SERIAL KILLER DEL SALENTO:
DOPO 13 ANNI RIAPERTO IL CASO 

La procura generale presso la Corte d’Appello di Bari ha espresso parere favorevole al giudizio di ammissione alla revisione del processo per il detenuto Vincenzo Faiuolo, condannato definitivamente a 25 anni di reclusione (13 anni e 6 mesi già scontati) per l’omicidio di una signora della quale si è poi accusato il serial killer di anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 46 anni.

I giudici della corte d’Appello, accogliendo il parere del sostituto pg Anna Maria Tosto, hanno quindi ammesso la revisione.

“Prossimamente - ha spiegato il difensore di Faiuolo, l’avv. Claudio Defilippi - sarà fissata l’udienza nel corso della quale sarà affrontato il giudizio di revisione”. In quell’occasione sarà riesaminata la presunta responsabilità dell'imputato.

Faiuolo è in carcere a Volterra per il delitto di Pasqua Ludovico, di 86 anni, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. E’stato ritenuto l’esecutore materiale del delitto, per il quale fu processato anche il suo fratellastro, Francesco Orlandi, ritenuto suo complice e condannato a 11 anni di reclusione, pena che ha interamente scontato. Entrambi a suo tempo avevano confessato il delitto ma qualche tempo avevano spiegato che la confessione era stata indotta, tesi questa che ha portato la magistratura barese ad affermare che il caso deve essere riaperto, sia alla luce delle “prove sopravvenute”, che sono ritenute “serie”, sia in virtù degli elementi di riscontro forniti da Sebai negli ultimi anni: il serial killer si è infatti accusato di aver ucciso 14 anziane tra il 1995 e il 1997, compresa la Ludovico. Così facendo Sebai ha scagionato otto persone che erano state condannate negli anni per aver compiuto i diversi omicidi. I magistrati che finora hanno giudicato il serial killer non lo hanno ritenuto credibile perché - questo il ragionamento - egli si è autoaccusato degli omicidi solo per scagionare gli otto veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. Uno di questi, Vincenzo Donvito, si è suicidato in cella a Teramo il 21 luglio 2005 dopo aver proclamato per sette anni la propria innocenza.

La richiesta di revisione era stata presentata dall’avv. Defilippi sulla base di una serie di elementi. Tra l'altro Faiuolo aveva confessato di aver ucciso la donna con un coltello (recuperato) che si è poi rivelato diverso da quello usato dall'assassino; ha poi spiegato di aver colpito la vittima con fendenti sferrati personalmente con la mano sinistra (perché è mancino), invece la donna era stata assassinata da un killer destrimano. Ancora: gli anelli che la donna possedeva sono stati trovati nella disponibilità di Sebai.

SERIAL KILLER DEL SALENTO (2):
FINITO IL SILENZIO DI OTTO INNOCENTI 

“La decisione dei giudici baresi è un successo importante perché riapre il caso Sebai. L’attenzione ora va agli otto innocenti, di cui uno si è suicidato in carcere, che sono stati condannati a complessivi 100 anni di carcere per delitti che non hanno compiuto. Il silenzio di questi otto innocenti oggi è finalmente finito”.

Così l’avv.Claudio Defilippi ha commentato la decisione della corte d’Appello di Bari di ammettere la revisione del processo per il proprio assistito, Vincenzo Faiuolo, condannato a 25 anni di reclusione per aver ucciso un’anziana donna.

"Abbiamo trovato a Bari dei magistrati che hanno voluto vedere dentro le cose. Mi auguro - afferma Defilippi - che si possa al più presto verificare la responsabilità di un altro innocente, Giuseppe Tinelli, condannato all'ergastolo per gli omicidi di Celeste Commesatti (Palagiano, Taranto, 13 agosto 1995) e di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997). Tinelli ha tentato di suicidarsi per due volte in carcere ingerendo candeggina. Spero che, dopo 15 anni di detenzione, possa ottenere la sospensione della pena per questi due delitti che non ha commesso".

Delle otto persone innocenti, sei delle quali sono difese da Defilippi, le sole detenute sono Tinelli e Faiuolo.

