visti. Io sono
entrata e l’ho vista, ho visto lei e il dottor Ferraro
e Liparota dentro la stanza, per cui di questo ne ho
pienamente consapevolezza e l’ho detto…
SCATTONE: Com’è che soltanto il 14 giugno si è
improvvisamente ricordata di queste cose.
ALLETTO: Glielo devo ridire un’altra volta? Io dico,
allora, quel giorno io sono stata con l’animo sereno,
ho potuto confessare questa cosa qui, che ci avevo
dentro, il suo nome non me l’aveva fatto mai nessuno,
in nessuna circostanza….
SCATTONE: Sto da quindici mesi in carcere per colpa
sua, non solo per colpa sua… però anche per colpa
sua.
ALLETTO: Io non credo che è colpa mia, è solamente
colpa sua!
289
SCATTONE: Io non ho fatto assolutamente nulla…
invece lei la calunnia, l’ha fatta anche…
ALLETTO: No, no, io non l’ho fatta la calunnia…
SCATTONE: …Finché vivrò. Spero di vivere a lungo.
PRESIDENTE: Dottor Scattone, lei aveva affermato, voglio
dire aveva iniziato…
ALLETTO: Non mi piace questa cosa che ha affermato.
PRESIDENTE: … a trattare un altro argomento: “Quel
giorno non mi trovavo nella stanza numero 6… “…
SCATTONE: No, assolutamente no, non ci sono andato
affatto nell’aula 6.
PRESIDENTE: La signora invece ha affermato di averla vista
nell’aula numero 6.
ALLETTO: Sì.
PRESIDENTE: E’ questo?
ALLETTO: Anche dopo l’ho visto io, Presidente; è
venuto in mattinata nella nostra segreteria ed era
stravolto. SCATTONE: Eh, peccato che la Urilli dice il
contrario. ALLETTO: Non mi interessa quello che dice
la Urilli, dottor Scattone….
SCATTONE: Spero che alla Corte invece interesserà.
PRESIDENTE: le parti mantengono le rispettive posizioni.
* * * * *
Risulta in modo netto che davvero Giovanni
SCATTONE intende procedere nei confronti della ALLETTO
non già ad uno scontro di coscienze – l’innocente
contro il suo aguzzino, l’agnello sacrificale contro la
persona prescelta a fare da killer, pur sempre “madre
di figli” con una coscienza, – ma ad una sorta di
290
“arringa difensiva”, come dice il PM, ad un atto
freddamente tecnico, ad un ennesimo interrogatorio nel
merito.
“Ha raccontato un sacco di balle”, esordisce, e
prosegue “Signor Presidente, io sono accusato di un
omicidio che non commesso”; ma poi si dilunga a
contestare ripetutamente fatti ormai triti, arcinoti e
analizzati a fondo (“le mancava ancora un nome,
evidentemente glielo hanno fatto il 14… … com’è che
soltanto il 14 giugno improvvisamente si è ricordata
di queste cose”), senza nessun coinvolgimento “morale”,
senza nessuna obiezione etica, di coscienza,
“viscerale”, senza un richiamo alla “umanità” di chi lo
accusa; senza mai pronunciare la parola innocente, né
vittima, né coscienza.
Perfino quando dice “sto da quindici mesi in
carcere per colpa sua” si corregge subito: “non solo
per colpa sua”, ed è incapace di replicare alla donna
che gli ribatte assai significativamente “io non credo
che è colpa mia, è solamente colpa sua!”.
E’ ovvio osservare che il confronto non è atto a
forma vincolata, non deve per forza puntare al
“viscerale”, e che ora perfino la Costituzione prevede
che l’imputato interroghi personalmente il suo
accusatore; resta però il risultato finale, che è
quello di una ALLETTO assai più convincente nel tenere
ferme le sue accuse (“mi sono sentita pronta e ho
detto quello che sapevo e tutto quello che ho visto,
dottor SCATTONE”), di quanto non sia stato l’imputato
nel respingerle.
291
* * * * *
CONFRONTO FERRARO – ALLETTO, udienza 7.10.1998
FERRARO: …Posso chiamarla signora Gabriella ancora?
ALLETTO: Certo.
FERRARO: Senta. Io volevo tornare un attimo a
questo… questo 9 maggio no? Lei ha descritto questa
scena, e volevo sapere: lei chi ha visto uscire per
prima, posso porre queste…, sono due, tre semplici
domande che mi servono…
AVV. CERASARO: Presidente mi scusi, c’è opposizione,
non è l’esame del dottor Ferraro alla signora Alletto,
mi oppongo…
PRESIDENTE: Noi riteniamo come Corte che non si debba
mai limitare i diritti della difesa, specialmente
quando l’accusa è così grave. Continui!
FERRARO: Volevo chiederle chi è uscito per primo da
quell’aula numero 6.
ALLETTO: Io ricordo il dottor Scattone.
FERRARO: Eh, io sono uscito prima o dopo di lei,
questo lo ricorda?
ALLETTO: Questo lo ricordo, è uscito prima.
FERRARO: Mi ha visto uscire…
ALLETTO: Sì….
FERRARO: Scusi se insisto su questo particolare…
ALLETTO: Sì.
FERRARO: Ricorda se nel corridoio ha trovato la
presenza, c’era la presenza di studenti, assistenti o
impiegati.
292
ALLETTO: No, non lo ricordo, come di solito qualche
persona c’era.
FERRARO: Perché lo ricorda?
ALLETTO: Sì.
FERRARO: Quindi c’era qualche persona?
ALLETTO: Ma non ricordo chi fosse…
FERRARO: Sì, sì, ma per ca…
ALLETTO: …non l’ho individuata…
FERRARO: No, no, per carità, io non … dato che c’è
stata tre volte nel corridoio, poteva conservare
questo ricordo, ecco perché io mi sono permesso di
farle questa domanda. Senta lei ha detto in un …
qualche verbale, no, io ho mol….
P.M.: Presidente mi scusi, scusi Ferraro…
FERRARO: Prego.
P.M.: L’accusa tiene a far rilevare, nella
registrazione di questo verbale di dibattimento, che
vuole sottolineare la irritualità
proceduralpenalistica di questo, tra virgolette,
“confronto”, chiuse virgolette.
FERRARO: Lei già in un verbale aveva detto che quando
arrivavo io, ero molto pressato dagli studenti…
ALLETTO: Era l’unica persona disponibile in Istituto,
più degli altri … Questa è la verità.
FERRARO: E’ la verità. Mi chiedo come è possibile che
nessuno studente di Giurisprudenza, è la Facoltà più
numerosa d’Europa, quel giorno non mi abbia visto né
entrare e né uscire….
AVV. CERASARO: Non attiene all’oggetto del
confronto…
293
PRESIDENTE: Lei (signora Alletto) dovrebbe ricordare
all’imputato quello che ha visto. Che cosa faceva
l’imputato?
ALLETTO: L’imputato Ferraro stava con le mani nei
capelli, in un gesto molto particolare per lui, perché
non l’ha mai fatto e si tirava indietro i capelli, in
un gesto di disperazione secondo me.
PRESIDENTE: Lei su questo punto cosa può dire.
FERRARO: Guardi, voglio dire questo, signora
Gabriella. Io, come lei sa, non ero in aula 6, non ero
in Istituto quel giorno… Lei disse un giorno, in una
intercettazione: “Io non c’ero …però non mi conviene
dire che non c’ero”, cioè ha preannunciato quello che
poi ha fatto successivamente…
ALLETTO: No, questo è un atto di disperazione che
avevo.
FERRARO: Era un atto di disperazione …del fatto che
appunto rischiava di andare in carcere e quindi
bisognava….
ALLETTO: No, no, non rischiavo di andare in carcere,
anche se sono stata molte volte avvertita di questa
cosa qui. Infatti non mi sono messa paura neanche l’l1
quando c’è stato l’interrogatorio, se ben ha notato.
FERRARO: Signora guardi, alcune persone la vogliono
far passare per una mentitrice…
ALLETTO: Eh, sì!
FERRARO: Io la conosco molto bene. Io so che è una
bravissima persona, che di norma non mente,
sicuramente di norma non giura sulla testa dei suoi
294
figli, perché lei sa benissimo, che io so quanto lei
vuole bene ai suoi figli…
ALLETTO: Sì.
FERRARO: Quindi, quando lei ha giurato sulla testa dei
suoi figli, lei giurava la verità… cioè il fatto che
non aveva visto nessuno, ma voglio tornare su un
punto….
ALLETTO: No, Presidente. Io mi coprivo dietro un
paravento, perché per me… era un aiuto quello….
FERRARO: La testa dei suoi figli…
ALLETTO: No, no, Quello di mentire in quel momento,
basta … le cose sono andate in questo modo, e io
solamente dopo un mese ho deciso di stare… di dire
questa cosa. E’ stata una cosa molto grave per me; ha
stravolto la mia vita; sono stata anche minacciata,
recentemente ho ricevuto una lettera in cui mi
dicevano: “Ti venga un cancro alla gola “, va bene? E
questo è quello che si aspetta una persona dopo che
dice la verità, sono queste le cose, che mi danno
della sgualdrina, della svergognata?…
FERRARO: Non dice la verità, comunque, scusi posso
continuare, Presidente…
ALLETTO: Io sono stanca di questa situazione, voglio
rientrare in seno alla mia famiglia, tranquilla.
FERRARO: E certo, ne ha diritto.
ALLETTO: Confessate quello che dovete fare voi, io
l’ho fatto…
FERRARO: Signora io, io non c’ero…
ALLETTO: …quello che dovevo fare.
295
FERRARO: … ed anche se mi conviene dire che c’ero,
purtroppo non c’ero, questo è il problema….
ALLETTO: Non mi interessa.
FERRARO: Però voglio dirle una cosa…
ALLETTO: Non mi interessa!…
FERRARO: Senta, signora Gabriella. Io ho sentito, sia
qui in dibattimento, sia nei verbali che ha reso in
passato, lei, devo essere sincero ha speso belle
parole nei miei confronti, insomma, ha parlato del
nostro rapporto, che abbiamo avuto all’interno
dell’Istituto, molto affettuoso, addirittura lei aveva
aperto un’ala di protezione nei miei confronti….
ALLETTO: E’ vero….
FERRARO: Perché insomma mi vedeva…
ALLETTO: Perché era disponibile…
FERRARO: Sì, ma anche un po’ più, ha detto, mi pare
vulnerabile, in considerazione del fatto che stavo
fuori casa, abitavo da solo, mi pare…quindi, insomma
effettivamente, c’era un bel rapporto…
ALLETTO: Sì, chi meglio di lei lo sa …
FERRARO: Quello che mi chiedo signora …, che mi
sorprende, è …
lei ha visto questa scena signora?
ALLETTO: Sì.
FERRARO: Perché non mi ha mai fatto un riferimento?
ALLETTO: Perché non me lo ha fatto mai lei un
riferimento?
FERRARO: Perché non avevo nessun riferimento da fare,
perché quella scena non esiste…
296
* * * * *
Occorre riconoscere che Salvatore FERRARO imposta
il suo confronto in modo più “accorato”: “Posso
chiamarla signora Gabriella ancora?”; ma poi anche lui
si attarda su “due, tre semplici domande” da
“avvocato”, cercando di cogliere in fallo la ALLETTO,
di dimostrarle l’impossibilità che nessuno lo abbia
visto, nella “facoltà più numerosa d’Europa”; insiste
anche sull’ormai risaputo “io non c’ero però non mi
conviene dire che non c’ero”; ma senza saper ribattere
alla “pepata” risposta della donna: “non rischiavo di
andare in carcere; non mi sono messa paura neanche
l’l1 quando c’è stato l’interrogatorio, se ben ha
notato”.. (e non le si può dar torto, dopo aver
attentamente esaminato l’audio del “videoshock”)!
Anche l’accenno al fatto che ella avesse “giurato
sulla testa dei figli” è fiacco e rinunciatario; il
FERRARO perde l’occasione per un efficace richiamo alla
coscienza della sua “avversaria”, e quando la ALLETTO
risponde: “io mi coprivo dietro un paravento, perché
per me era un aiuto quello” e poi aggiunge con
veemenza: “è stata una cosa molto grave per me: ha
stravolto la mia vita”, non riesce neppure a ribaltare
sulla sua accusatrice il ben più grave
“stravolgimento” della vita propria. Ripete banalmente
che lei “non dice la verità”, ma non la sfida a dirla
adesso, non le ricorda che LIPAROTA ha ritrattato per
“rimorso”, non la spinge a comparare, nella sua
coscienza di madre, la “convenienza” a caricarsi di un
297
così vile ed atroce peso morale, col male che ancora in
quel momento va facendo, a sangue freddo, a quelli che
lei sa essere bravi ragazzi.
Al termine, le chiede come mai, dato che erano in
buoni rapporti, ella non gli avesse mai fatto un
accenno a questa cosa terribile (“Perché non mi ha mai
fatto un riferimento?”), e subisce una secca e pronta
risposta: “Perché non me lo ha fatto lei un
riferimento?”, che richiama vivamente tutto
l’atteggiamento psicologico della ALLETTO prima della
“svolta” (“Io lo dovevo dare il primo mattone?”; “Ma
quando confesseranno!”).
“Perché quella scena non esiste” risponde FERRARO,
questa volta con una certa efficacia dialettica, ma
sempre senza alcun tentativo di contestazione sul piano
della contrapposizione “etica” delle due posizioni: la
propria, di vittima innocente sacrificata e l’altra da
cinica carnefice.
Insomma, anche qui, come per SCATTONE, la
coscienza di FERRARO risulta assente: anche FERRARO
insiste a negare “freddamente” i fatti ed a
“ragionarci” sopra, laddove la ALLETTO ha dalla sua,
oltre ad una esposizione logica, verosimile e
razionalmente riscontrata dei medesimi fatti, anche una
coinvolgente spiegazione psicologica e umana di ciascun
suo atteggiamento.
Non era qui la sede propria, l’ultima spiaggia per
richiamare quanto meno la posizione di “vittima” della
stessa ALLETTO, costretta da prepotenti inquirenti ad
accusare contro verità?
298
299
PRIMI RISCONTRI
I DATI DI GENERICA
LE DICHIARAZIONI DEI PRESENTI AL DELITTO
L’ORA DELLO SPARO – I DATI AUTOPTICI
I DATI BALISTICI E LE PERIZIE
Questa Corte concorda con la sentenza della
Cassazione sull’importanza soltanto “marginale” in
questa causa – la cui soluzione si fonda su un “teste
oculare” – della prova “scientifica”: e tuttavia è
necessario confrontare le dichiarazioni di Gabriella
ALLETTO con i dati oggettivi di “generica” al fine di
verificarne la congruenza, la compatibilità, oppure – e
sarebbe anch’esso un dato importantissimo – la
reciproca inconciliabilità.
* * * * *
Ovviamente, per il contenuto stesso delle sue
dichiarazioni, non vi può essere inconciliabilità tra
le rivelazione della ALLETTO e l’ora dello sparo.
Questa Corte, dopo l’accurata disamina – da
intendersi qui riportata – che fu effettuata nella
sentenza di primo grado (e ribadita in quella
d’appello), ritiene accertato che il colpo di pistola
300
che uccise Marta RUSSO sia stato sparato – secondo più,
secondo meno – alle ore 11,42 del 9 maggio 1997.
La circostanza non è pacifica, nel senso che i
difensori di SCATTONE e FERRARO propongono qualche
puntualizzazione per effetto delle quali il colpo di
pistola dovrebbe essere anticipato, rispetto alle 11,42
di un periodo di tempo fra un minuto e i due minuti:
ciò allo scopo di smentire Maria Chiara LIPARI, che nel
corso delle indagini preliminari, ma assai
tardivamente, l’8 agosto 1997 (e poi naturalmente in
udienza), riferì di essersi ricordata che mentre si
trovava ancora nel corridoio, diretta verso l’aula n.
6, a pochi metri di distanza, aveva sentito un “tonfo”
o un “botto”; ma non è, questo riferito dalla LIPARI,
un dato di fatto di decisiva portata probatoria.
A parte l’oggettiva impossibilità pratica, questa
Corte reputa trascurabile l’accertamento al minuto
secondo dell’ora dello sparo, posto che la
responsabilità degli imputati non si fonda sulla
testimonianza diretta della LIPARI – neppure in ordine
al “tonfo” – ma sulle dichiarazioni della ALLETTO;
individuata, quest’ultima sì, grazie al preziosissimo
contributo di Maria Chiara LIPARI, la cui valenza però
prescinde sia dall’aver udito il “tonfo” che dalla
perfetta precisazione del momento in cui fu esploso il
colpo di pistola che uccise la ragazza.
Non è certo sufficiente, infatti, un suo eventuale
errore o un “eccesso di zelo” nel ricordarsi, giunta
ormai al mese di agosto, del “botto”, ad inficiare il
pressoché immediato e motivato ricordo della
301
contemporanea inusuale presenza di ALLETTO
(“Gabriella”) e LIPAROTA (“stempiato”) in sala
assistenti: il che è poi, in questo momento, quello che
conta.
* * * * *
Le rivelazioni di Gabriella ALLETTO sono invece in
piena armonia con le testimonianze raccolte sul luogo
del delitto; al di là dei comprensibili sforzi
prodigati dalle difese allo scopo di porli in dubbio, i
dati riguardanti la provenienza dello sparo raccolti
nell’immediatezza sono imponenti, e univocamente
concordanti con la situazione di tempo e di luogo da
lei descritta.
Sul piano testimoniale, il quadro è “fotografato”,
per così dire, da diversi angoli di visuale, per mezzo
delle molte persone che al momento del fatto erano
presenti sul luogo.
* * * * *
La prima è proprio Iolanda RICCI, l’amica di Marta
RUSSO, con la quale camminava fianco a fianco quando
questa fu colpita.
Come già esposto in narrativa, uscite dal
“tunnel”, le due ragazze scendevano lungo il “vialetto”
verso uno dei viali principali della Città degli Studi,
fra due alti corpi di fabbrica, avendo sulla destra la
scala antincendio e le auto parcheggiate a spina di
pesce. Nello stesso istante in cui incrociarono la
302
“MINI 90” del prof. MARONGIU che veniva loro incontro
lentamente, la RICCI udì uno sparo e dopo un attimo
vide Marta RUSSO già a terra, quasi morente; ella
stessa si rifugiò nascondendosi tra le auto in sosta e
gridando “hanno sparato, hanno sparato”.
E’ estremamente importante un particolare che la
RICCI ha riferito in dibattimento: richiesta dalla
polizia, nel pomeriggio di quello stesso giorno, se il
colpo poteva provenire dalla finestra del bagno di
Statistica al piano terra, ella aveva risposto di
“poterlo escludere nella maniera più assoluta”, per la
significativa ragione che il colpo sarebbe stato
“troppo in linea” col suo orecchio (udienza 20.5.1998).
A suo dire il rumore, che lei individuò fin dal
primo momento come di sparo, lo aveva “sentito da
dietro” e “da sinistra” e non proveniva “dall’altezza
d’uomo, ma da più in alto. Proprio per questo ella
aveva indicato il giorno stesso una finestra dell’aula
dell’Istituto di Filosofia del Diritto, “l’aula n. 4,
un’aula che ha quattro finestre”, “praticamente sopra
il tunnel”, “l’ultima (finestra) a destra”.
E’ bene precisare in proposito che non si tratta
della “incriminata” aula n. 6 degli assistenti (con la
finestra n. 4), ma di un’altra finestra (dell’aula 4),
sia pure molto vicina all’altra, situata però alla
radice del braccio di fabbricato di cui si parla,
“praticamente sopra il tunnel” – dice la RICCI – “…
io ho indicato l’ultima … (finestra) … a destra
guardando il tunnel”. Si tratta di una finestra non
lontana da quella della sala assistenti, entrambe poste
303
“indietro” e “in alto” rispetto alla posizione della
vittima, e relativamente lontanissime invece, per
altezza e posizione, da quella del bagno uomini e
disabili di Statistica, che sarebbe stato “sì,
insomma, praticamente in linea col mio orecchio”.
* * * * *
Altri testimoni escussi a proposito della
provenienza del rumore dello sparo sono stati:
– Roberto LASTRUCCI, che si trovava sul
“ballatoio” della scala antincendio (sul pianerottolo
superiore, al primo piano), col “tunnel” alle spalle, e
vedeva il vialetto nel senso della lunghezza, con le
due ragazze di spalle; percepì un rumore, che riconobbe
con certezza come uno sparo, e vide una ragazza bionda
cadere.
Quanto alla direzione del colpo, gli venne di
guardare prima di fronte a sé lungo il vialetto, verso
il palazzo di Chimica e Biologia (che però è molto
lontano, dall’altra parte della strada principale); poi
a sinistra ed in alto , “verso le finestre dell’aula 6
e comunque dove c’è l’Istituto di Filosofia”;
– Francesca MARCATTILI, che si trovava sul
pianerottolo della medesima scala col predetto
LASTRUCCI e con Ferdinando PASTORE, fermi a
chiacchierare, in piedi ed in circolo, a crocchio.
Ella – che aveva visto le due ragazze incrociare
un’automobile e contemporaneamente una delle due cadere
– udì “questo rumore”, che non associò ad uno sparo, ma
che veniva “dall’area in cui mi trovavo”, “dalla parte
304
dove c’è la Facoltà di Statistica e l’Istituto di
Filosofia del Diritto”, “da posizione rialzata
rispetto al luogo dove era la ragazza”;
– Ferdinando PASTORE, che era con gli altri due
sul ballatoio della scala antincendio, rivolto verso
l’Istituto di Filosofia del Diritto, nella cui
direzione però non guardava perché stava parlando.
Sentì “un rumore sordo”, udì un urlo e vide una ragazza
che cadeva; non si fece un’idea precisa della
provenienza dello sparo, forse dette “un’occhiata
verso l’alto”;
– Maria Grazia GUERRAZZI, che era sul viale
principale dove sbocca il vialetto, disse che il rumore
era venuto “da sopra”, dall’alto;
– Luigi SCARNICCHIA, che si trovava anch’egli sul
viale principale nei pressi dell’imbocco del vialetto,
sentì uno sparo “dall’alto”, soffocato, e vide la
ragazza nel momento in cui toccava per terra.
In definitiva, nessuno ha sentito il colpo
provenire dal bagno disabili al piano terra; tutti
“dall’alto” (l’aula 6 è al primo piano) e “indietro”
rispetto al corpo della vittima, mentre il bagno è
quasi in linea.
* * * * *
Per la verità, mentre Gianfranco TROIANI (che si
soffermò a confortare la RICCI), nulla sa dire sulla
direzione del colpo, si differenzia dai predetti
testimoni Paolo DRAMIS (uno di coloro che col telefono
cellulare dettero l’allarme e chiesero soccorso) il
305
quale, pur se in maniera sfumata, situa lo sparo in
basso.
Egli camminava con un’amica nel viale principale
all’incrocio col vialetto percorso da Marta RUSSO;
lasciò passare la vettura del prof. MARONGIU (che poi
svoltò a sinistra verso il vialetto), e dopo pochi
istanti udì un colpo che non lo fece pensare ad uno
sparo; vide la ragazza per terra a una decina di metri
di distanza, e dopo i primi momenti di incomprensione
ed incertezza telefonò al 118 per far venire
un’ambulanza.
A richiesta, ha precisato che gli era sembrato che
il colpo provenisse “dal piano strada”; ma si tratta di
una testimonianza troppo imprecisa e indecisa per
mettere nel nulla tutte le altre, così nette e
concordanti, alcune anche ben giustificate con
l’individuazione di alcuni particolari atti a
sorreggere e spiegare la percezione della provenienza
dello sparo.
* * * * *
Assai importante, invece, l’articolata deposizione
all’udienza del 20.5.1998 del teste Andrea DITTA, il
più vicino alle ragazze, a pochi passi da loro.
Egli guardava proprio la RUSSO e la RICCI, le
quali avevano attratto la sua attenzione come due belle
ragazze, la RICCI un po’ più alta, la RUSSO “con una
bella chioma bionda”: camminando sul vialetto in
direzione opposta alla loro, egli incrociò lo sguardo
con Marta RUSSO, dalla quale distolse gli occhi nel
momento in cui entrambi si spostarono per lasciar
306
passare la MINI 90, che con lo sportello di guida
sfiorò l’anca della ragazza, mentre egli si addossava
alle auto in sosta sulla propria destra; proprio in
quell’attimo udì “questo sparo sordo” e vide la ragazza
bionda cadere.
Quanto alla provenienza del rumore, esso
“sicuramente proveniva da destra” (e infatti egli
camminava in direzione opposta rispetto alle ragazze) e
sul primo momento gli era “venuto istintivo…di buttare
lo sguardo verso l’edificio…che avevo sulla mia
destra”, tanto che il primo giorno disse (o meglio
“confermò” alla polizia che allora “puntava” sul bagno
di Statistica) di aver guardato in basso, “verso la
finestra del bagno”.
Peraltro in dibattimento ha precisato invece che
il rumore “non veniva dal basso”, tanto che gli venne
bensì spontaneo di guardare le prime finestre che aveva
a tiro, – fra cui appunto quella del bagno di
Statistica -, ma poi rivolse l’attenzione a tutto lo
stabile, anche “verso l’alto”, “sopra la testa”.
Si tratta, a parere della Corte, di una piccola
contraddizione emersa in seguito a diverse
contestazioni (avendo egli dichiarato nel corso delle
indagini, dapprima: “a questo punto voglio precisare
che il rumore in questione veniva dall’alto”, e
altrove: “confermo che la finestra su cui si è
concentrata la mia attenzione è stata quella del
bagno”), ma facilmente spiegabile proprio con
l’interessamento degli inquirenti verso la finestra del
bagno di Statistica.
307
Sono del tutto esaustive al riguardo le
spiegazioni del DITTA: “E’ vero che ho detto questo,
l’ho fatto questo… nel senso che ho guardato alla mia
destra, la prima finestra dove mi è caduto l’occhio è
stata questa finestra (del bagno, ndr), poi però ho
dato una visione generale, ho guardato anche in alto”.
Sta di fatto però che il DITTA si trovava, col
viso verso il “tunnel”, poco oltre l’inizio del
vialetto percorso dalle ragazze, che gli venivano di
fronte a qualche metro; egli era a sua volta quasi in
linea con la finestra del bagno, che si trovava in
basso, alla sua destra, assai vicina a lui.
In dibattimento egli è stato inequivocabile nel
precisare che “questo rumore… l’ho sentito lontano,
comunque dalla mia destra,… però non era basso, non
l’ho sentito basso, l’ho sentito lontano… non diretto
in linea d’aria al mio orecchio, l’ho sentito in alto
… un po’ lontano… otto dieci metri … dieci metri”.
E’ il caso di precisare ancora che il DITTA al
momento dello sparo aveva sulla propria destra, poco
più avanti di lui, piuttosto vicina ed alla propria
altezza, la finestra n. 7) del bagno di Statistica; la
finestra dell’aula 6 di Filosofia del Diritto (la n. 4)
si trovava per lui, sempre sulla sua destra, più in
alto e più lontano: esattamente – per quanto può essere
esatta una misurazione “a orecchio” “di una decina di
metri”, come dice, corrispondente allo spazio di tre
finestre, dalla n. 4 di Filosofia al primo piano alla
n. 7 al piano terra di Statistica.
308
Il teste ancora ripete: “… mi è venuto spontaneo
guardare le prime finestre e poi guardare tutto
l’immobile, l’edificio nel generale, anche verso
l’alto”; ma poco prima aveva già puntualizzato: “Il
rumore …era palese che venisse da destra, l’ho sentito
però lontano, non è che l’ho sentito accanto, l’ho
sentito lontano”; e poco più avanti precisa: “l’ho
sentito lontano, sulla mia testa ma lontano, non
diretto in linea d’aria al mio orecchio, l’ho sentito
un po’ lontano che proveniva non so da dove, comunque
da molto più giù da dove mi trovavo io”.
Dal complesso delle spiegazioni del DITTA, sembra
“fotografata” quale origine dello sparo, tenuto conto
della posizione del teste nel vialetto, proprio la
finestra n. 4 della Sala Assistenti di Filosofia del
Diritto!
* * * * *
I risultati peritali – come si vedrà meglio – non
hanno potuto stabilire nulla di scientificamente certo
in ordine al punto preciso dal quale partì il colpo di
pistola, ma hanno individuato un vasto campo di
“compatibilità” di vario grado sia con le dichiarazioni
della ALLETTO che con la finestra n. 7 del bagno di
Statistica; e perciò acquistano valore le descrizioni
testimoniali dianzi riassunte circa la provenienza del
colpo d’arma da fuoco, distintamente udito da molti dei
presenti.
Si è visto che numerosi testimoni hanno parlato,
genericamente ma in piena concordanza fra loro, di un
309
“rumore” “di sparo” o simile, che per tutti i predetti
proveniva non solo “dall’alto” (e il bagno di
Statistica si trova al piano terra), ma anche da una
posizione situata “in fondo al vialetto”, verso il
tunnel, lontana dal bagno di Statistica, che invece è
prossimo all’inizio di esso.
Si intende soprattutto richiamare l’attenzione:
– sulla deposizione di Roberto LASTRUCCI, che
guardò subito “verso le finestre dell’aula 6 e
comunque dove c’è l’Istituto di Filosofia”.
– su quella di Iolanda RICCI (che fin dal primo
giorno ha affermato di poter “escludere nella maniera
più assoluta” la finestra del bagno, per la ben precisa
e convincente ragione che il colpo sarebbe stato
“troppo in linea col suo orecchio”, mentre ella lo ha
sentito provenire “da sinistra e dall’alto”.
– soprattutto su quella di Andrea DITTA, che ha
esattamente confermato proprio questo particolare: (il
colpo “l’ho sentito lontano… non diretto in linea
d’aria al mio orecchio”, a otto dieci metri, in alto,
molto più giù di dove mi trovavo io), trovandosi egli
nei pressi del bagno di Statistica e vicinissimo alle
due ragazze, da cui lo separava solo la MINI 90 del
prof. MARONGIU.
Così pure, del tutto convergenti fra loro sono le
dichiarazioni di questi due testi – i più prossimi al
ferimento – circa la provenienza del colpo “dall’alto”,
nonché “da sinistra e da dietro” rispetto alla
posizione di Marta RUSSO.
310
Si tratta, a parere della Corte, di testimonianze
sostanzialmente univoche, che compongono un quadro
convergente di esclusione della finestra n. 7 del bagno
di Statistica al piano terra, e di indicazione verso
qualcuna delle finestre situate al primo piano e “in
fondo”: non vicino all’estremità esterna del braccio di
fabbrica che racchiude il vialetto, ma più “in alto” e
più “verso il tunnel”.
Fra queste – poche – finestre vi è quella n. 4
della sala assistenti di Filosofia del Diritto al primo
piano, in piena e significativa armonia con le
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO, che da quella
finestra ha visto sparare.
* * * * *
Deve anche essere condivisa l’opinione della
Cassazione – che si fonda su un elementare buon senso –
che ritiene impossibile l’accertamento, per via
testimoniale ma a fini scientifici, e dunque con
esattezza geometrica e micrometrica, di quale fosse la
posizione della testa di Marta RUSSO nell’attimo in cui
fu colpita, mentre era in piedi e camminava
chiacchierando e spostandosi per incrociare
un’automobile; e nel ritenere di conseguenza
inaffidabili e sostanzialmente inutili le pur
sofisticatissime perizie disposte in grado d’appello
per accertare la traiettoria esterna del proiettile e
dunque il punto di sparo: perizie che non potevano
raggiungere risultati, dal punto di vista
“scientifico”, se non in termini di “compatibilità”.
311
Tuttavia, sia pure in assoluta sintesi vanno
riportati anche i dati desumibili dagli accertamenti
autoptici, dai rilievi tecnici, dalle analisi sui
prelievi effettuati alla ricerca di residui di sparo e
dalle diverse perizie chimiche in atti, che hanno
raggiunto invece risultati estremamente interessanti.
* * * * *
L’autopsia e i successivi contributi medico-legali
forniti da periti e consulenti di tutte le parti hanno
consentito di accertare che Marta RUSSO fu colpita da
un proiettile di pistola calibro 22 L.R., che non aveva
incontrato ostacoli nella sua traiettoria, e che era
penetrato nel cranio della vittima con tramite da
sinistra a destra e moderatamente dall’alto verso il
basso, con angolazione probabile fra i 15 e i 20 gradi
(da 8 a 24 gradi il “ventaglio” delle diverse
opinioni).
Anche questi dati – in linea di massima, e ferma
l’impossibilità di stabilire quale fosse l’esatta
posizione della testa di Marta RUSSO quando fu colpita
– sono quanto mai significativi e indicativi di un
colpo sparato da una finestra situata “in alto, dietro
e a sinistra” rispetto alla ragazza, come quella n. 4
della sala assistenti.
* * * * *
Un primo elemento riguarda i prelievi effettuati,
alla ricerca di residui di sparo, nel bagno di
312
Statistica nel pomeriggio dello stesso giorno 9 maggio,
che risultarono tutti negativi.
Nulla di preciso può stabilirsi in proposito per
il fatto che furono rinvenute tre filamenti di lana di
vetro sul proiettile, facendo desumere al perito che
esso avesse attraversato nel suo percorso un tratto di
atmosfera in cui vi fosse una certa abbondanza di
queste fibre, di cui tuttavia è impossibile determinare
la provenienza. Il fatto che siano state rinvenute
molte fibre di vetro nel bagno disabili non prova
nulla, perché un filamento fu rinvenuto anche sul
davanzale della finestra n. 4; e poi si tratta di
materiale estremamente volatile, che può provenire
anche da molto lontano.
I rilievi sulle finestre del primo piano, tra cui
quelle dell’Istituto di Filosofia del Diritto, furono
effettuati il 15 maggio 1997, e, come è ormai noto,
sulla finestra n. 4, quella di destra nella sala
assistenti, furono rinvenute due particelle “binarie”,
una composta da Antimonio e Bario (e Ferro), l’altra di
Antimonio e Piombo.
In proposito è da dirsi che altre particelle,
sempre di Antimonio e Piombo, furono rinvenute tra i
capelli di Marta RUSSO, sulla cute e nell’osso, intorno
al foro di entrata del proiettile.
Queste ultime sono, in astratto, dal punto di
vista chimico esplosivistico, non “sicure”, ma
“indicative” di sparo; tuttavia la sede di quelle che
furono ritrovate attorno al foro di ingresso del
313
proiettile nel cranio dell’uccisa le rendono,
ovviamente, molto più significative.
Ma sulla stessa finestra vi era anche l’altra
particella, di Antimonio e Bario (e Ferro): quella per
cui si è ritenuto con certezza, da parte del dott.
FALSO, che fosse una traccia di sparo. Quest’ultima,
come è stato ben chiarito, è da ritenersi però
anch’essa non “esclusiva” di sparo, ma pur sempre
“indicativa”, proprio per la presenza del Ferro, che
potrebbe provenire dalla canna, assieme agli altri due
elementi.
In tale situazione, tanto l’accusa pubblica che
quella privata, con l’ausilio dei loro consulenti, non
mancano di porre l’accento sulla sommatoria delle
convergenze che le riguardano entrambe: nel senso che
sulla finestra di destra della sala assistenti, da cui
Gabriella ALLETTO aveva visto sparare, si sono
ritrovate due diverse particelle “binarie” indicative
certo di varie attività umane, ma indicative anche di
uno sparo.
* * * * *
Ulteriori accertamenti, peraltro, hanno consentito
di accertare che l’innesco della cartuccia era a base
di Fosforo (di qui l’individuazione della cartuccia
come di marca “ELEY”, sola casa al mondo che adoperi il
Fosforo per l’innesco), sicché le particelle sul
davanzale, se sono residui di sparo, non possono
provenire dall’innesco, bensì dal proiettile: evenienza
314
che pure è possibile, secondo quanto hanno spiegato i
periti.
Nella zona caudale del proiettile, inoltre, sono
state rinvenute – ovviamente come sicuro ed esclusivo
residuo di sparo – sei particelle “quaternarie”
composte da Fosforo, Antimonio, Bario e Calcio (oltre a
Silicio).
Nella borsa di pelle sequestrata a Salvatore
FERRARO sono state reperite due particelle
significative, una di Antimonio e Bario con Ferro,
l’altra composta da Fosforo, Antimonio, Bario e Calcio,
definita dal perito prof. ZERNAR “simile all’innesco
ELEY”.
Si è proceduto, sulle sette particelle
“quaternarie” (sei provenienti dal proiettile, una
dalla borsa di FERRARO), a perizia nanotecnologica da
parte del prof. CINGOLANI, con significativi risultati.
Stante l’indicazione della Cassazione circa la
scarsa rilevanza, in questo processo, dei dati di
generica, questi dati saranno esaminati – ad
abundantiam – più avanti.
Fin d’ora si può affermare con certezza:
– che le dichiarazioni della ALLETTO offrono,
mediante la rappresentazione dello sparo dalla finestra
e dell’occultamento della pistola nella borsa portata
via da FERRARO, una spiegazione esauriente di tutto
quanto in tal modo accertato;
– che reciprocamente, tutti i predetti
accertamenti non contrastano in alcun modo, ed anzi
confermano – così come i dati autoptici e le
315
descrizioni dei testimoni presenti nel vialetto al
momento dello sparo – le dichiarazioni accusatorie di
Gabriella ALLETTO.
316
I RISCONTRI ESTERNI INDIVIDUALIZZANTI
I
LA TESTIMONIANZA DI GIULIANA OLZAI
Un preciso, inequivocabile, determinante riscontro
alle dichiarazioni di Gabriella ALLETTO è costituito
dalla testimonianza di Giuliana OLZAI.
Per mezzo di questa testimone – una
quarantacinquenne madre di sei figli, laurenda in una
difficile materia come Scienze Statistiche – un
riscontro “esterno e individualizzante”, come richiesto
dalla legge, dalla dottrina e dalla giurisprudenza,
completa la prova fornita dalle predette dichiarazioni,
che non sono smentite da alcuna risultanza oggettiva ed
anzi vi si accordano perfettamente, e che sono già di
per sé pienamente credibili, attendibili e convincenti,
sia con riferimento alla persona che rispetto al loro
contenuto intrinseco.
* * * * *
Già si è detto in narrativa che il 9 luglio 1997
Giuliana OLZAI, previ contatti col giornalista Carlo
BONINI, si presentò in Procura e rivelò di aver
vissuto, la mattina del 9 maggio subito dopo il
ferimento di Marta RUSSO, un episodio probabilmente
317
importante per le indagini. La testimone fu esaminata
in diverse riprese ed anche in incidente probatorio.
In sintesi, la OLZAI disse di aver riconosciuto in
due delle tre persone arrestate per l’omicidio di Marta
RUSSO le cui fotografie aveva visto alla televisione il
15 giugno, due giovani che il 9 maggio aveva visto
nell’atrio di Statistica (sottostante all’Istituto di
Filosofia del Diritto), agitati e concitati, uno di
essi con una cartella in mano, allontanarsi di corsa
verso la direzione opposta all’uscita; e aggiunse che
uno dei due giovani lo aveva rivisto anche il 13
giugno, sempre nei locali dell’Università,
riconoscendolo e venendone riconosciuta e prendendone
un grande spavento, tanto che lo stesso 13 giugno ne
aveva informato certo Silvano SALVATORE ed il proprio
marito.
Nello specifico, precisò che il 9 maggio si
trovava all’Università, nel Centro di Calcolo al piano
terra della Facoltà di Statistica, e che nella tarda
mattinata aveva udito “un trambusto, un vociare”, aveva
notato un accorrere di persone e aveva sentito dire che
“avevano sparato”.
Non riuscendo a vedere niente dalla finestra
perché preceduta da altre persone ed anche a causa
della sua piccola statura, aveva deciso di uscire ed
aveva percorso, per pochi metri, “l’anditino” che
congiunge le stanze di lavoro con l’ingresso principale
(“l’atrio”) della Facoltà di Statistica.
Giunta fuori dall’anditino, nell’atrio, si era
imbattuta in due giovani ai quali aveva chiesto cosa
318
fosse successo; ma questi, senza rispondere e
mostrandosi piuttosto agitati, avevano cominciato a
correre, voltandosi un paio di volte a guardarla, verso
l’adiacente atrio di Scienze Politiche. Uno dei due
aveva in mano una cartella o valigetta di cuoio.
Era tornata indietro, dopo averli seguiti per un
po’ ed aver constatato che non erano diretti, come
aveva creduto, verso il luogo dell’accaduto; era uscita
dall’atrio di Statistica, e voltando a destra nel
“vialetto” aveva visto che c’era una ragazza a terra,
soccorsa da quelli che ritenne due medici; erano
presenti alcune altre persone, ed una ragazza “sotto
shock”, con la quale si trattenne per confortarla e che
poi si saprà essere Iolanda RICCI.
La mattina del 13 giugno aveva rivisto
casualmente, in un pianerottolo al secondo piano delle
scale della Facoltà di Statistica, uno dei predetti due
giovani, e precisamente quello da lei poi identificato
per Giovanni SCATTONE; lo aveva visto bene, lo aveva
riconosciuto con certezza, e poiché anche il giovane
l’aveva guardata intensamente, ne aveva avuto
l’impressione di essere stata a sua volta riconosciuta;
aveva colto allora tutta la portata dell’episodio del 9
maggio, e si era spaventata moltissimo, tanto che
subito ne aveva parlato al Direttore del Centro di
Calcolo e se ne era voluta tornare a casa.
Il successivo 15 giugno aveva visto in televisione
le fotografie di tre giovani che erano stati arrestati
per l’omicidio di Marta RUSSO, e in due di essi –
Giovanni SCATTONE e Salvatore FERRARO – aveva
319
riconosciuto le due persone incontrate nella predetta
occasione del 9 maggio, mentre, per così dire
“fuggivano”.
Si dichiarava particolarmente sicura della
identificazione di SCATTONE, perché lo aveva visto bene
in viso il 9 maggio (le erano rimasti impressi “gli
occhi”) e perché lo aveva rivisto recentissimamente (il
13 giugno), rimanendone impressionata e spaventata; la
persona ritratta in una terza fotografia – Francesco
LIPAROTA, arrestato lo stesso giorno – non l’aveva mai
vista.
* * * * *
E’ da notare che, come risulta dalle planimetrie e
dai filmati dei sopraluoghi effettuati dai precedenti
giudici di merito, l’Istituto di Filosofia del Diritto
si trova esattamente al piano disopra rispetto alla
Facoltà di Statistica; al piano terra le Facoltà di
Statistica e di Scienze Politiche sono disimpegnate da
due “atrii” comunicanti; quello di Statistica dà sul
viale principale, nel quale sbocca il “vialetto”
percorso da Marta RUSSO quando fu ferita; da quello di
Scienze Politiche invece si esce dalla parte opposta,
dietro al “tunnel”, nel piazzale con i telefoni
pubblici nel quale si erano incontrate Marta RUSSO e
Iolanda RICCI.