SERIAL KILLER DEL SALENTO (3):
GLI ERRORI DELLA MAGISTRATURA DI TARANTO 

di Piero Laporta

 
Vincenzo Faiuolo, in carcere da 14 anni (ne dovrebbe scontare 25) per l'omicidio di Pasqua Ludovico, 86 anni, uccisa vicino Taranto il 14 maggio 1997, ha ottenuto la riapertura del processo dalla Corte d'appello di Bari con il parere del sostituto pg Annamaria Tosto. Sebai Ezzedine, il serial killer tunisino, come riferì Italia Oggi sin da dicembre, ha confessato il delitto Ludovico, altri 13 omicidi e un tentato omicidio.

La revisione per Faiuolo scuote la sentenza del gup di Taranto, Valeria Ingenito, che assolse Sebai il 23 febbraio 2009, nonostante fornisse riscontro, confessando pure il furto d'una pistola, sotterrata poi nella sua abitazione. I carabinieri rimossero una grata di ferro e scavarono per ritrovare l'arma. Secondo il Pm Antonella Montanaro, la pisto la poteva averla occultata chiunque e Sebai aveva persino sbagliato il calibro (6,35 anziché 6,38!). L'intervento della corte d’Appello di Bari può chiarire i processi di Taranto. Sebai, condannato all'ergastolo solo per quattro dei 14 omicidi confessati, è stato assolto a Taranto per tre omicidi per i quali gli stessi giudici avevano già condannato otto persone dichiaratesi poi innocenti. Uno di questi, Vincenzo Donvito, trentenne, si suicidò nel 2006, dopo la condanna all'ergastolo, proclamandosi innocente. Significativo, inoltre, che Sebai sia condannato per un omicidio per il quale non era mai stato condannato nessuno.

I dibattiti processuali, intanto, si arroventano. Il 13 febbraio la difesa di Sebai contestò al pm Vincenzo Petrocelli la scomparsa d'un documento della questura di Taranto che avvalorava le confessioni dell'imputato, il quale ammise anche il furto conseguente al delitto Comesatti e svelò il nome del ricettatore al quale si era rivolto prima di essere fermato dalla polizia, perquisito, fotografato, identificato con le impronte e infine rilasciato. Petrocelli, negata l'esistenza del documento della questura, accusò il tunisino d'autocalunnia. La difesa allora produsse la copia del documento negato dal pm Petrocelli, il quale, secondo alcuni testimoni, a quel punto s'allontanò dall'aula d'udienza.

Se ciò fosse vero, sarebbe gravissimo. Il fascicolo processuale doveva essere integralmente nelle mani del Gup; il pm non poteva detenere il documento, per di più negandone l'esistenza. L'uscita dall'aula di Petrocelli, inoltre, annullerebbe l'udienza. Pare che Petrocelli abbia querelato per calunnia l'avvocato difensore di Sebai per aver riferito tali circostanze nell'atto di appello. Sarebbe, questo, un terzo fatto d'inaudita gravità: un difensore non può essere querelato per le dichiarazioni dibattimentali.

La stampa locale non manca di ricordare in queste ore che il pm Petrocelli fu coinvolto in un grave errore giudiziario: Domenico Morrone scontò 15 anni da innocente e fu risarcito con 4,5 milioni di euro. Un girone di sangue, errori, superficialità. Delitto Stella, 1997. Delle impronte di Sebai s'accorsero dieci anni dopo; peggio ancora per il primo tentato omicidio, nel 1994. Assunta Aprile, sopravvissuta, dichiarò: «Posso riconoscerlo». Né le mostrarono le foto di Sebai né rilevano le impronte, già schedate dal 1991. Seguirono 14 omicidi, otto persone finirono in galera, una si suicidò.

La corte d'Appello di Bari chiarirà che cosa accadde a Taranto, dove nel frattempo al difensore di fiducia di Sebai, ammesso al gratuito patrocinio, sono stati riconosciuti 3mila euro rimborsabili a fronte d'una nota spese di 88mila. Solo le fotocopie, le perizie e le trasferte a Taranto costano molto e molto più di 3mila euro. Il ministro Angelino Alfano è a conoscenza di queste vicende?

Fonte: Italia oggi

MORTE DI STEFANO CUCCHI:
CHIUSA L’INCHIESTA. IN 13 RISCHIANO PROCESSO 

Stefano Cucchi è stato lasciato morire. Per ore i medici della struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove il geometra romano morì il 22 ottobre scorso (una settimana dopo il suo arresto per possesso di droga), per giorni non hanno fatto nulla, non hanno messo in atto neanche le più elementari procedure, come somministrargli un cucchiaino di zucchero, che gli avrebbero potuto salvare la vita.