Il largo corridoio che, al primo piano, serve
tutte le stanze di Filosofia del Diritto, compresa
ovviamente la sala assistenti, comunica direttamente
320
col sottostante atrio di Statistica attraverso una
scala interna, affiancata da un ascensore.
In tale situazione dei luoghi, il comportamento
dei due giovani appare inequivocabile:
– erano “agitati” e “concitati”;
– non risposero alla domanda della OLZAI su cosa
fosse successo;
– incominciarono a correre verso un’altra uscita,
e cioè, in sostanza, a fuggire;
– esprimevano preoccupazione evidente continuando
a guardare la donna che li aveva interpellati e visti
in faccia;
Di qui l’estrema importanza della testimonianza
della OLZAI, che da un lato frantuma gli alibi di
entrambi gli imputati, dall’altro li colloca in un’ora,
in un luogo e con una condotta assai compromettenti,
non provenienti dall’esterno ma anzi diretti
all’esterno, praticamente in fuga attraverso un
passaggio secondario, con la borsa contenente la
pistola da far sparire: testimonianza che costituisce
un insuperabile riscontro, esterno e individualizzante,
alle dichiarazioni accusatorie di Gabriella ALLETTO.
* * * * *
Giuliana OLZAI è stata esaminata in
contraddittorio più volte, in incidente probatorio il 9
novembre 1997 e in dibattimento il 25 maggio 1998. Nel
corso delle indagini era stata sentita due volte, la
prima il 9 luglio in seguito a presentazione spontanea,
poi il 24 settembre, ma solo il primo verbale é stato
321
formalmente acquisito al fascicolo del dibattimento. In
udienza, la donna ha risposto a molte domande e
contestazioni che risultano evidentemente fondate sul
contenuto del secondo verbale; ovviamente si deve tener
conto delle sue dichiarazioni dibattimentali, pur non
potendole confrontare con quelle rese in precedenza.
* * * * *
E’ certamente utile riportare dal vivo il racconto
della OLZAI in dibattimento (udienza 25.5.1998).
“Io quel giorno 9 maggio mi trovavo al Centro
Calcolo al piano terra dell’Istituto di Statistica;
stavo lavorando al computer quando all’improvviso ho
sentito un vociare, del trambusto che proveniva da
verso la porta d’ingresso. Dalla mia posizione dove
stavo io non vedevo cosa succedeva … mi son subito
immediatamente girata verso la mia destra, perché da
quella parte c’è una vetrata dove si vede esattamente
quello che succede nella prima stanza e da lì appunto
ho visto che c’erano delle persone che correvano verso
la finestra… mi sono alzata e sono corsa in
direzione dell’uscita (c’erano) delle persone che
stavano dentro l’ufficio, stavano correndo lì; ho
detto: “Che è successo?” e questi hanno detto “Hanno
sparato”, però me l’hanno detto con una scrollata come
di braccio, come per dire “Forse hanno sparato”, ecco,
in questo senso; e allora son corsa immediatamente
fuori….sono uscita dal Centro Calcolo verso
l’esterno per dirigermi all’esterno della Facoltà.
Quando sono uscita all’esterno, nell’anditino,
322
all’improvviso mi son bloccata. C’erano due persone,
una era frontalmente a me, e l’altra era di spalle. Io
li ho visti in un atteggiamento un po’ concitato,
soprattutto quello che stava di fronte a me,
gesticolava con le mani, lì per lì per come li ho
visti, per come ho visto no? Ho chiesto cosa è
successo, e allora anche l’altro che stava di spalle
si è girato verso di me, mi ha guardato per alcuni
attimi in faccia, insomma, mi ha guardato. E l’altro
mi guardava lo stesso.
Non ho ricevuto nessuna risposta e dopo di che…
quello vicino a me si è girato verso l’amico, si son
detti qualcosa e hanno cominciato a correre verso sinistra, diciamo, verso l’altro atrio e poi sono usciti
dalla porta di Scienze Statistiche…
A me mi ha impressionato questo incontro che io
comunque l’ho ritenuto molto negativo, negativo perché
queste persone, no? non mi hanno dato nessuna risposta. Poi io li ho pure inseguiti, no? convinta che mi
portavano sul luogo dove era successo il fatto, perché
vedendoli così agitati, concitati, no?, con fare
frenetico, io ho pensato anche che loro fossero a
conoscenza di … così, la percezione avuta è quella
che fossero a conoscenza di quello che era successo.
Poi ho pensato, invece, magari che potevano andare
anche ai telefoni per chieder aiuto, no? perché lì
dietro, la strada che hanno preso loro, in effetti
porta verso l’esterno di Scienze Politiche, dove ci
stanno dei telefoni, ecco, tutto qui”.
* * * * *
323
“Tutto qui” dice la OLZAI, e in effetti la parte
rilevante del suo racconto è praticamente finita: a suo
dire, il giovane che inizialmente era “di spalle” era
Salvatore FERRARO; l’altro, più “concitato”, che
“gesticolava con le mani” era SCATTONE.
Le fasi del riconoscimento sono scandite
nell’incidente probatorio del 6.11.1997:
“Io sono uscita immediatamente fuori, appunto, …
come ho fatto giusto l’anditino, mi son bloccata, mi
son trovata di fronte…. mi son trovata due persone.
Una persona mi stava di fronte, di fronte a me a
circa due metri e mezzo di distanza. Questa persona
poi ho riconosciuto il 15 luglio, dalla fotografia
trasmessa in televisione, in SCATTONE.
Poi l’altra persona mi stava… stava dalla parte
destra a circa un metro, un metro forse un po’ più da
me ed era di spalle. Questa persona io successivamente
… in un successi vo telegiornale del 15 luglio, forse
di sera, l’ho riconosciuta in FERRARO.
… La persona…., quella che ho riconosciuta
come FERRARO, prima si è girata verso di me, mi ha
guardato, per diversi istanti ci siamo proprio
guardati negli occhi, sia con lui che anche con
SCATTONEe e poi si è rigirato verso il compagno, ha
detto qualcosa e poi ha cominciato a correre, mi è
passato davanti che mi guardava e poi sono andati
lungo l’atrio.
Io l’ho visto sia di spalle, e poi di fianco, però
quando è passato davanti a me in effetti mi guardava e
324
poi hanno proseguito la loro corsa verso l’atrio che
va a Scienze Politiche, dove c’è un ingresso che va
verso Scienze Politiche. L’altra persona lo stesso,
ossia mi ha guardato … mi ha guardato
insistentemente diverse volte e poi quando è arrivato
diciamo all’inizio del secondo atrio, perché lì ci
stanno due atri, si è girato ancora verso di me, mi ha
guardato e poi ha continuato la sua corsa ed è uscito
pure lui, dietro il compagno, insomma sempre sulla
stessa porta che va verso Scienze Politiche”.
* * * * *
La OLZAI ha chiarito che il suo “riconoscimento” è
avvenuto il 15 giugno in Aprilia, dove lei si era
trasferita per assistere il padre ricoverato in
Ospedale: vide alla televisione diversi servizi
sull’arresto degli indagati per la morte di Marta
RUSSO, e riconobbe in una fotografia Giovanni SCATTONE
come il giovane visto meglio, “di fronte”, e che aveva
rivisto due giorni prima sul pianerottolo del secondo
piano, prendendosi – come si vedrà – “un tuffo al
cuore”; in un’altra fotografia trasmessa in un altro
servizio, “forse di sera”, riconobbe Salvatore FERRARO
come quello con la borsa; non aveva mai visto, invece,
il terzo arrestato, Francesco LIPAROTA.
Di questi riconoscimenti avvertì subito per
telefono il marito Antonio MORETTI, che ha confermato
la circostanza.
* * * * *
325
Riassumendo, dunque, il suo racconto, Giuliana
OLZAI ha riferito che, uscita dal Centro di Calcolo e
giunta nell’atrio di Statistica, aveva incontrato i due
giovani, uno di fronte a lei, a circa due metri e
mezzo, l’altro di spalle: il primo era quello che poi
identificherà per “SCATTONE”, il secondo “FERRARO”.
Fu colpita dal loro atteggiamento perché erano
visibilmente “agitati, concitati” e quello di fronte a
lei “gesticolava con le mani”.
Chiese ai due giovani che cosa fosse successo, e
anche “FERRARO” si girò verso di lei, ma nessuno le
diede alcuna risposta, il che le fece una impressione
“negativa”. FERRARO disse qualche parola al compagno,
la guardarono per qualche istante e poi si misero a
correre, prima FERRARO e poi SCATTONE, “verso l’atrio
che va a Scienze Politiche, dove c’è un ingresso che
va verso Scienze Politiche”. Anche SCATTONE nella corsa
si era “girato più volte”, guardandola
“insistentemente”, e poi erano usciti, uno dopo
l’altro, “sempre dalla stessa porta che va verso
Scienze Politiche”.
In dibattimento, come del resto nell’incidente
probatorio (e per quanto di desume dalle domande anche
nell’esame del 24 settembre), la OLZAI ha precisato che
“FERRARO aveva in mano una borsa o valigetta, di forma
rettangolare e di colore unico” (ossia uniforme).
Ha ammesso in udienza che nel primo esame del 9
luglio non aveva parlato della borsa; ma ha
spontaneamente spiegato che non ne aveva parlato non
perché se ne fosse ricordata solo più tardi, ma perché
326
non riteneva importante il particolare: “Per me la
cosa più importante (era) dire: io ho riconosciuto in
quelle fotografie SCATTONE e FERRARO; questo era per
me, diciamo, il fatto più importante; e poi è stata
una sintesi”.
Nel corso degli esami che si sono susseguiti, la
OLZAI ha descritto i due giovani come “senza né barba,
né baffi né occhiali”; FERRARO (di cui precisa di aver
riportato “una immagine più offuscata”) lo ricorda con
una corporatura più magra dell’altro e un’altezza
maggiore di circa cinque centimetri; di SCATTONE le
erano “rimasti impressi gli occhi”, e inoltre lo aveva
rivisto successivamente.
SCATTONE indossava una camicia “chiara”,
“celeste”, “con le maniche lunghe, aperta sul collo, e
un paio di pantaloni scuri, blu scuro o neri”; FERRARO
(sempre tenendo conto di una visione mnemonica meno
nitida) aveva “dei pantaloni tendenti al grigio e
nella parte superiore un indumento che non so dire
precisamente cos’era, che scendeva morbido”, come una
specie di polo o una blusa, “ma non ho neanche escluso
che potesse essere anche una giacca”.
Non ricorda, di FERRARO, né “il davanti” né “gli
avambracci”: e su questo punto specifico si tornerà.
Lasciati i due giovani che correvano, tornò
indietro; vide da una finestra del Centro di Calcolo
che all’esterno vi era ancora una ragazza stesa in
terra, uscì e raggiunse al vialetto, dove tra l’altro
si fermò a parlare con Iolanda RICCI.
327
* * * * *
La OLZAI, forse distratta dall’emozione di essere
stata così vicina alla ragazza ferita e dall’incontro
con la RICCI, non acquisì subito la consapevolezza del
possibile ruolo dei due ragazzi che aveva visto
allontanarsi verso Scienze Politiche, fino a che la
mattina del 13 giugno incontrò casualmente, sempre nei
locali dell’Università, uno dei predetti due giovani, e
precisamente quello da lei poi identificato per
Giovanni SCATTONE.
La teste lo racconta con vivacità in dibattimento:
“… Ho continuato a piedi a scendere giù per le
scale; quando sono arrivata al secondo piano,
all’improvviso, davanti alla porta di ingresso di
quell’Istituto, chi mi vedo proprio lì davanti?
SCATTONE.”
E’ forse superfluo notare che la teste “adesso” dà
per pacifico che si trattasse di “SCATTONE”, ma
ovviamente il 13 giugno 1997 non sapeva di chi si
trattasse.
Sta di fatto, però, che la donna prosegue: “Io
sono rimasta… …ho avuto come un tuffo al cuore quando
me lo sono ritrovato lì davanti, perché immediatamente
(lo) ho riconosciuto come quella persona che ho
incontrato la mattina del 9 maggio”.
“Ci siamo insistentemente guardati negli occhi… …
mi sono rigirata per guardarmelo ancora e quando mi
sono rigirata ho visto che anche lui si era rigirato e
mi guardava. Arrivata a quel punto ho avuto questa
328
forte emozione perché immediatamente ho rivissuto la
mattina del 9 maggio”.
* * * * *
E’ in questo momento, dunque, secondo la propria
esposizione del suo “vissuto”, che Giuliana OLZAI
realizza che quel giovane con cui aveva incrociato
“insistentemente” lo sguardo era uno dei due che aveva
visto sgattaiolare dal luogo del delitto nella tarda
mattinata del 9 maggio, ed era in sostanza uno degli
assassini di Marta RUSSO. Aggiunge la teste che ne
riportò una forte impressione, uno spavento, un “tuffo
al cuore”, tanto che subito raccontò tutto al
responsabile del Centro di Calcolo Silvano SALVATORE e
se ne volle subito andare a casa facendosi venire a
prendere dal marito Antonio MORETTI.
Il racconto della OLZAI è stato confermato, per
quanto di ragione:
– da Sergio FRATINI, il quale ha ricordato che la
mattina del 9 maggio la teste effettivamente era al
Centro di Calcolo e lavorava alla sua tesi su un
computer;
– da Iolanda RICCI, che ha riconosciuto la OLZAI,
con la quale ha sostenuto in sede di indagini una sorta
di confronto, ricostruendo il loro incontro del 9
maggio accanto alla RUSSO ferita;
– da Silvano SALVATORE, il quale ha riferito che
la donna – che egli vide effettivamente molto agitata,
tanto che volle telefonare al marito per farsi venire a
prendere – gli aveva detto di aver incontrato un
329
giovane che già aveva incrociato il giorno del
ferimento di Marta RUSSO, e di essere stata a sua volta
riconosciuta;
– da Antonio MORETTI, marito della OLZAI, sia in
ordine al predetto episodio del 13 giugno con SCATTONE,
sia in relazione al successivo riconoscimento dei due
giovani, visti in fotografia alla televisione in
occasione del loro arresto.
* * * * *
Ha proseguito la OLZAI il proprio racconto
spiegando che non aveva subito riferito all’autorità
giudiziaria tutto ciò che aveva visto e vissuto perché
il giorno 14 giugno suo padre, colpito da un ictus
molto grave, era stato ricoverato all’Ospedale di
Aprilia, e lei vi si era recata per assisterlo anche di
notte, assieme alle sorelle. Qui, nella giornata del 15
giugno, aveva visto alla televisione le fotografie di
coloro che erano stati arrestati la sera prima per
l’omicidio di Marta RUSSO e aveva riconosciuto i due
giovani “concitati” che aveva visto nell’atrio di
Statistica il 9 maggio; aveva di ciò informato
telefonicamente il marito, che già sapeva del “tuffo
al cuore” di due giorni prima quando aveva incontrato
per le scale quello che ora sapeva essere Giovanni
SCATTONE.
Ai primi di luglio, quando il padre era
migliorato, era tornata a Roma e ne aveva riparlato col
SALVATORE, decidendo poi di dare la propria
330
testimonianza. Poiché non gradiva avere rapporti con la
polizia, si rivolse ad un giornalista che conosceva da
tempo – Carlo BONINI –, che le prese un appuntamento
col magistrato e il 9 luglio la accompagnò in Procura.
Per completezza va aggiunto che, dopo che la
notizia della sua collaborazione era divenuta pubblica,
era giunta a casa della OLZAI una telefonata minatoria
a cui aveva risposto il marito, che esplicitamente
faceva riferimento alla sue testimonianza, per cui si
decise di procedersi con incidente probatorio.
Il tutto è ancora confermato dagli accertamenti
compiuti presso l’Ospedale di Aprilia, dalla
testimonianza di Silvano SALVATORE circa gli ulteriori
colloqui tra loro sulla questione, nonché dalle
deposizioni del giornalista Carlo BONINI e del marito
della OLZAI Antonio MORETTI.
* * * * *
Le difese degli imputati hanno attaccato in tutti
i modi la testimonianza di Giuliana OLZAI, avanzando
ogni genere di sospetti.
Esse – specialmente i difensori di SCATTONE,
naturalmente, che è più direttamente chiamato in causa
dalla OLZAI – partono dal constatare:
– che la teste è sorella di due pregiudicati sardi
che parteciparono nel 1989 al sequestro di persona
dell’industriale Dante BELARDINELLI;
331
– che ella fece diramare, all’epoca, un appello ai
rapitori per la liberazione dell’ostaggio senza
riscatto, ovviamente previ accordi con la polizia;
– che all’epoca era Vice Questore Aggiunto, e si
occupava delle indagini sul sequestro BELARDINELLI,
quello stesso dott. Nicolò D’ANGELO ora Capo della
SQUADRA MOBILE e dirigente delle indagini sulla
uccisione di Marta RUSSO;
– che nulla si sa degli attuali rapporti fra la
OLZAI e la polizia, non potendosi escludere che ella
sia rimasta una confidente;
– che, malgrado la dichiarazione d’intenti della
OLZAI di non voler avere a che fare con la polizia ma
solo con i magistrati, il verbale del 9 luglio – e così
pure quello del 24 settembre – risultano sì redatti
davanti al Pubblico Ministero, ma assistito dal dott.
Alberto INTINI “gestore” della “pratica OLZAI” e
dall’“immancabile” dott. Carmine BELFIORE;
– che anche tutte le testimonianze di risulta in
relazione alla “pratica” riguardante la OLZAI (BONINI,
SALVATORE, il marito, la stessa Iolanda RICCI) sono
state “curate” dal BELFIORE e dall’INTINI in modo da
collimarsi con le sue dichiarazioni;
– che sulla base di una incontrollabile
“telefonata minatoria” si è scelto di procedere subito
ad incidente probatorio, atto di “istruttoria
dibattimentale anticipata” che finisce col conculcare
ancor più i diritti della difesa, che vi partecipa
senza conoscere tutte le risultanze delle intere
indagini.
332
Da tutto quanto sopra se ne deve dedurre, a parere
dei difensori degli imputati, che, pur dovendosi
rifiutare l’accusa alle forze dell’ordine di aver
organizzato un “complotto”, tuttavia è “evidente” che
la “teste dell’ultim’ora” era da tempo nota alla
polizia e di sperimentata disponibilità; inoltre, si
sapeva benissimo che frequentava la Facoltà di
Statistica, perché, per via della finestra n. 7 del
bagno disabili, i nomi delle persone che vi gravitavano
furono controllati subito; il fatto che ella fosse
stata presente il 9 maggio era cosa plausibile (ma
tutt’altro che certa, secondo la difesa, essendo
misteriosamente “sparito” il registro delle presenze al
Centro di Calcolo). Certo è che – secondo questa tesi –
la testimonianza della OLZAI era arrivata giusta
giusta, dopo la ritrattazione di LIPAROTA, a fornire un
robusto sostegno alle “traballanti” accuse di Gabriella
ALLETTO, specie in vista del dibattimento.
Si ipotizza, in sostanza, non un “complotto”, ma
la spregiudicata utilizzazione di una “mitomane”,
magari stimolata nella sua follia dall’apparizione,
alla televisione, delle fotografie degli arrestati, ma
poi sapientemente “guidata”, assieme alle testimonianze
di risulta, fino a comporre un affresco perfetto, o
quasi, attorno alle accuse di Gabriella ALLETTO.
* * * * *
Ancora una volta, questa Corte non può
assolutamente condividere una tale conclusione.
333
Si tratta, in definitiva, di sospetti
assolutamente gratuiti, in relazione ai quali è già
difficile, in partenza e per così dire in astratto,
concepire l’idea di una loro possibile fondatezza, dal
momento che vi dovrebbero essere coinvolti numerosi e
disparati personaggi, a partire da onesti cittadini
qualsiasi, fino a giungere ad altissimi livelli al
vertice di importanti istituzioni, come la Polizia di
Stato e la Procura della Repubblica di Roma.
Davvero non si comprende perché mai la RICCI, il
BONINI, il SALVATORE – “cittadini qualsiasi” del tutto
estranei tra di loro – si sarebbero dovuti scientemente
prestare ad una tale opera mistificatoria; o in base a
quale criterio si possa pensare che essi siano stati –
tutti – così sprovveduti da non essersi neppure accorti
di essere stati indotti ad inventare e a mentire.
Non si comprende neppure (anche prescindendo in
questo momento da questioni etiche) perché mai
magistrati e funzionari di polizia, decisi e “duri”
finché si vuole, si debbano essere ridotti a
confezionare la “pratica OLZAI”, con tutti i rischi
connessi (un “confidente” fa presto, di questi tempi, a
“confidarsi” con l’altra sponda), posto che di tale
“pratica” non vi era – a tacer d’altro – alcuna
necessità. E non vi era tale necessità proprio in quei
giorni ed agli occhi degli inquirenti, che vedevano le
accuse della ALLETTO confermate da LIPAROTA (autore di
una ritrattazione che il dott. ORMANNI aveva definito
“un fervorino pasquale”), dalla LIPARI – almeno per
quanto riguarda FERRARO -, dalla consulenza
334
esplosivistica del dott. FALSO che non era, all’epoca,
per niente in discussione, e dalla fragilità degli
alibi di entrambi gli imputati che proprio in quei
giorni si stavano controllando.
E’ davvero difficile pensare ad un Pubblico
Ministero che in tale situazione si sente disperato per
il “fiasco” che si annuncia in dibattimento, e si
rivolge, finché si è in tempo, al Capo della MOBILE per
cercare un qualche rimedio; ed è davvero difficile
pensare che questi vada a “pescare”, non si sa se nei
recessi della propria memoria o in qualche polveroso
archivio, proprio la “disponibile” OLZAI, che
fortunatamente e per caso frequentava proprio la
facoltà di Statistica (nel cui atrio fortunatamente e
per caso scende una scala dall’Istituto di Filosofia
del Diritto), per sollecitarla (in Aprilia?!) a “dare
una mano” alle “traballanti” indagini mediante una
falsità; commettendo, il dott. D’ANGELO, ancora una
volta, una calunnia.
Ma non meno difficile è pensare a questa
“mitomane” che il 9 maggio, vedendo a terra il corpo
della povera Marta, si immagina – segretamente –
qualcosa che possa renderla protagonista; che ne tace
per più di un mese, ma poi si lascia “riattizzare” da
un episodio insignificante – l’incontro con un giovane
sconosciuto lungo le scale e sul pianerottolo – e già
comincia a “seminare tracce” presso il SALVATORE ed il
marito; che mentre si trova in Aprilia col padre in
gravissime condizioni, vedendo un servizio in
televisione viene ancora colta da smania di
335
protagonismo, ma ancora si cova questa smania per altri
venti giorni e più; non manca di accennarne –
ripetutamente e tempestivamente (il 13 giugno, in epoca
non sospetta – al marito Antonio MORETTI ed a Silvano
SALVATORE; chiama in aiuto il BONINI, e finalmente si
presenta come un dono del cielo ai “disperati”
inquirenti, ai quali non par vero di approfittarne.
Senza por tempo in mezzo questi si inducono a “guidare”
le dichiarazioni del marito, di FRATINI, di SALVATORE,
di BONINI, ed a costruire attorno alla OLZAI anche la
testimonianza dell’ingenua Iolanda RICCI, persuasa a
“fingere” di riconoscerla e a “fingere” di ricordarsi
la loro concitata conversazione accanto al corpo
riverso di Marta RUSSO!
* * * * *
Una assoluta improponibilità, a parere di questa
Corte, di una così complessa falsificazione, stando ad
una valutazione astratta e per così dire ex ante
dell’ipotesi difensiva.
In concreto, poi, nessun elemento è stato portato
che fosse atto a far anche lontanamente pensare che
Giuliana OLZAI, all’epoca quarantacinquenne madre di
sei figli ed encomiabilmente in procinto di laurearsi,
fosse una “mitomane”; ed ancor meno ha preso corpo –
neanche minimamente – il sospetto di un qualsiasi
rapporto della teste, né limpido né inquinato, nei
confronti del Dott. D’ANGELO o chi per lui,
successivamente al lontano 1989.
336
D’altra parte, la presenza della OLZAI nella
Facoltà di Statistica la mattina del 9 maggio è stata
confermata da Sergio FRATINI e, naturalmente, da
Iolanda RICCI; ma anche gli accertamenti presso
l’Ospedale di Aprilia sono risultati completi ed
esaurienti; le dichiarazioni testimoniali di SALVATORE,
del marito della OLZAI, del BONINI, della stessa RICCI
sono state piane, serene, pacifiche, perfino non sempre
collimanti con le sue; e in sostanza questa Corte non
ravvisa un solo motivo che possa seriamente far pensare
ad una collusione e ad una generalizzata falsità.
* * * * *
Si tratta dunque di esaminare le dichiarazioni di
Giuliana OLZAI nel merito, non tanto rispetto al
comportamento dei due giovani – già più volte riferito
in questa sentenza oltre che in quella di primo grado,
e del resto inequivocabile se davvero si fosse trattato
degli imputati, per ben quattro circostanze di fatto
singolari e specifiche (“gravi, precise e concordanti”)
–, quanto nelle circostanze di contorno che consentano
un giudizio di attendibilità o meno di tali
dichiarazioni.
Trattandosi di una testimone, Giuliana OLZAI non
ha bisogno, per la credibilità delle sue affermazioni,
di “riscontri” esterni; ma naturalmente la valutazione
nei suoi confronti, particolarmente delicata ed
importante, non potrà prescindere da quegli elementi di
carattere razionale (sua condotta e personalità,
rapporti con gli accusati, tempi modi e motivi della
337
deposizione, verosimiglianza dei fatti riferiti,
spontaneità, fermezza e costanza delle dichiarazioni e
così via) che costituiscono criteri di orientamento
universalmente riconosciuti per una corretta formazione
del libero convincimento del giudice.
* * * * *
Muovendosi dunque all’interno di questi criteri,
osserva questa Corte che la condotta di Giuliana OLZAI,
a partire proprio dal lodevole “appello ai rapitori”
del 1989 per giungere al contributo in questo processo,
è apparsa irreprensibile.
Ha infatti trovato – come si vedrà – piena
giustificazione il ritardo protratto fino al 9 luglio
nel suo contributo spontaneo, e per il resto ella ha
fornito una partecipazione al processo sempre corretta
e puntuale, paziente, particolareggiata, ed aperta a
sollecitazioni e contestazioni di tutte le parti.
La sua personalità di madre di sei figli all’epoca
dei fatti, e tuttavia ancora impegnata a prendersi una
laurea, premurosamente accorsa al capezzale del padre,
non presta il fianco a critiche di sorta, né – si
ripete – è mai apparso alcun elemento di fatto che
potesse sottintendere un sua tendenza a quegli
atteggiamenti “autoreclamistici” o “mitomaniaci”
ipotizzati dalla difesa.
Le difficili esperienze che in quei giorni stavano
vivendo Maria Chiara LIPARI e Gabriella ALLETTO, e di
cui, ancorché senza “videoshock”, erano pieni i
giornali, non invogliavano certo una persona “normale”
338
a cacciarsi nei guai, se non per un motivo serio come
quello che la OLZAI giustamente riteneva di avere, per
aver visto i “due giovani” in fuga; né sussiste alcun
indizio di una sua morbosa propensione per le luci
della ribalta mediatica, a costo di mentire e di
sottoporsi a “vivisezione”.
D’altronde, non sussiste nessun motivo di
interesse, di astio, di rancore, di invidia, di
qualsivoglia altra cattiva disposizione della OLZAI nei
confronti di nessuno degli imputati né della loro
cerchia; i fatti riferiti (la “fuga”, in quel momento,
di due giovani “concitati”) sono perfettamente
verosimili, compreso il suo iniziale equivoco che la
portò a seguirli per qualche passo; la sua narrazione è
stata ripetuta in diverse occasioni (a SALVATORE, al
marito, al BONINI, al PM, e poi in incidente probatorio
e in dibattimento) con assolute coerenza, costanza e
fermezza; la spontaneità della sua presentazione al PM
è parte integrante del suo racconto, è testimoniata dal
BONINI, e sarà comunque ulteriormente esaminata.
In definitiva, Giuliana OLZAI è – in astratto –
una testimone pienamente attendibile.
* * * * *
Quanto al contenuto specifico delle dichiarazioni,
reputa questa Corte che sia razionalmente necessario
prendere le mosse da un fatto controllabile,
controllato, e risultato certo: è risultato
incontrovertibile che il 13 giugno 1997 Giuliana OLZAI
339
raccontò al SALVATORE lo “spavento” che aveva appena
vissuto.
La donna – che lo stesso SALVATORE descrive come
“molto agitata” – gli chiese di parlargli “da solo” e
gli disse che aveva testè rivisto uno di due giovani
che aveva incontrato nell’atrio la mattina del
ferimento di Marta RUSSO; raccontò al SALVATORE anche
l’episodio del 9 maggio, e se ne volle andare a casa
perché troppo turbata, facendosi venire a prendere dal
marito Antonio MORETTI al quale raccontò le stesse
cose. Tutto ciò accadde venerdì 13 giugno 1997.
E’ questo il primo momento nel quale la OLZAI
abbia “esternato” il proprio sospetto di aver visto in
faccia, il 9 maggio, gli assassini di Marta RUSSO; e le
deposizioni del marito e del SALVATORE confermano in
pieno tale svolgimento dei fatti.
Ne deriva l’impossibilità che la presunta
“mitomane“ sia stata travolta il giorno 13 dai propri
presunti impulsi irrazionali e patologici, non potendo
aver visto – se non il giorno 15 – le fotografie di
coloro che furono arrestati solo la sera del 14 e le
cui fotografie saranno trasmesse il giorno dopo:
occorrerebbe pensare o che la donna abbia
divinatoriamente giocato d’anticipo di due giorni, il
che è manifestamente assurdo, o che l’episodio del 13
giugno (l’incontro con SCATTONE nel pianerottolo del
secondo piano, con conseguente reciproco
riconoscimento, e “tuffo al cuore” della OLZAI) non sia
mai accaduto; e dunque non solo il marito ma anche
Silvano SALVATORE avrebbe inspiegabilmente mentito su
340
questo punto, per aiutarla in una “autoreclamistica”
calunnia.
E’ ancora da porre in grande evidenza – a scanso
di altre “ipotesi” la cui formulazione peraltro può
essere inesauribile – che nel momento in cui avvenne il
fatto certo della confidenza tra la OLZAI ed il
SALVATORE (una confidenza completa: aveva rivisto uno
dei due che il 9 maggio adesso aveva capito che
fuggivano, lo aveva perfettamente riconosciuto e ne era
stata riconosciuta), Gabriella ALLETTO non aveva ancora
fatto alcun nome: li farà solo l’indomani sera, e
niente al mondo il 13 mattina faceva pensare che li
avrebbe fatti, e che avrebbe fatto quello di SCATTONE.
* * * * *
E da notare, peraltro, che Silvano SALVATORE non è
affatto un teste “preparato”, tanto che, sentito
nell’udienza del 27 maggio 1998, “sbaglia” vistosamente
due particolari: non sa dire esattamente quale fosse il
giorno dello “spavento” della OLZAI e riferisce – anche
se non ne è sicuro – che in quella occasione la donna
gli disse di aver visto “SCATTONE”.
Poiché il SALVATORE ha collocato l’episodio “pochi
giorni prima di partire per una vacanza il 21 di
giugno”, la difesa di SCATTONE ha tentato di dimostrare
che esso non è avvenuto il 13 giugno, ma
successivamente, dopo l’arresto dello stesso SCATTONE,
e che la OLZAI, già preda della “mitomania”, lo avrebbe
raccontato dopo averlo inventato di sana pianta; ma in
realtà l’ipotesi difensiva è impossibile.
341
Secondo il teste Silvano SALVATORE (e non soltanto
secondo la donna ed il marito) la OLZAI raccontò il
fatto come avvenuto pochi minuti prima; e ovviamente
non poteva che essere avvenuto prima di qualsiasi
arresto, perché dopo gli arresti l’intero episodio non
avrebbe avuto senso; inoltre la OLZAI, se avesse
raccontato un episodio vecchio di qualche giorno, non
si sarebbe spaventata fino a farsi venire a prendere
dal marito, come lo stesso SALVATORE conferma; né va
dimenticato che dal 14 giugno ai primi di luglio la
donna stava ad Aprilia.
Del resto il SALVATORE è ben chiaro nel dire “non
ho possibilità di stabilire con esattezza il giorno
del…se il 13 o il 14 o il 12, c’è stato questo
incontro”; ma indica sempre, spontaneamente, giorni
antecedenti rispetto al 15; ed il 14 gli imputa furono
arrestati.
E il marito della OLZAI, Antonio MORETTI è ben
sicuro della data (13 giugno), perché era il giorno del
suo onomastico, e proprio in quel giorno la moglie
aveva vissuto un momento drammatico.
Quanto poi al fatto che la OLZAI avrebbe in quel
frangente fatto il nome di “SCATTONE”, è anch’esso
manifestamente un errore del SALVATORE, una
“sovrapposizione” dipendente dall’estrema notorietà di
quanto accaduto dopo; ma l’episodio – si è visto – non
poteva che essere accaduto prima degli arresti; e
poiché prima degli arresti né la OLZAI né il marito né
il SALVATORE avevano mai sentito nominare SCATTONE, la
OLZAI non poteva aver fatto quel nome. Aveva solo
342
parlato di un giovane che aveva già visto il 9 maggio
assieme ad un altro nelle note circostanze, ed anzi si
riprometteva di tornare all’Università nei giorni
successivi, facendosi accompagnare dal marito, per
cercare di riincontrarlo e di saperne di più.
* * * * *
Così pure, è assolutamente normale, umanamente e
psicologicamente, che la donna, quel giorno dello
“spavento”, al SALVATORE che tra l’altro le suggerì di
andare dalla polizia, abbia risposto “Ma perché, ma
voglio riflettere, mi voglio calmare prima; e poi che
gli dico, che ho incontrato uno nelle scale”.
Nell’udienza del 25.5.1998 ha spiegato questo
passaggio, aggiungendo: “Io non avevo motivo di
ritenere che fosse un fatto da magistratura, in fondo”.
Il concetto, ricostruito soggettivamente, è
chiarissimo: quando la OLZAI vede i “due giovani” che
si dirigono verso Scienze Politiche le fanno “una
cattiva impressione”, perché non le rispondono e sono
“agitati”, ma in sostanza non vi si sofferma e quasi se
ne dimentica; è quando rivede SCATTONE il 13 giugno che
lo riconosce e capisce e sospetta; ma ancora, non del
tutto a torto, è titubante: ”che gli dico, che ho
incontrato uno nelle scale… …non avevo motivo di
ritenere che fosse un fatto da magistratura”.
E’ solo quando vede le fotografie degli arrestati
in televisione che si convince definitivamente della
importanza di ciò che aveva visto; ma si trova in
Aprilia, presa dalla cura e dalla preoccupazione del
343
padre in fin di vita, e soprassiede per qualche tempo.
Nulla di così inconfessabile e turpe vergognoso come i
difensori (anche di FERRARO, ma più vibratamente quella
di SCATTONE) vi vogliono vedere.
In definitiva, è vero e provato che Giuliana OLZAI
il 13 giugno 1997, e comunque in un giorno precedente e
assai prossimo all’arresto di SCATTONE, raccontò a
Silvano SALVATORE ed al proprio marito, con grande
spavento, di aver incontrato e riconosciuto poco prima,
nelle scale dell’Università, un giovane, sconosciuto di
nome, che già aveva visto nell’atrio di Statistica
pochi minuti dopo il ferimento di Marta RUSSO
allontanarsi verso l’uscita sul retro, assieme ad un
altro giovane pure sconosciuto, entrambi “agitati e
concitati”.
* * * * *
Stabilito dunque che davvero la OLZAI il 13 giugno
raccontò quanto sopra; che non è una mitomane; che la
polizia non le ha imposto alcuna falsa testimonianza,
questa Corte ritiene vero e provato anche l’episodio
del 9 maggio, senza il quale quello del 13 giugno non
avrebbe senso. La donna, del resto, riferì
congiuntamente i due episodi, giacché quello del 13, in
sé irrilevante, le aveva suscitato “un tuffo al cuore”
e una “forte emozione” soltanto perché aveva fatto
riaffiorare alla sua memoria quello ben più
significativo del 9 maggio.
Fuori da ipotesi romanzesche, quale sarebbe quella
del registro delle presenze al Centro di Calcolo fatto
344
“sparire” perché esso avrebbe dimostrato, in realtà,
che Giuliana OLZAI il giorno del ferimento di Marta
RUSSO non era all’Università, è dimostrato invece che
ella vi era: la ricorda il teste Sergio FRATINI, sia
pure con la differenza, che la Corte reputa
irrilevante, secondo cui lavorava al computer n. 5 (e
non 7 come dice la stessa OLZAI); la ricorda Iolanda
RICCI, che ha riconosciuto, vedendola in Questura,
Giuliana OLZAI ed ha ricordato anche i discorsi e i
commenti fatti sul momento, prima dell’arrivo
dell’ambulanza; lo dimostra il minuzioso ed esatto
racconto della stessa OLZAI circa i due medici che
cercavano di rianimare la ragazza ferita e circa la
presenza e l’atteggiamento di Iolanda RICCI.
Tenuto conto che, come ha spiegato la OLZAI, la
stanza in cui lavorava era interna e non aveva finestre
che dessero sul vialetto, e che non riuscì a vedere
niente, è ben verosimile e credibile che abbia voluto
capire che cosa avesse determinato il “trambusto” e che
sia andata verso l’esterno.
Sarebbe certamente uscita dalla porta dell’atrio
di Statistica, se non fosse stata, comprensibilmente,
fuorviata proprio dai due giovani, che le dettero
l’impressione, agitati e concitati e gesticolanti, di
sapere qualcosa di preciso sul fatto importante – uno
sparo o altro – che certamente era accaduto, tanto che
andò loro dietro; e poi, visto che in quella direzione
non c’era niente di notevole, tornò sui propri passi.
E’ ancora del tutto verosimile e “normale”, a
parere della Corte, che poi, a causa della visione del
345
corpo della ragazza ferita, dell’incontro con la RICCI,
dell’intervento della ambulanza (e poi ancora della
improvvisa e gravissima malattia del padre), il fugace
particolare dei due giovani che andavano verso la parte
opposta sia stato accantonato nella sua mente, e le sia
tornato alla memoria rivedendo uno dei due.
Questa Corte non trova in tutto ciò alcuna traccia
di quello stratagemma probatorio “scandaloso”,
“vergognoso”, “processualmente e moralmente
ripugnante” che la difesa di SCATTONE vi vuol vedere;
né da parte della polizia (o della Procura) né da parte
della OLZAI.
Non è questione di essere più o meno “candidi”: la
prospettazione di una così gigantesca opera di
falsificazione, a tutti i livelli, dai pubblici
ufficiali ai privati cittadini (da ORMANNI a INTINI e
dalla LIPARI alla OLZAI) – e non si vede come tutto ciò
si potrebbe chiamare, se non “complotto”-) non ha alcun
appiglio in atti: a partire dalla incompatibilità
morale di tutte le suddette persone rispetto ad una
così abietta condotta, proseguendo con l’inadeguatezza
assoluta del presunto “movente” (nulla di più, per le
autorità, che il desiderio di evitare una brutta
figura; nulla di più, per i testimoni, che la paura, la
viltà, la piaggeria), per concludere con un giudizio di
sostanziale genuinità delle prove, e – il più delle
volte – con la dimostrazione della inutilità e perfino
della impossibilità di una loro falsificazione.
Questa Corte è convinta, per le molte, diverse e
convergenti ragioni fin qui esposte, che Giuliana OLZAI
346
fosse all’Università la mattina del 9 maggio, e che
abbia visto, pochi minuti dopo il ferimento di Marta
RUSSO, due giovani in preda alla concitazione e con una
cartella in mano andarsene di corsa da un’uscita sul
retro.
Questi due giovani tennero una condotta – più
sopra accuratamente descritta e vagliata – assai
significativa sia nel complesso che nei particolari,
tanto da far fondatamente pensare che si trattasse dei
colpevoli del reato che nell’immediatezza si
allontanavano dal luogo delitto portando con sé l’arma,
e che manifestavano nella fuga evidenti segni di
concitazione e di timore di essere stati scoperti e di
poter essere identificati.
Il thema decidendum è se costoro fossero Salvatore
FERRARO e Giovanni SCATTONE: ma non vi sono ulteriori e
diverse problematiche.
* * * * *
La teste, esaminata in dibattimento, nel corso
della sua deposizione ha indicato in aula gli imputati
presenti (“IO SCATTONE lo vedo là e FERRARO sta là,
che mi sta guardando”) come corrispondenti ai due
giovani che aveva visto nell’atrio di Statistica pochi
minuti dopo il ferimento di Marta RUSSO.
Per quanto scontato, il particolare è importante,
nel senso che la donna non li ha indicati come persone
ormai divenute notissime per via delle immagini del
processo divulgate dagli organi di informazione, né
come i due le cui fotografie aveva visto in televisione
347
il giorno del loro arresto, ma proprio come i due
giovani che aveva visto nell’atrio di Statistica pochi
minuti dopo il ferimento di Marta RUSSO.
* * * * *
Particolarmente sicura l’identificazione di
SCATTONE, che la OLZAI aveva visto meglio, giacché le
stava “di fronte” fin dal primo momento (mentre FERRARO
era “di spalle”, e “si è girato” dopo); le erano
rimasti “impressi” gli occhi, e lo aveva rivisto,
sempre con parecchio agio, il 13 giugno, quando si
erano fissati reciprocamente a lungo.
Ovviamente, trattandosi di un esito che risiede
esclusivamente nella mente di un individuo, non è
possibile trovare la prova del riconoscimento – che
oltretutto costituisce esso stesso, processualmente,
una prova – la cui attendibilità è legata alla
attendibilità della persona che lo riferisce.
In proposito, già si è detto dell’ottima
attendibilità per così dire “generica” di Giuliana
OLZAI sul piano personale e psicologico, che getta una
luce positiva sul contenuto delle sue spontanee
dichiarazioni. Tutta la sua condotta processuale depone
per una testimone certamente in buona fede, certamente
cauta nel muoversi, certamente attenta e puntuale nel
riferire in modo particolareggiato il suo vissuto, e
certamente molto “turbata” dall’accaduto.
Nello specifico – a prescindere dal dato, da lei
riferito ma non dimostrato, di una sua particolare
capacità mnemonica e fisionomica da buona
348
“ritrattista” quale era in gioventù – sono da
considerare tre elementi:
– la teste ha dichiarato di aver riconosciuto alla
televisione SCATTONE e FERRARO, che aveva a suo dire
visto in quella situazione, ma non ha preteso di
riconoscere anche LIPAROTA, che non aveva mai visto;
– la OLZAI si è detta sicura del riconoscimento in
televisione di Giovanni SCATTONE, avendolo rivisto
molto più recentemente il 13 giugno, e avendone
riportato “un sussulto”, una “forte impressione”
(udienza 25.5.98);
– la donna ha mostrato di possedere buone qualità
di osservatrice riconoscendo, ad ancora maggiore
distanza di tempo, Iolanda RICCI, che aveva visto lo
stesso giorno dei “due giovani” e poi più.
Il fatto poi che anche la RICCI abbia a sua volta
riconosciuto la OLZAI e ricordato i discorsi che erano
intervenuti tra loro dimostra ulteriormente la verità
dell’episodio che le riguarda.
Né questa Corte può riconoscere alcuna seria
fondatezza alle critiche mosse dai difensori a tutti i
racconti di Giuliana OLZAI sotto il profilo che sarebbe
inverosimile il frequente, insistito – e indicato come
francamente eccessivo – “intreccio di sguardi” che la
donna sempre riferisce: fra sé e i due giovani a suo
dire incontrati nell’atrio di Statistica il 9 maggio e
fra sé e il presunto SCATTONE il 13 giugno.
Più volte, secondo la OLZAI, ciascuno dei due
giovani del 9 maggio e poi il presunto SCATTONE si
sarebbero “girati a guardarla” (e nel secondo episodio
349
lei e “SCATTONE” si sarebbero ”fissati
insistentemente”): quasi che – ironizzano i difensori –
i presunti autori del delitto ci tenessero a farsi
notare e vedere ben bene dalla OLZAI per poi essere più
facilmente riconosciuti. Evidentemente – argomentano –
la donna, nel riferire i due episodi inventati, non ha
saputo resistere alla tentazione di autoattribuirsi il
ruolo di chi aveva potuto vedere le persone in maniera
a suo parere indubitabile, senza rendersi conto di
eccedere fino alla inverosimiglianza.
La Corte non può che prendere atto delle parole
della OLZAI, fedelmente riportate più volte in questa
sentenza, e del giudizio testè espresso su di esse dai
difensori degli imputati: giudizio che però non si può
condividere, dal momento che anzi è normale effetto di
uno stato di ansia quello di portare a compiere, in
maniera istintiva e incontrollabile, proprio ciò che
non si vorrebbe.
Non può essere dimenticato il fatto che né FERRARO
né SCATTONE sono criminali incalliti, e che il
ferimento della ragazza, per le sue enormi conseguenze
– non solo penali, ma civili e morali, di carriera e di
immagine – non può non averli scossi.
La “concitazione” di cui ha parlato la OLZAI, e la
preoccupazione che indubbiamente deve aver preso
Giovanni SCATTONE nel rivedere e riconoscere la donna
incontrata nell’atrio la mattina del 9 maggio –
consapevole di essere stato a sua volta riconosciuto –,
sono stati d’animo insopprimibili in situazioni quali
quelle descritte; stati d’animo per effetto dei quali è
350
pressoché inevitabile proprio l’ansioso “intreccio di
sguardi” (e il “tuffo al cuore”, che certamente avrà
preso anche all’altro) descritto dalla OLZAI senza
alcuna inverosimiglianza.
* * * * *
Anche il momento importante del riconoscimento
alla televisione è stato raccontato minuziosamente
dalla OLZAI, in tutti i momenti in cui è stata sentita.
Particolarmente efficace il primo momento, quando
si presentò in Procura il 9 luglio 1997: “Mi balzò il
cuore in gola nel vedere in televisione l’immagine di
SCATTONE: era proprio lui quello dei due giovani che
avevo visto nell’atrio di Statistica e che poi avevo
rivisto il venerdì precedente a quella domenica”.
In sintesi, è qui tutto il succo della sua
deposizione: “era proprio lui”, dice la OLZAI, quasi
ripercorrendo nella narrazione il dialogo con se stessa
in quel momento, “quello dei due giovani che avevo
visto nell’atrio di Statistica”; e poi si rafforza nel
convincimento “e che poi avevo rivisto” appena due
giorni prima, “il venerdì precedente a quella
domenica”.
Il discorso completo è del tutto esaustivo:
“Il sabato mattina (14 giugno, ndr) mi avvertirono
che mio padre era ricoverato presso l’Ospedale Città
di Aprilia, a seguito di un ictus. Così andai ad
Aprilia per assistere mio padre, insieme con mia
madre, facendo turni in ospedale. Mio padre è stato
351
grave per dieci giorni. Da (rectius: dopo) qualche
giorno si è stabilizzato in meglio.
La OLZAI ha chiarito che lei non lavorava, e
dunque le era ben possibile trasferirsi ad Aprilia, con
la madre, a casa di una sorella per “fare le notti”
assistendo il padre. In proposito è stato perfino
acquisito agli atti il permesso speciale che la
Direzione Sanitaria dell’Ospedale aveva rilasciato per
consentire ai parenti l’ingresso fuori dall’orario
ordinario delle visite ai degenti.
La teste prosegue:
“La domenica mattina 14 giugno andai a casa e vidi
alla televisione la notizia dell’arresto di tre
persone per l’omicidio dell’Università”.
Si tratta – è ben chiaro – del primo giorno in
Aprilia; il malore del padre risaliva al giorno
precedente, e la OLZAI, che aveva fatto in Ospedale la
prima notte, vi si trattenne per altri dieci giorni:
“Io facevo le notti, le prime dieci notti le ho fatte
interamente io e facevo anche diversi pomeriggi e
notti”.
“Andai a casa”, dunque – e forse c’è stato in
proposito un equivoco da parte delle difese – non
significa “a Roma”, ma “a casa” rispetto all’Ospedale,
a casa della sorella in Aprilia.
Ed è qui il momento topico: “In un telegiornale,
diciamo all’ora di pranzo, io avevo visto due
fotografie in televisione. Una appunto era quella che
ho riconosciuto come SCATTONE e l’ho riconosciuto
immediatamente quanto ho visto la fotografia e ho
352
(avuto) anche un sussulto, un sobbalzo al cuore in
quel momento.
E poi c’era un’altra persona, altra fotografia,
che poi ho saputo dopo che era LIPAROTA che ho escluso
proprio… …
In un successivo telegiornale, appunto, davano tre
fotografie, e subito sono stata attirata dalla
fotografia della terza persona che poi ho riconosciuto
diciamo come FERRARO”.
Osserva la Corte che si tratta di un racconto
assai bene scandito dalla OLZAI (uno lo riconosce, con
“un sussulto”, uno no, “l’ho escluso proprio”; poi vede
la terza fotografia, ed in questa riconosce l’altro
giovane); scandito così bene, sia cronologicamente che
psicologicamente, da far “rivivere” la scena a chi la
ascolta per mezzo delle sue stesse parole, e da
ingenerare il convincimento che ella stessa abbia
davvero vissuto quel momento e quella emozione.
* * * * *
La teste ne informa subito, telefonicamente, il
marito Antonio MORETTI – lui sì, rimasto a Roma – ma,
come dice in dibattimento, non pensa di andare dalla
polizia, “perché, francamente, con mio padre così,
avevo anche altro da pensare”.
Questa Corte valuta perfettamente congruo e
umanamente condivisibile un tale comportamento, e
pienamente credibile tutta questa parte della
testimonianza della OLZAI. Né alcun sospetto sorge per
il fatto che, tornata a ROMA ai primi di luglio e
353
rivisto il SALVATORE (probabilmente il 3 luglio), gli
avesse accennato al noto episodio dicendo “per quella
cosa (rivelare agli inquirenti ciò che aveva visto,
ndr.) ci sto pensando”; infatti i contatti col
giornalista BONINI sono al massimo del 5 luglio, e
dunque è vero che il 3 “ci stava pensando”.
Al giornalista Carlo BONINI, poi, la OLZAI si
rivolse non per concertare chissà quale esclusiva a
pagamento, ma per farsi aiutare, come spiega
nell’incidente probatorio, a prendere contatto con i
magistrati: “…insomma io volevo andare dal magistrato.
Non è che potevo prendermi un elenco telefonico,
andare al Tribunale così, non sapevo neanche chi
fossero i magistrati che conducevano l’inchiesta, per
cui mi sono rivolta ad un giornalista”.
Una scelta naturale, quella del BONINI: un
cronista giudiziario che la donna conosceva perché a
suo tempo si era occupato del sequestro BELARDINELLI e
della sorte di Diego OLZAI, uno dei fratelli di
Giuliana che lo avevano commesso; costui era stato
ferito in un conflitto a fuoco con la polizia (nel
quale un altro fratello, Bernardino, era stato ucciso),
era rimasto paralizzato ed era detenuto in quelle
condizioni; una evidenziazione giornalistica del suo
caso aveva probabilmente facilitato l’adozione di un
provvedimento di sospensione della pena.
D’altra parte è da porre in grande evidenza che
nessun interesse legava, nel 1997, la OLZAI ed il
BONINI con la polizia o con chissà quale altra
354
autorità, posto che tale questione era stata già
risolta da anni.
D’altra parte è ben comprensibile che la OLZAI –
pur sempre una donna sarda, e molto sensibile ai legami
familiari – non volesse avere “niente a che fare” con
la polizia che le aveva ucciso un fratello e reso
invalido un altro (“io voglio andare direttamente a
parlare con un Magistrato, non voglio parlare con la
Polizia, voglio parlare direttamente con un
Magistrato” disse al BONINI: altro che fungere da
“confidente” al dott. D’ANGELO!!), e che abbia
preferito frapporre anche il “cuscinetto” costituito
dal BONINI fra sé e le autorità in genere.
* * * * *
Escluso, dunque, ogni “torbido retroscena”, va
rilevato che non tutti i particolari “quadrano”, e che
in particolare Gabriella ALLETTO e Giuliana OLZAI
descrivono gli abiti di SCATTONE e di FERRARO in
maniera non del tutto coincidente.
Le due donne sono d’accordo rispetto alla parte
superiore del corpo di Giovanni SCATTONE: costui non
aveva la giacca e portava “una camicia chiara”
(Gabriella ALLETTO, incidente probatorio) “una camicia
chiara” (Giuliana OLZAI, incidente probatorio), “una
camicia celeste, sbottonata sul collo, a maniche
lunghe” (udienza 25.5.1998). Per il resto egli
indossava “pantaloni blu scuro o neri” secondo la
OLZAI, “forse verdi” secondo la ALLETTO.
Quanto a Salvatore FERRARO, per Gabriella ALLETTO
“c’aveva una giacca blu”; per Giuliana OLZAI “la parte
355
superiore di questo indumento non so dire precisamente
che cosa era, è un indumento che scende morbido sulle
spalle… … io ho parlato di polo, ma non ho neanche
escluso che potesse essere anche una giacca. Il
colore, siamo su un celeste, a me è sembrato più
chiaro dei pantaloni, e poi indossava un pantalone
tendente al grigio”.
Reputa la Corte che questi dati siano del tutto
neutri, dal punto di vista probatorio, giacché non
esiste alcuna possibilità di un reale controllo:
infatti nessuno di coloro che quel giorno hanno (o
avrebbero) visto Giovanni SCATTONE e Salvatore FERRARO,
(da Francesco LIPAROTA al prof. Eugenio LECALDANO allo
studente Stefano LA PORTA per il primo, la sorella
Teresa e Marianna MARCUCCI per il secondo), ne ha
descritto gli indumenti.
Non è neppure possibile stabilire se nei punti in
cui le affermazioni delle due donne, almeno
apparentemente, differiscono, avesse ragione l’una o
l’altra: a parte che dei calzoni “forse verdi” possono
anche apparire “scuri” e che una giacca portata sulle
spalle senza infilare le maniche può apparire che
“scenda morbida”, si tratta in realtà di valutazioni ed
aggettivazioni talmente soggettive, vaghe ed incerte da
non poterci fare nessun assegnamento, neppure rispetto
alle parti, pur rilevanti, in cui sembrano combaciare.
Queste dichiarazioni, dunque, non dimostrano né
che le due donne, il 9 maggio 1997, abbiano
effettivamente visto SCATTONE e FERRARO a pochi minuti
di distanza l’una dall’altra, né che entrambe (o una di
356
esse) mentano, e non abbiano vissuto la scena
descritta: i dati sono in sé probatoriamente neutri, e
significano – al più – che non è esistita alcuna
“regia” occulta, e che le deposizioni sono genuine.
E’ da fare, anzi, anche qui, una notazione
psicologica che si ritiene pertinente, nel senso che è
più che normale – lo dimostra l’esperienza comune delle
testimonianze, tanto che “il colore dei calzini” è
quasi un “topos” della esasperazione del metodo
giudiziario – che in casi come quelli di cui ci sta
occupando, che comportano l’apparizione improvvisa di
qualcuno che compie qualcosa di inaspettato,
l’attenzione si concentra sui gesti, sul viso,
sull’espressione, ma non sugli abiti, a meno che questi
non siano a loro volta “implicati di per sé”
nell’accadimento, o assolutamente straordinari.
* * * * *
Assai diverso è invece il discorso sulla cartella.
“Sì – dice Giuliana OLZAI in udienza – FERRARO
portava sulla mano destra una borsa o valigetta, io di
questo particolare posso dire che (era) di forma
rettangolare e di colore unico”
Dal canto suo anche Gabriella ALLETTO, in
dibattimento, pur senza saper attribuire con certezza a
qualcuno dei due la proprietà della borsa, ha ripetuto
che “era stata portata via da FERRARO”; e richiesta di
descriverla aveva risposto: “Io ricordo che fosse di
cuoio marrone, ma per me sono tutte uguali, guardi… …
forse era rigida, ma non ci giurerei, guardi”.
357
Su questo punto, dunque, sono ben quattro gli
elementi che “quadrano”: 1) – la borsa è stata vista da
entrambe le donne; 2) – era “di cuoio marrone” secondo
l’una, e corrispondentemente “di colore unico”, cioè
uniforme, secondo l’altra; 3) – per l’una era “rigida”
e per l’altra “una valigetta”; 4) – secondo entrambe ce
l’aveva FERRARO.
Occorre a questo punto considerare:
– che anche Maria Chiara LIPARI aveva ricordato,
fin dal 24 maggio, di aver visto Salvatore FERRARO in
sala assistenti, dove certamente aveva visto Gabriella
ALLETTO;
– che in quella borsa, portata via proprio da
FERRARO, Gabriella ALLETTO aveva visto, pochi minuti
prima, Giovanni SCATTONE riporre la pistola appena
adoperata per sparare dalla finestra n. 4 dell’aula n.
6;
Valutando unitariamente tutto il complesso
probatorio testè esposto, questa Corte reputa evidente
che si saldano i ricordi della LIPARI, le dichiarazioni
della ALLETTO, la testimonianza della OLZAI e gli altri
dati di fatto – in ordine ai quali, ad abundantiam,
altre considerazioni verranno fatte al termine di
questa motivazione – a comporre un unico quadro
probatorio completo, convincente e riscontrato.
358
I RISCONTRI ESTERNI INDIVIDUALIZZANTI
II
LE DICHIARAZIONI DI FRANCESCO LIPAROTA
PREMESSA
Francesco LIPAROTA è in questa sede imputato di
favoreggiamento personale nei confronti di Giovanni
SCATTONE e Salvatore FERRARO, assolto in primo grado
per aver agito in stato di necessità, con impugnazione
nel merito sia da parte del Pubblico Ministero, che ne
chiede la condanna, sia da parte sua per ottenere una
formula di assoluzione più ampia; inoltre, nel corso
delle indagini preliminari egli ha reso dichiarazioni
accusatorie nei riguardi degli stessi SCATTONE e
FERRARO, ed è dunque un “chiamante in reità” verso gli
altri due imputati, in posizione in qualche modo affine
a quella di Gabriella ALLETTO.
Il complesso tema delle dichiarazioni del
LIPAROTA è stato ampiamente trattato nella parte
narrativa della presente motivazione, ed è stato
oggetto di puntuale esposizione nella sentenza
impugnata (per 40 pagine, dalla 282 alla 322), per cui
non si ripeterà in questa sede l’enunciazione di fatti
già noti.
359
Si terrà conto, invece, rispetto alla sua
posizione di imputato, dei motivi di impugnazione suoi
e del PM; rispetto alla sua veste di “chiamante” – e
naturalmente i due momenti non potranno essere scissi –
si terrà conto della delicata situazione normativa che
riguarda la sua posizione e la valutazione delle sue
dichiarazioni.
* * * * *
Il caso tuttavia è reso ancora più complicato
dalla molteplicità, mutevolezza e dichiarata ambiguità
degli atteggiamenti del LIPAROTA, il quale:
– nel corso delle indagini dapprima tenne un
atteggiamento sfuggente dichiarando di non poter
affermate niente di certo: (“forse anche la mattina
del 9 maggio, come tutte le altre mattine, andai in
aula n. 6 un paio di volte; non escludo di avervi
visto Gabriella ALLETTO; in mia presenza non avvenne
nulla di notevole e se avvenne non me accorsi”);
– quando, arrestato, stava per essere tradotto in
carcere, scrisse un appunto nel quale accusava SCATTONE
e FERRARO di aver sparato e di averlo minacciato perché
non “parlasse”;
– nell’interrogatorio dopo l’arresto confermò le
accuse, ma subito dopo, nello stesso interrogatorio, le
ritrattò ed infine le confermò ancora, specificando di
essersi confidato con sua mamma;
– subito ottenuti gli arresti domiciliari, il
giorno seguente a tale interrogatorio si presentò al PM
e ritrattò definitivamente;
360
– in incidente probatorio si è avvalso della
facoltà di non rispondere;
– in dibattimento, pur avvalendosi ancora della
predetta facoltà, ha reso una lunga e dal suo punto di
vista “completa” dichiarazione spontanea ai sensi
dell’art. 494 CPP, con la quale non solo ha scagionato
se stesso ma anche FERRARO e SCATTONE.
In tale situazione di fatto, questa Corte ritiene
che sia un fuor d’opera la pretesa di accertare la
verità in relazione a tutti i particolari delle
ondivaghe dichiarazioni di LIPAROTA, le quali vanno
invece assunte e valutate nel loro nucleo essenziale.
Ciò è tanto più necessario in quanto:
– vi sono state certamente le già menzionate
inevitabili “contaminazioni”, insite nel fatto che
quando LIPAROTA formulò nei particolari le sue accuse
già aveva potuto conoscere, almeno in parte, le
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO;
– d’altra parte, la possibilità di un razionale e
affidabile “controllo incrociato” delle sue
dichiarazioni con quelle della ALLETTO è vanificata dal
fatto che egli stesso ha spiegato di aver
volontariamente introdotto nella propria versione
alcune “varianti”, proprio allo scopo di “essere più
attendibile”.
* * * * *
E’ bene chiarire subito che le dichiarazioni
accusatorie del LIPAROTA, benché rese soltanto durante
le indagini preliminari, sono pienamente valutabili.
361
Dal punto di vista processuale, infatti, il caso è
regolato dal combinato disposto delle norme transitorie
contenute nell’art. 26 comma 4 della Legge 1° marzo
2001 n. 63 e nell’art. 1 comma 2 del D.L. 7 gennaio
2000 n. 2 convertito con modificazioni nella Legge 25
febbraio 2000 n. 35: le dichiarazioni rese nel corso
delle indagini preliminari – poiché i relativi verbali
fanno parte del fascicolo del dibattimento fin
dall’udienza dibattimentale del 22 dicembre 1998, e
dunque ben prima del 25 febbraio 2000 – possono essere
valutate come prova dei fatti in esse affermati, se
sussistono altri elementi di prova che ne confermano
l’attendibilità; ma poiché nell’incidente probatorio e
in dibattimento Francesco LIPAROTA si è avvalso della
facoltà di non rispondere, e si è dunque sempre
volontariamente sottratto, per libera scelta,
all’esame degli imputati SCATTONE e FERRARO e dei loro
difensori, le sue dichiarazioni rese nelle indagini
sono valutate come prova dei fatti in esse affermati
soltanto se gli “altri” elementi di prova che ne
confermano la attendibilità non siano stati assunti o
formati con le stesse modalità (non si tratti cioè di
dichiarazioni a loro volta rese soltanto nelle indagini
da parte di chi poi si sia sempre volontariamente
sottratto per libera scelta all’esame degli imputati e
dei loro difensori).
* * * * *
Osserva in proposito questa Corte che se la
“bussola” deve sempre essere orientata sul
dibattimento, ciò è perché in esso si realizza il
362
contraddittorio; se invece il contraddittorio non si
realizza perché l’imputato (in questo caso, il
“chiamante”) vi si sottrae, e tuttavia rende articolate
dichiarazioni spontanee che non consistono in astratte
affermazioni di innocenza, ma assumono il contenuto di
una sorta di malleveria nei confronti dei coimputati,
si pone il problema non solo della concreta
attendibilità di tali dichiarazioni, ma della loro
stessa eventuale valutabilità come prova dei fatti in
esse affermati.
Ciò nel silenzio della legge, che regola la
materia soltanto nell’art. 494 CPP, senza alcun accenno
al problema della “valenza” delle dichiarazioni
spontanee dell’imputato, pur abilitato a renderle “in
ogni stato del dibattimento”.
* * * * *
Va però rilevato, in proposito, che la
“sottrazione” di Francesco LIPAROTA al contraddittorio
è avvenuta non solo nei confronti “dell’imputato e del
suo difensore” secondo la lettera della legge, ma anche
nei confronti del Pubblico Ministero, delle parti
civili e dello stesso giudice, che può intervenire ai
sensi dell’art. 506/2 CPP.
Sembra perciò evidente che così come “la
colpevolezza dell’imputato non può essere provata
sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera
scelta si è sempre volontariamente sottratto
all’interrogatorio (o, rectius, all’esame) da parte
dell’imputato o del suo difensore” (art. 111 Cost.;
363
art. 526/1bis CPP), neppure la non colpevolezza
dell’imputato possa essere provata direttamente nello
stesso modo, fondandosi esclusivamente sulle sole
dichiarazioni spontanee rese in dibattimento da chi,
per libera scelta, si è volontariamente sottratto
all’esame da parte del Pubblico Ministero, della parte
civile e degli altri partecipanti al dibattimento.
La legislazione attuale stabilisce, nel “nuovo”
art. 64 CPP, che il “chiamante”, “se renderà
dichiarazioni che concernono la responsabilità di
altri” (evidentemente, sia nel senso di affermarla che
nel senso di escluderla) potrà, nei congrui casi,
assumere ”l’ufficio di testimone” con le relative
regole; ma tale nuova norma non è applicabile al caso
di specie (tempus regit actum) né, comunque, alle
dichiarazioni spontanee dell’imputato.
In definitiva, a parere di questa Corte, le
dichiarazioni spontanee di Francesco LIPAROTA in
dibattimento, rese fuori dal contraddittorio, non hanno
normativamente altra valenza che quella di una
qualsiasi altra “dichiarazione” non testimoniale:
devono essere certamente tenute in conto ed esaminate
nel loro specifico contenuto; sono certamente
importanti per quanto attiene al dichiarante, alle sue
spiegazioni, alle motivazioni interiori, ad eventuali
chiarimenti o precisazioni e simili; ma quanto ai
fatti, esse non possono essere mai considerate – di per
sé – come “prova” di fatti, ma solo come indicazione
di fatti che, se rilevanti, restano da provare.
364
In proposito si attaglia alla tematica in
discussione la massima della Cassazione, Sez. I, 21
giugno 2001, n. 25239, MILICI, secondo la quale “le
dichiarazioni spontanee rese ai sensi dell’art. 494
CPP da più imputati che si sono avvalsi della facoltà
di non sottoporsi ad esame nel contraddittorio fra le
parti, per quanto convergenti tra di loro, non sono
idonee a svalutare l’efficacia probatoria di una
chiamata in correità, resa da altro imputato, purché
sorretta da ampi e pregnanti riscontri”.
Nel nostro caso – ancor meglio -, le dichiarazioni
spontanee “liberatorie” sono rese da una sola persona,
e dunque non sono “convergenti” con altre (se non con
quelle degli stessi SCATTONE e FERRARO, e soltanto
parzialmente); mentre la “chiamata” da parte di
Gabriella ALLETTO – lo si è visto – è “sorretta da
ampi e pregnanti riscontri”, proprio come richiesto
dalla massima citata.
* * * * *
365
LE DICHIARAZIONI DI FRANCESCO LIPAROTA
NEL MERITO
Già si è detto che questa Corte reputa impossibile
accertare una completa verità all’interno delle
dichiarazioni di LIPAROTA, sempre mutevoli e
programmaticamente false; mentre migliore avviso sembra
quello di prendere in considerazione principalmente
alcuni dati certi sui quali fondare le opportune
considerazioni, lasciando il minore spazio possibile ad
ipotesi che possono sconfinare nelle elucubrazioni.
Si impongono subito tre dati certi:
– nella serata del 14 giugno Gabriella ALLETTO
compie finalmente la “clamorosa svolta” e racconta ciò
che ha visto;
– subito dopo, nella notte fra sabato 14 e
domenica 15 giugno 1997 anche Francesco LIPAROTA
“capitola” e ammette, in un appunto scritto, di essere
stato in sala assistenti al momento dello sparo, e di
aver visto Salvatore FERRARO e Giovanni SCATTONE alla
finestra “che avevano sparato”;
– il fatto che Francesco sapesse tutto era cosa
risaputa in casa sua, tanto che la cosa “sfugge” per
telefono più volte ai familiari in conversazioni
regolarmente intercettate e trascritte.
366
Ne deriva – osserva la Corte – che il nucleo
essenziale della “confessione” di LIPAROTA è vero e
credibile, non solo e non tanto perché è conforme a ciò
che ha rivelato la ALLETTO, ma a ciò che egli stesso ha
fatto sapere, prima della “svolta” da parte della
donna, ad almeno alcuni fra i propri familiari.
* * * * *
Venendo all’esame più approfondito del predetti
“dati certi”, si osserva, quanto alla “capitolazione”
di LIPAROTA, che il primo momento si verifica quando è
ancora in Questura, la notte sul 15 giugno, poco prima
di essere tradotto in carcere: egli confida all’agente
Giuseppe SENESE di aver paura perché è stato
minacciato, e chiede di poter parlare subito col
magistrato.
Non essendo possibile ciò, accetta il suggerimento
dell’agente e scrive di suo pugno, su carta intestata
della Questura passatagli dal SENESE, il seguente
appunto: “IO SOTTOSCRITTO LIPAROTA FRANCESCO DICHIARO
DI NON AVER VISTO LA PISTOLA MA DI AVER VISTO IL DOTT.
SCATTONE E IL DOTT. FERRARO AFFACCIATI ALLA FINESTRA.
HO UDITO UN SUONO CUPO E MI SONO SUCCESSIVAMENTE RESO
CONTO CHE AVEVANO SPARATO.
HO TACIUTO PERCHE’ SONO STATO MINACCIATO DI
RITORSIONE DA PARTE LORO E ANCHE DA PARTE DI LORO
CONOSCENTI. QUESTE MINACCE MI SONO STATE PROFERITE
ANCHE SUCCESSIVAMENTE ED ERANO DI RITORSIONE NEI MIEI
CONFRONTI E DEI MIEI FAMILIARI”.
* * * * *
367
E’ questo un primo dato certo, giacché il
biglietto è in atti, LIPAROTA lo ha riconosciuto come
proprio e non ha mai detto che gli sia stato imposto né
dettato. E’ particolarmente importante questo punto,
perché investe la “spontaneità” del contenuto
dell’appunto; e giova ribadire non solo che dall’esame
del dott. BELFIORE e dell’agente SENESE – e
dall’apposito supplemento di istruttoria dibattimentale
effettuato in grado d’appello – è rimasto escluso un
qualsiasi condizionamento in ordine all’appunto, ma
che lo stesso LIPAROTA non ne ha mai inteso attribuire
la paternità ad altri. Ciò anche se egli stesso non ha
mai spiegato nitidamente il “perché” di questo scritto,
che certo non serviva ad ovviare a qualche sua
dimenticanza, cosa impensabile ed impossibile data la
situazione.
* * * * *
In relazione a tutto ciò, nell’udienza
dibattimentale del 10 febbraio 1999, Francesco LIPAROTA
ha reso dichiarazioni spontanee (pagine da 1 a 18 della
trascrizione), con un proclamato intento chiarificatore
delle sue precedenti dichiarazioni contrastanti, e – di
conseguenza – “liberatorio” nei confronti degli
imputati SCATTONE e FERRARO, giacché – a suo dire –
quando aveva accusato aveva mentito.
Questo l’esordio:
“Il motivo principale per cui sono qui oggi.. è
quello di confermare con forza quanto dichiarato nella
368
mia ultima deposizione, davanti al Pubblico Ministero
ORMANNI, il giorno 17 (17 giugno 1997, quando si
presentò al PM e ritrattò le accuse a SCATTONE e
FERRARO, ndr)… e anche spiegare i motivi che mi
hanno portato a fare delle false affermazioni nei
confronti del dottor FERRARO e del dottor SCATTONE, ma
non prima però di aver chiarito alcuni aspetti, alcune
situazioni che mi riguardano direttamente…”.
E più avanti: “Di una cosa però sono certo, signor
Presidente, che io non ho mai vissuto la scena
raccontata dalla signora ALLETTO, mai, e che io quella
mattina del 9 maggio non sono mai stato
contemporaneamente alla signora ALLETTO, al dottor
FERRARO e al dottor SCATTONE, nell’aula 6 e tanto meno
alla dottoressa LIPARI”.
Sta di fatto che con le sue dichiarazioni
spontanee (vedi, per il testo pressoché integrale, la
sentenza di primo grado, pagg. 308-311), il LIPAROTA
ripercorre passo passo la propria “svolta”, che nella
notte fra il 14 ed il 15 giugno lo portò a
“collaborare” a sua volta, dapprima con l’appunto
scritto e poi con le dichiarazioni rese
nell’interrogatorio di lunedì 16 giugno 1997; e occorre
subito rilevare che è decisamente falsa la tesi circa
il contenuto del predetto appunto scritto sostenuta
dall’imputato in dibattimento nella sua dichiarazione
spontanea.
* * * * *
Secondo la sua versione dibattimentale –
accuratamente puntualizzata dal LIPAROTA, come risulta
369
dal verbale, anche sulla scorta di appunti che
consultava – egli redasse il biglietto dopo che il
dott. LA SPERANZA gli “descrisse ben dettagliatamente
la scena raccontata dalla Signora ALLETTO”, dopo che si
rilesse “quell’ordinanza di custodia cautelare in cui
era descritta la scena che la ALLETTO aveva
raccontato”, e dopo averne parlato col dott. BELFIORE e
col dott. D’ANGELO, al quale ultimo anzi rivelò il
proposito di “cedere” e di confermare “grosso modo” la
descrizione fatta dalla ALLETTO, “variando qualcosa
per essere creduto, per essere attendibile”.
In ordine alla surriportata cronologia non ci
possono essere dubbi, né errori o equivoci: secondo
LIPAROTA, fu dopo la “descrizione del carcere e di
quello che mi sarebbe aspettato in carcere,.. in
quello stato di panico” che decise “di confermare
quanto detto dalla signora ALLETTO”; fu allora che
chiese di parlare con il GIP o eventualmente con il
Pubblico Ministero, ma gli dissero che non c’erano, che
erano già andati via, e venne il dottor D’ANGELO. Le
“ben dettagliate” descrizioni dunque erano già state
fatte.
Quando D’ANGELO gli chiese: “Come mai hai deciso
di parlare solo adesso?” – “E’ chiaro – dice LIPAROTA
in dibattimento -: dovevo dare una spiegazione. Allora
inventai la storia delle minacce fattemi dal dottor
FERRARO, inventata completamente di sana pianta,
signor Presidente”.
E prosegue: “quando il dottor D’ANGELO uscì, uno
dei poliziotti mi disse: “Guarda, per ricordarti
370
meglio quello che hai detto qui, scrivilo su un
foglietto, così te lo ricordi quando poi dovrai andare
a parlare con il GIP” e mi diede un foglietto. Io ero
talmente frastornato; iniziai a scrivere; però subito
dopo, appena avevo iniziato a scrivere questo
biglietto mi interruppi, sia per il rimorso che già
affiorava in me e sia per l’enorme stanchezza…”
* * * * *
Così ripercorsa la cronologia degli avvenimenti
secondo la tesi di LIPAROTA nelle sue dichiarazioni
dibattimentali (addirittura con le spiegazioni
concatenate di ciascun evento rispetto all’altro) non
c’è dubbio che tutto ciò sia radicalmente falso.
Balza infatti evidente, ad una semplice lettura,
che il LIPAROTA nello scrivere l’appunto non si allineò
affatto alle dichiarazioni della ALLETTO, che pure a
suo dire gli erano state esposte così “ben
dettagliatamente”, anzi descrisse una scena
completamente diversa, come se il racconto della
ALLETTO non lo avesse mai sentito: a parte l’assenza
dalla scena della stessa donna, che però è implicita in
tutta la vicenda che ha portato LIPAROTA a scrivere
l’appunto, è notevole come egli non distingua in nessun
particolare la posizione dell’uno e dell’altro dei
“chiamati”, SCATTONE e FERRARO, ma li faccia “muovere”
assolutamente all’unisono: sono entrambi “affacciati
alla finestra”, egli si accorse che “avevano sparato”,
e dice di essere stato minacciato di “ritorsioni” “da
parte loro”.
371
Ne deriva, a parere della Corte, che il Francesco
LIPAROTA di questa versione non ripete affatto quello
che gli è stato raccontato, ma espone “quello che sa di
suo”, ed è perciò credibile, nella sua spontaneità, più
di quell’altro LIPAROTA che nell’interrogatorio, come
si vedrà, spesso davvero “si adegua” non tanto alla
versione di Gabriella ALLETTO quanto a ciò che ha letto
nell’ordinanza.
* * * * *
In sostanza, quando nella notte fra sabato 14 e
domenica 15 giugno 1997 il LIPAROTA decide di “cedere”,
e comincia a raccontare ciò che sa scrivendo il
biglietto di appunti, non è vero che lo fa
“allineandosi” – neppure in parte, per “essere più
attendibile” -, a ciò che era stato esposto da
Gabriella ALLETTO, ma racconta una versione interamente
propria, che contiene la “sua” verità: c’erano in sala
assistenti SCATTONE e FERRARO; i due erano
“affacciati”; egli non ha visto la pistola, ma ha udito
un colpo sordo, ha capito che avevano sparato, ed è
stato minacciato di “ritorsioni” se avesse “parlato”.
Questa versione appare veritiera e credibile,
giacché non si comprende per quale ragione il giovane
LIPAROTA, al momento dell’arresto, terrorizzato
dall’idea del carcere e sconcertato dall’aver visto, in
occasione della esecuzione delle foto segnaletiche,
SCATTONE e FERRARO, anch’essi in stato di arresto ma
ben più tranquilli di lui e quasi baldanzosi, possa
aver pensato di dissociarsi da Gabriella ALLETTO, di
372
non assegnare un ruolo specifico all’uno e all’altro,
ma di accusare entrambi gli imputati nello stesso modo
e sullo stesso piano, coinvolgendo in una
responsabilità diretta per omicidio (“avevano sparato”)
anche quel Salvatore FERRARO che, come dirà
nell’interrogatorio, era stato l’autore delle minacce e
che la ALLETTO aveva messo in disparte.
L’unica spiegazione circa il testo dell’appunto,
così divergente dalla versione della ALLETTO, è che
nessuno aveva riportato “ben dettagliatamente” al
LIPAROTA la scena descritta dalla donna, e che egli a
quel momento non aveva ancora “letto e riletto”
l’ordinanza da cui a suo dire ha appreso tutti i
particolari; è chiaro invece che egli ha riferito una
scena, magari “fotografata” in un istante diverso da
quello della ALLETTO (lui poco prima, lei poco dopo lo
sparo), che “faceva parte della sua memoria”.
Di conseguenza ritiene questa Corte che Francesco
LIPAROTA conforti, nel suo nucleo essenziale, le
dichiarazioni accusatorie di Gabriella ALLETTO, nel
senso che Marta RUSSO fu uccisa da un colpo di pistola
fatto partire dalla finestra dell’aula 6 da parte di
SCATTONE e FERRARO; i due si accorsero o sapevano della
sua presenza, ed egli fu minacciato di “ritorsioni”
perché non parlasse.
* * * * *
Quanto all’altro fatto certo, per cui alcuni dei
familiari di Francesco LIPAROTA sapevano fin da prima
del suo arresto che egli era stato presente al momento
373
dello sparo, va subito riferito il contenuto di alcune
intercettazioni telefoniche, di estrema importanza per
la valutazione di tutto l’episodio.
La domenica 16 giugno alle 19,42, mentre Francesco
è in carcere dalla notte precedente e sarà interrogato
soltanto l’indomani, telefona una donna (sembra che
fosse una zia di Francesco), che parla con la mamma,
Rosangela VILLELLA, e poi col padre Antonio LIPAROTA.
Fra quest’ultimo e l’interlocutrice si svolge il
seguente colloquio:
DONNA: E’ vero che egli ci si trovava là?
Antonio LIPAROTA: Lui dice di no, lui dice di no!
DONNA: non te l’ha detto manco a te!
Antonio LIPAROTA: Eh, no, appunto per quello…
DONNA: Ma s’è trovato quello che ha sparato?
Antonio LIPAROTA: Sì, s’è trovato, sì.
DONNA: Ma l’hanno dichiarato, che è vero che è stata
questa persona?
Antonio LIPAROTA: Eh, certo, l’hanno testimoniato…
altre persone, no?
DONNA: Ma non ha ancora testimoniato!
Antonio LIPAROTA: No, lì sta il problema, hai capito,
perché… illo c’era però… e non parla!
DONNA: E non parla!
Antonio LIPAROTA: Capito?
DONNA: Era buono avesse parlato, forse!
Antonio LIPAROTA: E va beh, ma allora gli altri perché
non hanno parlato prima?
DONNA: Perché non hanno parlato prima, ma perché non
hanno parlato prima dopo che tu…
374
Antonio LIPAROTA: Perché io, secondo me, la verità la
dice mio figlio, dice io lì non mi ci trovavo, potrei
anche essermici trovato, però non mi sono accorto di
nulla, non so nulla, ecco!
* * * * *
Tale conversazione non si presta ad
interpretazioni più o meno suggestive, ma appare
inequivoca: “quello che ha sparato” “s’è trovato”;
“altre persone lo hanno testimoniato”; Francesco,
invece, “ancora non ha testimoniato”, e proprio “lì
sta il problema”.
Il “problema” sta nel fatto che “illo c’era però..
e non parla!”.
Al commento della donna: “Era buono avesse
parlato, forse!”, Antonio LIPAROTA non si schermisce
del tutto (come chi dicesse: “ma cosa vuoi che abbia da
dire?”), anzi ribatte con lo stesso argomento della
ALLETTO: “E va beh, ma allora gli altri perché non
hanno parlato prima?”; il che poi sottintende che
esistano degli “altri” (non “un altro”) e che costoro
avrebbero dovuto “parlare” “prima” di Francesco.
Poiché è assolutamente pacifico – risulta da
diverse altre intercettazioni – che a casa LIPAROTA
tutti sapevano che il telefono era sotto
intercettazione, si spiegano certe frasi di Antonio
LIPAROTA, da quella iniziale (“Lui dice di no, lui
dice di no!” in risposta alla donna che gli chiede “E’
vero che egli ci si trovava là?”) a quella finale:
“Perché io, secondo me, la verità la dice mio figlio,
375
dice io lì non mi ci trovavo, potrei anche essermici
trovato, però non mi sono accorto di nulla, non so
nulla, ecco!”.
Sono palesi, tardivi e maldestri tentativi di
“mascherare” quell’“illo c’era, però, e non parla” che
nella foga ci si è lasciato sfuggire.
* * * * *
Una più approfondita analisi della surriportata
telefonata offre una serie di dati utili per il
processo, estremamente significativi e importanti,
perché non solo contengono la prova che Francesco
LIPAROTA “c’era” e sapeva, non solo costituiscono la
prova che i suoi familiari “sapevano che lui sapeva”,
ma offrono perfino spunti per confermare le accuse a
carico di SCATTONE e FERRARO in base a ciò che questi
“sapevano”.
Va tenuto presente che chi parla è il padre di
Francesco LIPAROTA, col figlio in carcere, che conversa
con una stretta parente.
Alla prima domanda: “E’ vero che egli ci si
trovava là?” non prova neppure a rispondere di no, ma
si esprime in un altro modo, ben preciso e ben diverso:
Lui dice di no, lui dice di no!; e alla interlocutrice
(che ha mangiato la foglia o sa qualcosa, e commenta, a
sua volta significativamente: “Non te l’ha detto manco
a te!”) Antonio LIPAROTA dà una conferma diretta: “Eh,
no, appunto per quello”…
Questo dialogo – alla luce di quanto verrà di lì a
pochi istanti (“illo c’era e non parla, lì sta il
376
problema, hai capito? Non ha ancora testimoniato”)
significa molto chiaramente che Francesco “c’era” anche
se “dice di no”, tanto che la donna commenta: “non te
l’ha detto manco a te!”.
Ma una volta stabilito che il padre “sa” che
Francesco “c’era”, è importantissima la risposta che
questi dà alla interlocutrice quando gli chiede “Ma
s’è trovato quello che ha sparato?”
La risposta è secca e perentoria, priva di
qualsiasi riserva: “Sì, s’è trovato sì”.
Il che vuol dire: Gabriella ALLETTO ha fatto dei
nomi che corrispondono esattamente a quello che anche
Francesco “sa”, dato che “c’era”.
Ancora, a piena conferma di quanto sopra:
DONNA: Ma l’hanno dichiarato, che è vero che è
stata questa persona?
Antonio LIPAROTA: Eh, certo, l’hanno
testimoniato… altre persone, no?
E si conclude col “problema” di Francesco, che
invece “non parla”, anche se qualcuno ha
“testimoniato”; ma in realtà dovevano essere “altri” a
parlare “prima”.
Tutta una serie di battute che si spiegano
solamente col fatto che il padre – in quel momento
cruciale, decisivo per il figlio e finale per tutta la
vicenda – sapeva che Francesco era presente allo sparo
e non voleva parlare e comunque non aveva parlato.