E' un quadro drammatico quello che emerge dal capo di imputazione firmato dai pm della procura di Roma Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy depositato oggi. In totale sono tredici gli indagati al termine di una inchiesta durante la quale i pm hanno acquisito oltre 80 testimonianze.

Per sei medici, tre infermieri e un dirigente del provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria (Prap) le accuse sono, a vario titolo, di favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica. I reati contestati, invece, ai tre agenti penitenziari sono lesioni e abuso di autorità. Per i primi la posizione si aggrava. Viene infatti a cadere l’accusa di omicidio colposo ma secondo i magistrati della procura di Roma, la morte conseguente all’”abbandono di persona incapace” profila una fattispecie più grave, sanzionabile fino ad 8 anni di reclusione rispetto ai 5 anni previsti dall'omicidio colposo.

Nel capo di imputazione i pm scrivono che i medici e gli infermieri in servizio dal 18 ottobre al 22 ottobre dello scorso anno “abbandonavano Stefano Cucchi del quale dovevano avere cura” in quanto “incapace di provvedere a se stesso”. Le condizioni del giovane geometra romano erano gravi e quindi “esigeva il pieno attivarsi dei sanitari” che invece “omettevano di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza”. Al personale ospedaliero, tra le varie omissioni contestate, ce n’é una che riguarda la mancata somministrazione di zucchero al paziente. Gli indagati non hanno mosso un dito anche se Cucchi, come rilevato da esami effettuati il 19 ottobre, aveva “valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl” che è “al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica come pericolosa per la vita”. Secondo i pm non si è intervenuto “neppure con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d’acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso”.

Secondo quanto ricostruito dai magistrati capitolini, dopo il pestaggio (fu preso a calci e spinto) messo in atto dalle guardie carcerarie il 16 ottobre, in una delle celle di sicurezza del tribunale di Roma, dove Cucchi si trovava in attesa dell'udienza di convalida, è scattata una vera e propria operazione di copertura per impedire che la verità venisse fuori. In particolare il funzionario del Prap istigò uno dei medici indagati che il 17 ottobre era in servizio presso la struttura protetta del Pertini “a indicare falsamente nell’esame obiettivo riportato nella cartella clinica redatta all’ingresso del paziente che le condizioni generali di Cucchi erano buone”.

Il responsabile  regionale dell'amministrazione penitenziaria, inoltre, “si sarebbe recato in orario extralavorativo (sabato 17 ottobre alle 18) al Pertini, redigendo la richiesta di disponibilità del posto letto per il ricovero di Cucchi che si trovava presso il pronto soccorso del Fatebenefratelli”.

I pm nell’atto di conclusione indagini accusano il medico di turno nella struttura protetta del Pertini, Flaminia Bruno, di aver dichiarato il falso nel certificato di morte di Cucchi. La dottoressa “avrebbe falsamente attestato che si trattava di morte naturale, pur essendo a conoscenza delle patologie di cui era affetto”.

I medici dell'ospedale romano, in un primo tempo sospesi e poi reintegrati, ora continuano ad essere in servizio.

Amaro il commento del legale della famiglia Cucchi: “Le ultime ore della vita di Stefano ricordano quelle degli internati di Auschwitz”.

MORTE STEFANO CUCCHI (2):
LA VICENDA GIORNO PER GIORNO 

Stefano Cucchi, 31 anni, viene fermato dai carabinieri a Roma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 al Parco degli Acquedotti, un’area verde della capitale, nella zona della via Appia, con addosso 20 grammi di droga. Il giovane muore una settimana dopo, il 22 ottobre, e il suo corpo, sul tavolo dell'obitorio dell’Istituto di medicina legale, presenta lividi e il volto tumefatto. A causa delle sue condizioni di salute, prima della morte, Cucchi era  stato visitato dai medici del carcere romano di Regina Coeli e degli ospedali Fatebenefratelli e Pertini.

Il 29 ottobre, con il consenso della famiglia, CNRmedia pubblica sul suo sito le foto del cadavere di Stefano dopo l’autopsia. Una profonda ferita circolare, ancora aperta, sul polpastrello del pollice della mano sinistra e tante piccole ferite simili tra i capelli, sulle ginocchia, sulla gamba destra che sembravano bruciature di sigaretta compaiono negli scatti. Il giorno stesso la famiglia di Stefano Cucchi chiede al governo di chiarire la morte del giovane e il giorno seguente la procura di Roma, nella persona del pm Vincenzo Barba, avvia un’indagine per l’ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale. Viene anche disposta una seconda autopsia con la nomina di altri periti legali.