* * * * *
377
Interessanti e significativi, sempre a questo
proposito, due gruppi di telefonate fra e con i
LIPAROTA:
– le molte occasioni in cui l’uno o l’altro dei
familiari di Francesco si dicono che “il telefono è
sotto controllo”, che “ci sono tante cose da dire, ma
non per telefono”, che è meglio “chiamare da una
cabina”, che “non si può parlà pe’ telefono”: il tutto
anche in date, come il 26 o il 29 maggio, lontanissime
dal giorno della “rivelazioni” di Gabriella ALLETTO;
– le altrettanto numerose volte in cui si ripetono
“lui si deve preparare a dire sempre le stesse cose”,
“lui non si ricorda”, “deve dì che non sa un cazzo,
che non ha visto niente e basta”; anche
contraddicendosi tra di loro, come in quella del 28
maggio, quando un tale “GINO” parla con la mamma di
LIPAROTA e dice: “Se questi (gli inquirenti, ndr) se
questi cominciano a rompere le scatole si comincia a
dire no, io voglio collaborà, però non m’avete a
rompere le scatole… … perché se no dico che non so
niente, che…”, e la VILLELLA è costretta a ribattere:
“ma non sa niente davvero lui, non sa niente di
niente!”.
* * * * *
L’argomento attinente alla confidenza che
Francesco LIPAROTA avrebbe fatto alla mamma ed alla
testimonianza di costei – Rosangela VILLELLA – sarà
trattato più avanti; qui sono rilevanti ancora due
telefonate, giunte domenica 16, quando Francesco è in
378
carcere dalla sera precedente, in attesa di
interrogatorio.
Una arriva a metà mattina, ed è della sorella di
Francesco, Rosanna, alla madre, e sembra che anch’essa,
come la VILLELLA, avesse ricevuto da Francesco qualche
confidenza: “Ma io penso che, perché Franco me l’aveva
accennato però, boh! O l’hanno incastrato, non ho
capito come … ma! No?”
Un’altra era avvenuta la mattina presto, alle ore
7,41, a dimostrazione del pronto funzionamento di
“radio carcere”: un tale “ROBERTO” parla con Fabio
LIPAROTA, fratello di Francesco, e lo avverte – con
chiaro riferimento al biglietto con l’appunto di cui si
è parlato – che “ce sta una, mo’ non te fa’ capì da
tua madre, c’è una lette… che Fab… Franco ha
scritto una lettera, dice che è disposto a parlare…”
* * * * *
In stretta relazione alla ritrattazione che
Francesco LIPAROTA andrà a fare davanti al PM il
martedì mattina 17 giugno non può non essere menzionata
la telefonata minatoria in due riprese che giunse a
casa LIPAROTA lunedì 16 giugno alle ore 14,38 e 14,39.
Risponde una donna, verosimilmente la mamma o la
sorella di Francesco, o la fidanzata del fratello, e
parla con uno sconosciuto:
DONNA: pronto?
UOMO 1:chi è… LIPAROTA?
DONNA: chi parla?
UOMO 1: siamo gli zii di Marta…
379
DONNA: eh… no, mi dispiace, non c’è nessuno in casa…
UOMO 1: eh! Voi non campate più bene ah! …ok!?
Subito dopo il telefono squilla ancora, risponde
la medesima donna che parla col medesimo sconosciuto
(“UOMO 1”) e poi si introduce Fabio LIPAROTA (“UOMO 2”)
fratello di Francesco:
DONNA: pronto?
UOMO 1: vi sparo in bocca eh! voi giocate eh! sono
cazzi vostri!
DONNA: ma chi parla?
UOMO 1: sono lo zio di Marta… va bene?!
UOMO 2: pronto?!
UOMO 1: pronto!
UOMO 2: si, buongiorno.
UOMO 1: eh… sono lo zio di Marta…
UOMO 2: eh… buongiorno…
UOMO 1: eh… tanto l’ho detto anche… chi è quella
signora?
UOMO 2: è la mia ragazza…
UOMO 1: eh… non campate più bene eh!
UOMO 2: che vuol dire: non campiamo più bene?
UOMO 1: mò vedremo…
UOMO 2: che vuol dire: non campiamo più bene?
UOMO 1: quello che hai fatto… tu sei?
UOMO 2: chi è?
UOMO 1: sei tu?
UOMO 2: chi sono io?
UOMO 1: LIPAROTA!
UOMO 2: io sono il fratello…
UOMO 1: ok!
380
UOMO 2: ok! che cosa?
UOMO 1: non ti preoccupare…
UOMO 2: ma che cosa…
UOMO 1: una revolverata in gola…
UOMO 2: si? bisogna prima naturalmente vedere le cose
come stanno, che ne pensa lei?
UOMO 1: va bene! infatti poi ci vedremo…
UOMO 2: …e ci vedremo, va bene, ok!
UOMO 1: non sa con chi sta parlando…
UOMO 2: si?! non sa lei con chi sta parlando…
UOMO 1: va bene, va bene, faccia lo stronzo; mò anzi
vengo proprio sotto casa se faccio in tempo…
UOMO 2: e venga, venga…
OMO 1: via dei Feltreschi eh!?
UOMO 2: venga, venga…
UOMO 1: sono cazzi vostri… ciao!
Il tenore della telefonata è in sé inequivocabile:
un tale che per farsi “capire” dice, con un macabro
riferimento, di essere uno “zio di Marta”, accusa i
LIPAROTA di qualcosa che sta succedendo (“voi
giocate”), ma li avverte che “non campate più bene”;
alla donna che risponde la seconda volta manda una
minaccia esplicita e collettiva (“vi sparo in bocca”);
quando poi parla con Fabio crede evidentemente di
parlare proprio con Francesco e gli dice “per quello
che hai fatto”; appreso che sta parlando col
“fratello” – e non c’è bisogno di dire altro per capire
di quale “fratello” si parla – minaccia i LIPAROTA di
“una revolverata alla gola”, rincarando le minacce con
frasi eloquenti come “non sa con chi sta parlando”,
381
“vengo proprio sotto casa”, e mostrando di conoscere
l’indirizzo dell’abitazione della famiglia.
Tutto può essere; anche, per esempio, che i
LIPAROTA si siano fatta fare appositamente una
telefonata minatoria da un “uomo” compiacente per
“alleggerire” la situazione del congiunto in carcere;
ma se – come reputa questa Corte – i fatti hanno, fino
a prova contraria, uno svolgimento lineare e ordinario,
è anche alla luce di questa telefonata che va valutata
la conferma delle accuse da parte della mamma di lì a
poche ore, e la “completa” ritrattazione di Francesco
LIPAROTA l’indomani.
* * * * *
In conclusione, dagli elementi che si possono
ricavare dai fatti certi costituiti dal contenuto
testuale del biglietto con l’appunto e dalle
intercettazioni telefoniche, risulta con grande
evidenza, a parere della Corte:
– che il 9 maggio 1997, in sala assistenti,
Francesco LIPAROTA era presente al momento dello sparo
(“illo c’era”);
– che aveva visto SCATTONE e FERRARO “affacciati”
alla finestra e dunque implicati nel delitto;
– che ovviamente gli era stato intimato di non dir
niente dell’accaduto;
– che in famiglia almeno padre e madre conoscevano
la difficile situazione in cui il figlio si era venuto
a trovare;
382
– che naturalmente essi – come Gabriella ALLETTO –
ritenevano che “altri” dovessero parlare e che
Francesco “doveva dì che non sa niente, che non ha
visto niente”;
– che facevano perciò un uso significativamente
cauto del telefono.
– che le dichiarazioni spontanee di Francesco
LIPAROTA in dibattimento, tese a scagionare SCATTONE e
FERRARO, sono inattendibili, in quanto non forniscono
una spiegazione ragionevole al testo del biglietto di
appunti e alle telefonate intercettate;
– che l’appunto scritto è confermativo della
responsabilità degli imputati SCATTONE e FERRARO, ma è
anche del tutto difforme dallo svolgimento degli eventi
in sala assistenti di cui a detta del LIPAROTA egli era
potuto venire a conoscenza aliunde ed ai quali si
sarebbe ispirato.
– che ne restano convalidate la testimonianza di
Maria Chiara LIPARI circa la presenza del LIPAROTA (e
della ALLETTO) in aula 6;
– che le dichiarazioni di Gabriella ALLETTO circa
la presenza e le conseguenti responsabilità di SCATTONE
e di FERRARO trovano nell’appunto scritto da LIPAROTA
un valido riscontro esterno individualizzante.
* * * * *
Poiché l’imputato LIPAROTA ha sostenuto di aver
accusato falsamente FERRARO e SCATTONE, e di averlo
fatto ripetendo dei particolari appresi “leggendo e
rileggendo” l’ordinanza di custodia in carcere, per
383
completezza e migliore comprensione di quanto emergerà
in seguito all’interrogatorio, si riporta la
motivazione dell’ordinanza medesima per la parte che
riguarda il LIPAROTA:
“La LIPARI, sentita il 21/05/1997 alle ore 16.15,
ha confermato di essere entrata nella sala assistenti
per effettuare la telefonata partita alle ore 11.44,
seguita da una seconda telefonata che risulta essere
stata effettuata alle ore 11.48. Nel corso di tale
deposizione la teste ha riferito di ricordare che la
porta era chiusa ma non a chiave e che nella stanza vi
erano alcune persone, una delle quali, un uomo, è
uscito frettolosamente salutandola mentre lei era
intenta a telefonare. La LIPARI peraltro non ha
indicato in questo primo esame il nome delle persone
presenti nella stanza, mostrando di non avere ricordo
preciso.
Sentita nuovamente nelle prime ore del 22 maggio,
la LIPARI ha riferito che all’interno della stanza,
nel momento in cui è entrata per effettuare la prima
telefonata, si trovavano almeno altre tre persone, una
donna e due uomini ed era avvertibile una forte
tensione, tensione svanita appena uno dei due uomini è
uscito; le due persone rimaste nella stanza sono state
identificate dalla LIPARI in Francesco LIPAROTA e
Gabriella ALLETTO, entrambi in servizio presso
l’Istituto di Filosofia del Diritto.
La LIPARI ha riferito di non essere in grado, al
momento di ricostruire nel ricordo il volto del terzo
384
uomo, verosimilmente un collega assistente
dell’Istituto…”
Il giorno 14 giugno la ALLETTO ha finalmente
deciso di collaborare raccontando i fatti sino a
questo momento tanto ostinatamente taciuti contro ogni
evidenza.
Ha riferito l’ALLETTO che, come esattamente
raccontato dalla LIPARI, al momento dell’omicidio
nella sala assistenti si trovavano lei, il LIPAROTA ed
altre due persone: gli assistenti FERRARO e SCATTONE.
La ALLETTO ha dichiarato di essere entrata nella sala
assistenti perché cercava la dott.ssa LIPARI che non
era presente mentre i tre uomini erano nella stanza e
lo SCATTONE, con il FERRARO accanto ed il LIPAROTA nei
pressi, si trovava alla finestra di destra; mentre la
ALLETTO chiedeva al LIPAROTA dove fosse la LIPARI,
aveva sentito un colpo sordo provenire dalla finestra
e, voltatasi, aveva visto lo SCATTONE che si ritraeva
dalla finestra impugnando una pistola e si chinava per
poi riporre la pistola in una borsa. In quel momento
era entrata la LIPARI per telefonare e lo SCATTONE era
uscito portando via la pistola nascosta nella borsa,
seguito dopo poco dal FERRARO.
Le dichiarazioni della ALLETTO collimano
perfettamente con gli accertamenti obiettivi e con il
racconto della dott.ssa LIPARI che già nelle prime
dichiarazioni aveva riferito come avesse avuto
l’impressione che nella stanza vi fossero due
assistenti, uno che era uscito salutandola ed uno che
era rimasto alle sue spalle.
385
Va poi osservato che la dott.ssa LIPARI nel
cercare di dare un volto all’uomo non riconosciuto
pensa da tempo al FERRARO, tanto da manifestare al
telefono (conversazione intercettata il 24 maggio alle
15.43) il timore che questi stesse organizzando
agguati nei suoi confronti per timore di essere
scoperto…
Il LIPAROTA era sicuramente presente in Istituto
ed egli stesso, nel corso del suo ultimo esame, ha
dichiarato, invero incongruamente, di non escludere di
essere stato presente nella sala assistenti al momento
dell’omicidio ma di non aver visto niente e di non
ricordare chi vi fosse nella stanza.
Certamente il LIPAROTA non era in nessuno degli
altri locali dell’Istituto, atteso quanto riferito
dalle persone che si trovavano nelle altre stanze.
Gli elementi probatori sopra evidenziati
consentono di affermare che Marta Russo è stata
assassinata con un colpo di pistola sparato
materialmente e volontariamente dallo SCATTONE, con il
concorso, quantomeno morale del FERRARO e del
LIPAROTA.
Va osservato che immediatamente (dopo) la
commissione dell’omicidio lo SCATTONE ha avuto la
presenza di spirito di chinarsi e raccogliere il
bossolo fuoriuscito dalla pistola …, senza che dai
tre indagati venisse detta una parola di commento,
neanche quando lo SCATTONE ha nascosto la pistola
nella cartella del FERRARO, come dettagliatamente
riferito dalla ALLETTO.”
386
* * * * *
Il 16 giugno 1997 si svolse l’interrogatorio del
LIPAROTA da parte del GIP, alla presenza del P.M. e dei
suoi difensori. Il testo integrale è riportato nella
sentenza impugnata nelle pagine 292-303.
Occorre dare atto che l’interrogatorio si apre e
si chiude con affermazioni di LIPAROTA accusatorie
verso SCATTONE e FERRARO, ma è inframezzato da una sua
“marcia indietro”.
Inizialmente, l’imputato riconosce l’appunto
redatto in Questura la notte di sabato come scritto da
lui, ma poi non gli vengono rivolte sul punto altre
domande, e direttamente si passa ad un nuovo racconto.
GIP: Allora il 9 maggio che è successo?
LIPAROTA: Quel giorno quando sono entrato per posare
un libro nella sala cataloghi (si tratta di un lapsus,
LIPAROTA intende riferirsi alla sala assistenti, ndr),
ho visto che il dottor SCATTONE e il dottor FERRARO
erano affacciati alla finestra.
In quel mentre è entrata la signora Gabriella e mi ha
chiamato. Io quando sono entrato stavo andando verso
la finestra, io mi sono girato e sono tornato verso la
porta dove c’era Gabriella e in quel momento ho
sentito un suono che non mi sembrava uno sparo
inizialmente, un suono abbastanza cupo, tonfo, come un
tonfo. Sinceramente non mi sembrava uno sparo
all’inizio. Quando mi sono girato sono entrati dentro
loro due e ho notato che il dottor SCATTONE ha messo
una mano nella tasca. Però non ho visto la pistola. Ho
387
visto poi un gesto di disperazione da parte del dottor
FERRARO, si è messo le mani nei capelli.
GIP.: ….Poi che hanno fatto i due?
LIPAROTA: Successivamente io mi sono fermato un attimo
a parlare con Gabriella e ho visto solamente il dottor
SCATTONE uscire con la sua borsa …
GIP.: E’ sicuro che fosse la sua e non quella di
FERRARO?
LIPAROTA: Credo che sia la sua.
GIP.: …E FERRARO?
LIPAROTA: FERRARO… non mi ha voluto spiegare, anche
se io ho chiesto che cos’era successo.
GIP.: Subito gliel’ha chiesto.
LIPAROTA: Sì, non mi ha voluto spiegare.
Successivamente quando siamo usciti fuori dall’aula…
E’ notevole, in questa prima fase, il fatto che
LIPAROTA ribadisce che il dottor SCATTONE e il dottor
FERRARO erano affacciati alla finestra – e dopo
aggiunge che “sono entrati dentro loro due”,
(evidentemente “dentro” la stanza, dalla “nicchia”
della finestra) -; li distingue soltanto in un momento
successivo, quando SCATTONE “ha messo una mano nella
tasca” (“però non ho visto la pistola”) mentre FERRARO
“ha fatto un gesto di disperazione, si è messo le mani
nei capelli”.
Poi viene introdotta nel discorso la LIPARI, che
entra in aula 6 proprio mentre SCATTONE esce, ma
LIPAROTA non sa se si sono salutati, giacché “Non ci
ho fatto caso perché stavo un po’ distante dalla porta
di ingresso”.
388
In relazione ai movimenti di Maria Chiara LIPARI
si svolgono le seguenti battute:
LIPAROTA: Dietro di me è uscito il dottor FERRARO.
GIP: E la ALLETTO?
LIPAROTA: La ALLETTO mi sembra sia rimasta ….
GIP.: Lei è uscita dopo che se n’era già andata via la
LIPARI? LIPAROTA: Sì.
GIP: Quindi lei è entrata; mentre usciva SCATTONE, ha
fatto questa telefonata ed è riuscita e poi voi siete
usciti, giusto? E’ stata un attimo praticamente lì
dentro?
LIPAROTA: Di questo non sono sicuro.
GIP: Cioè di cosa non è sicuro?
LIPAROTA: Di questa sequenza.
GIP: Cioè se è uscito prima lei o prima la LIPARI?
LIPAROTA: Esatto.
Il racconto si chiude ben presto con le
“ritorsioni”:
GIP.: Lei è uscito con FERRARO. Quindi e che cosa è
successo?
LIPAROTA: Nel corridoio mi ha detto di non
riferire quello che avevo visto e che in caso avessi
detto qualcosa sarebbe stato fatto del male a me o ai
miei familiari.
GIP: Così le ha detto?
LIPAROTA: Le parole esatte sono state … ha usato un
altro termine perché era sempre … credo di averlo
scritto sul biglietto.
GIP: Ritorsioni.
LIPAROTA: Ritorsioni.
389
Anche nei giorni successivi, secondo il seguito di
questo suo racconto, LIPAROTA chiese a FERRARO – ma non
a SCATTONE – cosa fosse successo, senza ottenere alcuna
spiegazione, salvo nuovi accenni al rischio di
“ritorsioni” se avesse parlato.
* * * * *
A questo punto dell’interrogatorio si verifica una
temporanea “macchina indietro”, molto probabilmente
innescata da una istintiva domanda del GIP,
interpretata da LIPAROTA come la contestazione di un
possibile elemento di correità nell’omicidio, che lo
porta ad una “chiusura” difensiva.
Sta di fatto che dal verbale risulta che LIPAROTA
riferisce di essere andato, il giorno successivo al
ferimento di Marta RUSSO, ad una cena con SCATTONE e
FERRARO.
Ad una contestazione del GIP (“E lei va a cena con
due omicidi? Non c’è qualcos’altro che deve dire? Dica
la verità…”) risponde: “La verità è che non ci crede
se io la dico… La verità è quella che ho detto
precedentemente, questo (appunto) l’ho scritto perché
non sapevo come uscire da questa storia. La verità è
quella precedentemente dai verbali, cioè che io non mi
ricordo assolutamente di questo episodio, neanche di
essere entrato in questa cavolo di aula”.
Si svolge il seguente dialogo:
GIP: Le devo contestare che la ALLETTO ha dichiarato
espressamente di essere entrata, di aver visto lei
390
seduto alla scrivania, lì c’era la borsa di FERRARO,
tra la finestra e la scrivania il FERRARO…
LIPAROTA: Io ero seduto alla scrivania?
GIP: Vicino da qualche parte, vicino alla scrivania;
FERRARO in piedi, SCATTONE alla finestra, (ALLETTO)
chiede a lei dov’è la LIPARI, sente un colpo, si gira
e vede SCATTONE con in mano la pistola, vede SCATTONE
raccogliere il bossolo o comunque chinarsi, mettere la
pistola nella borsa e andarsene.
LIPAROTA: A meno che in quel momento non mi sia preso
un qualche male improvviso io nego assolutamente tutto
questo.
* * * * *
Quasi subito, però, sollecitato alla verità anche
dai suoi difensori presenti all’interrogatorio,
LIPAROTA torna alla versione accusatoria:
LIPAROTA: Non so proprio che dire…
GIP: La verità, quello che è successo, non si vuole
sapere niente altro che quello che è successo, per
filo e per segno.
LIPAROTA: … è quello che ho dichiarato…
GIP: Quale delle due? Non ha visto e non ha sentito
niente o ha visto e ha sentito qualcosa? tanto domani
uno di questi due dirà, magari, e a questo punto
lei….
LIPAROTA: Ma magari dicessero la verità!
GIP: E qual è la verità? La anticipi lei…!
LIPAROTA: ma non lo so…
GIP: Se non c’è da chiarire niente, non chiariamo, non
c’è nessun problema.
391
LIPAROTA: E va bene… no, perché io ho paura a dire…
GIP: Di che cosa ha paura…. di FERRARO
LIPAROTA: Sì…
GIP: Chi sono questi FERRARO, perché ne ha paura, per
conoscenze in Calabria di esponenti della famiglia?
LIPAROTA: Sì, lui ha fatto riferimento a conoscenze in
Calabria.
GIP: A chi in particolare?
LIPAROTA: Ma anche il padre…m’ha detto che occupava
un’ottima posizione, direttore di banca…
GIP: Il direttore di banca normalmente non fa…..
LIPAROTA: Sì, l’importanza che ha nel paese,
nell’interno di un paese … ha fatto riferimento alle
amicizie che potrebbero fare del male a me e alla mia
famiglia.
Oltre a questo riferimento al padre di FERRARO
direttore di una banca a Locri, sono da registrare in
punto di fatto, fino al termine dell’interrogatorio,
pochi altri passi notevoli:
– l’insistenza del LIPAROTA nel dire che lui non
era seduto ad una scrivania, come sostenuto dalla
ALLETTO (ma si tratta di un errore del GIP,
riconosciuto in prosieguo dallo stesso Giudice: la
ALLETTO non aveva detto questo);
– l’insistenza del LIPAROTA nel dire che SCATTONE
e FERRARO erano ”affacciati alla finestra”, SCATTONE
“più affacciato”, e che inoltre (ma con molti “forse”,
“credo”, “mi sembra”) SCATTONE era “a sinistra
rispetto a FERRARO”, “più verso il condizionatore”, ma
“più proteso in fuori”.
392
– la spiegazione del LIPAROTA circa l’essere
andato “a casa di SCATTONE ad una cena organizzata da
una certa Lucia” (la “cena con due omicidi”
contestatagli dal GIP): “per non dimostrare a loro – ha
spiegato – cioè per non farmi vedere da loro che ero
contro di loro se non andavo a questa festa; sarei
stato uno di loro”.
– l’ammissione finale che di quanto sapeva si era
confidato con sua madre.
* * * * *
Per completare il quadro delle dichiarazioni di
Francesco LIPAROTA, non può tacersi, ovviamente, che lo
stesso giorno 17 giugno, al termine dell’interrogatorio
di cui sopra, egli ottenne gli arresti domiciliari:
immediatamente, il giorno successivo, chiede di essere
ricevuto dal PM ed effettuò una completa ritrattazione:
“LIPAROTA: Sono venuto qua per ritrattare la mia
deposizione che ho reso davanti al GIP.
P.M.: Ne è assolutamente sicuro?…
LIPAROTA: Sì, sono… tutta la mia debolezza
psicologica in quel momento, penso che anche il
giudice l’abbia capita …e..ho avuto veramente paura
del carcere, non ce l’ho fatta a… adesso non ci
resisto più preferisco stare dentro pur di …
piuttosto di … che vivere con il rimorso che
magari … se questi due sono colpevoli o innocenti
non lo so…
P.M.: Prenda fiato…
393
LIPAROTA: Non l’ho imparato a memoria, lo so che lei
crede questo … Non posso farci niente, e quindi io
se sono colpevoli o innocenti non lo so, so solo che
io non potrò vivere con il rimorso di aver detto
qualcosa che…
P.M.: Ma che ritrattazione ha fatto …questo fervorino pasquale … la sua ritrattazione significa che lei
non era in quella stanza?
LIPAROTA: che io non ricordo di essere stato in quella
stanza.
P.M.: Ah! Siamo andati a quello di prima, lei non
ricorda niente di quel giorno … l’unica cosa che
ricorda è che non stava in quella stanza come il verbale….
LIPAROTA: Io stavo in un momento di crisi però … ho
ritrovato un momento me stesso ed ho fatto un esame e
ho detto … se … se io non ricordo di aver sentito
niente, di aver visto niente…
P.M.: Come è possibile che stavo in quella stanza?
LIPAROTA: …Non solo..mi sono ritenuto in grado di
non essere talmente scemo … a meno che non è intervenuto qualche effetto che mi abbia fatto dimenticare …non lo so..però
P.M.: Magari t’hanno drogato, i calabresi sono…
LIPAROTA: Non dico questo, non dico questo … dico
che può essere successo qualcosa dentro di me che mi
ha … però … Solo questo può essere accaduto perché
altrimenti io non ricordo di aver né sentito lo sparo
né di aver visto delle persone…
P.M.: …E di essere stato in quella stanza…
394
LIPAROTA: No! … Non ho nessun alibi … per cui non
posso giustificare la mia assenza da … non ricordo
dove stessi in quel momento…”
* * * * *
In relazione a tutto quanto sopra, reputa la Corte
che non sia tanto significativo il fatto in sé della
“altalena” del LIPAROTA (la conferma del foglietto con
l’appunto, la maggiore specificazione delle accuse, poi
le ritrattazione e la successiva riconferma, ed infine
la ritrattazione davanti al PM), quanto i fatti che il
LIPAROTA espone ed il modo col quale li espone, per la
ricerca di quei “riscontri” e di quegli “accenti di
verità” che possano orientare il libero convincimento
del giudice nella difficile valutazione di tali
contraddittorie dichiarazioni; senza dimenticare,
naturalmente, che LIPAROTA in questo processo è un
imputato, con tutte le implicazioni e conseguenze che
ne derivano.
Sono indubbiamente elementi di fatto da valutarsi
a favore della veridicità delle versioni accusatorie
del LIPAROTA:
– il fatto che nell’interrogatorio anche LIPAROTA
descrive il gesto di FERRARO che ”si è messo le mani
nei capelli”, riferendo un particolare che era stato
narrato da Gabriella ALLETTO, ma che non era menzionato
nell’ordinanza “letta e riletta”;
– il fatto che il GIP, sulla base del noto
equivoco circa la durata delle telefonate della LIPARI,
la “fa uscire” dalla stanza prima degli altri, e invece
395
LIPAROTA quasi lo corregge (“Di questo non sono
sicuro. GIP: Cioè di cosa non è sicuro? LIPAROTA: Di
questa sequenza. GIP: Cioè se è uscito prima lei o
prima la LIPARI? LIPAROTA: Esatto.”): argomento questo
indubbiamente importante e già considerato tale nella
positiva valutazione della veridicità delle
dichiarazioni della stessa Gabriella ALLETTO.
– l’analoga “correzione” operata nei confronti del
GIP da parte di LIPAROTA, che non accetta di esser
messo “seduto alla scrivania”, mentre a suo dire (e lo
confermano la LIPARI e la ALLETTO) era in piedi, “un
po’ distante dalla porta di ingresso”; correzione
operata per ben due volte, una delle quali nella parte
di interrogatorio in cui “ritratta”!!;
* * * * *
In senso contrario, cioè come argomento che
farebbe pensare ad un mendacio da parte del LIPAROTA,
viene citato il fatto che il GIP per un proprio errore
avesse scritto nell’ordinanza di custodia che Gabriella
ALLETTO aveva esposto tra l’altro che la borsa era
stata portata via da SCATTONE (mentre la donna aveva
parlato di FERRARO), e che LIPAROTA, che quella
ordinanza aveva “letto e riletto”, puntualmente si
adegua facendo anche lui portar via la borsa da
SCATTONE; ma osserva la Corte che ciò non comporta
inevitabilmente la prova che LIPAROTA non si fosse
trovato in sala assistenti in quel momento, ma solo che
in relazione alla persona che ha portato via la borsa
possa aver ricordato male; oppure che davvero LIPAROTA
396
abbia pensato di adeguarsi su questo particolare
secondario, senza per questo inficiare l’intera
deposizione.
Va considerato che LIPAROTA non risulta avesse
visto riporre la pistola nella borsa, sicché non aveva
alcun motivo di prestare grande attenzione a quel
contenitore; ciò diversamente dalla ALLETTO, che era
ragionevolmente attratta e preoccupata dalla sorte
ulteriore dell’arma dopo lo sparo e in presenza della
LIPARI.
Anche l’altro argomento portato a sostegno della
mendacità della versione accusatoria di LIPAROTA – le
innegabili differenze nella descrizione dell’episodio
fra lui e la ALLETTO – non dimostrano che l’uno o
l’altra o entrambi abbiano inventato delle false
accuse, ma solo che hanno registrato nella propria
attenzione e nella propria memoria momenti differenti
dell’episodio medesimo: in particolare – fermo restando
per entrambi il fatto che era SCATTONE il più
“proteso” verso l’esterno, stando “dentro” la
“nicchia” della finestra di destra – può ben dedursi
che FERRARO fosse più vicino a SCATTONE prima dello
sparo, quando le descrive LIPAROTA, e più discosto
dopo, quando lo descrive la ALLETTO.
Quest’ultima, così facilmente componibile, è poi
l’unica vera divergenza fra i due, posto che anche
LIPAROTA, sebbene non abbia notato la borsa prima dello
sparo, e non abbia visto SCATTONE riporvi la pistola,
però vede uno dei due uscire con la borsa.
397
* * * * *
Sono invece numerosi e rilevanti gli “accenti di
verità”, gli spunti di genuinità che contribuiscono ad
aumentare la credibilità delle dichiarazioni
accusatorie di LIPAROTA.
1) – Intanto va precisato che egli soltanto nelle
già criticate dichiarazioni spontanee dibattimentali si
è spinto fino a dirsi “certo” di non aver “mai vissuto
la scena raccontata dalla signora ALLETTO” e che in
quella mattina del 9 maggio non si era “mai” trovato
“contemporaneamente alla signora ALLETTO, al dottor
FERRARO e al dottor SCATTONE nell’aula 6, mai”.
Fino ad allora, invece, aveva sempre aveva
dichiarato cosa diversa (e cioè di non avere alcuna
certezza), fin dai primi esami come persona informata
dei fatti (lo si è visto: “è possibile che la mattina
del 9 maggio, come tutte le altre mattine, sia andato
in aula n. 6 perché ci vado continuamente, fa parte
del mio lavoro; non escludo di avervi visto la signora
Gabriella; ma non mi sono accorto di nulla di
particolare; in mia presenza non avvenne nulla di
notevole e se avvenne non me accorsi”); e ciò ha fatto
anche nella temporanea ritrattazione durante
l’interrogatorio: (“La verità è quella che ho detto
precedentemente nei verbali, cioè che io non mi
ricordo assolutamente di questo episodio, neanche di
essere entrato in questa cavolo di aula”), e perfino
nella più “solenne” ritrattazione davanti al PM, quando
specificò di essersi presentato appositamente “per
398
ritrattare la mia deposizione che ho reso davanti al
GIP”.
In quella sede ripetè chiaramente per due volte
“io se sono colpevoli o innocenti non lo so”,
precisando: “io non ricordo di essere stato in quella
stanza”, tanto da far esclamare al PM: “Ah! Siamo
andati a quello di prima, lei non ricorda niente di
quel giorno”.
* * * * *
2) – Un altro punto riguarda il dato, che si può
considerare pacifico, che il LIPAROTA ha ipotizzato,
come alternativa all’aula 6, la propria presenza in
sala Cataloghi, dove invece all’ora del delitto
certamente non si trovava, come accertato per mezzo
della testimonianza di Giuseppe GERACE, e come ammesso
dallo stesso LIPAROTA: “Non ho nessun alibi, per cui
non posso giustificare la mia assenza da … non
ricordo dove stessi in quel momento”.
* * * * *
3) – Il LIPAROTA è così poco convinto di non aver
visto niente, che tanto al GIP quanto al PM nelle
ritrattazioni ipotizza che un qualche “shock” possa
avergli cancellato dalla memoria l’accaduto:(al GIP:
“A meno che in quel momento non mi sia preso un
qualche male improvviso io nego assolutamente tutto
questo”; al PM: “a meno che non è intervenuto qualche
effetto che mi abbia fatto dimenticare …non lo
so..però”; ed anche nelle dichiarazioni spontanee
399
ribadisce la circostanza: “Io mi curavo anche
prendendo degli psicofarmaci e quindi in quel momento
io pensai di tutto, anche che potessi aver assistito
al fatto e non essermene accorto e quindi mi
iniziarono ad affiorare questi dubbi”.
Perché tutti questi “dubbi”, al punto da pensare
ad un “male improvviso”? Come si può credere a questi
“dubbi” così tardivi, se risulta che in epoca non
sospetta, assai prima della “svolta” del 14 giugno,
Gabriella ALLETTO disse alla URILLI, indicando
LIPAROTA: ecco uno dei due che mi sta mettendo nei
guai, uno che dice che io stavo nella 6”?
* * * * *
4) – Ma particolarmente significativi sono il
momento e il modo con i quali, davanti al GIP, dopo la
temporanea ritrattazione, il LIPAROTA riprende la
versione accusatoria, sempre tenendo presente che egli
non era solo ma “rincuorato” dalla presenza dei propri
difensori.
Al suo smarrito “Non so proprio che dire” il
giudice replica chiedendo “la verità, quello che è
successo…”; ed il LIPAROTA, al commento del GIP:
“tanto domani uno di questi due dirà, e a questo punto
lei…” (ed è chiaro che vuol dire “rischia di rimanere
sbugiardato”), esclama un vivacissimo: “Ma magari
dicessero la verità!”, che riecheggia irresistibilmente
quel “Ma quando confesseranno!” di Gabriella ALLETTO
ritenuto anch’esso un significativo “accento di
sincerità”.
400
* * * * *
5) – Ma non basta: immediatamente il GIP, dopo
essersi sentito rispondere “ma non lo so..” ad un
ennesimo invito a dire la verità, taglia corto:
“Se non c’è da chiarire niente, non chiariamo, non
c’è nessun problema”; e l’interrogatorio sarebbe finito
lì, se LIPAROTA spontaneamente non avesse riaperto il
discorso con un eloquente “e va bene”!!!
GIP: … … tanto domani uno di questi due dirà, magari,
e a questo punto lei….
LIPAROTA: Ma magari dicessero la verità!
GIP: E qual è la verità? La anticipi lei…!
LIPAROTA: ma non lo so…
GIP: Se non c’è da chiarire niente, non chiariamo, non
c’è nessun problema.
LIPAROTA: E va bene… no, perché io ho paura a dire…
GIP: Di che cosa ha paura…. di FERRARO
LIPAROTA: Sì…
L’interrogatorio riprende, dopo questo “e va
bene”, assai a lungo, per una decina di ulteriori
pagine di trascrizione dell’atto, e contiene, per usare
la terminologia di Gabriella ALLETTO, una vera e
propria “confessione” da parte di LIPAROTA: dalla
“paura” di LIPAROTA per FERRARO, che vanta un padre
“importante nel paese” all’ammissione di essersi
confidato con la mamma.
Il tutto però comprende una nuova, integrale,
particolareggiata ripercorrenza di tutto il racconto
dell’episodio avvenuto in aula 6, con alcune
puntualizzazioni:
401
– egli – a cui il “tonfo, non tanto forte,
sinceramente non era sembrato uno sparo” – si è reso
conto che avevano sparato “ovviamente quando li ho
visti in faccia. Mi sono reso conto dalla loro espressione che era successo qualcosa.. quando l’ho
visti in faccia” perché sia SCATTONE che FERRARO
avevano la faccia “stravolta”.
– LIPAROTA non ha “fatto caso” all’eventuale
saluto tra la LIPARI appena entrata e SCATTONE che
usciva “perché stava un po’ distante dalla porta di
ingresso” (ma evidentemente vuol dire “stavo” non
“stava”, perché la LIPARI che telefonava era
certamente accanto alla porta di ingresso);
– solo FERRARO gli chiedeva durante le indagini
quali domande gli avessero posto gli inquirenti,
“SCATTONE mai; FERRARO sì ma non ogni volta (che ci
vedevamo, ndr), ogni sera no, però le volte che mi
hanno interrogato sì”. A domanda del GIP precisa:
“Questi colloqui sono avvenuti nella mia stanza, nella
sala cataloghi”.
– egli quando il 9 maggio, dopo il fatto, è andato
via dall’Università, è “andato poi in portineria per
riuscire a capire bene come si era verificata la cosa,
visto che loro non me lo avevano voluto spiegare”.
* * * * *
In relazione a tutto ciò ci si chiede:
– perché “inventarsi” che il colpo era stato così
soffocato da non sembrare uno sparo? Che bisogno c’era
di specificare, non richiesto, che SCATTONE era “più
402
affacciato” e “proteso”? Perché far dipendere la
comprensione del fatto da parte sua dalle facce
“stravolte”, anziché, per esempio, dalle successive
minacce? Perché spiegare il fatto di non aver percepito
il saluto tra SCATTONE e la LIPARI con la precisazione,
così “fotograficamente” descrittiva, che egli “stava
un po’ distante dalla porta di ingresso”?
– perché insistere, in occasione di un “buco di
memoria”, con la precisazione che il termine usato
nell’appunto – “ritorsioni” – fosse quello esatto?
– perché inventarsi che non anche SCATTONE, ma
soltanto FERRARO – proprio quello delle minacciate
“ritorsioni” – volesse essere informato delle domande
degli inquirenti? Perché indicare il luogo preciso di
questi colloqui?
– se pure è comprensibile che, non avendo visto
niente e avendo saputo del ferimento di una ragazza, il
LIPAROTA sia andato in portineria per riuscire a
capire bene come si era verificata la cosa, perché
inserire, nell’interrogatorio, una spiegazione così
subdola e maligna come “visto che loro non me lo
avevano voluto spiegare”?
E’ questo l’atteggiamento di chi suo malgrado
accusa, tra i rimorsi, due innocenti?
Non sono tutti piccoli – e meno piccoli –
particolari che riportano con vivezza ad una realtà
veramente vissuta?
* * * * *
403
6) – Di estrema rilevanza, sul piano psicologico,
anche il particolare della cena a casa di SCATTONE
organizzata da una certa Lucia: LIPAROTA ha spiegato di
aver deciso di andare a cena “con due omicidi” “per
non farmi vedere da loro che ero contro di loro se non
andavo a questa festa; sarei stato uno di loro”.
Agghiacciante questo “Sarei stato uno di loro”; ma
davvero significativo tutto il passaggio: facendomi
vedere lì, a quella “festa”, il giorno appena
successivo al fatto, avrei dimostrato non per verba ma
col muto eloquentissimo linguaggio del corpo, non solo
a FERRARO ma anche a SCATTONE, nella cui casa la festa
si svolgeva, quale e quanta era la fiducia che potevano
avere in me: “Sarei stato uno di loro”.
Poiché questa sconvolgente risposta è stata data
da LIPAROTA ad una domanda frutto di un commento
istintivo, estemporaneo e imprevedibile del GIP (“e
lei va a cena con due omicidi?”), è evidente che
anch’essa è istintiva e immediata, frutto non di un
ragionamento operato al momento della risposta
medesima, ma di una già esistente consapevolezza
interiore: egli “doveva” andare alla cena perché,
avendo visto coloro che avevano ferito Marta RUSSO,
“doveva” rassicurarli sulla propria omertà (ecco il
favoreggiamento personale, fuori da ogni ipotesi di
autofavoreggiamento), e dunque “farsi vedere” come
“uno di loro”.
Non ci sono altre spiegazioni.
* * * * *
404
A proposito di questa cena – e di altre consimili
in quel periodo: le cosiddette “cene post-delictum” di
cui parla la sentenza impugnata – molti dei presenti
(si citano Stefano La Porta, Lucia Sabia, Ilaria Pepe,
Benedetta Faedi) hanno riferito che il clima era
generalmente “disteso”, ma che Francesco LIPAROTA
mostrava imbarazzo e tensione, anche perché bersagliato
da battute scherzose non sempre divertenti, soprattutto
per lui: specialmente quella “Adesso ti prendono”,
rivoltagli da Salvatore FERRARO all’ingresso di una
guardia giurata in un locale.
Il tutto – imbarazzo e tensione – in perfetta
assonanza, come si vedrà, con quanto sarà poi riferito
da sua madre Rosangela VILLELLA, proprio con
riferimento a questi primi giorni: “Dopo due o tre
giorni dal fatto, su mia sollecitazione, avendo notato
mio figlio particolarmente ansioso, gli ho chiesto
insistentemente se gli fosse accaduto qualcosa”;
ricevendone la confidenza che egli sapeva che
“SCATTONE e FERRARO avevano sparato” e che lo avevano
minacciato.
* * * * *
A fronte di tutte queste considerazioni reputa
questa Corte che non è vero quanto sostenuto dal
LIPAROTA nelle sue dichiarazioni spontanee: “Alla fine
decisi di confermare quanto avevo iniziato a scrivere
sul biglietto dinanzi al GIP. Anche se durante poi il
colloquio che ho avuto con il GIP, rincuorato anche
405
dalla presenza dei miei avvocati, tentai più volte di
dire la verità, signor Presidente, e questo credo lo
potete notare anche voi leggendo il verbale di quel
giorno. Tentai più volte ma il GIP sembrava ormai
orientato, non voleva proprio starmi a sentire. A
questo punto decisi allora di dire quello che
effettivamente capii che lo volevano sentire detto,
quello che dovevo dire per uscire..”.
Tutto ciò non è vero: non è vero che LIPAROTA
disse al GIP, sapendo che erano menzogne, “quello che
effettivamente capii che lo volevano sentire detto,
quello che dovevo dire per uscire”.
E ciò non è vero non tanto perché egli ha potuto
ritrattare come ha voluto – ed anzi è stato proprio lui
a riaprire l’interrogatorio quando il GIP lo aveva
praticamente chiuso; ma non è vero proprio per il
contenuto concreto delle sue dichiarazioni al GIP: per
la “mancanza di alibi”, perché non era “seduto alla
scrivania”, per le “facce stravolte”, perché stava
“distante dalla porta”, perché la LIPARI non è uscita
prima di loro, per la “paura di FERRARO”, per il
passaggio in portineria per capire “ciò che loro non
gli avevano voluto spiegare”, per il “sarei stato uno
di loro”.
Si tratta di tutta una serie di passaggi che
investono il prima, il durante e il dopo dell’episodio
cruciale; che si inseriscono nel quadro di una piena
conferma del nucleo centrale della descrizione della
condotta – e della responsabilità – di SCATTONE e di
FERRARO; che attribuiscono una piena credibilità alla
406
versione accusatoria del LIPAROTA; e che dimostrano la
palpabile incongruenza e fragilità delle sue
ritrattazioni (sia quella davanti al GIP che l’altra
davanti al PM), e la sostanziale e completa
inattendibilità delle dichiarazioni spontanee in
dibattimento.
Può dunque davvero ripetersi con serena coscienza
che – anche se LIPAROTA sostiene di non aver visto coi
propri occhi Giovanni SCATTONE sparare, né la pistola –
certamente le dichiarazioni di Gabriella ALLETTO circa
la presenza e le conseguenti responsabilità di Giovanni
SCATTONE e di Salvatore FERRARO hanno trovato nelle sue
dichiarazioni accusatorie rese nell’interrogatorio un
valido riscontro esterno individualizzante.
* * * * *
E’ altresì manifesto che tutto quanto sopra
comporta la responsabilità di Francesco LIPAROTA per il
reato di favoreggiamento personale per il quale è
imputato e per il quale, in accoglimento dell’appello
del PM e del PG, deve essere condannato: è infatti
palese fin dall’inizio, fin dal primo giorno,
lapidariamente espressa in quel “sarei stato uno di
loro” la sua “scelta di campo” in favore degli imputati
e non della verità, scelta di campo per la quale si è
indotto a mentire “aiutandoli ad eludere le
investigazioni delle autorità” secondo il testo
dell’art. 378 CP.
E’ per questo motivo che non ha fondamento la
richiesta di assoluzione del LIPAROTA in applicazione
407
della figura dell’“autofavoreggiamento mediato”:posto
che, ovviamente, egli risponde del reato per le sue
dichiarazioni rese in veste di persona informata dei
fatti (fin dal 21 maggio 1997) e non di indagato o
imputato di omicidio, in punto di fatto non è vero che
egli nella fase iniziale delle indagini e prima del
proprio arresto, sentito a “SIT”, abbia dovuto mentire
per salvare sé stesso; non è vero che negare la
presenza di FERRARO e SCATTONE in sala assistenti (e lo
sparo del colpo di pistola) fosse l’unico modo per
scampare l’accusa di omicidio. Anzi, al contrario, è
stato proprio tacendo la verità che egli ha finito con
l’attrarre su di sé sospetti ancora maggiori, fino a
determinare, per la sua stessa condotta processuale,
quella imputazione per concorso in omicidio che non era
ipotizzabile in partenza e che non sarebbe mai stata
ipotizzabile se egli avesse tempestivamente esposto ciò
che sapeva.
In relazione ai motivi di impugnazione in ordine a
questo punto, è da dirsi che la responsabilità del
LIPAROTA per favoreggiamento si è concretizzata
immediatamente, assai prima che fosse anche soltanto
prospettabile una sua incriminazione per concorso in
omicidio.
Non opera dunque nei suoi confronti, sotto questo
profilo, la scriminante prevista dell’art. 384 CP.
Premesso che tale scriminante speciale richiede
che il soggetto abbia agito “costretto dalla
necessità” di evitare “un grave nocumento nella
libertà o nell’onore”, non è mai accaduto in punto di
408
fatto che LIPAROTA sia stato costretto a mentire –
negando la presenza proprio e degli altri in sala
assistenti – dalla necessità di evitare né un danno
all’onore – naturalmente – né un danno per la propria
libertà sub specie di imputazione per omicidio.
* * * * *
Non opera assolutamente la scriminante di cui
all’art. 384 CP, in favore di Francesco LIPAROTA,
neppure nel senso in cui è stata applicata a Gabriella
ALLETTO; e dunque non può essere accolto neppure il
motivo d’appello attinente a quella sorta di “giudicato
interno” che si sarebbe creato con la mancata
impugnazione della assoluzione di Gabriella ALLETTO,
tale da potersi estendere anche a LIPAROTA, rendendo
illegittimo, inammissibile, improponibile o perento
l’appello dell’organo dell’accusa contro di lui.
In proposito non soltanto è da rimarcare che
LIPAROTA non ha mai neppure accennato ad un proprio
“condizionamento” legato all’ambiente di lavoro, al suo
ambiente d’ufficio, alla “valanga” che gli sarebbe
caduta addosso; ma è risultato (“sarei stato uno di
loro” andando alla cena a casa SCATTONE l’indomani del
ferimento di Marta RUSSO) che la sua scelta di
“favorire” SCATTONE e FERRARO è stata immediata e
precedente a qualsiasi ipotizzabile difficoltà di
questo tipo: una “scelta” di pura omertà, non motivata
da nessuna della ragioni psicologiche che hanno
giustificato per la ALLETTO la pronuncia di una
sentenza assolutoria.
409
Francesco LIPAROTA non aveva certo ricevuto quella
pressante sollecitazione telefonica di “resistere”,
“al nemico”, con le “barricate”, che la ALLETTO ebbe
nientemeno che dalla moglie del Direttore
dell’Istituto!
* * * * *
Quanto alle minacce da lui asseritamene ricevute,
questa Corte condivide la valutazione esposta da parte
degli Uffici del Pubblico Ministero che hanno proposto
impugnazione, nel senso che non opera nel caso presente
alcuna scriminante.
Va precisato che in relazione alla fattispecie in
esame deve trovare applicazione non l’art. 384 CP – che
parla solo di “grave e inevitabile nocumento nella
libertà o nell’onore”, ma l’ordinario stato di
necessità previsto dall’art. 54 CP, per il quale
occorre la “necessità di salvare sé od altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona”, non
altrimenti evitabile.
A fronte di tale previsione normativa, non basta
un vago e generico accenno ad imprecisate “ritorsioni”,
con le quali sarebbe stato “fatto del male”, sia pure
nei confronti non solo del medesimo Francesco LIPAROTA
ma anche dei suoi familiari.
La giurisprudenza è costante – né potrebbe essere
diversamente, stante la chiara dizione della legge –
nel richiedere, ai fini della configurabilità
dell’esimente, che la necessità di evitare il danno
grave alla persona sia imperiosa e cogente, tanto da
410
non lasciare altra scelta; che sussista la concreta
immanenza di una situazione di grave pericolo,
caratterizzata dalla indilazionabilità e dalla
insostituibilità del comportamento illecito, tanto da
non lasciare all’agente altra alternativa che quella di
violare la legge; che deve essere esclusa la
sussistenza di tale causa di giustificazione quando il
soggetto possa sottrarsi alla costrizione facendo
ricorso alle Autorità, a cui va chiesta tutela.
Soltanto la mamma, Rosangela VILLELLA, racconta,
come si vedrà, che Francesco le avrebbe detto: “Mi
hanno minacciato che mi ammazzano”; ma ciò non ha avuto
conferme, anzi, facendo riferimento al padre di
FERRARO, direttore di banca a Locri, è sembrato quasi
alludere a “ritorsioni” finanziarie o patrimoniali e in
ogni caso non ad “una danno grave alla persona”.
* * * * *
Sembra a questa Corte particolarmente grave la
condotta del LIPAROTA per il mancato contributo (che
egli continua negare) su fatti e circostanze
estremamente importanti per la più piena ricostruzione
di un caso così delicato sul piano giudiziario e così
atroce sul piano umano; ciò in quanto egli, a
differenza di Gabriella ALLETTO, si trovava nell’aula
n. 6 da prima che ne uscisse “il quarto uomo”, lo
”sconosciuto” di cui la donna ha parlato, e che
probabilmente per lui non era affatto “sconosciuto”; in
quanto egli sa come e perché la pistola si è trovata in
quella sala assistenti e nelle mani di SCATTONE; in
411
quanto avrebbe potuto e dovuto fornire ben più ampi ed
utili chiarimenti sulla vicenda.
412
ULTERIORI ELEMENTI DI GIUDIZIO
III
GLI ALIBI DI SCATTONE E FERRARO
Ulteriori elementi per la decisone, in relazione
alle dichiarazioni accusatorie di Gabriella ALLETTO,
posso trarsi dal fallimento, o meglio dalla constatata
falsità dell’alibi dedotto da Salvatore FERRARO e dalla
assoluta inconsistenza di quello di SCATTONE.
Ciò, beninteso, dal solo punto di vista del
controllo delle loro dichiarazioni specifiche, e senza
tener conto di quanto già risulta – ovviamente, anche
in relazione agli alibi – dalle dichiarazioni di
Giuliana OLZAI, di Francesco LIPAROTA, di Gabriella
ALLETTO e di Maria Chiara LIPARI, che li rendono
chiaramente falsi entrambi.
Entrambi gli argomenti, già esposti in narrativa,
sono stati ampiamente analizzati nella sentenza
impugnata, per più di duecentocinquanta pagine (dalla
677 alla 939), con completa esposizione degli elementi
di fatto da intendersi qui riportati, per cui non si
procederà in questa sede ad una nuova narrazione ma a
413
ripercorrere le valutazioni su tali argomenti, tenendo
conto naturalmente dei motivi di impugnazione.
* * * * *
* * * * *
* * * * *
414
L’ALIBI DI SALVATORE FERRARO
Esaminando la situazione probatoria in relazione
all’alibi dedotto da a Salvatore FERRARO, occorre
precisare da un lato che esso consiste in linea di
massima nell’essersi trattenuto in casa per tutta la
mattinata del 9 maggio, senza essere andato affatto in
Istituto o all’Università; dall’altro che egli ha man
mano fornito una quantità di precisazioni e chiarimenti
al riguardo; precisazioni che sono state ritenute in
primo grado – e questa Corte concorda su tale
valutazione – come una serie di progressivi
“aggiustamenti” modellati sulle risultanze che man mano
emergevano dalle indagini; “aggiustamenti” tali da far
ritenere menzognere le dichiarazioni precedenti, e
spesso rivelatisi poi menzogneri a loro volta.
Da rilevare in proposito che a sostegno della sua
affermazione di essere rimasto tutta la mattinata in
casa, dove c’era anche la sorella Teresa, FERRARO aveva
portato la circostanza di aver ricevuto durante la
mattinata molte telefonate, come di solito, dalla sua
amica Marianna MARCUCCI.
Questa imputata – assolta in primo grado – si è
avvalsa della facoltà di non rispondere e si è dunque
415
sottratta al contraddittorio, e in particolare
all’esame degli imputati SCATTONE e FERRARO e delle
loro difese; tuttavia si può tener conto, a norma
dell’art. 1 comma 2 del DL 7 gennaio 2000 n. 2, delle
sue dichiarazioni rese nelle indagini preliminari e
acquisite al fascicolo del dibattimento, in quanto
confermate da altri elementi di prova diversamente
formati, quali i tabulati telefonici TELECOM.
* * * * *
Dagli accertamenti – vedi anche le tabelle
riportate alle pagine 696 e 706 della sentenza di primo
grado – è risultato:
– che la TELECOM non registra in alcun modo le
chiamate che non ricevano risposta, poiché il timer si
avvia solo quando si “alza” l’apparecchio ricevente;
– che le “molte telefonate” di Marianna MARCUCCI
nella mattina del 9 maggio erano state sostanzialmente
due, giacché ella parlò al telefono con qualcuno in
casa di Salvatore FERRARO – alle 8,33, alle 10,55, alle
13,05 e alle 14,07 del 9 maggio;
– che la telefonata della MARCUCCI delle 10,55 fu
effettuata da una cabina nel perimetro dell’Università
e durò 56 secondi;
– che la MARCUCCI effettuò un’altra chiamata da un
apparecchio telefonico pubblico situato in un bar sotto
casa del FERRARO alle ore 11,37 e 12”;
– che però questa telefonata è risultata diretta a
casa della stessa MARCUCCI e non a casa del FERRARO
come la MARCUCCI aveva riferito;
416
– che nessuna telefonata fu effettuata da casa
FERRARO, né alcuna vi giunse (o almeno nessuno rispose)
tra le 11,17 e 06” (fine di una telefonata con tale
Domenico ALBANESE) e le 12,56 e 33” (inizio di una
telefonata con Giovanni SCATTONE).
– che l’ALBANESE ha confermato di aver effettuato
una telefonata a casa FERRARO – durata undici minuti,
dalle 11,06 alle 11,17 -, senza poter ricordare se
avesse parlato con Salvatore, con Teresa o con
entrambi.
– che Salvatore FERRARO abitava in via Pavia, a
pochi minuti di strada a piedi dall’Università.
* * * * *
Da tali risultanze certe è agevole dedurre che in
casa FERRARO nessuno fece uso del telefono, né in
entrata né in uscita (come se in casa non vi fosse
nessuno) tra le 11,17 e le 12,56, proprio durante un
periodo di tempo largamente sovrapponibile al momento
dello sparo (11,42 circa) e della vicenda OLZAI,
compreso il tempo necessario per uno spostamento, anche
a piedi, da casa all’Università e viceversa.
Risulta particolarmente importante – perché
costituisce anch’essa un dato certo – la telefonata di
Marianna MARCUCCI delle ore 11,37 e 12” (quasi
sovrapponibile all’ora del delitto), che la ragazza
fece verso casa propria da un bar sotto casa di
FERRARO.
Se ne può arguire che ella, non ricevendo risposta
dall’interno dell’abitazione di FERRARO, abbia
417
telefonato a casa propria, dal bar, per una qualche
ragione (nulla vieta di accettare la ragione da lei
dichiarata circa la situazione scolastica di sua
sorella); ma è assai presumibile che, una volta giunta
sotto casa dell’amico, non avrebbe telefonato a casa
propria da un bar ma l’avrebbe fatto comodamente da
casa di FERRARO dopo essere salita; e che sarebbe
salita o dopo aver suonato il campanello (che non
lascia tracce in nessun tabulato) o dopo aver
telefonato per avvertire.
Da notare che la MARCUCCI ha affermato che “di
solito” telefonava a casa FERRARO dal bar, per
avvertire del suo arrivo: ma, poiché di questa
telefonata in quel giorno e a quell’ora non c’è
traccia, bisognerebbe pensare che proprio quel giorno,
sfortunatamente per FERRARO, non l’abbia fatta, pur
essendo entrata nel bar per telefonare a casa propria.
E’ altresì assai significativo il fatto che anche
quando Salvatore FERRARO renderà dichiarazioni
completamente diverse, e sosterrà di essere uscito da
casa per accompagnare in strada la MARCUCCI, non
menzionerà affatto alcuna telefonata che l’amica
avrebbe fatto, dal bar, a casa sua. Resta così
confermato che questa telefonata, che certamente fu
fatta dal bar alle 11,37 (uno dei pochi fatti, sul
punto, controllabili e certi) sarebbe stata effettuata
non in occasione di questa asserita uscita, ma al
momento dell’arrivo della MARCUCCI sotto casa FERRARO.
Resta perciò accertato:
418
– che la telefonata che la MARCUCCI avrebbe, “come
al solito”, fatto per avvertire FERRARO non risulta dal
tabulato (che però non registra le chiamate non
risposte);
– che la ragazza ha parlato con casa propria
chiamando dal bar, e non – più comodamente – da casa
FERRARO; sicché l’unica spiegazione, in coerenza col
primo dato, è che in detta casa non abbia trovato
nessuno.
Sono da porre in grande evidenza, ancora, due
elementi:
– che la MARCUCCI, nel riferire di questa
telefonata dal bar sotto casa di FERRARO, soggiunge che
al termine se ne andò a casa, dove arrivò verso le
12,20 o 12,30 al massimo; senza alcuno spazio per una
visita a casa di FERRARO, né prima né dopo!
– che risulta per certo che Giovanni SCATTONE
chiamò casa FERRARO, parlando con l’amico, alle 12,56,
ma aveva già chiamato alle 12,44 senza ricevere
risposta; ciò è documentato pacificamente dal
centralino dell’Università, che segna tutte le chiamate
in uscita, (ancorché, in perfetta armonia con i dati
TELECOM, che non registrano le chiamate non risposte,
non risulti dal tabulato delle telefonate in entrata a
casa FERRARO), e dimostra che a quell’ora né Salvatore
né Teresa erano in casa!!!
* * * * *
419
Salvatore FERRARO nel primo interrogatorio da
indagato (17 giugno 1997, in stato di custodia in
carcere), pur confermando:
– di aver ricevuto, verso le 12,15-12,30 una
telefonata da SCATTONE che si trovava in “Sala
Cataloghi” e che gli parlò del compleanno di Serena
MARCUCCI sorella di Marianna;
– di aver appreso del ferimento di una ragazza
all’Università dopo le 13 dal telegiornale;
– di essersi recato, verso le 16-16,30, per
curiosità, all’Università senza trovare nessuno e senza
neppure individuare il luogo del ferimento;
ha puntualizzato:
– che ribadiva di non essersi assolutamente recato
in Istituto la mattina del 9 maggio, nella quale era
rimasto a casa con la sorella Teresa;
– che – ricordando meglio in proposito – non aveva
in realtà ricevuto “molte telefonate” dalla MARCUCCI
perché questa era andata a trovarlo a casa;
– che la MARCUCCI era giunta verso le 10,30-11
trattenendosi circa un’ora o un’ora e mezza.
* * * * *
In dibattimento ha ancora precisato:
– che nel corso della mattinata del 9 maggio,
essendosi trattenuto a casa, aveva ricevuto alcune
telefonate: da Marianna MARCUCCI, da Domenico ALBANESE
e da Domenico CONDEMI (oltre a quella, già citata, di
SCATTONE dalla Sala Cataloghi, collocata dal FERRARO
420
verso le ore 12,15-12,30 e svoltasi in realtà, in base
ai tabulati, dalle 12,56 alle 12,59.
– che verso le 11,30 la sorella Teresa era uscita
per andare a fare ginnastica;
– che verso le 11,45 egli ricevette la visita
della Marianna MARCUCCI;
– che questa andò via verso le 12-12,30;
– che egli la accompagnò in strada, e furono visti
e salutati dalla sorella Teresa che tornava dalla
palestra;
– che, tornato a casa, ricevette la telefonata di
SCATTONE;
– che non molto tempo dopo apprese la notizia del
ferimento di Marta RUSSO dalla televisione.
– che se nelle sue dichiarazioni c’erano stati
errori, dimenticanze, piccole discrasie, ciò era dipeso
proprio dalla assoluta “normalità” della mattina del 9
maggio, nella quale non aveva fatto e non era successo
assolutamente nulla di notevole che potesse aiutarlo a
ricordare.
* * * * *
Osserva questa Corte come balzi evidente dalla
semplice lettura di quanto sopra la serie di menzogne
che hanno sempre caratterizzato la ricostruzione della
mattinata del 9 maggio 1997 da parte di Salvatore
FERRARO ed il progressivo “aggiustamento” dell’alibi da
lui prospettato rispetto alle risultanze certe delle
indagini, di cui man mano veniva a conoscenza:
421
– dapprima si afferma di aver trascorso la mattina
in casa a studiare, rispondendo alle “molte
telefonate” di Marianna MARCUCCI;
– quasi subito spariscono le “molte telefonate” –
che non erano risultate dal tabulato – per essere
sostituite da una visita della MARCUCCI;
– si assegna a quest’ultimo evento un lasso di
tempo estremamente elastico (fra le 10,30 e le 11
l’arrivo e fra le 11,30 e le 12,30 il commiato);
– in prosieguo di tempo si sposta l’arrivo della
MARCUCCI alle 11,45 (in corrispondenza con la sua –
certa – telefonata dal bar alle 11,37);
– si dà rilievo alla presenza della sorella Teresa
FERRARO, si specifica il suo essere andata in palestra,
ma non si fanno incontrare le due ragazze, dato che
Teresa sarebbe uscita prima dell’arrivo della MARCUCCI;
– infine si introduce da parte di Salvatore
l’ulteriore novità di aver accompagnato in strada la
MARCUCCI e la conferma del loro incontro da parte di
Teresa, che li avrebbe salutati.
* * * * *
Posto che i tabulati TELECOM non sostengono
l’alibi di FERRARO – e che anzi sono molto sfavorevoli,
per lui, le conclusioni che si devono trarre dalla
vicenda attinente alla telefonata della MARCUCCI dal
bar sotto casa in ora prossima a quella dello sparo –
deve constatarsi che non gli giovano neppure le
complessive dichiarazioni dell’amica.
422
Va precisato che la MARCUCCI, a stretto rigore,
era imputata di favoreggiamento personale nei confronti
del FERRARO, soltanto per le dichiarazioni rese in
qualità di persona informata dei fatti il 12 giugno
1997, quando confermò le “molte telefonate” che FERRARO
aveva detto di aver ricevuto da lei il 9 maggio; ma poi
ha reso diversi altri esami e interrogatori (13, 14, 16
e 17 giugno, 11 luglio 1997); ed è stata assolta in
punto di dolo, non potendosi escludere, secondo la
Corte di primo grado, l’erroneità dei suoi ricordi nel
riferire dei fatti che sono risultati certamente non
veri.
In proposito è chiaro che le dichiarazioni del 12
giugno non possono essere ritenute attendibili
(smentite, appunto, dai tabulati); le successive –
utilizzabili, si ripete, perché (si pensi alla
telefonata dal bar) confermate dai tabulati, cioè da
“altri elementi di prova” diversi da dichiarazioni rese
da chi si sia sottratto al contraddittorio –
smentiscono chiaramente l’alibi dell’imputato, dal
momento che mai ella nomina Teresa FERRARO e che più
volte nega di ricordare di essere stata la mattina del
9 maggio a casa di FERRARO.
E’ da chiarire che anche nelle dichiarazioni della
MARCUCCI – imputata, si ripete, solo per quelle del 12
giugno – è riscontrabile una “evoluzione” di
“aggiustamenti”, affine a quella di FERRARO, e che non
merita di essere esposta passo passo; basterà mettere
in evidenza che:
423
– nell’interrogatorio del 17 giugno Marianna
MARCUCCI dapprima si è espressa in termini in qualche
modo ambigui: “io non ricordo di essere salita a casa
di FERRARO” la mattina del 9 maggio;
– poi ha praticamente escluso di esservi stata,
perché da un lato ha ribadito di “non essere in grado
di ricordare se quel giorno del 9 maggio sia stata a
casa di FERRARO”; e dall’altro ha riconosciuto che
“generalmente io telefono prima di salire e quel
giorno non ho telefonato”, come risulta appunto dal
tabulato.
– nell’interrogatorio dell’11 luglio è stata più
possibilista: “credo di ricordare di essere stata a
casa di FERRARO a parlare con lui la mattina del 9
maggio”; ma entrambe le volte, 17 giugno e 11 luglio,
ha collegato il proprio ricordo con una telefonata di
Alessandra VOZZO, che sarebbe giunta mentre si trovava
lì.
La circostanza è smentita per tabulas: una
telefonata della VOZZO giunse a casa FERRARO, il 9
maggio, alle ore 13,07, quando la MARCUCCI era casa
sua, tanto che aveva a sua volta telefonato alle 13,05;
il convincimento della stessa VOZZO di aver telefonato
più presto è rimasto privo di una qualsiasi conferma;
mentre, naturalmente, è ben possibile che la MARCUCCI,
come lei stessa ha ipotizzato, ricordi una telefonata
della VOZZO giunta in un altro giorno (verosimilmente
il giorno prima del 9 maggio).
* * * * *
424
Neanche Teresa FERRARO ha fornito un attendibile
alibi al fratello, pur confermandone l’ultima versione.
Ella ha dichiarato:
– che Salvatore rimase in casa tutta la mattina
del 9 maggio;
– che ella andò in palestra uscendo verso le
11,30;
– che pervenne la telefonata di Domenico ALBANESE
(quella durata undici minuti e terminata alle 11,17)
mentre si stava cambiando per andare a ginnastica
(aveva “le ante dell’armadio aperte”), e che Salvatore,
che aveva risposto, glielo fece salutare;
– che quando ella andò in palestra rimase in casa
il solo Salvatore;
– che fu di ritorno dalla palestra dopo circa tre
quarti d’ora e vide il fratello e la Marianna MARCUCCI
sotto casa, in via Pavia vicino all’edicola, verso le
12,20-12,30;
– che li salutò, aggiungendo che incrociò la
MARCUCCI con imbarazzo perché già aveva deciso di non
andare, quella sera, alla festa della sorella Serena;
– che Salvatore FERRARO risalì a casa pochi minuti
dopo di lei.
A specifiche domande ha risposto di non aver
sentito il telefono squillare a vuoto e di non aver
parlato con SCATTONE quando questi chiamò alle 12,56.
* * * * *
E’ certo che Teresa FERRARO è una testimone e che
la valutazione delle sue dichiarazioni non richiede i
425
“riscontri” che invece sono necessari per l’imputato di
reato connesso; ma è ovviamente quanto meno sospetta la
sua testimonianza in quanto sorella dell’imputato,
chiamata appunto a sostegno del suo alibi.
Occorre constatare che non si è trovato un solo
elemento di conferma alle sue dichiarazioni: non è
accaduto che il telefono abbia squillato a vuoto e che
lei o Salvatore non abbiano fatto in tempo a
rispondere; non c’è prova dell’ora in cui sarebbe
andata e tornata dalla palestra; ALBANESE non ha
confermato di aver parlato al telefono anche con
Salvatore oltre che con Teresa (malgrado le
sollecitazioni in udienza dell’uno e dell’altra); la
MARCUCCI non si è accorta di essere stata salutata; e
certamente le avrebbe rivolto la parola per via della
festa prevista per quella stessa sera, a cui la FERRARO
non andò ma a cui la MARCUCCI teneva in quanto
organizzata da sua sorella Serena.
Peraltro – e può ben dirsi che Salvatore FERRARO,
ed anche sua sorella Teresa, ne risultano smentiti
rispetto alle loro dichiarazioni in ordine all’alibi –
la MARCUCCI non ha mai detto di aver visto quel giorno
Teresa FERRARO né in casa né fuori; non ha mai detto di
essere stata accompagnata da Salvatore in strada quando
sarebbe andata via; è stata categorica nell’affermare
che “tutte le volte che abbiamo parlato con FERRARO di
quel 9 maggio ci siamo sempre rammentati solo delle
telefonate (inesistenti, salvo che alle 8,33 e alle
10,55) e mai di essere stati insieme”.
426
* * * * *
In definitiva, l’alibi di FERRARO:
– è oggettivamente inesistente, essendo egli
completamente “scoperto” dalla 10,56 alle 12,56 (o,
ammettendo che ALBANESE abbia parlato con lui, dalle
11,17), per un periodo di tempo che gli avrebbe
consentito di trovarsi in Istituto ben prima, almeno
dieci minuti prima di quel fatidico 11,42;
– in particolare è “scoperto” proprio per l’ora
del delitto, posto che alle 11,37 la MARCUCCI era nel
bar sotto casa e non gli poté fare una telefonata per
avvertirlo che sarebbe salita;
– ma l’alibi così dedotto è anche falso, nel senso
che l’imputato ha sempre mentito perché ha sostenuto, e
poi cercato di accreditare, sempre contrariamente al
vero, la tesi di aver trascorso tutta la mattina del 9
maggio 1997 in casa: ha mentito quando, in prima
battuta, ha fatto riferimento alle “molte telefonate”
della MARCUCCI (che lo avrebbe dovuto ritrovare sempre
a casa, pronto a rispondere, tutta la mattina); ma ha
mentito anche in tutti i progressivi “aggiustamenti”,
posto che in definitiva non è vero che la MARCUCCI andò
a casa sua in quelle ore, non è vero che lui la
riaccompagnò in strada, non è vero che ella sia stata
salutata vicino al portone da Teresa FERRARO che
tornava dalla ginnastica.
* * * * *
La difesa oppone a tutto ciò due argomenti.
427
Il primo è una telefonata intercorsa il 15 giugno
97, alle ore 22,46 tra Giorgio FERRARO, fratello di
Salvatore, e la loro madre, che dovrebbe dimostrare la
verità dell’incontro tra Salvatore e Marianna il 9
maggio.
Nella conversazione si accenna, a un certo punto,
a Teresa FERRARO, e forse anche a Marianna MARCUCCI.
“Giorgio FERRARO: E intanto a (“e”?) chi ti dice che
(parole incomprensibili) non.. favoreggiamento.
MADRE: Ah?
Giorgio FERRARO: A quella ragazza.. ma Teresa..
MADRE: Eh, ma… era là, poveraccia, pure lei.
Giorgio FERRARO: Era?
MADRE: Era che era andata con Salvatore…
Giorgio FERRARO: Dove… ah sì?
MADRE: Sì, eh Teresa poi li ha visti sotto… è venuta
quando non l’ha vista là, è venuta a chiamarlo”.
In realtà – tenuto conto che siamo alla sera del
15 giugno (Salvatore è stato arrestato la notte
precedente), e che dal 9 maggio è passato più di un
mese – la conversazione non è di sicura
interpretazione:
– si deduce che la “poveraccia” sia Marianna
MARCUCCI per il solo fatto che “Teresa poi li ha visti
sotto”, con un palese errore di logica, perché si dà
per dimostrato, ed anzi per “argomento” della
dimostrazione, proprio ciò che deve essere dimostrato;
– si dice che “era là, pure lei”, (e questo
“tornerebbe”), ma poi si aggiunge che “era andata con
Salvatore”, e non si capisce più dove fosse “andata”;
428
– quando poi si conclude che è venuta (chi?
Teresa? o Marianna? ndr) è venuta quando non l’ha
vista là, è venuta a chiamarlo”, allora proprio la
situazione non corrisponde più, ed è probabile che si
parli di chissà quale altro fatto e di chissà quale
altra persona, giacché certamente Marianna MARCUCCI non
era “venuta a chiamarlo” (e neppure Teresa era, in
ipotesi “venuta a chiamarlo”, non si sa perché), né
Teresa “è venuta quando non l’ha vista là”; frase che,
con riferimento ai rapporti tra Teresa e Marianna il 9
maggio, è del tutto priva di senso.
* * * * *
Il secondo argomento della difesa è fondato sulle
deposizioni di molti studenti, assistenti e impiegati
presenti il 9 maggio 97 nel corridoio e nelle stanze
dell’Istituto di Filosofia del Diritto, i quali hanno
dichiarato di non avere visto (o di non ricordare di
avere visto) Salvatore FERRARO, quella mattina, in
Istituto.
La sentenza di primo grado con la diligentissima
ricostruzione della mattinata in Istituto, già
riportata in questa motivazione, ha accertato che
nell’arco della mattinata sono comparsi in Istituto, in
diverse ore a seconda delle rispettive incombenze e
trattenendosi ognuno secondo le proprie esigenze (oltre
a LIPARI, ALLETTO, LIPAROTA e Giovanni SCATTONE): il
prof. ROMANO, gli impiegati URILLI, BASCIU, RAGNO e
ARIEMMA, gli studenti Claudio ORIOLO, Beniamino IORIO,
Anna GARCEA, Simona QUARANTA, Giacomo CALIENDO, Simone
429
BRUNO, Francesco ESPOSTO, Irene CASTIGLIA, Cristiana
IANNETTI, e Federica GIUBILO, i borsisti Stefano LA
PORTA, Benedetta FAEDI e Giuseppe GERACE, gli
assistenti TRONCARELLI e SAVARESE, le ricercatrici
AVITABILE e LODOLINI.
Le difese hanno posto in rilievo, con molta forza,
la circostanza – che è loro apparsa addirittura una
“stranezza” – per la quale nessuno di costoro (e
certamente vi erano anche molte altre persone che non
sono state identificate o sentite) ha mai riferito né
di aver visto in Istituto FERRARO e SCATTONE in orario
coincidente con il delitto, né di aver sentito alcun
“tonfo” o colpo.
A proposito di quest’ultima osservazione è agevole
ribattere che secondo l’ipotesi alternativa il colpo di
pistola sarebbe partito dal bagno disabili di
Statistica, ma neppure le altrettanto numerose persone
che lavoravano nei locali ad esso attigui lo hanno mai
sentito; non solo, ma tranne i presenti in aula 6, esso
non è stato sentito da nessun altro, benchè – purtroppo
– certamente da qualche parte sia stato certamente
sparato. In realtà il colpo è stato sentito da FERRARO
(che si è messo “le mani tra i capelli”), da ALLETTO e
da LIPAROTA, e poi all’esterno, da tutti coloro che,
come si è ben visto, lo hanno udito provenire
“dall’alto” e “da dietro”.
* * * * *
Quanto all’altro argomento, certamente non è onere
della difesa quello di sobbarcarsi la “probatio
430
diabolica” di una prova negativa diretta a dimostrare
che FERRARO e SCATTONE non fossero in Istituto – a
parte la deduzione di un alibi, che è cosa diversa, in
quanto fa parte delle dichiarazioni dell’imputato, e
che si atteggia comunque come una prova positiva e non
“diabolica” –; ed infatti l’argomento non raggiunge lo
scopo, poiché è fin troppo facile osservare che nessuna
delle numerose persone sopra elencate ha notato la
presenza di FERRARO e SCATTONE o perché – come gli
studenti – erano impegnati in attività che assorbivano
la loro attenzione (molti addirittura chiusi dentro
stanze diverse dalla sala assistenti), o perché – come
il personale in qualche modo addetto all’Istituto, dal
prof. ROMANo all’ultimo borsista – non aveva motivo di
fare mente locale su questa o quell’altra persona che,
come FERRARO e SCATTONE, ne sono abituali
frequentatori.
Nella sentenza di primo grado sono ben messe in
rilievo le incongruenze in proposito, assolutamente
“normali”: la URILLI non vede SCATTONE in Istituto
neppure dopo le 12,30, quando lui stesso dice di
esservi stato; SCATTONE in questa circostanza fa una
telefonata in presenza di LA PORTA quando entra la
CASTIGLIA, che però non lo vede (o meglio – come tutti
si esprimono sia nei confronti di SCATTONE che di
FERRARO: “non si ricorda di averlo visto”); lo stesso
LA PORTA predispone le schede per il ritiro di libri in
biblioteca a LODOLINI e IANNETTI, ma non se ne ricorda.
Insomma, è un argomento che non prova nulla a
favore degli imputati.
431
* * * * *
Va infine richiamata, per completezza, quella
parte della sentenza impugnata (dalla pagina 795 alla
812) nella quale si mette in evidenza come Salvatore
FERRARO nei giorni successivi al delitto lanciò
messaggi trasversali e inquietanti – come si è visto –
proprio a Francesco LIPAROTA (l’episodio della
telefonata da “uno di giù”), seminò dubbi e sospetti su
terzi (lo studente in tuta mimetica), ripeteva
continuamente a tutti che lui la mattina del 9 maggio
non era in Istituto ed esercitò suggestioni su
possibili testimoni (ESPOSITO, perfino FIORINI)
affinché costoro “ricordassero” e confermassero la sua
assenza dall’Università la mattina del 9 maggio.
* * * * *
In sostanza, intravisto da Maria Chiara LIPARI che
ne ricorda in aula 6 la faccia “pallida”, visto e
indicato (con SCATTONE) da Francesco LIPAROTA, al quale
non volle spiegare “cosa fosse successo” e che anzi
minacciò di “ritorsioni”, visto e fermissimamente
accusato (con SCATTONE) da Gabriella ALLETTO anche in
sede di confronto – “Confessate è quello che dovete
fare voi; io l’ho fatto -; visto in fuga da Giuliana
OLZAI, pochi minuti dopo il delitto con la cartella in
mano diretto (con SCATTONE) verso un’uscita sul retro,
Salvatore FERRARO ha tentato di costruirsi un alibi che
è risultato non solo sfornito di prova, ma decisamente
falso.
432
La conclusione da trarsi, in punto diritto, è
dettata in termini testuali dalla Cass, sez. 2, 6
dicembre 1996, ARENA:
“In tema di valutazione della prova l’alibi falso,
in quanto sintomatico, a differenza di quello non
provato, del tentativo da parte dell’imputato di
sottrarsi all’accertamento della verità, deve essere
considerato come un indizio a carico, il quale, di per
sé inidoneo a fondare il giudizio di colpevolezza,
costituisce tuttavia un riscontro munito di elevata
valenza dimostrativa dell’attendibilità delle
dichiarazioni del chiamante in (cor)reità, ai sensi
del terzo comma dell’art. 192 CPP”: un ulteriore
riscontro esterno individualizzante.
* * * * *
433
L’ALIBI DI GIOVANNI SCATTONE
Essendo l’alibi di Giovanni SCATTONE assai più
complesso nella sua formulazione narrativa rispetto a
quello di Salvatore FERRARO, appare opportuna una
ricapitolazione delle sue deduzioni al riguardo, allo
scopo di valutarne criticamente i risultati, anche in
relazione ai motivi di impugnazione.
Peraltro è da rilevare subito che Giovanni
SCATTONE non propone, in realtà, un vero e proprio
alibi, dal momento che egli si colloca nella mattinata
del 9 maggio, più o meno all’ora del delitto, o
prossimo a giungere o già arrivato all’Università,
nella facoltà di Lettere, a poche centinaia di metri
dai locali dall’Istituto di Filosofia del Diritto, nei
quali giunge a suo dire non molto dopo il fatto (quando
ancora nessuno sa niente, e comunque non se ne parla) e
si trattiene fino alle ore 13.
Poiché tutti gli orari da lui riferiti sono
estremamente approssimativi ed incontrollabili, e le
distanze fra i luoghi menzionati sono minime sia in
termini di spazio che di tempo, una valutazione
dell’alibi è affidata a controlli incrociati a loro
volta piuttosto imprecisi.
434
* * * * *
L’imputato ha sostenuto, negli interrogatori e in
dibattimento, di essere uscito di casa intorno alle ore
10 e di essersi recato direttamente a “Villa Mirafiori”
in via Nomentana, sede della Facoltà di Filosofia, dove
intendeva prendere cognizione dei programmi del nuovo
anno accademico, salutare il prof. Eugenio LECALDANO e
fargli sapere che aveva vinto una borsa di studio a
Napoli.
Giunto in un’ora compresa tra le 10 e tre quarti e
le 11,20, salì al terzo piano, dove si trova lo studio
del prof. LECALDANO, e, avendo trovato chiusa la porta,
attese nel corridoio antistante. Dopo pochi minuti uscì
il prof. LECALDANO, il quale, dopo un breve colloquio
con lui, rientrò nello studio, prese e gli consegnò il
programma di un Seminario (“UNIVERSALISMO IN ETICA”) da
tenersi in giugno a Villa Mirafiori.
E’ da precisare a questo proposito che erano stati
predisposte due locandine, dal momento che la data del
seminario era stata spostata, da quella originaria del
6 giugno, al 16 giugno; e che secondo Giovanni SCATTONE
egli aveva avuto dal Prof. uno stampato con la data
“vecchia” corretta a mano dallo stesso LECALDANO e che
egli stesso aveva provveduto a “ripassare” di suo
pugno, come si vede nel reperto in atti.
Attraverso la porta, SCATTONE vide di spalle,
all’interno dello studio alcune persone, tra cui
riconobbe il dott. Simone POLLO e la dott.ssa Laura
CANAVACCI, che erano seduti davanti alla scrivania del
professore.
435
Lasciò Villa Mirafiori verso le 11,30 e con
l’autobus 310 raggiunse dopo circa un quarto d’ora
l’Università; si recò alla Facoltà di Lettere alla
quale era iscritto, e, dopo avere verificato la data
dell’esame di Storia dell’Europa, si recò nella
Segreteria della stessa Facoltà, ove giunse verso le
11,50.
Richiese ed ottenne, previa consegna istantanea,
un certificato di convalida degli esami sostenuti.
Impiegò per questo circa venti minuti e uscì da una
porticina laterale perché il cancello di ingresso alla
Segreteria, che chiude alle ore 12, era già chiuso.
Verso le 12,20-12,30 giunse alla Facoltà di
Giurisprudenza, entrando dall’ingresso principale.
Si recò in Sala Cataloghi, ove incontrò il
borsista Stefano LA PORTA, con cui si trattenne a
parlare fin verso le 13. Dalla Sala Cataloghi telefonò
a casa di Salvatore FERRARO verso le 12,40. Andò via
verso le ore 13 uscendo dall’ingresso principale, senza
aver saputo del ferimento di Marta RUSSO. Lo apprese da
Marianna MARCUCCI, che gli telefonò nel pomeriggio.
* * * * *
La difesa ha ribadito, anche nei motivi d’appello,
che l’alibi prospettato dall’appellante, è
perfettamente dimostrato, giacché:
– il Prof. LECALDANO il 9 maggio era a Villa
Mirafiori e incontrò Giovanni SCATTONE, come è
dimostrato dallo stampato sul convegno “INCONTRO
436
SEMINARIALE DI STUDIO – UNIVERSALISMO IN ETICA” che
l’imputato ha potuto produrre;
– l’incontro è certamente avvenuto di venerdì, e
non può essere avvenuto in altro giorno che venerdì 9,
sia perché il Prof. LECALDANO dette allo SCATTONE il
programma “vecchio” per il convegno sull’ETICA, sia per
i dati sugli impegni del Professore che sono ricavabili
dalla sua stessa agenda;
– Giovanni SCATTONE ha prodotto il certificato
della Segreteria della facoltà di Lettere; esso è del 9
maggio, è rilasciato a Giovanni SCATTONE, è firmato
dall’impiegata di sportello Marcella FALSI, e non è
lecito accettare come prova contraria la mera ipotesi
che possa essere stato ritirato da altra persona o in
altra data;
– sempre secondo la difesa, l’orario in cui
sarebbe stata compiuta tale attività colloca Giovanni
SCATTONE alla Facoltà di Lettere, o in procinto di
giungervi da Villa Mirafiori, nel momento in cui fu
ferita Marta RUSSO;
– infine il sopraggiungere di SCATTONE in Istituto
di Filosofia del Diritto, con i relativi orari, sarebbe
dimostrato dalle testimonianze congiunte e convergenti
di Pierpaolo FIORINI e di Stefano LA PORTA, che hanno
riferito dell’arrivo di SCATTONE in orario successivo
al ferimento.
* * * * *
Reputa questa Corte, come del resto è accaduto in
primo grado, che l’alibi di SCATTONE sia da considerare
437
“fallito”; e ciò proprio a partire dal primo momento,
giacché non è vero che egli uscì di casa alle 10 per
andare a Villa Mirafiori: alle 9,30 era già in
Istituto!!!.
Occorre considerare infatti che Francesco LIPAROTA
nella sua deposizione del 21 maggio ha dichiarato di
aver visto Giovanni SCATTONE nell’Istituto di Filosofia
del Diritto verso le ore 9,30 del 9 maggio, con una
affermazione che non è stata mai smentita dal medesimo
LIPAROTA, né in alcuna delle due ritrattazioni
predibattimentali, e neppure nella sua lunghissima
dichiarazione spontanea in dibattimento.
Questa affermazione mai revocata non può essere né
sommariamente liquidata come non vera né sottovalutata
nella sua portata, giacché LIPAROTA non si è limitato a
ricordare confusamente di averlo appena intravisto, ma
ha precisato che SCATTONE si fermò a parlare in sala
cataloghi, per pochi minuti, anche con lui, ed ha poi
aggiunto che lo incontrò nuovamente nel corridoio,
pochi minuti dopo che lo stesso SCATTONE era uscito
dalla sala cataloghi.
Si tratta dunque di un ricordo che riguarda un
episodio di una certa consistenza, articolato in
diverse fasi e narrato nei particolari.
E’ da notare che il ferimento di Marta RUSSO non è
stato premeditato: e dunque SCATTONE alle 9,30 del 9
maggio non aveva alcun motivo per “nascondersi”;
d’altra parte LIPAROTA quando ha reso tale
dichiarazione (il 21 maggio) non aveva – in quel
momento – nessun motivo per mentire a danno di SCATTONE
438
(semmai il contrario); di tal che l’unica ipotesi per
un dubbio su questa dichiarazione è che LIPAROTA abbia
sbagliato giorno, riferendo al 9 maggio ciò che – in
ipotesi – avrebbe potuto essere accaduto in altra
mattina.
Sennonché è da escludere che questo errore si sia
verificato, non solo perché ovviamente il 21 maggio,
dopo il ritrovamento della particella sul davanzale
dell’aula 6, la polizia aveva convocato decine di
persone proprio per accertare quali fossero stati i
presenti in Istituto il 9 maggio e dunque tutti erano
chiamati ad una particolare attenzione, ma soprattutto
perché LIPAROTA ha ricollegato la presenza di SCATTONE
alla presenza in sala cataloghi, quali borsisti addetti
alla distribuzione dei libri, di Benedetta FAEDI e
Stefano LA PORTA, la cui presenza quel giorno, in
quella mansione e in quel momento è stata positivamente
accertata. E’ vero quanto replica la difesa : nè l’uno
né l’altra hanno dichiarato di aver visto SCATTONE in
tale orario; ma LIPAROTA non ha sostenuto che costoro
lo avessero visto e avessero parlato con SCATTONE: li
ha menzionati solo per corroborare un proprio ricordo.
E’ chiaro che questo primo punto fermo – la
presenza di SCATTONE in Istituto fin dalle 9,30 – getta
una luce negativa su tutto il racconto di Giovanni
SCATTONE in ordine ai propri movimenti.
* * * * *
Nessuna conferma all’alibi di SCATTONE è venuta
dal prof. Eugenio LECALDANO.
439
Nell’arco di una lunga deposizione dibattimentale
– che si è attirata gli strali della difesa per una
presunta pavidità del teste, il quale è apparso invece
soltanto pressoché privo di ricordi certi, assai
scrupoloso e poco propenso a dare per sicuro ciò che
sicuro non è – questi ha riconosciuto che un giorno
vide SCATTONE a Villa Mirafiori (egli propenderebbe per
fissare l’orario “nella tarda mattinata”, “verso la
fine dei lavori, 12,30”) e gli dette il programma del
Seminario di Etica, ma non è stato in grado né di
ricordare in quale giorno ciò fosse avvenuto né se gli
avesse consegnato il programma “vecchio” o quello
ristampato, né ha menzionato i rallegramenti per la
borsa di studio vinta da SCATTONE per l’Università di
Napoli, né di collegare l’incontro con l’imputato con
la presenza nel suo studio dei dottori POLLO e
CANAVACCI; tanto che la difesa di SCATTONE è costretta
a dedurre che si trattava proprio del 9 maggio per
mezzo di tutta una serie di passaggi logici attraverso
numerosi dati, raccolti però con molte riserve in
ordine alla loro certezza.
* * * * *
Per la verità, un punto fermo sembrava raggiunto
quando, nel ricostruire i vari “collegamenti”
mnemonici, il professore parlò appunto di “tarda
mattinata: ore 12,30”, quando le sue attività “sono
terminate. E poi e… mi ricordo che dopo, quello
venne dopo, che andai in libreria e poi arrivai a
casa, e ricordo questa cosa, forse io non l’ho detto
440
ma questo me lo ricordo bene, che arrivai all’una e
mezza aprii il telegiornale e sentii questa cosa
tremenda (del ferimento di Marta RUSSO).”
Ma poi si è tornati sull’argomento e la cosa è
stata definitivamente chiarita in senso opposto:
AVV. FLAMMINI: (…) lei alla fine ha detto una cosa
che a me pare molto interessante, che lei tornando a
casa quel giorno 9 maggio, all’una e mezza, ha appreso
dalla televisione…
LECALDANO: sì.
AVV. FLAMMINI: …del ferimento. E lei ha collegato il
ferimento con la presenza di SCATTONE quella mattina
all’Università.
LECALDANO: eh… io non sarei sicuro, io mi son…
ancora su questo devo dire che… tenete conto che io
ho ricostruito questa cosa un mese… un mese dopo,
più di un mese dopo con una serie di cose. E allora io
ho… ad un certo punto, dovendo deporre, mi sono reso
conto… (…) che mescolavo… mescolavo varie…
varie realtà, vari giorni…
AVV. FLAMMINI. (..) oggi noi per la prima volta
apprendiamo un dato importantissimo, vale a dire il
fatto che effettivamente SCATTONE quel giorno lei lo
vide, perché lei ricollega la presenza di SCATTONE con
il notiziario delle 13:30. Allora… non è così?
LECALDANO: no!
* * * * *
Si è tentato di raggiungere una certezza sulla
data dell’incontro LECALDANO-SCATTONE per mezzo della
441
locandina del convegno sull’ETICA e delle date della
sua doppia stesura, ma anche qui senza risultati
sicuri.
Infatti il dott. MARZOCCHI, che curò la stampa di
entrambi i cartoncini ricorda “con l’aiuto dell’agenda”
che lasciò in portineria quelli “giusti” (con la data
del 16 giugno), nel pomeriggio di giovedì 8 maggio in
una busta per il professore (che poi l’avrebbe aperta
solo sabato 10, anche qui senza alcuna certezza), e che
invece quelli “vecchi”, con la data del 6, erano stati
redatti da tempo. Da quanto tempo non si sa, anche se
la nuova data (e i “primi” volantini erano già
stampati) fu stabilita lunedì 5 maggio.
In sostanza, Giovanni SCATTONE, ammesso che sia
tutto corrispondente al vero, potrebbe essere andato da
LECALDANO in uno qualsiasi dei giorni fra il 5 e il 10
maggio 1997.
Ma potrebbe esserci andato anche dopo il delitto,
ove si consideri:
– che il prof. LECALDANO ricorda solo di aver
visto SCATTONE in una “tarda mattinata” di un giorno
imprecisato e di avergli un dato una locandina che non
si sa se era le “vecchia” o la “nuova”;
– che il medesimo LECALDANO non ha mai confermato
di aver corretto sul momento, di suo pugno, la data
sull’invito consegnato a SCATTONE, né di avergli
parlato di questo mutamento;
– che la annotazione “era venerdì 6 giugno è stato
rimandato al 16/6” è di pugno di SCATTONE e non di
LECALDANO, la cui correzione della data – se pure c’era
442
– è stata coperta da una cancellatura (SCATTONE ha
dichiarato “ci scrisse di suo pugno la data che era
stata modificata, poi io quella data l’ho ricancellata
perché la calligrafia del professor LECALDANO è
illeggibile e io sono un po’ pignolo, quindi l’ho
ricancellata e ci ho scritto 16 giugno”).
Se ne deduce che l’unico dato certo è che SCATTONE
è entrato in possesso in data imprecisata di un invito
“vecchio” (che, a stretto rigore, non è certo sia
proprio quello datogli dal professore) sul quale egli
stesso ha apposto una dicitura “ricancellando” la
eventuale “calligrafia” della data.
* * * * *
Peraltro – pur essendo ciò perfettamente
comprensibile, dato che è normale che chiunque possa,
ripensandoci, ricordare meglio un episodio – anche le
dichiarazioni di SCATTONE, come quelle di FERRARO, sono
“progressive”; ma neppure i dati venuti alla luce
successivamente hanno trovato conferma.
Infatti nell’esame a “SIT” del 12 giugno 1997 –
espressamente confermato, quanto al contenuto, in
occasione dell’interrogatorio di garanzia del 17 giugno
– SCATTONE non aveva minimamente accennato alla
presenza del dott. POLLO e della dott.ssa CANAVACCI, da
lui ben conosciuti, nello studio del prof. LECALDANO.
Questi compaiono per la prima volta in
dibattimento, in domande della difesa durante l’esame
del prof. LECALDANO dell’11 e 12 giugno 1998 e poi
nell’esame dell’imputato del 9 settembre 1998 (che è
443
stato riportato per ben 30 pagine nella sentenza di
primo grado, da 816 a 846), quando SCATTONE dice che,
nel momento in cui il Prof. LECALDANO uscì dallo studio
e si fermò qualche minuto a parlare con lui, egli vide,
attraverso la porta aperta, alcune persone, tra cui
riconobbe appunto il dott. POLLO e la dott.ssa
CANAVACCI.
Invece, sembra proprio che nei pochi minuti in cui
questi ultimi rimasero nello studio del prof. LECALDANO
non fosse presente nessun altro.
Nel suo esame dibattimentale dell’11 giugno 1986
il dott. POLLO ha dichiarato: “ricordo con una buona
approssimazione che eravamo presenti solo io e la
dottoressa CANAVACCI; su questo però non potrei essere
completamente sicuro”; ancora, alla specifica domanda
(“lei e la dottoressa CANAVACCI eravate da soli, cioè
LECALDANO, lei e la dottoressa CANAVACCI”), ha
risposto: “esatto”.
Del resto, i due erano andati dal prof. LECALDANO
per un motivo ben preciso – il rimborso delle spese
sostenute da POLLO e CANAVACCI per la partecipazione ad
un convegno – e nessun altro era interessato alla
controfirma di tale richiesta.
Non solo: SCATTONE ha dichiarato che il
professore, uscito dallo studio e fermatosi a parlare
brevemente con lui, rientrò nella stanza per prendere
un foglio con il programma del Seminario “UNIVERALISMO
IN ETICA”, uscì nuovamente e glielo consegnò; infine
essi si salutarono, SCATTONE si allontanò e LECALDANO
ritornò ancora nel suo studio.
444
Ebbene, POLLO e CANAVACCI non percepiscono nulla
di tutto questo movimento; non solo non vedono
SCATTONE, che ben conoscono, ma non ricordano che
LECALDANO sia uscito e rientrato nella stanza, abbia
cercato la locandina del Seminario sull’“UNIVERSALISMO
IN ETICA” e sia nuovamente uscito per consegnarla a
qualcuno.
* * * * *
Peraltro, non è questo il punto centrale
dell’alibi di Giovanni SCATTONE, giacché anche
ammettendo che egli sia stato a Villa Mirafiori il 9
maggio, e abbia ivi ricevuto dal prof. LECALDANO il
programma del convegno, l’analisi dei tempi induce a
ritenere con certezza che egli poté essere presente
prima delle 11,42 nella sala assistenti dell’Istituto
di Filosofia del Diritto.
POLLO e CANAVACCI infatti, avendo preso
appuntamento tra loro alle 10,30, incontrarono il prof.
LECALDANO pochi minuti dopo (al termine della lezione);
si trattennero assai brevemente (“pochi minuti” per
CANAVACCI); per POLLO “non penso che sia stato più di
un quarto d’ora; è stato un tempo breve perché abbiamo
fatto semplicemente firmare questa lettera, abbiamo
scambiato due parole”; nel frattempo a suo dire sarebbe
sopraggiunto e andato via Giovanni SCATTONE, il quale,
dopo aver ricevuto il programma del convegno, se ne
sarebbe andato prima di POLLO e CANAVACCI, dunque
sicuramente prima delle 11; e lo stesso imputato ha
dichiarato nel suo esame dibattimentale che si impiega
445
circa un quarto d’ora per recarsi in autobus da Villa
Mirafiori all’Università.
Non vi è dubbio, pertanto, che Giovanni SCATTONE,
se anche fosse andato a “Villa Mirafiori” e vi avesse
incontrato LECALDANO, POLLO e CANAVACCI, avrebbe avuto
il tempo di trovarsi nella sala assistenti
dell’Istituto di Filosofia del Diritto prima delle
11,42, tenendo conto che non si è trattato di un
omicidio premeditato, ma di un fatto del tutto
improvviso e subitaneo.
Ciò è tanto vero che egli tenta di “spostare in
avanti” il più possibile l’incontro col prof. LECALDANO
(udienza 9 settembre 1998) “E… questo incontro con il
Professor LECALDANO è avvenuto sicuramente fra le
11,00 e le 11,30, perché mi ricordo che quando arrivai
io pensai, “ah, va be’, il Professore sarà impegnato,
perché sono arrivato più tardi rispetto all’orario suo
consueto che è dalle 10,30 alle 11,30”. Perché il
Professore il lunedì, il mercoledì e venerdì, tiene
lezione fino alle 10,30 e poi sale nel suo studio dove
è reperibile per studenti o laureandi, quindi mi
ricordo che arrivai, che saranno state almeno le
11,00”.
E allora egli cozza contro le testimonianze di
POLLO e CANAVACCI, che alle 11 erano già andati via, e
ha ragione anche LECALDANO che parla di “tarda
mattinata”; ma allora non era il 9 maggio; e in ogni
caso SCATTONE non ha alibi.
* * * * *
446
Infatti l’imputato – superato il punto relativo
alla possibilità, rimasta però esclusa dai controlli,
di aver telefonato ad un tale Maurizio BALESTRERI, cosa
avvenuta in un giorno diverso da 9 maggio – deduce un
altro, anzi due episodi:
– di essersi recato alla Facoltà di Lettere a cui
era iscritto, trovando un certo “foglio strappato” in
una bacheca in cui voleva controllare dei dati – ma
anche questo punto è stato “abbandonato” da SCATTONE e
dalla sua difesa per l’impossibilità di provarlo -;
– di essersi recato alla Segreteria, sempre della
Facoltà di Lettere, ritirando un certificato circa gli
esami che vi aveva sostenuto.
Il certificato è stato prodotto, reca il numero
d’ordine 97K1102329, è datato 9 maggio e risulta emesso
a nome di Giovanni SCATTONE.
E’ questo il vero alibi dedotto da SCATTONE per
l’ora del delitto (11,42 circa), posto che egli
sostiene di essere arrivato da Villa Mirafiori alla
facoltà di Lettere poco prima di mezzogiorno e di
essere sicuro di ciò perché era voluto arrivare a
quell’ora a ragion veduta (stessa udienza): “..siccome
ci vuole un quarto d’ora per andare da “VILLA
MIRAFIORI” all’Università me ne andai in un tempo
diciamo, utile per poter arrivare prima che mi
chiudesse la Segreteria.. e io me ne andai parecchio
prima di mezzogiorno, perché … proprio perché dovevo
andare in Segreteria a prendere questo certificato che
mi serviva per fare gli esami a Lettere, e la
447
Segreteria chiude a mezzogiorno (…); andai in
Segreteria dove arrivai, prima di mezzogiorno, perché
il cancello d’ingresso era ancora aperto, e poi rimasi
lì dentro la Segreteria una ventina di minuti.. Io mi
ricordo anche che mi sedetti … rimasi lì un po’ ad
aspettare, perché la Segreteria funziona in questo
modo:… che fino a mezzogiorno sono aperti soltanto
alcuni sportelli, poi dopo mezzogiorno viene chiuso il
cancello di ingresso, quindi chi sta dentro ha la
possibilità di fare le file, e gli impiegati per
sbrigarsi aprono tutti quanti gli sportelli, e quindi
si fa molto prima per cui io avevo questa abitudine,
già da quando ero studente, perché la Segreteria è la
stessa per Lettere e Filosofia, avevo questa abitudine
di andare alla Segreteria poco prima di mezzogiorno in
modo che le file si smaltivano molto più rapidamente,
perché dopo la chiusura dei cancelli venivano aperti
tutti quanti gli sportelli, e così avvenne quel
giorno, per cui io feci una fila relativamente rapida
(…)
Dopo mezzogiorno me ne andai all’Istituto”.
* * * * *
Sta di fatto che:
– dal certificato prodotto non risulta l’ora di
rilascio, né la persona che materialmente lo abbia
ritirato;
– sono stati identificati e sentiti sei studenti
(Ezio BOCCUCCIA, Chiara VITI, Sonia LEPORINI, Emanuela
448
SALIMEI, ZAMPAGLIONE Annalisa e ZAMPAGLIONE Vincenzo)
che si trovavano in Segreteria di Lettere fra le 11-
11,30 e le 12-12,30 circa – e che hanno ritirato
certificati col numero progressivo attiguo a quello
prodotto dall’imputato, e nessuno ha dichiarato di aver
visto SCATTONE (che peraltro, osserva giustamente la
difesa, all’epoca nessuno conosceva);
– l’impiegata Marcella FALSI, che appose la sua
sigla sul certificato prodotto dall’imputato, non
conosceva SCATTONE e non ricorda a chi lo abbia
consegnato.
– tre impiegati presso la Segreteria della Facoltà
di Lettere (Maria Irene MARCONI, Paola LAURENTI e la
stessa Marcella FALSI – e sia pure in modo più sfumato,
anche un quarto impiegato, Domenico BOTONI,) hanno
dichiarato che, se un professore, un assistente o un
impiegato loro collega chiedeva un certificato “fuori
sportello” per conto di un terzo interessato, essi lo
rilasciavano, anche utilizzando un terminale interno
alla Segreteria.
La richiesta poteva, in tali casi, essere fatta
anche fuori dell’orario di ufficio (8,30-12) e perfino
per telefono; il ritiro poteva avvenire in un momento
successivo (ora o giorno).
– la studentessa Stefania SEGHETTI ha confermato
che, infatti, proprio la mattina del 9 maggio, non
essendo potuta andare di persona a ritirare un
certificato in quella Segreteria, lo aveva fatto
richiedere dalla madre – impiegata alla Biblioteca
449
Alessandrina – che a sua volta ne aveva incaricato una
collega, la quale lo aveva ottenuto “tramite ufficio”.
– fra gli studenti suddetti, Sonia LEPORINI,
Chiara VITI ed Emanuela SALIMEI hanno più
esplicitamente degli altri dichiarato di non aver
visto, quel giorno, in fila in Segreteria, Giovanni
SCATTONE, che vedevano in quel momento in aula e che
avevano visto in fotografia in Questura nel mese di
luglio 1997; non lo ha visto neppure il BOCCUCCIA, che
è un invalido che era entrato dentro la Segreteria,
trattenendosi a lungo;
– la ZAMPAGLIONE ha riferito di una ragazza che
ebbe “una specie di svenimento”; più d’uno ha descritto
nella fila un ragazzo col “codino”; altri hanno parlato
di uno studente che dopo essere uscito era tornato
scavalcando la transenna.
SCATTONE non ha ricordato né l’invalido, né il
codino né lo svenimento né lo scavalcamento.
* * * * *
“Dopo mezzogiorno me ne andai all’Istituto”, dice
SCATTONE, che prosegue:
“E… lì all’Istituto ci stava questo studente,
borsista Stefano LA PORTA, io più o meno li conoscevo
tutti quanti gli… gli studenti borsisti che
collaboravano e… perché ci stavano insomma tutti i
giorni, quindi io più o meno li avevo conosciuti
qualcuno aveva seguito in precedenza i miei Seminari.
E… rimasi con lui a chiacchierare fino a verso l’una
e vennero anche parecchi studenti, che volevano
450
informazioni, perché c’era questo esame nuovo di
Logica Giuridica che teneva il Professor CARCATERRA.
Quindi volevano esami, perché non si sapeva bene che
programma ci fosse non c’era ancora un libro
stabilito.
Io rimasi lì con LA PORTA.
Tra le altre cose telefonai a casa di FERRARO,
perché la sera avevamo un compleanno e quindi ci
dovevamo mettere d’accordo (…) E… rimasi lì fino
a… sì, fino all’una, perché LA PORTA all’una finiva
quindi lui se ne andò, doveva anche chiudere, e io me
ne andai e uscii dall’ingresso principale, vidi che
c’era un certo trambusto in particolare mi ricordo che
c’erano due persone che io credo che fossero dei
Poliziotti in borghese che… si facevano largo, lì…
non… insomma mi ricordo che dopo a posteriori ho
ricostruito che dovevano essere dei Poliziotti, perché
ci avevano quei giubbetti che ci hanno i Poliziotti in
borghese quelli con le tasche, ce li hanno i
Poliziotti e i Giornalisti. E poi andai… verso
l’uscita appunto che dà sul Commissariato dove ci
stavano e… dove ci stavano dei Poliziotti in divisa
che avevano chiuso la… l’uscita del Commissariato e
c’era tutta una folla di persone che aspettavano di
uscire, e io appunto pensando che ci fosse in atto
qualche cosa, uno scontro, qualcosa tra la Polizia
appunto e gli autonomi io pensavo e… andai ad
un’altra uscita che sta lì vicino, che è una uscita
secondaria dove ci sta il parcheggio per i motorini e
lì non era… l’uscita non era bloccata per niente e
451
quindi, potei uscire e me ne… me ne ritornai a casa.
Questa è stata più o meno la mia mattinata”.
* * * * *
Va rilevato – non in malam partem, ma solo come
dato di fatto – che in questa ricostruzione
dibattimentale della parte finale della sua mattinata,
SCATTONE dimentica di segnalare la presenza di altre
persone in Istituto (dal prof. ROMANO alla ALLETTO,
dalla URILLI alla laureanda CASTIGLIA), fra cui
soprattutto il suo collega Pier Paolo FIORINI che
invece ha dichiarato di aver scambiato con lui qualche
parola proprio nel periodo di tempo in esame.
Tutta la problematica attinente a questa fase
della mattinata è stata affrontata attentamente in
primo grado e, anche in seguito alla considerazioni
contenute nei motivi d’appello, può stabilirsi che
giunto in Istituto, SCATTONE vi incontrò il borsista
Stefano LA PORTA, che era in sala cataloghi, e si fermò
a parlare con lui.
Quanto all’ora, LA PORTA dice in dibattimento che
erano “tra le 12,15 e le 12,30” e che “dopo brevi
saluti e convenevoli”, SCATTONE chiese di poter fare
una telefonata, che fece, senza che LA PORTA ne
ascoltasse una sola parola o ne capisse
l’interlocutore. Poiché però sicuramente dal tabulato
del centralino della Facoltà non risultano altre
telefonate in uscita dalla sala cataloghi riconducibili
a SCATTONE – non ne fa cenno nemmeno lui – oltre quelle
a FERRARO (ore 12,44 senza risposta, ore 12,56 per tre
452
minuti fino alle 12,59), evidentemente LA PORTA ricorda
male i tempi.
Infatti l’ora attribuita dal LA PORTA alla
telefonata stessa non “quadra” assolutamente con i dati
di fatto; e allora la telefonata non vi fu, o vi fu in
un altro giorno – ma sembra strano per via delle
particolarità riferite sull’argomento, e in specie
sulla “autorizzazione” a telefonare da lui data a
SCATTONE –; oppure la telefonata è quella delle 12,56,
e LA PORTA sbaglia sull’orario in cui vide SCATTONE
(molto più tardi delle 12,15), o sbaglia sulla asserita
brevità dei “saluti e convenevoli”.
* * * * *
Tra l’altro, sarebbe intervenuta in questa fase
l’amabile conversazione fra i due sull’esame di Logica
Giuridica col famoso appunto sulla frase apparentemente
senza senso che avrebbe dovuto dimostrare la difficoltà
dell’esame: il tutto invocato dalla difesa a
dimostrazione della “tranquillità” di SCATTONE,
incompatibile con l’essere egli fresco reduce dalla
“fuga” intercettata da Giuliana OLZAI. Una non breve
conversazione – osserva questa Corte -, che dovrebbe
essere avvenuta dopo la telefonata, secondo LA PORTA
(udienza 1 giugno 1998: “dopo di che io gli posi una
domanda”), e anche questo riferimento sembra quanto
meno errato, dal momento che la telefonata di SCATTONE
con FERRARO (e non ce ne sono altre) termina alle 12,59
e che alle 13 tutti vanno via (“alle 13”, dice LA PORTA
“chiusi la porta a chiave e la consegnai negli uffici”.
453
E’ doveroso ricordare che la Corte di primo grado
ha molto dubitato di questo appunto con la cervellotica
frase (“se ROSSI è malato o BIANCHI è via, l’accordo
ARGUS non verrà stipulato, a meno che…”), che LA PORTA
avrebbe recuperato dopo più di un anno in una tasca dei
calzoni tornati dalla lavanderia; ma il punto in realtà
non è tanto questo, quanto quello, tutt’altro che
lineare, dell’ora in cui il colloquio sarebbe avvenuto.
In definitiva, la sola cosa che può dedursi da
tutto ciò è che il 9 maggio SCATTONE e LA PORTA si
incontrarono in Istituto, probabilmente sul tardi;
potrebbe accettarsi l’ora riferita da LA PORTA (12,15
– 12,30) solo accettando che egli abbia sbagliato tutto
lo svolgimento del loro incontro e che siano sbagliati
tutti gli orari da lui riferiti tranne questo; ed è poi
assai facile constatare che anche questo orario delle
12,15 non escluderebbe affatto che SCATTONE possa aver
sparato più di mezz’ora prima, essersi rapidamente
allontanato dalla scala interna, con FERRARO che aveva
la borsa, (venendo visti “agitati e concitati” dalla
OLZAI) ed essere tornato dopo aver ripreso un minimo di
calma.
* * * * *
L’assistente Pier Paolo FIORINI ha dichiarato a
sua volta di aver visto SCATTONE, la mattina del 9
maggio, in Istituto, dove era giunto a suo dire verso
le 12,10 incontrando subito SCATTONE, e venendo a
sapere che Maria Chiara LIPARI era appena andata via
(questa dichiarerà di essere salita sulla propria
454
automobile alle 12,07); FIORINI parlò poi per pochi
minuti col Prof. ROMANO nello studio di quest’ultimo,
che fece o ricevette una brevissima telefonata (non
esistono tabulati in entrata; in uscita risultano due
telefonate di ROMANO alle 12,18 e alle 12,19), e poi,
dalla finestra della sala di lettura FIORINI e ROMANO
videro un assembramento di gente e un’autoambulanza
ferma.
Poiché è sicuro che l’ambulanza è giunta
all’Università alle 11,59 e al vicinissimo Policlinico,
di ritorno, alle 12,08, e dunque è stata ferma
all’incirca dalle 12 alle 12,05, è evidente che FIORINI
si sbaglia, dal momento che sostiene di essere giunto
all’Università alle 12,10; di conseguenza tutti i suoi
orari vanno spostati indietro (ma gli orari delle
telefonate di ROMANO delle 12,18 e 12,19, che sarebbero
state fatte prima di vedere l’ambulanza, sono anch’esse
incompatibili); oppure il teste ricorda male tutto
l’episodio, e non serve ad accertare il reale
svolgimento degli accadimenti.
Perfino lui si rende conto delle contraddizioni,
come risulta dalla intercettazione telefonica Pier
Paolo FIORINI – Gianluca SACCO del 15 giugno 1997 (ore
4,36, a poche ore dagli arresti):
PAOLO: Per quanto riguarda Totò e Giovanni
(rispettivamente Salvatore FERRARO e Giovanni SCATTONE,
ndr) è la stessa cosa… Giovanni mi dispiace che poi
tra l’altro, mi dispiace per Giovanni, che tra l’altro
non vorrei essere stato cioè involontariamente anche
io, a avergli aperto la strada a questa cosa.
455
GIANLUCA: Cioè che tu dici…
PAOLO: Perché io ho sempre dichiarato di averlo
visto, quando lui almeno inizialmente aveva detto che
non c’era. Poi ha detto che era arrivato tardi e non
vorrei che… cioè infatti pare che ci fossero delle
contraddizioni tra me e lui insomma, io quello che mi
ricordo che quando sono entrato l’ho visto in sala
(cataloghi) e l’ho salutato e poi sono andato avanti.
GIANLUCA: E infatti lui ha sempre escluso di essere
stato in aula Sei…
PAOLO: Sì, sì…
Del resto anche Gabriella ALLETTO aveva dichiarato
di aver visto SCATTONE in segreteria dopo lo sparo,
benché lui inspiegabilmente lo neghi, forse perché la
donna lo descrive “stravolto”, in una situazione che
può essere letta come immediatamente precedente alla
“fuga” dalle scale con FERRARO.
Ecco un brano del confronto fra i due:
SCATTONE: No, assolutamente no, non ci sono andato
affatto nell’aula 6.
PRESIDENTE: La signora invece ha affermato di averla vista
nell’aula numero 6.
ALLETTO: Sì.
PRESIDENTE: E’ questo?
ALLETTO: Anche dopo l’ho visto io, Presidente; è
venuto in mattinata nella nostra segreteria ed era
stravolto. SCATTONE: Eh, peccato che la URILLI dice il
contrario. ALLETTO: Non mi interessa quello che dice
la URILLI, dottor SCATTONE….
456
La circostanza era stata già dichiarata dalla
ALLETTO con molta sicurezza nell’incidente probatorio
del 31 luglio 1997:
Avv. VANNUCCI: Signora, lei nell’arco di quella mattinata ha visto, a parte l’episodio della stanza
numero 6, ha visto SCATTONE e FERRARO prima o dopo
quella…
ALLETTO: No.
Avv: VANNUCCI: Non l’ha visti né prima, né dopo?
ALLETTO: Dopo sì.
Avv. VANNUCCI: Quando?
ALLETTO: Perché è venuto un attimo in segreteria
SCATTONE quella mattina.
Avv. VANNUCCI: Chi SCATTONE?
ALLETTO: SCATTONE, mi sembra ci fosse pure FERRARO.
Avv. VANNUCCI: Le sembra, signora, o c’era anche
FERRARO?
ALLETTO: Non sono sicura, in genere stanno sempre
insieme, c’era…
(… … …)
Non mi sono inventata niente, so solo che stavano
sempre insieme. Se ci ho avuto una fugace immagine di
FERRARO io questo non riesco… però SCATTONE me lo
ricordo molto bene”.
* * * * *
In tutti i casi SCATTONE non ha alibi, perché,
anche ammesso che la ricostruzione di FIORINI sia in
qualche modo vera e si collochi prima della ripartenza
dell’ambulanza, questa giunse nel “vialetto”
457
dell’Università alle 11,59, ben 17 minuti dopo il
ferimento di Marta RUSSO, e vi si trattenne circa
cinque minuti: vi era tutto il tempo per SCATTONE di
allontanarsi “concitato”, con FERRARO e la borsa, dalla
scala interna che dal corridoio dell’Istituto conduce
all’atrio di Statistica dove furono visti dalla OLZAI,
e fare ritorno dopo essersi un po’ ricomposto e messo
al sicuro la pistola (tramite FERRARO che portava la
borsa, o in altro modo), venendo visto sia da FIORINI
che da LA PORTA.
Certo è sconcertante il fatto che SCATTONE
sostenga di essere andato a casa – unico dei presenti
– senza essersi accorto di nulla.
* * * * *
In questo contesto va inserita la testimonianza di
Maurizio BALESTRERI all’udienza del 12 giugno 1998, che
riferisce di una telefonata fattagli da SCATTONE:
BALESTRERI: parlammo anche dell’omicidio, adesso non
ricordo bene come… come fu introdotto l’argomento e
le cose che mi ricordo e che lui mi disse insomma
uhm… “ero presente quando è successo il fatto, non
mi sono accorto di niente, mi sono accorto che ero
successo qualcosa e di questo qualcosa mi so.. mi sono
accorto che era successo qualcosa, nel momento in
cui sono uscito dall’Università e ho visto che c’era
la Polizia”.
P.M. si ricorda dove ha detto che era presente ?
BALESTRERI: credo che abbia detto, appunto, che era
presente… non… non sono sicuro al cento per cento,
458
credo che abbia detto: “ero..ero presente in
Istituto”.
P.M.: lei fa riferimento a quando è successo il
fatto..
BALESTRERI: sì.
P.M.: ..che ha detto prima questa parola, no?
BALESTRERI: sì.
P.M.: ecco, e ricollegandola a quando è successo il
fatto, dov’è che lui le ha detto che era presente?
BALESTRERI: credo che… credo, con… credo che abbia
detto in Istituto, che era in Istituto, non mi sono
accorto di niente…
P.M.: Istituto di…di che cosa, scusi?
BALESTRERI: credo Istituto di Filosofia del Diritto,
ma non escludo… potrebbe aver detto anche
all’Università, “ero presente all’Università”.
P.M.: allora, senta io sotto la formula della
contestazione, le ricorda quanto lei ha dichiarato
antecedentemente. “Lui mi disse che quando era
avvenuto il fatto, si trovava nell’Istituto di
Filosofia del Diritto” (…) si ricorda?
BALESTRERI: se… se l’ho detto un anno fa, insomma
probabilmente insomma questa era la mia tonda… la
convinzione forte, sì… un anno fa.
Peraltro è doveroso ricordare che l’imputato è
intervenuto con dichiarazione spontanea ribadendo di
aver parlato col BALESTRERI di una propria presenza
“all’Università” e non in Istituto.
* * * * *
459
Vi sono convergenti dichiarazioni al riguardo di
Marianna MARCUCCI, sentita a “SIT” il 12 giugno 1997:
secondo la ragazza, ella si era sentita telefonicamente
con SCATTONE nel pomeriggio. “Mi disse che era stato
in Sala Cataloghi, e a un certo punto aveva avvertito
che fosse successo qualcosa perché aveva visto due
ragazzi correre nel corridoio dell’Istituto,
probabilmente – mi disse lui – per chiedere aiuto;
così si era reso conto di ciò che era accaduto, e mi
disse che c’era tanta polizia … “.
Si tratta di una dichiarazione inequivocabile,
che, benché resa da coimputata che si è “sempre
sottratta all’esame dell’imputato e del suo difensore”,
è utilizzabile e valutabile, a norma dell’art. 1 comma
2 del DL 2/200 (legge n. 35/2000), perché “la sua
attendibilità è confermata da altri elementi di prova
formati con diverse modalità”, ossia dalle citate
dichiarazioni del LA PORTA e dello stesso SCATTONE
(circa la propria presenza in sala cataloghi) e dalle
testimonianze assunte in contraddittorio, a partire
proprio da quella del BALESTRERI; quest’ultimo e la
MARCUCCI, infatti, e così anche il FIORINI, riferiscono
di Giovanni SCATTONE presente nei locali dell’Istituto
in ora sovrapponibile al fatto.
La dichiarazione della MARCUCCI è stata da lei
confermata quando fu interrogata quale indagata del
reato di favoreggiamento (ma nei confronti di FERRARO,
non di SCATTONE) il 17 giugno 1997, alla presenza dei
suoi difensori: “confermo che GIOVANNI SCATTONE l’ho
460
sentito per la prima volta nel primo pomeriggio del 9
maggio, come ho già dichiarato nel verbale del
12.6.97; confermo altresì quello che lui mi disse al
telefono, e cioè che quella mattina era stato in sala
cataloghi e che a un certo punto si era accorto che
qualcosa era successo perché aveva visto due ragazzi
correre nel corridoio”.
* * * * *
In proposito l’imputato, all’udienza del 9
settembre 1998, ha accennato a più riprese ad un
episodio assolutamente diverso: “Io ho visto due
persone, che io ritengo fossero delle persone della
Polizia, all’interno questo della Facoltà di
Giurisprudenza, che si facevano largo fra la gente
rapidamente, poi uscendo c’era la Polizia che
bloccava, ma che non ha bloccato me, bloccava l’uscita
e vidi che c’era una certa quantità di persone che
aspettavano di uscire, per cui io mi diressi verso
l’altra uscita vicina che invece non era controllata”;
“…io me ne andai e riuscii dall’ingresso
principale, vidi che c’era un certo trambusto in
particolare mi ricordo che c’erano dire persone che io
credo che fossero dei Poliziotti in borghese che… si
facevano largo, lì.. non.. insomma mi ricordo che dopo
a posteriori ho ricostruito che dovevano essere dei
Poliziotti, perché ci avevano quei giubbetti che ci
hanno i Poliziotti in borghese quelli con le tasche,
ce li hanno i Poliziotti e i Giornalisti”.
461
La dichiarazione della MARCUCCI ribadita due
volte, secondo la quale SCATTONE le aveva raccontato
questo “strano” particolare di aver visto “due ragazzi
correre nel corridoio dell’Istituto” è rimasta priva di
risposta.
* * * * *
SCATTONE è dunque assolutamente privo di alibi:
– non è stata provata la sua presenza il 9 maggio
in “Villa Mirafiori”, del resto non molto rilevante in
rapporto con l’ora del delitto;
– non è risultata confermata in alcun modo la sua
presenza alla Facoltà di Lettere a cavallo di
mezzogiorno; –
– la sua presenza nell’Istituto di Filosofia,
accertata tramite le dichiarazioni di FIORINI e di LA
PORTA, è del tutto compatibile con quanto riferito a
suo carico da LIPARI, ALLETTO, LIPAROTA e OLZAI;
– solo “ad abundantiam” si segnalano le sue
ammissioni, in conversazioni con la MARCUCCI e con
Maurizio BALESTRERI, circa la propria presenza in
Istituto al momento dello sparo.
In conclusione le testimonianze, le dichiarazioni
dei chiamanti, i riscontri e gli elementi logici man
mano riferiti sono da questa Corte ritenuti
sufficienti, al di là di ogni ragionevole dubbio, , per
affermare la responsabilità di SCATTONE per la morte di
Marta RUSSO, e per i reati connessi di porto e
detenzione illeciti di arma comune da sparo, di FERRARO
per porto e detenzione illeciti della stessa arma e di
favoreggiamento personale nei confronti di SCATTONE, di
462
LIPAROTA per favoreggiamento personale nei confronti di
SCATTONE.
463
ULTERIORI ELEMENTI DI PROVA AD ABUNDANTIAM
PROBABILISTICI O DI COMPATIBILITA’
I
LA QUESTIONE VILLELLA
Francesco LIPAROTA ottenne la sostituzione della
custodia in carcere con gli arresti domiciliari lo
stesso giorno 16 giugno in cui rese l’interrogatorio,
al termine del quale aveva ammesso di essersi a suo
tempo confidato con la propria madre Rosangela
VILLELLA.
Il Pubblico Ministero dott. LA SPERANZA si recò
subito, la sera stessa, a interrogare la donna, che –
alla presenza degli avvocati del figlio Pasquale
PAOLITTO e Roberto ANGELONI, sostituto processuale del
professor Giovanni ARICO’ – non avvalendosi della
facoltà di astenersi dal deporre quale prossimo
congiunto dell’imputato, disse quanto segue:
“Intendo rispondere. Dopo due o tre giorni dal fatto,
su mia sollecitazione, avendo notato mio figlio
particolarmente ansioso, gli ho chiesto
insistentemente se gli fosse accaduto qualcosa. A quel
punto lui mi ha riferito che lui aveva visto SCATTONE
e FERRARO dentro la stanza – ‘So che hanno sparato e
mi hanno minacciato che mi ammazzano’ -“.
464
“Io mi sono messa a piangere insieme a lui perché l’ho
visto seriamente preoccupato. Non ho parlato con gli
altri miei familiari in quanto era un segreto con mio
figlio. Comunque al momento non riesco ad aggiungere
altro in quanto sono molto provata e mi riservo
eventualmente di riferire ulteriori fatti in seguito”.
Nel seguito del processo la VILLELLA si è sempre
avvalsa della facoltà di astenersi dal deporre come
teste e le sue dichiarazioni – acquisite al fascicolo
del dibattimento e sempre ritenute utilizzabili dai
precedenti giudici di merito – sono state ritenute
inattendibili dal giudice d’appello quanto al loro
contenuto, mentre la Corte di primo grado le aveva
considerate veritiere ed importanti.
A parte il merito, la questione della
utilizzabilità o meno di tali dichiarazioni è stata
motivo di impugnazione, è tuttora oggetto di decisione
e non è stata risolta in diritto dalla Cassazione,
anche se, per la verità, a pagina 37 della sentenza, la
Corte Suprema afferma che “andavano e andranno
valutate le dichiarazioni testimoniali della LIPARI,
della VILLELLA e della OLZAI e delle altre persone
presenti”, come se ponesse la VILLELLA sullo stesso
piano delle altre.
* * * * *
E’ da porre in rilievo in proposito che tali
dichiarazioni sono state ritenute utilizzabili sulla
base di una sentenza della Corte Costituzionale (la n.
179 del 1994, interpretativa di rigetto) che ora la
465
stessa Corte ha ritenuto non più attuale, in seguito
alla modifica dell’art. 111 della Costituzione
(sentenza n. 440 del 2000, anch’essa interpretativa di
rigetto).
Tuttavia deve essere osservato che la pur
importante e condivisibile sentenza n. 440 riguarda il
tempo presente, ossia la possibilità, (ritenuta non più
praticabile) di acquisire oggi al fascicolo del
dibattimento ai sensi dell’art. 500 CPP. le
dichiarazioni rese in precedenza, e dunque di darne
lettura oggi ai sensi dell’art. 512 CPP; ma nel caso di
specie tutto ciò è già avvenuto da anni – ben prima del
25 febbraio 2000, che è la “data spartiacque” tra il
“prima” e il “dopo” della riforma dell’art. 111 Cost.,
ed è regolato da una disciplina transitoria che a sua
volta è stata ritenuta pienamente legittima sia dalla
Corte Costituzionale (sentenza n. 381 del 2001, questa
volta non interpretativa ma proprio di infondatezza)
che dalla Cassazione (Sez. VI, n. 842 del 17 aprile
2000).
Questa Corte ha già ritenuto utilizzabili le
dichiarazioni rese nel corso delle indagini e acquisite
al fascicolo del dibattimento, e cadrebbe in
contraddizione con sé stessa se usasse un diverso metro
per quella della VILLELLA, dal momento che la
specificità della sua situazione, legata alla facoltà
di astensione come prossimo congiunto di un imputato,
era stata già presa in esame dalla sentenza 179/1994
che era “in vigore” all’epoca delle letture e delle
466
acquisizioni, e dunque non è tale da modificare la
soluzione finale del problema.
* * * * *
E’ prospettabile, inoltre, un diverso problema,
nel senso che l’art. 199 CPP. potrebbe, secondo una
certa interpretazione, non applicarsi alle
dichiarazioni del teste che non riguardano un prossimo
congiunto ma terzi coimputati, come sono Salvatore
FERRARO e Giovanni SCATTONE; ciò perché l’art. 199 –
che prevede la facoltà di astensione di un testimone
come prossimo congiunto di un imputato – è posto a
tutela del vincolo e degli affetti familiari (nel
quadro di un visione “ampliata” del principio nemo
tenetur se detegere), e non riguarda, appunto, i terzi.
Tuttavia, poichè la testimonianza della VILLELLA
riguarda un ”de relato” (“mio figlio mi ha detto che
FERRARO e SCATTONE hanno sparato e lo hanno minacciato
che (se parla) lo ammazzano”), e la “fonte” dovrebbe
essere sentita a pena di inutilizzabilità, si ricade
nel divieto stabilito dall’art. 1 comma 2 del D.L. 7
gennaio 2000 n. 2.
La fonte, infatti, (Francesco LIPAROTA) è stata
sentita, ma a sua volta si è sottratta al
contraddittorio: e allora le dichiarazioni (nella
specie, della VILLELLA) rese nel corso delle indagini
preliminari possono essere valutate (nei confronti di
terzi non prossimi congiunti) come prova dei fatti in
esse affermati, se sussistono altri elementi di prova
che ne confermano l’attendibilità; ma questi “altri
467
elementi di prova” non possono consistere nelle
dichiarazioni del medesimo Francesco LIPAROTA, che
“si è sempre volontariamente sottratto, per libera
scelta”, all’esame degli imputati SCATTONE e FERRARO e
dei loro difensori.
E’ facile tuttavia constatare che le dichiarazioni
della VILLELLA sono confermate da “altri elementi di
prova” assunti o formati con diverse modalità, come
richiesto dalla legge: non solo dalle deposizioni
testimoniali di Maria Chiara LIPARI e dalle
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO, ma soprattutto, e
nello specifico, dalle intercettazioni telefoniche
(“illo c’era” – “Franco me l’aveva accennato”) relative
proprio a casa LIPAROTA.
* * * * *
Stabilito questo in diritto, la vicenda di per sé
ha scarso peso, in considerazione delle altre prove
acquisite, ove si pensi, ad esempio, proprio alle testè
citate intercettazioni telefoniche (“illo c’era”).
Può essere dato per incontroverso il fatto che i
difensori di LIPAROTA giunsero dalla VILLELLA prima del
pur solerte magistrato che la andò ad interrogare
immediatamente, ed è presumibile che le abbiano non
solo portato la “buona novella” che il figlio stava
tornando a casa, ma anche rivelato la sua faticosa
“collaborazione”, e – sommariamente, in pochi minuti –
il contenuto delle sue dichiarazioni; anche e
specialmente di quelle accusatorie nei confronti di
SCATTONE e di FERRARO.
468
Tuttavia reputa questa Corte che troppo
frettolosamente si sia tentato di liquidare la
testimonianza della donna come aprioristicamente
inattendibile perché “una madre che ha un figlio in
galera non può che confermare qualsiasi cosa le venga
chiesta pur di farlo uscire”.
Questo è quasi sempre vero e si può senz’altro
ritenere che anche questa volta le cose siano andate
così.
Ma bisogna vedere che cosa le si chiede e come
risponde; e ancora una volta gli “accenti di verità” si
rinvengono nel testo letterale delle dichiarazioni
della VILLELLA, e sono tali da conferir loro umana e
giuridica credibilità.
Supponendo che Rosangela VILLELLA non abbia mai
saputo nulla dal figlio in ordine al ferimento di Marta
RUSSO, non si spiega la precisazione d’esordio della
sua dichiarazione: “Dopo due o tre giorni dal fatto”.
Il fatto è del 9 maggio, questa dichiarazione è del 16
giugno e comporta che la donna senta il bisogno di
precisare – mentendo, per aiutare il figlio – di
essersi tenuta un simile “rospo” per oltre un mese,
mentre Francesco veniva continuamente e inutilmente
“torchiato”, e mentiva, e lei lo sapeva (anche lei non
meno “cinica” della ALLETTO).
Dall’interrogatorio di LIPAROTA non risulta che
egli abbia mai detto quando si confidò con la madre.
“Su mia sollecitazione… … gli ho chiesto
insistentemente se gli fosse accaduto qualcosa”;
“avendo notato mio figlio particolarmente ansioso”:
469
sono questi i particolari – del tutto inutili in punto
di fatto – con i quali un qualsiasi inquirente o
difensore interessato chiede di riempire un verbalino
di poche righe? o non sono, molto più umanamente e
credibilmente, la sintesi di un “vissuto interiore” che
la VILLELLA sente di dover esprimere?
“A quel punto lui mi ha riferito che lui aveva
visto SCATTONE e FERRARO dentro la stanza – ‘So che
hanno sparato e mi hanno minacciato che mi
ammazzano’-“
Tutto qui lo scarsissimo contributo fattuale di
Rosangela VILLELLA: senza una pur minima precisazione
di una qualsiasi utilità; in singolarissima
coincidenza, però, con la “prima” versione di Francesco
LIPAROTA, quella dell’appunto scritto, secondo il quale
aveva visto SCATTONE e FERRARO “affacciati alla
finestra”, che “avevano sparato” e che entrambi “lo
avevano minacciato”!
Ed infine, anche Rosangela VILLELLA, come già
altri in questo processo – per la verità ciò è accaduto
per tutte le fonti di prova a carico – non riferisce
soltanto qualcosa che ricorda di aver semplicemente
visto o udito, ma descrive una scena vissuta, una scena
che la vede protagonista:
“Io mi sono messa a piangere insieme a lui perché
l’ho visto seriamente preoccupato; ..era un segreto
con mio figlio”.
Anche questo le è stato suggerito dagli avvocati
giunti prima di LA SPERANZA?
470
E tutto ciò contro persone che, per quanto diceva
LIPAROTA, essi sapevano innocenti?
Da alcune intercettazioni risulta che Fabio
LIPAROTA comunica alla famiglia di aver appreso che il
difensore di Francesco, Prof. Giovanni ARICO’, in
seguito alla ritrattazione dell’imputato intenderebbe
rinunciare al mandato, considerando la ritrattazione
“un suicidio processuale” e ritenendo di non poter
“sostenere questa linea difensiva”: è possibile pensare
che l’avvocato volesse difendere il LIPAROTA solo a
patto che tenesse ferma una calunnia? e che rifiutasse
la difesa perché alla fine diceva la verità?
471
LA QUESTIONE CONDEMI
Non si può omettere di considerare che è
strettamente attinente al capitolo degli alibi degli
imputati – ma anche, forse, all’intera ricostruzione ed
interpretazione del fatto – la disamina della questione
concernente quel Domenico CONDEMI a cui Salvatore
FERRARO aveva accennato il giorno successivo al
ferimento di Marta RUSSO.
La studentessa Ilaria PEPE aveva narrato agli
inquirenti che commentando l’accaduto con lei stessa e
con Francesco LIPAROTA, il giorno dopo il delitto,
FERRARO aveva detto che lui il 9 maggio (cioè il giorno
precedente) era stato tutta la mattina in casa, e che
attorno alle ore 12 gli era arrivata una strana
telefonata da parte di una persona “di giù” (cioè un
calabrese, comprese la PEPE), che lo stesso FERRARO in
sostanza non aveva capito cosa volesse. Il FERRARO, nel
raccontare questo episodio al LIPAROTA ed alla PEPE,
aveva scherzosamente commentato: “Forse si voleva
creare un alibi”.
E’ stato le stesso imputato a chiarire in udienza
che si trattava della chiamata, ricevuta “intorno a
mezzogiorno” di un certo Domenico CONDEMI, sostenendo
che questi gli avrebbe solo chiesto “dottore lei sarà
in facoltà nei prossimi giorni?”; e alla sua risposta
affermativa ed alla richiesta di cosa volesse, avrebbe
472
mormorato “nulla, nulla di particolare”, e gli avrebbe
“chiuso il telefono praticamente in faccia”
riattaccando subito. Questo particolare FERRARO lo
ribadisce al CONDEMI nel confronto fra i due
all’udienza del 18 novembre 1998: “.. e mi ha
abbassato il telefono in faccia, un comportamento di
cui è stato molto maleducato nei miei confronti”.
In realtà Salvatore FERRARO è stato sul punto
smentito – parzialmente ma in maniera molto importante
-, nel senso che effettivamente il CONDEMI fece, il 9
maggio, una telefonata a casa FERRARO, ma, come risulta
dal tabulato (vedi pagina 706 della sentenza di primo
grado) non la fece “verso mezzogiorno” ma nel
pomeriggio, alle 15,44. Si era trattato oltretutto di
una telefonata piuttosto lunga, durata ben 105 secondi
(più di un minuto e quaranta), e dunque certamente non
ebbe lo svolgimento, che sarebbe stato pari a 10-15
secondi al massimo, riferito dall’imputato.
Detto questo, è certo che Ilaria PEPE non ricorda
male, giacchè dalle sue dichiarazioni in dibattimento
risulta evidentissima la sua attenzione nel riferire
l’episodio: “la frase “forse si voleva fare un alibi”
certamente pronunciata da FERRARO, “non me la sento di
farla acquisire alla Corte senza specificare che erano
parole dette col sorriso sulle labbra di chi fa una
battuta”; né può dirsi che menta, perché lo stesso
FERRARO ha confermato di aver riferito alla PEPE ed al
LIPAROTA della telefonata “strana”.
Resta dunque certamente la “stranezza” di un
fatto non vero raccontato dall’imputato, apparentemente
473
senza motivo, alla PEPE ed a LIPAROTA, il giorno
successivo al ferimento, con l’accenno ad un concetto
“delicato” come quello di “alibi” e col riferimento ad
una persona “di giù”: quest’ultimo particolare, poi,
detto da FERRARO a LIPAROTA in modo tale che la PEPE
ebbe la netta impressione che si trattasse di una
“conoscenza comune ad entrambi”.
* * * * *
Si è detto in narrativa che l’episodio si prestava
già di per sé a varie interpretazioni, tra cui
principalmente quella di una sorta di “segnale
obliquo” mandato dal calabrese FERRARO al calabrese
LIPAROTA: quest’ultimo, (che era stato presente allo
sparo e sapeva tutto; e FERRARO, che non gli “aveva
voluto spiegare cosa fosse successo”, sapeva che lo
sapeva), se richiesto di ricostruire i movimenti dei
frequentatori dell’Istituto doveva stare bene attento a
quello che diceva sul conto di FERRARO, perché questi
aveva già pronto un alibi (verso mezzogiorno era a
casa) sostenuto dal CONDEMI che gli aveva fatto una
telefonata a quell’ora: un personaggio “temibile”, il
CONDEMI, perchè era latitante per tentato omicidio e
aveva amici o parenti nella criminalità della Locride.
* * * * *
Ma le cose si sono straordinariamente complicate
in dibattimento, quando il CONDEMI è stato sentito come
teste e ha reso dichiarazioni quanto meno sconcertanti,
contraddittorie e spesso apertamente menzognere:
474
– è risultato iscritto alla facoltà di
Giurisprudenza alla “Sapienza” di Roma;
– è risultato indagato per tentato omicidio
commesso con una pistola (mai ritrovata, a quanto
sembra), in concorso con certi fratelli CORDI’ detenuti
per associazione a delinquere di stampo mafioso;
– a domande specifiche, ha negato di essere
parente, pur mostrando di conoscerli, di una serie di
personaggi della malavita calabrese;
– è risultato che il 9 maggio 1997, giorno della
telefonata, era latitante per il tentato omicidio sopra
menzionato (lo è stato dal 4 marzo al 24 giugno 1997,
anche se pare che il 10 giugno sia stato fermato dai
Carabinieri di Bianco e risultasse già a piede libero);
– ha dichiarato che nel marzo del 1997, avendo
saputo che a Roma lo “cercava la legge”, se ne era
andato “giù” in Calabria, a suo dire “a casa”, ma non
ha saputo precisare se e quando, durante la latitanza,
fosse tornato a Roma, dove peraltro avrebbe, nello
stesso periodo, più volte incontrato FERRARO
all’Università in relazione ai propri esami;
– a Roma coabitava con dei suoi cugini di cognome
LIGORA, almeno uno dei quali coimputati con lui, e con
tale Mimmo PALAMARA;
– dopo varie contraddizioni, alla fine è risultato
che Salvatore FERRARO conosce i LIGORA, e che con lo
stesso CONDEMI si dà del “tu”;
– non si è potuto accertare se il 9 maggio
Domenico CONDEMI fosse a Roma o in Calabria, tanto che
la telefonata delle ore 15,44 – certamente partita
475
dalla casa in cui egli abitava a Roma – potrebbe anche
essere stata fatta da qualcun altro.
* * * * *
Si sono dunque ipotizzati per Domenico CONDEMI, da
parte dell’accusa sia pubblica che privata, diversi
possibili ruoli nella vicenda per cui è causa: da
quello di fornitore della pistola a quello di “quarto
uomo” che la ALLETTO aveva visto uscire dall’aula 6; da
persona interessata a occultare la pistola usata
nell’episodio per il quale era indagato, a quello di
“suggeritore” nei confronti di FERRARO.
Il quale FERRARO, non va dimenticato, subito dopo
la telefonata di cui si parla, chiusa alle 15,44, si
recò, secondo le sue stesse affermazioni, a “curiosare”
all’Università, da solo e per pochi minuti, a suo dire
senza capire – addirittura – il punto in cui era
accaduto il fatto: cosa ovviamente impossibile,
essendovi a quell’ora in pieno svolgimento i rilievi
della polizia con grande affluenza di persone. Una
“gita” fatta magari – secondo ipotesi accusatorie – per
recuperare il bossolo, o anche la pistola portata via
nella borsa e lasciata da qualche parte: arma e bossolo
mai ritrovati dalla polizia.
Tali ipotesi non sono del tutto peregrine, anche
alla stregua delle risposte date dal CONDEMI in
dibattimento, quando, richiesto se in quella famosa
telefonata del 9 maggio alle 15,44 avesse “per caso
chiesto a FERRARO di tornare all’Università a
recuperare una pistola” per ben due volte – in due
476
diverse domande ripetute, la seconda volta con espressa
esplicitazione del Presidente – ha risposto: la prima
volta (informato che poteva non rispondere perché la
risposta poteva essergli pregiudizievole) “non mi
ricordo; sì, rispondo benissimo perché io non mi
ricordo”; e la seconda volta: “non mi ricordo di averne
parlato”; senza mai, dunque, escludere tale
possibilità.
Ovvio che, terminato l’esame e uscito dall’aula,
il CONDEMI vi abbia fatto ritorno per correggersi
(“l’avvocatessa e un mio amico, Giuseppe, mi ha detto,
ma cosa hai detto? Ma ti rendi conto?”) e per dire che
“non aveva capito”; ma forse ha peggiorato le cose,
dicendo “mi sembrava che parlavate dell’arma di cui si
sospetta che avremmo usato nel processo che mi .. che
ho in corso”, dando ulteriore corpo al sospetto che
possa trattarsi della medesima arma!
Resta il fatto, riferito da Ilaria PEPE, che la
inesistente telefonata del CONDEMI “verso mezzogiorno”
fu menzionata dal FERRARO; che non si comprende quale
umorismo si nascondesse sotto la battuta “forse si
voleva fare un alibi” rivolta al LIPAROTA; che tutta la
vicenda è priva di senso se agganciata alle spiegazioni
di FERRARO, ed estremamente inquietante se collegata –
certo in via solo ipotetica – ad altre risultanze.
Ancora una volta non può che stigmatizzarsi la
reticenza del LIPAROTA – se non dello stesso FERRARO,
che pure attualmente risponde di solo favoreggiamento
personale – per non aver voluto fare piena luce su una
vicenda che li vede ormai raggiunti da elementi di
477
prova assolutamente prevalenti su ogni ragionevole
dubbio.
478
LA PROVA GENERICA
LE PERIZIE
In ordine alla c.d. prova generica (ed in
particolare alle perizie sulle traiettorie di tiro e
sui residui di sparo di arma da fuoco) va subito
premesso che tale questione è passata già al vaglio
della Suprema Corte, sicché alle linee guida da questa
affermate in merito è necessario in sede di rinvio
riferirsi.
Sul punto che riguarda la traiettoria di sparo la
stessa Corte Suprema ha fatto rilevare come
l’accertamento peritale balistico affidato al prof.
Compagnini (che non viene di per sé tuttavia svalutato
in alcun modo e quindi resta fermo) abbia alla fine
concluso per l’esistenza di sei possibili traiettorie
diverse provenienti esclusivamente dalla finestra n°4
dell’aula 6, di altre sei provenienti solo dalla
finestra del bagno disabili al piano terra, mentre
altre quindici possibili traiettorie intersecavano
entrambe le finestre: sicché, in definitiva, la
possibilità dello sparo dalla finestra dell’aula ove si
afferma fossero Scattone e Ferraro era pienamente
provata come, d’altra parte, quella della provenienza
dello sparo dalla finestra del bagno disabili a piano
terra. Tutto ciò in conseguenza della impossibilità di
provare con certezza la precisa posizione del capo (e
del busto) della vittima, sia nel senso di rotazione,
479
che nel senso della flessione antero-posteriore e/o
laterale, al momento ESATTO in cui fu attinto dal
proiettile.
Solamente la cinematografia della vicenda in tempo
reale, per assurdo, avrebbe potuto condurre ad
accertamenti più precisi in ordine all’angolo di
impatto (in tutti i sensi e in tutte le direzioni)
essendo chiaro che da testimoni, oltretutto al momento
della visione abbastanza indifferenti (NULLA aveva
indotto a prestare la MASSIMA ATTENZIONE ALLA POSIZIONE
DEL CAPO della ragazza in quel preciso attimo,
d’altronde praticamente a tutti sfuggito) non si poteva
pretendere la precisa verità in ordine ad una simile
varietà di posizioni angolari, in tutti i sensi e su
tutti i piani.
Questa circostanza, frutto di logica e di
esperienza elementare, troppo spesso pretermessa nelle
discussioni insorte sul punto, era stata fin
dall’origine perfettamente posta in luce dal primo
consulente medico-legale del P.M., in sede autoptica
(prof. De Luca).
Si può quindi solo affermare la compatibilità
piena ma non certo esclusiva o assoluta del punto di
partenza del colpo con la finestra n° 4 dell’aula 6,
come compatibile egualmente sarebbe la provenienza
dall’altra finestra del piano terra.
D’altra parte se i fasci di traiettorie ritenute
comunque possibili dall’ultima accurata perizia
tecnica (quella del prof. Compagnini) intersecano anche
altre finestre dell’edificio, va subito detto che altre
480
circostanze obiettive escludono, per quasi tutte, la
possibilità concreta che da quelle stanze si sia
sparato, in quella sfortunata occasione (V. sentenza di
I grado, sul punto)-.
Per quanto attiene agli accertamenti in ordine
alla presenza in loco o su oggetti riconducibili agli
imputati di RESIDUI FISICO-CHIMICI provenienti dallo
sparo, in particolare dalla capsula della cartuccia
(che contiene prodotti prevalentemente inorganici) può
dirsi, in sintesi, quanto segue.
Anzitutto, anche qui, la Suprema Corte dà un
importante indirizzo (avvertimento): non si doveva e
non si deve in questa sede di rinvio “trascurare che
nulla autorizza ad escludere che lo stato dei luoghi e
delle cose non fosse rimasto sicuramente immutato” (v.
pag. 37 Sent. di Cassazione); e ciò vale, soprattutto,
si può aggiungere, per i prelievi ambientali più
tardivi (cioè salvo speciali caratteristiche oggettive,
come si vedrà di seguito, su ALCUNI residui QUATERNARI
in contenitori o sul proiettile); considerazione di
principio che vale ancor di più a escludere la
decisività di (ancora) ulteriori nuovi
accertamenti tecnici in loco, possibilità dalla difesa
degli imputati pure ventilata.
In ordine ai c.d. GSR, cioè ai residui tipici di
esplosione di innesco di cartucce, i prelievi
effettuati il 10.5.97, alle ore 17,30, (cioè
nell’immediatezza dello sparo) sulla finestra del
bagno disabili della Facoltà di statistica, a piano
terra, dettero risultato completamente negativo. Né
481
quel giorno né in quelli successivi furono effettuati
prelievi nell’aula degli assistenti, fino al 15.5.97,
quando sulla finestra n° 4 (cioè di destra) appunto
della sala assistenti (stanza n° 6) dell’Istituto di
Filosofia del Diritto, furono rinvenute dalla P.G. –
non si sa il punto preciso- una particella composta da
antimonio e bario e un’altra di piombo e antimonio.
Una particella di piombo-antimonio fu rinvenuta
sul filtro del prelievo dai capelli di Marta Russo,
mentre più tardi, intorno al foro di ingresso del
proiettile i periti di primo grado (Torre – Benedetti e
Romanini) trovarono una particella di antimonio-piombo.
Il perito nominato in II grado –il dott. Zernar- trovò
sulla cute del capo parecchie particelle di piombo con
antimonio in traccia, che indicò come lasciate dal
proiettile nel suo tramite. I periti di I grado
classificarono la particella antimonio-bario,
ritrovata sul davanzale della finestra della sala
assistenti, come meramente “indicativa” ma non
“esclusiva” dello sparo, e cioè nel senso di
provenienza da un innesco “generico” di cartucce,
mentre la letteratura scientifico mondiale più
aggiornata (“Current Methode in Forensic Gunshot
Residue Analysis – di Schwable ed Exline –giugno 2000)
considerava residui esclusivi dello sparo le particelle
contenenti in unica combinazione piombo-antimonio e
bario, affermando non rinvenirsi questi tre elementi
uniti in alcun altro residuo ambientale.
Gli accertamenti peritali compiuti in II grado per
essersi correttamente invece rivolti ad uno “specifico”
482
innesco hanno consentito di ritenere superate in
larghissima misura le indagini svolte in I grado.
Molto correttamente si è tentato di stabilire
anzitutto la specificità dell’innesco della cartuccia
calibro 22 L.R. usata nell’omicidio, per trarne poi le
deduzioni opportune.
Per determinare ciò si è esaminato col microscopio
elettronico a scansione più moderno, con grande
accuratezza, il fondello (leggermente incavato) del
proiettile repertato nella scatola cranica di Marta
Russo.
L’esame, per essere completo, ha reso necessaria
la suddivisione di tutta l’area del fondello in ben 136
settori, pervenendosi alla individuazione di 210
particelle, di cui 194 composte da Fosforo-Piombo e
Calcio, 6 da FOSFORO-PIOMBO-CALCIO-BARIO (con silicio),
3 da Fosforo-Piombo-Antimonio, 7 particelle prive di
interesse.
Va subito sottolineato che alcune delle sei
microscopiche particelle quaternarie risultavano, alle
chiarissime fotografie del microscopio elettronico,
abbastanza profondamente “incassate” , cioè “penetrate”
nel letto della lega piombo-antimonio del proiettile,
(“conficcate”, riconosce il prof. Brandone, consulente
difesa imput. ud. 22-1-2001) sicuro indice di una loro
proiezione ad altissima velocità, frutto del fenomeno
particolare di detonazione di un innesco di cartuccia.
Gli stessi periti della difesa degli imputati si sono
dichiarati entusiasti della chiarezza del rilievo di
483
quel che è stato chiamato: “PISTA DI ATTERRAGGIO” dei
GSR sul fondello del proiettile in reperto.
Il perito d’ufficio di II grado, dott. Zernar, e i
consulenti della difesa degli imputati, prof. Brandone
e dott. Gentile, sono stati concordi nell’accettare la
necessaria conseguenza che il fosforo era uno dei
componenti dell’innesco, mentre non lo era l’antimonio
(che si trovava però nel proiettile), cosicché tali
presupposti hanno condotto alla conclusione che la
cartuccia usata nell’omicidio di Marta Russo fosse di
marca Eley (vecchio tipo), unica cartuccia con innesco
al fosforo, conclusione assunta come probabile già in I
grado dai periti Torre, Benedetti e Romanini.
Anche il prof. Alberto Brandone, consulente della
difesa Ferraro, ha accolto la conclusione che le sei
particelle rilevate da Zernar sul fondello del
proiettile sono residui di quello sparo specifico.
Ma il fatto più importante, in sede di perizie
compiute in II grado, è stato considerato il
rinvenimento –da parte del dott. Zernar, all’interno
della borsa di Ferraro- di una particella costituita
essenzialmente da FOSFORO-PIOMBO-CALCIO-BARIO, ossia di
una particella di composizione simile all’innesco ELEY”
(pag. 43 esame in dibattimento del dott. Zernor) oltre
ad un certo numero di altre particelle di cui si dirà
in seguito.
Poiché i componenti dei sicuri residui specifici
di sparo dell’innesco trovati “indovati” sul fondo del
proiettile che uccise Marta Russo (le sei particelle
“QUATERNARIE“) erano uguali da un punto di vista
484
elementare a quelli della particella rinvenuta nella
borsa di Ferraro, la Corte di II grado, su
sollecitazione e parere del dott. Zernar, conferì
un’altra perizia, detta nanotecnologica, affidando
l’incarico al prof. Roberto Cingolani, Docente di
Fisica e Direttore del Laboratorio di Nanotecnologia
dell’Università di Lecce, al dott. Ross. Rinaldi del
medesimo laboratorio, al dott. Massimo Catalano
dell’Istituto CNR-IME dell’Università di Lecce e allo
stesso dott. Zernar, al fine di confrontare tra loro
le sette particelle qualitativamente identiche sopra
indicate, di accertare l’esatta composizione chimicostrutturale, quantitativa e morfologica e di
determinare “se possa formularsi un giudizio di
identità” fra il reperto trovato nella borsa del
Ferraro e le sei incastrate nel fondello del
proiettile.
L’indagine è stata svolta con l’ausilio della più
aggiornata e sofisticata strumentazione (microanalisi
con microscopio elettronico a scansione, con
microscopio a forza atomica, microspettroscopia di
luminescenza).
Nella perizia Cingolani è precisato che un
giudizio di vera e propria identità (uguale
composizione chimica qualitativa e quantitativa,
morfologia uguale e identica struttura cristallina) non
è ipotizzabile nel caso di particelle che provengano da
sparo di un innesco di cartuccia di arma da fuoco
poiché il fenomeno impulsivo di formazione ad alta
velocità e pressione e ad altissima temperatura,
485
comporta l’intervento di una fattore casuale, che
incide sulla composizione e sulla stessa forma, non
cristallina, dei residui stessi.
Nella stessa perizia, perciò, è stata seguita la
via che viene qui indicata.
Accertato, per ciascuno dei sei residui trovati
sul fondello del proiettile, il rapporto quantitativo
(stechiometrico) tra i componenti (Silicio-Piombo,
Bario-Piombo; Bario-Fosforo; Fosforo-Calcio; FosforoPiombo) è stato formato un quadro statistico,
rappresentato dal valore-medio dei detti rapporti e
dalla barra di deviazione, cioè dall’intervallo di
variazione di essi; si è poi determinato il rapporto
quantitativo (stechiometrico) suddetto anche per la
particella trovata nella borsa del Ferraro ed i dati
ottenuti sono stati confrontati con il valore medio e
con l’intervallo di variazione delle sei particelle
rinvenute nella zona caudale del proiettile.
Si è accertato, così, che la particella rinvenuta
nella borsa del Ferraro ha rapporti quantitativi tra i
quattro componenti essenziali tali da rientrare entro i
limiti di deviazione standard rilevati dai campioni
delle sei particelle trovate sul proiettile. La
composizione qualitativa delle sette particelle è
uguale (fosforo, piombo, bario, calcio + silicio).
Lo spettro di micromappatura di luminescenza della
particella della borsa è sovrapponibile a quello delle
altre e tutti gli spettri sono identici sotto
l’aspetto energetico. La morfologia della particella
486
della borsa –coperta parzialmente da una “fogliolina”
di calcio –è elissoide.
Il prof. Cingolani ed i suoi collaboratori hanno
affermato che se la particella ritrovata nella borsa di
Ferraro fosse stata rinvenuta sul proiettile, in
ipotesi, avrebbero detto che era della “stessa classe”
o della “stessa razza”, poiché anche i suoi rapporti
stechiometrici sarebbero tutti caduti ENTRO
L’INTERVALLO DI VARIAZIONE DELLE ALTRE SEI PARTICELLE
(v. f. 13 relazione di perizia ed esame in
dibattimento).
E’ scritto nella relazione di perizia:
“Dal punto di vista deterministico, questi valori
rappresentano probabilmente il limite naturale di
riproducibilità di residui di sparo di composizione
quaternaria+ossido: qualora si potesse escludere che
particelle di questa composizione possono essere
formate da altri processi ambientali e/o di
inquinamento, sarebbe ragionevole concludere che le
particelle della zona caudale del proiettile e la
particella dello Stub sono analoghe.
L’identità, nella accezione della fisica degli
stati condensati (coincidenza strutturale, morfologica
e composizionale con errori inferiori a una parte su
un miliardo) è invece un concetto fisicamente e
chimicamente inapplicabile per particelle disordinate
del tipo da noi indagato” (cioè per particelle comunque
derivanti da sparo di esplosivi).
In questo quadro non ha senso logico rigoroso il
rilievo del prof. Brandone, secondo cui la statistica
487
non è valida perché il numero di particelle
considerate è basso e che sarebbe migliore se si
fossero avute più particelle (in ipotesi, ad esempio:
40 invece di 6); infatti, il criterio della barra
limite di differenza (CRITERIO SCENTIFICAMENTE ESATTO
PER CLASSI DI OGGETTI) avrebbe comportato addirittura
un AUMENTO e NON UNA DIMINUZIONE DEL RANGE (INTERVALLO)
AMMISSIBILE.
Ma vi è di più. Il dott. Gabriele Mario Ingo,
studioso di fama internazionale, responsabile del
Gruppo di Studio microchimico dei materiali presso il
Consiglio Nazionale delle Ricerche, consulente del
P.G., ha sottolineato come dal grafico 61 allegato alla
perizia Cingolani sia chiaro che “esiste una
corrispondenza tra le sei particelle rinvenute in zona
caudale e la particella dello stub (nella borsa di
Ferraro) poiché i rapporti atomici ricadano tutti
all’interno degli intervalli di variabilità”.
Lo stesso dott. Ingo ha affermato e documentato
suoi esperimenti di sparo con cartucce ELEY cal. 22
L.R., con innesco a base di fosforo.
Dall’analisi di ben sessanta particelle
quaternarie, sferiche o sferoidali, la relativa
statistica ha condotto alla conclusione che i valori
medi –su tale base molto più ampia- ottenuti sono stati
molto simili a quelli rilevati dal prof. Cingolani: la
particella trovata nella borsa di Ferraro cade sempre
negli intervalli di deviazione delle due statistiche.
Anche il dott. Ingo ha riaffermato: “se la
particella dello Stub-Borsa fosse stata trovata nella
488
zona caudale del proiettile, sarebbe stata da
considerare come un GSR… (v. esame in dibattimento).
Quanto alla morfologia delle particelle, in
specifico, il perito d’ufficio –dott. Zernar- si è
dichiarato del tutto d’accordo sull’affermazione che la
forma della particella ritrovata nella borsa di Ferraro
rientra tra le possibili forme dei GSR.
Ciò a conferma dell’assunto dimostrativo
dell’altro consulente del P.G., dott.ssa Giuseppina
Taleritti, Ricercatrice presso l’Istituto di Chimica
dei Materiali del Consiglio Nazionale delle ricerche,
che aveva recato vasta letteratura scientifica,
secondo cui le particelle costituenti residui di sparo
non solo non sono necessariamente di forma sferica, ma
sferoidi regolari, sferoidi nodulari e sferoidi
irregolari; cioè in termini più semplici: “sfere
perfette, allungate, ammaccate o in altro modo,
distorte, ma sempre con una rotondità tridimensionale”.
Quanto allo specifico ritrovamento nella borsa di
Ferraro, nella quale secondo l’accusa ( v. dich.
Alletto) fu riposta dopo la sparo la pistola,
l’avvocato di P.G. Petrucci, in dibattimento ha rivolto
la seguente domanda al Consulente dell’ imputato,
dott. Brandone Alberto:
“Tornando alla borsa di Ferraro e alle particelle
di cui parlava prima e quindi alla grande quantità che
si sarebbe dovuto trovare di queste particelle, ma se
un soggetto avesse voluto tentare di pulire la borsa ad
esempio sgrullandola, girandola e sgrullandola, cosa
sarebbe successo? Sarebbero uscite queste particelle o
489
le avremmo comunque trovate in grande quantità
all’interno?”
Perito Brandone Alberto: “Dipende dall’intensità
con cui questa persona ha tentato di pulire, è un po’
come lavarsi le mani col sapone o lavarsele senza
sapone”.
Avv. P.C. C. Petrucci: “Quindi potrebbe essere una
spiegazione al fatto che sono rimaste soltanto una o
due?”.
Perito Brandone A. : “Si.”
Senonchè lo stesso prof. Brandone, circa un mese
dopo, “ritratta”, per così dire, le sue affermazioni:
in una breve memoria del 22.11.2001. Dopo aver ammesso
che la cartuccia del delitto aveva il fosforo nel suo
innesco; dopo aver sostenuto che sui davanzali delle
finestre degli edifici dell’Università “non sono state
rilevate tracce (nel maggio 97) di residui di polvere
da sparo combusta riconducibili ed inneschi di tipo
“COMUNE” a base di SB, Ba e PB (fatto che qui non ha
specifico interesse) né a residui caratterizzati dalla
presenza di fosforo”, afferma: B) che nella parte
interna della borsa di Salvatore Ferraro, non sono
presenti residui di polvere da sparo e C) che la
stessa non è stata sottoposta ad operazioni di
detersione e/o di scuotimento”.
Questa Corte non può fare a meno di osservare
quanto segue, a parte la “confusione” tra residui di
“polvere da sparo” (che è la carica di lancio formata
da prodotti organici –nitroglicerine e nitrocellulose)
e residui di “innesco”, che sono tutt’altra cosa,
490
sicché la risposta sub B è letteralmente incongrua in
una indagine che verte sui GSR.
Lo stesso dott. Brandone non manca di ricordare
che sul fondello del proiettile sono state ritrovate 6
particelle quaternarie (+ silicio!) contenenti fosforo
e 194 ternarie (p+pb + ca) che ammette tranquillamente
derivare pure esse dall’innesco, sostenendo giustamente
che: “La preponderanza delle particelle trimetalliche
suddette (con fosforo) rispetto alle quadrimetalliche
non deve sorprendere; infatti, il fenomeno della
formazione dei RDS è del tutto casuale e, da un punto
di vista statistico, è lecito aspettarsi la formazione
preferenziale di particelle trimetalliche rispetto alle
quadrimetalliche in quanto è più probabile che si
incontrino tre elementi (P+PB+CA appunto), che non
quattro elementi per formare particolato (rectius:
residui) di P+PB+CA+BA”; sostiene (lo stesso Brandone)
che le prove di sparo condotte da Zernar con cartucce
Eley vecchio tipo, private del proiettile per evitare
le interferenze della composizione di quest’ultimo
(che è quindi sempre possibile: vedi presenza
antimonio)., hanno confermato tali conclusioni avendo
dato origine, in ambiente controllato e certo non
inquinato, “a particelle trimetalliche composte da
fosforo, piombo e bario (P. PB, BA)”, mentre le
quadrimetalliche di P., PB, BA con silicio (SI) e
calcio CA) in tracce”, sicchè “anche in questo caso
considerazioni di ordine statistico spiegano la
preponderanza di particelle di composizione
trimetallica rispetto alla quadrimetallica”.
491
Passa, poi, il Brandone a determinare quante
possano essere in concreto tutte le particelle di
innesco derivanti dallo sparo e ritiene di determinarle
in 250.000 (duecentocinquantamila, per difetto);
Dà atto, poi, dell’indagine di Singer R.L., D.
Devis, MM. Houch tecnici del laboratorio di Fort Worth
del Texas ( anno 1996).
Alla domanda (rivolta ad 80 laboratori di
indagini forensi di 44 Stati U.S.A. e a 2 “ laboratori
Canadesi) in merito al quesito: quando vi sono
particelle RDS (sul soggetto) sufficienti per
considerare il test positivo PER INDICARE CHE IL
SOGGETTO ha sparato o si trovava in prossimità’ DI
UN’ARMA CHE HA SPARATO”, avrebbe risposto solo il 63 %
degli interpellati.
Un laboratorio avrebbe risposto. “ 1 particella”,
un altro: “2 particelle”.
I restanti laboratori avrebbero risposto che i
criteri “erano in esame”; che “dipendeva dalle
particelle trovate” (cioè dalla loro natura, si
intende) e “simili risposte”.
Va subito sottolineato che l’oggetto del quesito
era il numero di particelle che va a cadere
immediatamente -allo sparo e per suo effetto- su di
una superficie considerata (mani, vestito del
soggetto). Il caso della particella derivante da
deposizione, post-factum, della pistola in un involucro
è, all’evidenza, ben diverso.
Lo stesso Brandone non manca, poi, di ricordare
che nella borsa di Ferraro fossero ritrovate non solo
492
la particella quaternaria classificata come Eley 22
(part 771) composta da P, PB, CA e Ba ma anche ben
altre DODICI particelle ternarie composte da fosforo,
piombo, calcio, che benissimo (sembra a questa Corte)
potevano prevenire da innesco Eley, essendo analoghe
alle 194 trovate sul fondello del proiettile che uccise
Marta Russo e che lo stesso Brandone considera GSR in
“corretto” (ammissibile) rapporto statistico con le 6
quanternarie.
Invece, per Brandone : tutte (1+12) sono di
origine esclusivamente ambientale (con quella
morfologia e struttura particolare derivante da
altissima temperatura e pressione ?); e sarebbero
anche, secondo lui, troppo poche rispetto a tutte le
938 (le 13 indicate + altre) particelle “sospette”
che il sistema di analisi automatico della Mes/EDX ha
preso in esame, nella borsa di Ferraro.
Il rapporto tra 938 particelle (in gran parte, si
assume, non derivanti con certezza da GSR) e le 13
(1+12) sarebbe troppo alto ed escluderebbe
addirittura,, che la borsa sia stata scossa, rivoltata
o sgrullata; secondo Brandone “se la borsa fosse stata
sottoposta ad operazioni di pulizia, l’analisi avrebbe
rilevato un numero ben inferiore di particelle
“sospette”.
Ma sembra agevole osservare, qui, che pare ben
logico che le altre particelle ritrovate –se sono della
più varia natura e non GSR come afferma la difesa
degli imputati – non possono essere poste in alcuna
corrispondenza statistica certa o probabile con
493
eventuali GSR; si ignora di esse quante fossero prima
della ipotizzata “sgrullata” (magari decine di
migliaia) e, soprattutto, se non siano penetrate anche
dopo tale operazione, in tutto il tempo in cui la borsa
rimase ancora , dopo il 9.5.1996, in possesso
dell’imputato.
D’altra parte, non vi è chi non veda che ben più
alta è la quantità di particelle residuo di sparo che
può trovarsi su di una mano “sparatrice” di un revolver
calibro 38 special, sottoposta a prelievo
immediatamente dopo il fatto (quantità indicata da
Brandone in un esperimento in 156 particelle per
cartucce Remington e 88 per cartucce Winchester)
rispetto alla quantità che può cadere da una pistola
automatica col. 22 LR – per di più silenziata – riposta
dopo lo sparo (non durante) in una borsa.
Tutto, in questo caso, depone per una drastica
riduzione del numero di particelle: il tipo e la
consistenza della cartuccia (38 special e cal 22 LR),
l’essere la superficie del prelievo (della mano)
direttamente in corrispondenza con lo sfoconamento
sempre esistente tra tamburo e canna nei soli revolver
(oltre i residui di bocca); il proiettarsi della
maggior parte dei residui fuori della canna, che –
sola- può, invece, lasciare residui in una borsa; il
silenziatore, che agisce, per la sua conformazione,
come trappola dei residui tendendo esso più a
trattenerli nel suo interno, rispetto ad una semplice
canna libera ecc. (come ognuno che abbia esaminato
alquanti di questi apparecchi può sapere).
494
Infine, non pare che, a ben vedere, sia decisiva
ed in linea strettamente logica assolutamente
favorevole alla tesi del dott. Brandone l’ultima
seguente sua osservazione:
“Si tenga in debito conto che le 938 particelle
rinvenute nell’interno della borsa del Ferraro, sono di
un fattore 4 volte superiore a quelle “sospette”
evidenziate nel filtro del condizionatore dell’aula n°
6 –aula assistenti- (prelievo del dott. Zernor del
giorno 11.7.2000) e, se si considera che il ruolo
assegnato ad un filtro è quello di purificare l’aria,
appare, a dire poco sorprendente, che sullo stesso
filtro siano state evidenziate solo 233 particelle che
la MES/EDX ha ritenuto sospette e meritevoli di
analisi”.
Infatti, o le particelle sospette (925, oltre le
1+12) sono compatibili (in termini di possibilità o
probabilità) con i residui di innesco –e allora il gran
numero di esse rinvenuto nella borsa di Ferraro non
fa che apportare “altra acqua al mulino dell’accusa”,
o non lo sono e l’averle trovate, dovunque, non ha
significato logico preciso ai fini che qui interessano,
posti i rilievi sopra già espressi sulla loro origine e
sui tempi della loro formazione.
In questa situazione, i consulenti della difesa
hanno osservato che comunque anche particelle
quaternarie (e anche con silicio?) potevano provenire
da inquinamento ambientale, segnalando le marmitte
catalitiche quali possibili fonti, gli oli
lubrificanti, i detersivi ecc…. quasi si trattasse di
495
meri aggregati o composti di elementi atomici diversi e
non di particelle aventi morfologia, struttura e
marchio di formazione particolare.
Premesso che né il Cingolani, né i suoi valenti
collaboratori di Lecce sono esperti balistici o di
esplosivistica, (tanto è vero che Cingolani sembra
apprendere da Zernar e da Brandone che il silicio è il
componente abbastanza usuale degli inneschi di
cartucce, quale inerte fattore di attrito, circostanza
di comune conoscenza) si perviene all’affermazione
dello stesso Cingolani che si “dovrebbe essere in grado
di escludere che esistono sistemi quaternari fosforobario-piombo-calcio (+ silicio! Nota della Corte)
potenzialmente conformi alla composizione ossida quindi
oltre ai quattro elementi anche l’ossido, che non (?)
assomiglia a questi e che però abbiano totalmente altra
origine” (v. trascriz. udienza 22.01.2001). Lo stesso
perito parla subito dopo dei catalizzatori delle
automobili che “potrebbero funzionare con materiali
pesanti di questo genere”.
Subito Cingolani osserva però, giustamente, che il
funzionamento dei catalizzatori delle automobili è ben
diverso da quello di una cartuccia di arma da fuoco:
sono molto diverse le temperature (molto più alte
nelle cartucce); sono diversissimi i valori di
pressione (migliaia di atmosfere nella cartuccia, poche
unità nei catalizzatori ecc.), sicchè a lui pare che
“quello che esce da questi numeri (delle sue indagini)
sia una caratteristica peculiare di oggetti (le
particelle quaternarie [+ silicio, nota della Corte] 496
repertate) FORMATI CON UNA REAZIONE ISTANTANEA DI TIPO
IRREVERSIBILE E TERMODINAMICAMENTE IN CONDIZIONI
LIMITE”.
Questa Corte non può fare a meno di sottolineare,
a questo punto, che anche la velocità di DETONAZIONE
DELLE MISCELE DI INNESCHI di cartucce è elevatissima
(oltre i 4500 metri alsec.: V.A. UGOLINI, L’ESPERTO
BALISTICO – Vol. I).
Cingolani riconosce che, invece, il catalizzatore
funziona non solo a temperatura più bassa (dell’altro
meccanismo) ma anche “senza reazione di deflagrazione
impulsiva e senza meccanismo di raffreddamento
istantaneo e irreversibile”.
Non afferma di avere dati positivi scientifici di
letteratura o di esperimenti controllati sulla
effettiva formazione di particelle quaternarie (+
silicio) analoghe nella struttura e morfologia, oltre
che composizione quantitativa e qualitativa, da parte
delle marmitte catalitiche o di altro.
Ed il P.G. Infelisi, ad un certo punto, osserva
che se particelle del genere provenissero dalle
marmitte catalitiche, allora “se ne dovrebbero trovare,
migliaia, milioni, miliardi…..” in riferimento ad una
continua, diffusissima giornaliera loro produzione e
non le poche decine, tra quaternarie e ternarie trovate
nei rilievi di Zernar abbastanza ampi e diffusi (v.
relazione perizia ecc.)
Questa Corte osserva che riscontrati casi del
genere (per la composizione quaternaria + silicio e
ternaria con fosforo che qui rilevano) non risultano
497
descritti nella letteratura scientifica internazionale
accreditata, soprattutto considerando la morfologia e
la struttura ed i caratteri generali (corpuscoli
sferoidali da formazione ad altissima temperatura e
pressione ecc.).
Può comunque essere rilevato: che –almeno dagli
anni dieci del XX secolo- la cartuccia a palla calibro
22 LR è la più diffusa al mondo, la più usata nel tiro
sportivo olimpionico e di divertimento (c.d. PLINKING)
oltre che per piccola caccia (ai corvidi ecc.; V.P.
Mouchon Les Calibres 22 a la Chasse et Au Tir – Ediz.
Crepin e Leblond- Parigi); che le armi di detto
calibro sono le più diffuse al mondo; che negli U.S.A.
ve ne sono decine di milioni e vengono
tradizionalmente regalate ai ragazzi al compimento del
14° anno; che la ditta KYNOCH-ELEY è uno dei maggiori
fabbricanti al mondo di cartucce; che indubbiamente di
cartucce calibro 22 del tipo e marca sopra indicati
l’ordine di produzione è stato quello di centinaia di
milioni di pezzi; che le marmitte catalitiche e gli oli
lubrificanti ecc. esistono da tempo, tanto più in
ambito anglosassone e nell’Europa del Nord; che la
cartuccia calibro 22 LR compare frequentissimamente
nella cronaca nera (il caso più famoso è stato
l’assassinio di Bob Kennedy, candidato alla presidenza
degli U.S.A.).
Quanto alla, per vero, generica ipotesi di
inquinamento c.d. “specifico”, va sottolineato anche
che i reperti proiettile e borsa di Ferraro furono
498
acquisiti a distanza di mesi l’uno dall’altro e
subirono vie e vicende diverse e separate.
D’altra parte, sembra veramente difficile che il
dott. Zernar (che ad un certo punto li ebbe nelle mani)
sia stato così sprovvisto da inquinare –lui stesso- i
reperti, l’uno con l’altro, dopo che le polemiche
sull’inquinamento generico e specifico erano così
massicciamente entrate nel processo.
Tuttavia, e in conclusione, questa Corte non
considera il reperto quaternario (più silicio) della
borsa di Ferraro e gli altri ternari ritrovati nello
stesso involucro un elemento essenziale di prova per la
condanna, ma solo un elemento ad abundantiam, meramente
probabilistico, che viene qui citato per completezza di
esame, dopo tante indagini tecniche compiute.
Anche ai reperti (TRE) di particelle definite
“Eley 22”, pur sempre trovati da Zernar proprio sul
davanzale della finestra 4 dell’aula 6 (qualche altra
fu anche trovata altrove, come sulla finestra n° 7
ecc.) questa Corte non ritiene di attribuire decisivo
significato.
Tanto più vale per le particelle ternarie
(fosforo, piombo, calcio) trovate in buon numero (40)
soprattutto nel filtro condizionatore dell’aula 6,
oltre che altrove …
499

LE CONCLUSIONI
IL TITOLO DEL REATO E LE SANZIONI
Tenendo conto, naturalmente, del giudicato
progressivo che si è formato in conseguenza del fatto
che il Procuratore Generale aveva a suo tempo fatto
acquiescenza, non presentando ricorso in proposito,
alla attribuzione sia a Francesco LIPAROTA che a
Salvatore FERRARO del reato di favoreggiamento
personale e non del concorso in omicidio (reato che è
dunque per essi ormai fuori discussione), occorre
stabilire quale sia il titolo del reato attribuibile a
Giovanni SCATTONE, autore materiale dell’azione di
sparo del colpo di pistola che ha cagionato la morte di
Marta RUSSO.
In proposito è stata ferma determinazione della
Corte quella di non introdurre, nella decisione
giuridica conseguente alla ricostruzione del fatto
operata in dibattimento (ricostruzione che già più
volte è stata esposta in questa sentenza) nessun
elemento che, travalicando il campo della “prova
provata”, sconfinasse nel terreno delle ipotesi, per
quanto ragionevoli.
500
In definitiva, al termine del processo si sa che
Giovanni SCATTONE ha sparato, ma non si sa né perché né
come; e di questo occorre prendere atto.
* * * * *
Il fatto che non si sappia “perché” SCATTONE abbia
sparato, e che dunque non si conosca il “movente” per
un omicidio come quello per cui è causa, non è certo
decisivo ai fini di una sua responsabilità.
E’ noto infatti che l’esistenza di una specifica
causale per un omicidio – doloso – costituisce
giudiziariamente una ipotesi di lavoro in sede
investigativa e poi, se accertata, un indizio a carico
dell’imputato al momento della valutazione, ma
l’accertamento della causale non costituisce certo un
“prius” indispensabile per una affermazione di
responsabilità, nemmeno per omicidio volontario (ex
plurimis, Cass. Sez. I, 25.5.95, VELLA).
Stabilito dunque che SCATTONE ha fatto partire un
colpo di pistola dalla finestra di destra della sala
assistenti verso le 11,42 del 9 maggio 1997, e che
questo colpo ha attinto alla testa, cagionandole la
morte, la studentessa Marta RUSSO che camminava nel
sottostante vialetto, il fatto che i due non si
conoscessero, che non vi fosse tra loro inimicizia né
altro, che il passaggio della ragazza in quel punto e
in quel momento fosse del tutto casuale e addirittura
improvviso, ha un importante rilievo giuridico dal
punto di vista soggettivo, ma non qualifica il fatto né
501
come tanto “assurdo” da renderlo “impossibile”, come
pretende la difesa (purtroppo, è accaduto), né come
penalmente irrilevante sotto il profilo del fortuito.
* * * * *
In proposito, un dato certo esiste, senza
necessità di ipotizzare alcunchè: Giovanni SCATTONE ha
maneggiato una pistola carica nei pressi di una
finestra aperta prospiciente su una strada pubblica, ed
anzi l’ha puntata verso l’esterno.
Il fatto che l’arma non si sia ritrovata, e che
dunque non la si sia potuta esaminare dal punto di
vista della sua specifica efficienza, impedisce ogni
considerazione tecnica – ma anche ogni illazione – che
si possa eventualmente collegare, in chiave di
accertamento della volontà omicida, all’arma in sé:
– non si sa se quella determinata pistola fosse
oppure no munita di una “sicura” efficiente;
– non se ne conosce lo stato di usura e di
conservazione;
– non si sa quanta forza fosse necessario
applicare al grilletto per far partire il colpo;
– non si sa se fosse facile ad incepparsi o se
magari, apparentemente inceppata, talvolta si
“sbloccasse” improvvisamente.
– non è certo che fosse davvero munita di
silenziatore, e di che tipo.
502
Nulla di tutto ciò si può né affermare né
escludere: ma nulla di tutto ciò si può neppure
trascurare nella valutazione.
Si tratta di elementi che non si conoscono e che
non si possono dare per scontati, né in un senso né
nell’altro, neppure sotto il profilo del quod
plerumque accidit.
In questa situazione di fatto nulla esclude che
SCATTONE, senza aver controllato preventivamente lo
stato di carica dell’arma, abbia “mirato” alla testa
della vittima per pura jattanza, o abbia solo
imprudentemente gesticolato presso la finestra con
l’arma in mano, non sapendo – o, peggio ancora, sapendo
– che l’arma fosse carica; non è possibile escludere
che egli abbia volutamente premuto il grilletto, senza
alcuna intenzione di far fuoco, nella convinzione che
l’arma fosse irrimediabilmente inceppata; non si può
escludere, con certezza e tranquillità, che il colpo
sia potuto sfuggire quasi involontariamente, per una
minima pressione sul grilletto; insomma, non è
possibile affermare nulla di certo, salvo che Giovanni
SCATTONE ha maneggiato una pistola carica in prossimità
di una finestra aperta sulla pubblica via, senza alcuna
cautela, ed anzi con la mano armata pericolosamente
rivolta all’esterno.
* * * * *
D’altra parte Giovanni SCATTONE non è un
improvvido uomo delle caverne che ignora cosa sia una
pistola.
503
Giovanni SCATTONE è un esperto di armi, un
ventinovenne che ha da poco prestato servizio nell’Arma
dei Carabinieri, al quale sono state insegnate ed
inculcate per prima cosa due nozioni fondamentali e
convergenti: come si maneggiano le armi in sicurezza e
quale sia la loro subdola pericolosità.
Certamente gli è stato insegnato che non si
maneggia disinvoltamente un’arma senza assicurarsi che
sia scarica e in sicura, e men che meno ci si avvicina
ad una finestra aperta con un’arma carica in mano, e
per nessun motivo si sporge il braccio verso fuori; ma
di questi insegnamenti non ne ha tenuto conto.
Manca qualsiasi prova sul “perché” ed anche sul
“come” lo abbia fatto, ma resta che lo ha fatto: quanto
meno resta l’ipotesi minimale, che lo abbia fatto per
leggerezza – questa sì “assurda”, ma nel senso di
“enorme”, di “straordinariamente grande” –; per
imprudenza, noncuranza, avventatezza, faciloneria,
presunzione.
In più Giovanni SCATTONE è un giurista, che ben
conosce i princìpi del neminem ledere, i doveri di
qualsiasi cittadino in relazione agli altri, gli
obblighi di prudenza che fanno capo a chiunque.
In più Giovanni SCATTONE è un giurista, che ben
conosce anche i princìpi dell’honeste vivere: e sa che
detenere, portare ed usare una pistola in luogo
pubblico sono di per sé dei gravi reati; tanto più in
piena mattina, in una bella giornata, in un luogo
frequentato come quello.
504
* * * * *
E’ pacifico che non si è trattato di un omicidio
con dolo diretto e intenzionale: nessuno ha sostenuto
in causa che SCATTONE abbia sparato per uccidere; né
per uccidere specificamente Marta RUSSO, né per
uccidere a casaccio ma volontariamente un passante
qualsiasi.
Non hanno trovato alcuno sbocco probatorio – né lo
avrebbero potuto, fuori da una confessione – le
ipotesi, che pure sono state inizialmente immaginate,
di una folle idea di “nietzscheiano superomismo”:
ipotesi fondata su alcune sconcertanti frasi, con
allusioni a sangue e morte violenta di donne, contenute
nei diari di FERRARO (di FERRARO, però, non di
SCATTONE); ed anche collegabile ad un convegno, seguito
da entrambi in epoca recente rispetto al fatto, sulla
logica giuridica e sul “delitto perfetto”: che sarebbe
quello senza movente, appunto, senza recupero
dell’arma, e senza individuazione di possibili autori
presenti sul luogo del delitto. Non manca certo una
suggestiva “somiglianza” col fatto per cui è causa,
tanto più che la distanza di tiro – una quindicina di
metri – era perfettamente compatibile con un’azione
intenzionale in rapporto alle caratteristiche tecniche
di una pistola calibro 22 L.R.
Ma è evidente che una tale ricostruzione, anche
considerando imprevedibile l’ingresso in sala
assistenti di Gabriella ALLETTO e dando per scontata la
complicità di Salvatore FERRARO, si scontrava (e si
scontra) con la accertata anteriore presenza di
505
Francesco LIPAROTA, giovane che, per la sua
personalità, si può escludere dal ruolo di complice
“per elezione” in un caso di omicidio volontario – per
“bravata” – con dolo diretto.
* * * * *
Ma non è possibile, a parere di questa Corte,
accedere neppure alla ipotesi del dolo eventuale.
E’ noto che questa figura di dolo indiretto
comporta che l’agente abbia “voluto”, con dolo,
compiere una determinata azione; che si sia prospettato
– nel caso dell’omicidio – il rischio dell’evento morte
quale conseguenza probabile o possibile della sua
azione; e che tuttavia abbia “voluto” ugualmente porre
in essere quest’ultima, accettando il rischio
dell’evento più grave.
Nel caso di specie questa Corte non ritiene
raggiunta la prova che SCATTONE abbia con dolo
“voluto” sparare, e che lo abbia “voluto” a tutti i
costi, anche a costo di uccidere una ragazza
sconosciuta, innocente ed ignara.
Questa sua presunta deliberata volontà di sparare,
in modo così determinato e cogente da accettare a
ragion veduta il rischio di uccidere (volontà che
costituisce il presupposto e l’in sè del dolo
eventuale) non è desumibile da alcun dato di fatto
concretamente esistente in atti: non esistono elementi
da cui possa desumersi un motivo che avrebbe dovuto
indurre SCATTONE a sparare (agli uccelli? ai gatti? a
un palo?), senza voler uccidere nessuno; motivo che
506
però avrebbe dovuto essere così forte da condurlo a
sparare comunque e a qualsiasi costo, anche a costo di
– prevedibilmente e probabilmente – uccidere un
passante; motivo che in questi termini appare
concretamente inimmaginabile nel caso di specie, e che
comunque non è stato prospettato e tanto meno provato.
* * * * *
Un discorso non molto dissimile deve essere fatto,
a parere della Corte, sulla colpa con previsione, ossia
sulla colpa aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 3 CP.
Infatti anche questa circostanza presuppone,
secondo il testo di legge, che l’autore abbia “agito”
“nonostante la previsione dell’evento”; e dunque per la
sussistenza dell’aggravante occorre che egli, pur
escludendo dentro di sé che si verifichi l’evento non
voluto astrattamente previsto, abbia “voluto” l’azione
che poi è risultata produttiva dell’evento.
L’esempio “classico” è quello del lanciatore di
coltelli al circo; nel caso di specie occorrerebbe
avere la prova che SCATTONE abbia “voluto” “lanciare il
coltello”, ossia sparare verso la strada, e che si sia
rappresentato l’evento morte (di quella ragazza o di un
qualsiasi passante) come mera possibilità, ritenendo di
poterlo evitare con la propria abilità personale o in
altro modo; ma poiché l’accento va posto sul fatto che
egli deve aver “voluto” far fuoco e che l’errore (nel
quale si concretizza la colpa con previsione) cada su
una valutazione di fatto in ordine alle conseguenze
dello sparo, si torna ad un punto assai simile a quello
507
prima esaminato: questa Corte non ha la prova che
SCATTONE, avvicinandosi alla finestra e sporgendo il
braccio, abbia voluto sparare verso il basso, sapendo
di avere in mano una pistola carica e il colpo in
canna, prevedendo di poter ferire qualcuno e confidando
di poterlo in qualche modo evitare.
* * * * *
Resta dunque sicuramente accertata, sul piano
probatorio, la sola ipotesi della colpa “semplice”, nel
senso di colpa non aggravata ai sensi dell’art. 61 n.
3; ma si tratta certamente di una colpa che questa
Corte valuta come estremamente grave.
Grave sul piano della condotta: il maneggiare una
pistola senza alcuna cautela, in un’ora e in un luogo
come quello, è un comportamento difficilmente
superabile sul piano della imprudenza e della
imperizia.
Grave sul piano soggettivo: SCATTONE è una persona
compos sui, dotato di grande cultura e di specifica
preparazione giuridica, esperto di armi per essere
stato Carabiniere: difficile trovare una così completa
violazione di un intero ventaglio di norme
perfettamente conosciute e assimilate.
Grave sul piano oggettivo: l’enormità delle
conseguenze cagionate non ha bisogno di essere
illustrata: non solo per Marta RUSSO, non solo per la
sua famiglia, ma per l’intera società, rimasta scossa
da un accadimento capace di minare il senso di
sicurezza, per chiunque e in qualsiasi luogo.
508
* * * * *
Quanto al trattamento sanzionatorio, reputa la
Corte di non dover riconoscere a Giovanni SCATTONE le
attenuanti generiche: incensuratezza e meriti di
carriera negli studi non valgono a superare il giudizio
estremamente negativo da farsi sulla sua personalità.
E ciò, oltre che per quanto or ora osservato in
ordine alla gravità del fatto e delle sue conseguenze,
anche per la pluralità, la natura e la gravità dei
reati commessi – due gravi delitti dolosi in materia di
armi, prodromici ad un gesto di dissennata imprudenza –
tanto più gravi proprio in considerazione delle persone
e dell’ambiente in cui maturarono: nel santa sanctorum
– la Filosofia del Diritto – di ciò che dovrebbe essere
la quintessenza del rispetto della legge, dei valori
umani, dei limiti fra il lecito e l’illecito,
dell’alterum non ledere.
Vanno rilevate le velate minacce che egli ha fatto
alla ALLETTO in sede di confronto in dibattimento:
minacce non ben percepite dagli astanti nella
concitazione, ma puntualmente avvertite e registrate
dalla donna:
SCATTONE: Sto da quindici mesi in carcere per colpa
sua, non solo per colpa sua… però anche per colpa
sua.
ALLETTO: Io non credo che è colpa mia, è solamente
colpa sua!
SCATTONE: Io non ho fatto assolutamente nulla…
invece lei la calunnia, l’ha fatta anche…
509
ALLETTO: No, no, io non l’ho fatta la calunnia…
SCATTONE: …Finché vivrò. Spero di vivere a lungo.
PRESIDENTE: Dottor Scattone, lei aveva affermato, voglio
dire aveva iniziato…
ALLETTO: Non mi piace questa cosa che ha affermato.
* * * * *
Tuttavia, nonostante la conclamata – e qui
riaffermata – gravità complessiva e specifica del
fatto, questa Corte – anche in dipendenza del diniego
delle attenuanti generiche e in accoglimento di uno dei
motivi d’appello – non ritiene di dover applicare per
il reato più grave (che la Corte di primo grado ha
ritenuto essere quello di omicidio colposo, con una
scelta non modificabile perché non impugnata) la pena
nella misura massima edittale.
La inescusabilità della condotta dello SCATTONE, e
l’elevatissimo grado della colpa che concretamente l’ha
caratterizzata; l’estrema gravità delle conseguenze
materiali del fatto; la gravità anche della negativa
risonanza dei reati commessi sull’opinione pubblica; la
condotta processuale dell’imputato, negatoria e
menzognera senza un minimo di resipiscenza, inducono a
mantenere la misura della pena ad un livello elevato.
Si ritiene congrua per l’omicidio colposo la pena
di quattro anni e quattro mesi di reclusione, che da un
lato è sufficientemente elevata (prossima al massimo
edittale che è di cinque anni) in rapporto a tutto
quanto sopra considerato, ma d’altro canto introduce un
minimo di mitigazione nei confronti di un massimo
510
assoluto che si attaglia a situazioni – ipotizzabili –
ancora più gravi di quella presente.
Ovviamente resta ferma la condanna per lo SCATTONE
anche per i reati di porto abusivo ed illecita
detenzione di arma comune da sparo, con la
continuazione tra loro.
Osserva la Corte in proposito che l’ulteriore
unificazione, operata in primo grado a titolo di
continuazione fra questi reati e l’omicidio colposo è
certamente sbagliata in diritto, non essendo
concepibile la continuazione (che deriva dalla
“identità del disegno criminoso”) rispetto ai delitti
colposi, giacché questi non sono dovuti ad alcun
“disegno” (il quale ovviamente presuppone il dolo).
Tuttavia tale specifico punto della decisione non
è stato impugnato dal Pubblico Ministero, e dunque il
principio limitatamente devolutivo espresso dall’art.
597 primo comma CPP impedisce di modificare la
statuizione.
La pena per il reato base di omicidio colposo –
quattro anni e quattro mesi di reclusione – deve dunque
essere aumentata, a titolo di continuazione, in misura
che si ritiene congrua come segue:
– quanto al delitto di porto d’arma comune da
sparo in un anno di reclusione e 350 euro di multa;
– quanto al delitto di detenzione d’arma comune da
sparo in otto mesi di reclusione e 150 euro di multa;
e così resta determinata la condanna di Giovanni
SCATTONE alla pena complessiva di sei anni di
511
reclusione e 500 euro di multa, a cui consegue
l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
* * * * *
Quanto a Francesco LIPAROTA, già si sono esposte
nel capitolo che lo ha riguardato, le ragioni che hanno
condotto questa Corte ad accogliere l’impugnazione del
PM e del PG in ordine alla sua assoluzione pronunciata
in primo grado, a ritenere da lui commesso, senza
scriminante alcuna, il delitto di favoreggiamento
personale nei confronti Giovanni SCATTONE, ed a
respingere il suo appello (che originariamente verteva
sulla formula, o meglio sul motivo della assoluzione),
nonchè le sue ulteriori domande in questo giudizio,
derivate dalla condanna subita con la sentenza
d’appello annullata.
Non possono essere riconosciute neanche a lui le
attenuanti generiche:
– perché il favoreggiamento è stato commesso per
favorire una persona imputata di un fatto (l’uccisione
di Marta RUSSO) particolarmente grave in sé e per le
specifiche modalità;
– perché il favoreggiamento ha contribuito a
protrarre nel tempo lo sconcerto e l’enorme allarme
sociale suscitato presso l’opinione pubblica, anche
durante le indagini;
– perché il LIPAROTA ha tenuto in proposito una
condotta particolarmente insidiosa (eludendo,
ammettendo, negando, affermando, ritrattando, cambiando
512
più volte versione), facendo di tutto per confondere le
acque.
La pena, in relazione ad un reato punito con la
reclusione, che non ha un minimo edittale e che prevede
un massimo di quattro anni, valutati gli elementi
indicati nell’art. 133 CP e le considerazioni ora
fatte, deve essere stabilita in due anni e due mesi di
reclusione, mantenuta cioè in misura molto distante dal
minimo e leggermente superiore alla metà del massimo
edittale.
* * * * *
Non è possibile concludere il tema delle
responsabilità degli imputati, e in particolare quella
di Salvatore FERRARO, senza ricordare che Maria Chiara
LIPARI lo indica “con sicurezza” – sia pure, a verbale,
soltanto l’8 di agosto – come presente in sala
assistenti la mattina del 9 maggio; e senza spendere
qualche altra parola sul conto di questa testimone.
In realtà è pacifico che la testimone da quasi
subito aveva avuto “la netta percezione” di aver visto
in sala assistenti, oltre a LIPAROTA e ad ALLETTO – e
ad una quarta persona da lei non identificabile, alla
cui presenza la LIPARI fa cenno fin dal 26 maggio in
occasione delle prove in aula 6 con tre manichini –
anche Salvatore FERRARO.
Maria Chiara LIPARI, fedele alla sua
determinazione di non dire nulla agli inquirenti di cui
non fosse assolutamente certa (ricordi “rispetto ai
quali non avrei fatto un passo indietro”), usava molta
513
cautela nelle verbalizzazioni: “… mi rendevo conto che
io avevo nettissima la sensazione del muro, cioè di
stare contro un muro… (accenna alla “omertà”, alla
indifferenza, se non peggio, dell’ambiente
dell’Istituto, ndr) …E quando tu hai un muro di
fronte, non è che, specie durante un’indagine per
omicidio, non tiri fuori tante cose incerte, batti sui
punti certi (…). Cioè i miei ricordi certi erano i
ricordi rispetto ai quali non avrei fatto un passo
indietro … mentre rispetto a ricordi che avevano un
carattere di probabilità, insomma, secondo me non
aveva neanche senso tirarli fuori, ecco, in quella
fase dell’indagine. Dopo, per un senso di
responsabilità io sapevo che mi sarei anche tirata
addosso critiche, polemiche, eccetera, per un senso di
responsabilità..””
Ma con i propri familiari è diverso: con i propri
familiari fin da epoca assolutamente non sospetta, fin
dal 24 maggio parla di FERRARO: ne parla sia col padre
che con la madre, in diverse occasioni, di persona e
per telefono, sia quando dice che “come un lampo” le è
tornato alla mente il viso di FERRARO, sia quando,
accorgendosi che un’automobile rossa la segue (è una
maldestra “civetta” della polizia) addirittura teme di
essere pedinata dal “calabrese”.
* * * * *
Non è qui il caso di rimestare ancora una volta
nella ostilità che l’ambiente aveva verso “la
principessa”, figlia asseritamene privilegiata di “uno
514
che nun se po’ toccà” (così Gabriella ALLETTO nel
“videoshock”); e neppure nella acredine che la LIPARI
concepisce, ed anche ostenta, verso l’Istituto e il suo
Direttore; né di porre in evidenza, ancora, quanto sia
costato alla LIPARI il suo impegno civico: qui si
devono, giudiziariamente, trarre elementi di prova dal
materiale in atti.
Già si è fatta giustizia della ipotesi difensiva
secondo cui il dott. Carmine BELFIORE che conduceva le
indagini avrebbe individuato in ALLETTO e LIPAROTA
degli “anelli deboli” e avrebbe in qualche modo
indirizzato la LIPARI a fare i loro nomi. E già si è
vista l’inconsistenza dell’altra, successiva ipotesi,
secondo la quale, una volta “stabilito che gli
assistenti viaggiano a coppie”, il nome di SCATTONE
sarebbe derivato de plano da quello di FERRARO.
Ma quello di FERRARO?
Quello di FERRARO viene da Maria Chiara LIPARI, e
basta. Sono gli inquirenti che lo apprendono da lei,
non viceversa; è per via di quelle telefonate
intercettate il 24 maggio, alle 15,45 con la madre di
Maria Chiara LIPARI ed alle 18,01 col padre, che
FERRARO diventa “il soggetto di interesse”, non
viceversa.
E allora non ci sono più né invenzioni né
pressioni né condizionamenti: è la faccia “pallida”,
“con espressione tesa e dura” che affiora “come in un
lampo” alla mente della teste: ed è la faccia di uno
che quello stesso giorno, esaminato a SIT alle ore
15,45, darà un alibi falso per l’ora del delitto.
515
E dunque, Maria Chiara LIPARI non solo è la
“fonte” da cui scaturiscono i nomi di Gabriella ALLETTO
e Francesco LIPAROTA, ma costituisce a sua volta,
assieme alla OLZAI, un importante elemento di riscontro
alle dichiarazioni accusatorie dei chiamanti: perché,
anche a non volerle prestar fede sul “tonfo” sentito
quando era in corridoio (nei pressi dell’armadio a
vetri, a cinque o sei passi dalla porta dell’aula 6) e
sul riconoscimento nella persona di SCATTONE di
quell’ombra che forse aveva visto nei pressi della
finestra, tuttavia il nome di FERRARO viene fuori
genuinamente, da lei, prestissimo (il 24 maggio), in
maniera non sospetta, e riscontra pienamente la ALLETTO
(ed il LIPAROTA).
Tanto più se si considera che Gabriella ALLETTO
(anch’essa in epoca non sospetta, prima della sua
capitolazione del 14 giugno) aveva detto alla URILLI ed
a BASCIU che “purtroppo c’entra anche Salvatore”; e che
il nome di FERRARO era a suo dire “venuto fuori nei
discorsi” col Sostituto LA SPERANZA (senza destare in
lei il benché minimo stupore), quando poi, come si è
visto, il magistrato le aveva fatto sul FERRARO due
domande assolutamente banali e prive di qualsiasi
allusività o indiziarietà.
* * * * *
Che poi Maria Chiara LIPARI non sia una visionaria
se lo confessano, malgrado tutto, i suoi colleghi
Gianluca SACCO e Pier Paolo FIORINI in una
conversazione del 28 maggio:
516
FIORINI: se qualcuno accenna al fatto che Chiara è
matta, sta sbarellando, tu fai la voce assolutamente
opposta, dicendo no, Chiara la conosco benissimo, è
una che proprio non sbarella, che regge benissimo, è
molto lucida”.
SACCO: “e certo, io l’ho già fatta questa cosa tra
l’altro”;
FIORINI: “Mi raccomando, eh. Spargi molto questa
notizia falla trapelare il più possibile, che Chiara
non è che.. … è molto lucida..… sia per salvaguardare
la posizione di Chiara che ormai gli stanno dando
addosso e questo non mi va punto, secondo perché c’è
un motivo anche per questo fatto, poi te lo
spiegherò”.
SACCO: “ma io questa cosa già la facevo comunque, no,
guarda che Chiara è fin troppo.. anzi forse il
problema è che sia troppo lucida”.
Sarebbe davvero interessante sapere per quale
motivo (“che poi ti spiegherò”) Pier Paolo FIORINI –
quello dell’alibi di SCATTONE, quello che vuole
“minare alle basi” il lavoro degli inquirenti – vuole
spargere “il più possibile” la voce (magari falsa, a
quanto si capisce dal contesto, benché SACCO sia di
parere opposto) che la LIPARI “non sta sbarellando”,
“regge benissimo” ed “è molto lucida”; questa “voce”
sulla piena attendibilità della LIPARI serve a FIORINI
(sarebbe “molto utile”) per qualche non chiarito
intento, che tuttavia sembra inquinatorio: infatti la
medesima telefonata era cominciata con FIORINI che
chiede “un favore” a SACCO: “Domani agli esami con
517
molta intelligenza dovresti farmi un favore di
iniziare ad innescare una discussione sul fatto, di
cui ti devi ricordare tutto quello che dicono tutti”; e
SACCO annuisce: “ah, quello che dicono gli altri, sì
sì”.
Oltretutto, FIORINI e SACCO sono quelli che hanno
“fede cieca” nelle persone arrestate, come commentano
subito dopo l’arresto, all’alba (ore 4,36) del 15
giugno:
SACCO: (…) E allora io rimango fedele a questo
cioè come una fede proprio cieca, finché proprio non
mi dimostri il contrario, ma nel senso che, ma neanche
se uno mi confessi, sono stato io, cioè uno di questi
insomma, io ci credo, perché fino a quando, capito…
FIORINI: Certo, certo…
SACCO: Sono pronto a prenderlo a schiaffi finché non
mi dica il contrario, capito, l’hanno plagiato o
altro…
Senonchè, il giudizio positivo su Maria Chiara
LIPARI si conferma più avanti nella stessa
conversazione tra i due:
FIORINI: “… perché boh, insomma, io ho anche detto
ieri ai giornalisti se lei ha visto qualcosa non se
l’è inventata, insomma”
SACCO: Hai accennato a questo?
FIORINI: Eh, sì, gliel’ho detto sì, perché secondo me
è così, cioè non se l’è inventato, cioè se ha visto,
però se ha visto non se l’è inventato, da lì in poi
però…
518
* * * * *
Quanto a Salvatore FERRARO, dunque, egli è
certamente autore di una attività favoreggiatrice nei
confronti dello SCATTONE, non essendovi alcun elemento
di prova in ordine ad una sua condotta materiale che
possa configurare per lui una ipotesi di cooperazione
nel delitto colposo commesso da Giovanni SCATTONE.
La derubricazione dell’imputazione di omicidio
volontario nel reato di favoreggiamento personale non
pone problemi di carattere processuale.
La dottrina e la giurisprudenza hanno chiarito che
il principio della correlazione tra sentenza ed accusa
contestata, sancito dall’art. 521 CPP, é volto a
tutelare il diritto di difesa dell’imputato, il quale
deve essere messo in condizione di conoscere l’addebito
che gli viene mosso, al fine di rispondere con la più
opportuna linea difensiva. Perché sussista un
illegittimo mutamento del fatto, che conduca alla
nullità della sentenza ex art. 521 CPP, occorre una
trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali,
della fattispecie concreta, in modo che l’imputato
soffra della incertezza sull’oggetto dell’imputazione
in punto di fatto, da cui scaturisca un reale
pregiudizio dei suoi diritti di difesa.
L’indagine volta ad accertare la violazione del
principio suddetto non può esaurirsi nel pedissequo e
mero confronto puramente letterale fra contestazione e
sentenza: vertendosi in materia di garanzie di difesa,
la violazione è del tutto insussistente quando
519
l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto
a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in
ordine ai fatti che sono l’oggetto dell’imputazione.
Spetta perciò al Giudice valutare se le correzioni, le
integrazioni, le modifiche apportate abbiano realmente
inciso sul diritto di difesa (Cass. SS.UU. 22 ottobre
1996 n. 16, DI FRANCESCO).
Orbene, è indubbio che Salvatore FERRARO ha avuto
la più ampia possibilità di difesa in ordine a tutti
gli aspetti della sua condotta anteriore, contemporanea
e susseguente al fatto e che abbia esercitato i suoi
diritti, personalmente e per mezzo dei difensori, in
tutta la loro estensione.
Egli ha avuto l’inequivocabile contestazione di
aver assistito allo sparo, di aver consentito a
SCATTONE di riporre la pistola nella sua borsa, di
averlo lasciato andar via e di aver poi provveduto a
portar via la borsa con la pistola dentro; ha avuto
contestazione delle dichiarazioni di Giuliana OLZAI,
che lo ha visto allontanarsi sul retro con SCATTONE, ha
avuto contestazione di tutti i suoi rapporti con
Francesco LIPAROTA e con Domenico CONDEMI e degli altri
tentativi di indirizzare i “ricordi” dei testimoni; i
suoi consulenti hanno partecipato a tutte le perizie.
Non si è dunque verificata alcuna violazione per
il mutamento del titolo del reato – oltretutto, meno
grave – come del resto aveva già argomentato il giudice
di primo grado.
* * * * *
520
Detto questo, reputa questa Corte che la condotta
favoreggiatrice di Salvatore FERRARO nei confronti di
Giovanni SCATTONE sia stata particolarmente
riprovevole.
Essa è iniziata immediatamente, nel momento stesso
del fatto, quando si mise “le mani nei capelli” al
momento dello sparo (e forse l’unica dolorosa
spiegazione di questo gesto è che egli abbia udito il
grido di morte della giovane studentessa, visto che
egli non guardava fuori e non poteva, essendo presso la
scrivania, vedere cosa fosse accaduto. Lo sparo in sé,
un colpo in aria senza conseguenze, non avrebbe
giustificato il gesto di “disperazione” descritto sia
da Gabriella ALLETTO che da Francesco LIPAROTA).
Sta di fatto che in quel momento egli accettò che
l’amico infilasse la pistola nella sua borsa e se ne
andasse, e si assunse il tacito incarico di
“provvedere” riguardo alla pistola; e infatti
provvedette, prese la borsa e la portò via con la
pistola occultata al suo interno (secondo le
dichiarazioni di Gabriella ALLETTO e Giuliana OLZAI).
* * * * *
Segue a questa prima, fondamentale scelta, tutta
la condotta successiva, consistente – a parte le
“pressioni su LIPAROTA nelle “cene”, e a parte molti
interventi ritenuti depistanti (come il particolare
dello studente con la tuta mimetica che sarebbe stato
armato, di MANCINI appassionato d’armi) e di cui
FERRARO parlò a FIORINI.
521
Certo, egli ha anche taciuto ciò che sapeva in
ordine alla condotta di SCATTONE e alla dinamica
dell’omicidio quando fu sentito come persona informata
dei fatti dalla polizia e dal PM; ma qui il tema si
intreccia col suo stesso “autofavoreggiamento”.
Salvatore FERRARO è stato sentito per la prima
volta alle ore 15,35 del 24 maggio.
In quella circostanza egli rispose falsamente ad
una domanda piuttosto diretta e inequivocabile: se
avesse mai notato qualcuno dell’Istituto maneggiare
un’arma.
La sua risposta: “non ho mai visto alcuno degli
assistenti o impiegati dell’Istituto armato di pistola
né ho mai affrontato con nessuno di essi l’argomento” è
un palese mendacio che integra l’ipotesi del
favoreggiamento nei confronti di SCATTONE (e anche di
sé stesso in relazione all’asporto della pistola); e da
questa linea FERRARO non ha mai debordato.
Significativo anche il fatto che egli abbia, in
quella occasione, spontaneamente fornito il proprio
alibi, menzionando SCATTONE e la telefonata che questi
gli fece alle 12,56 (spostandola però alle 12,15 circa,
come successivamente dirà, sbagliando – o mentendo –
Stefano LA PORTA):
“Voglio aggiungere che io, la mattina del 9
maggio, ho ricevuto diverse telefonate presso la mia
abitazione a partire dalle ore 10,30. In particolare,
ricordo che mi ha chiamato diverse volte una mia amica,
Marianna MARCUCCI, per l’organizzazione di una festa. A
questa festa doveva partecipare anche il dott. SCATTONE
522
che mi ha chiamato, per mettersi d’accordo sul regalo o
sull’appuntamento, alle ore 12,15 circa, dal telefono
ubicato presso la Sala cataloghi dell’Istituto di
Filosofia del Diritto”.
* * * * *
Salvatore FERRARO, colpevole di favoreggiamento
personale, deve essere condannato, in accoglimento
dell’appello del PM, anche per i reati di porto abusivo
ed illecita detenzione di arma comune da sparo,
dimostrati dalle nitide dichiarazioni della ALLETTO,
con cui non contrastano quelle di LIPAROTA (che fa
portar via la borsa a SCATTONE); detti reati sono
unificati col vincolo della continuazione, essendo
stati commessi i delitti in materia di armi con la
stessa azione del favoreggiamento.
Non possono essere riconosciute neanche al FERRARO
le attenuanti generiche per ragioni analoghe a quelle
esposte riguardo a LIPAROTA:
– perché il favoreggiamento è stato commesso per
favorire una persona imputata di un fatto (l’uccisione
di Marta RUSSO) particolarmente grave in sé e per le
specifiche modalità;
– perché il favoreggiamento ha contribuito a
protrarre nel tempo lo sconcerto e l’enorme allarme
sociale suscitato presso l’opinione pubblica, anche
durante le indagini;
– perché il FERRARO ha tenuto una condotta
particolarmente insidiosa per avere egli asportato e
occultato l’arma del delitto; ed inoltre per avere
523
tentato di diffondere fra i possibili testimoni – fra
cui LIPAROTA – l’informazione secondo cui egli il
giorno del fatto fosse stato tutta la mattina in casa e
comunque vi fosse al momento dello sparo; tentato di
orientare o sviare le indagini con false voci circa
persone armate che frequentassero l’Università;
prodotto un alibi falso e indotto altri a sostenerlo.
La pena per il reato più grave, che è quello di
porto illegale di arma comune da sparo, punito con pene
edittali minima e massima maggiori, si reputa congrua,
valutati gli elementi indicati nell’art. 133 CP e le
considerazioni ora fatte, nella misura di tre anni di
reclusione e 350 euro di multa, mantenuta cioè in
misura distante dal minimo per la gravità del fatto,
ancorché parecchio lontana dal massimo edittale.
Detta pena deve essere aumentata, a titolo di
continuazione, in misura che si ritiene congrua come
segue:
– quanto al delitto di favoreggiamento personale
in un anno e due mesi di reclusione;
– quanto al delitto di detenzione illecita d’arma
comune da sparo in quattro mesi di reclusione e 150
euro di multa;
restando così determinata la pena complessiva per
Salvatore FERRARO in quattro anni e sei mesi di
reclusione ed cinquecento euro di multa, cui consegue
l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
* * * * *
524
Devono essere confermati gli altri punti della
decisione della sentenza impugnata, ivi comprese tutte
le statuizioni civili.
Previa conferma della sentenza impugnata in ordine
alle spese processuali a carico degli imputati SCATTONE
e FERRARO relative a quel grado di giudizio, il FERRARO
deve essere condannato alle spese processuali di questo
grado di giudizio, ed il LIPAROTA alle spese
processuali di entrambi i gradi di giudizio; ciascuno
degli imputati – compreso SCATTONE – va dichiarato
tenuto al pagamento delle suddette spese processuali in
solido con gli altri imputati, secondo le rispettive
attribuzioni sopra specificate.
Gli imputati Giovanni SCATTONE e Salvatore FERRARO
devono essere condannati, in solido fra loro, alla
rifusione delle spese sostenute in questo grado di
giudizio dalle parti civili costituite, liquidate come
in dispositivo.
In ogni caso si intende richiamata la sentenza di
primo grado nelle parti compatibili o non superate
dalla presente motivazione.
Stante la particolare complessità del caso, si
fissa per il deposito della motivazione il termine di
giorni novanta.
P. Q. M.
V° gli artt. 627, 605, 592 CPP, in parziale
riforma della sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise
di Roma in data 1° giugno 1999, nei confronti di
SCATTONE Giovanni, FERRARO Salvatore Antonio e LIPAROTA
Francesco, appellata dal Procuratore della Repubblica,
525
dal Procuratore Generale, e dagli imputati suddetti,
così provvede:
1) – dichiara FERRARO Salvatore Antonio colpevole
del reato di favoreggiamento personale, nonché dei
reati di porto abusivo ed illecita detenzione di arma
comune da sparo, ritenuti tutti i reati unificati col
vincolo della continuazione, e determina la pena
complessiva in quattro anni e sei mesi di reclusione ed
euro cinquecento di multa;
2) – ferma restando, per SCATTONE Giovanni,
l’affermazione di responsabilità per il reato di
omicidio colposo, con la continuazione già ritenuta in
primo grado con gli ulteriori reati di porto abusivo ed
illecita detenzione di arma comune da sparo, riduce la
pena per il reato di omicidio colposo ad anni quattro
di reclusione determinando la pena complessiva in anni
sei di reclusione ed euro cinquecento di multa;
3) – dichiara LIPAROTA Francesco colpevole del
reato di favoreggiamento personale, così giuridicamente
definito il fatto di cui al capo b) dell’originaria
imputazione, e lo condanna alla pena di anni due e mesi
due di reclusione;
4) dichiara SCATTONE Giovanni interdetto in
perpetuo dai pubblici uffici e FERRARO Salvatore
Antonio interdetto dai pubblici uffici per la durata di
anni cinque;
5) – conferma la sentenza impugnata in ordine alle
spese processuali a carico degli imputati SCATTONE
Giovanni e FERRARO Salvatore Antonio relative a quel
grado di giudizio;
526
6) – condanna l’imputato FERRARO Salvatore Antonio
al pagamento delle spese processuali di questo grado di
giudizio; condanna LIPAROTA Francesco al pagamento
delle spese processuali di entrambi i gradi di
giudizio; dichiara ciascuno degli imputati tenuto al
pagamento delle suddette spese processuali in solido
con gli altri imputati, secondo le rispettive
attribuzioni sopra specificate;
7) – conferma nel resto la sentenza di primo
grado, anche rispetto a tutte le statuizioni civili;
8) – condanna gli imputati SCATTONE Giovanni e
FERRARO Salvatore Antonio, in solido, alla rifusione
delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalle
parti civili costituite, che liquida in Euro 9900
ciascuna, oltre IVA e CAP, per le parti civili Donato
RUSSO, Aureliana IACOBONI e Tiziana RUSSO; ed in Euro
6600, oltre IVA e CAP, per la parte civile Università
degli Studi “La Sapienza” di Roma.
Fissa per il deposito della motivazione il termine
di giorni novanta.
ROMA, 30 novembre 2002.

Change privacy settings
×