L’11 novembre la procura dispone la riesumazione del cadavere del giovane.

Il 13 novembre sei persone ricevono altrettanti avvisi di garanzia: vengono iscritti nel registro degli indagati tre agenti di polizia penitenziaria e tre medici dell’ospedale Sandro Pertini, i primi tre per omicidio preterintenzionale, i secondi per omicidio colposo. Tra le testimonianze raccolte dagli inquirenti la deposizione di un detenuto africano, un immigrato del Gambia, il quale afferma che Cucchi era stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria nella cella di sicurezza del tribunale, dove era stato portato per l’udienza di convalida del fermo.

Il 16 novembre la procura dispone una perizia per accertare se le macchie rosse riscontrate sui pantaloni che Cucchi indossava quando era stato ricoverato all'ospedale Pertini fossero di sangue e se appartenessero al giovane.

Il 21, durante l'incidente probatorio davanti al gip, l’immigrato testimone dice di non aver visto il pestaggio, ma di aver notato il trascinamento di Stefano in cella.

Ma il 2 dicembre 2009 il Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, afferma che l’inchiesta amministrativa da lui disposta sulla morte di Cucchi aveva rilevato fino a quel punto l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria.

Il 16 dicembre altri tre medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma finiscono sotto inchiesta, sempre per l’ipotesi di reato di omicidio colposo.

Il 2 febbraio 2010 la relazione del radiologo nominato dai titolari degli accertamenti per fare luce sulla morte di Cucchi afferma che le lesioni riscontrate sul corpo del giovane non erano mortali ma comunque riconducibili al presunto pestaggio subito, mentre risaliva ad un’epoca precedente all’arresto per droga la frattura alla vertebra lombare rilevata sulla salma. Diverso il parere della famiglia: il legale dei Cucchi, Fabio Anselmo, rivela, sulla base del referto del radiologo di fiducia, il professor Fineschi, che il corpo di Stefano presenta la colonna vertebrale rotta in sede coccigea e alla vertebra L3 e che le fratture sono recentissime e non precedenti all'arresto e al presunto pestaggio del giovane.

Fonte: ANSA

MOSTRO DI FIRENZE:
NUOVA SCONFITTA PER IL PM MIGNINI 

Nuova sconfitta per il pm di Perugia Giuliano Mignini - lo stesso che ha sostenuto l’accusa nel processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kirchner - nell’appendice perugina e del tutto fantasiosa della vicenda del mostro di Firenze.

Tutti gli imputati, tra cui anche alcuni funzionari di polizia di grosso livello, accusati da Mignini di presunte irregolarità compiute in occasione del ritrovamento del cadavere del medico Francesco Narducci, ripescato il 13 ottobre del 1985 nel lago Trasimeno, sono stati assolti. La decisione del gup Paolo Micheli è stata letta il 20 aprile scorso al termine di una camera di consiglio durata quasi l’intera giornata.

Nell’inchiesta sulle presunte irregolarità erano coinvolti a vario titolo familiari di Francesco Narducci, pubblici ufficiali, appartenenti alle forze di polizia e altri soggetti. La parte centrale del procedimento riguardava una presunta associazione per delinquere della quale - secondo la ricostruzione accusatoria - sarebbe stato promotore Ugo Narducci, padre del gastroenterologo. Tra i reati per i quali il pm Giuliano Mignini aveva chiesto il rinvio a giudizio, sempre a vario titolo, degli imputati anche quelli di falso, omissione di atti di ufficio e occultamento di cadavere. Per tutti il gup ha però disposto il proscioglimento con la formula più ampia: “perché il fatto non sussiste” riguardo all’associazione per delinquere e “perché il fatto non costituisce reato” per quasi tutti gli altri capi di imputazione, una ventina complessivamente.

Secondo quella che era la ricostruzione accusatoria, le irregolarità erano state commesse per evitare che riguardo alla morte di Narducci si potesse ipotizzare un omicidio collegato con le vicende del mostro di Firenze. Per farlo sarebbe stato anche fatto ritrovare il cadavere di una persona rimasta ignota, scambiato con quello del medico prima della sepoltura.

Circostanze sempre smentite dalla famiglia del medico che ha invece sempre sostenuto l’ incidente o il suicidio, escludendo categoricamente qualsiasi legame con le vicende toscane.

SCOMPARSA EMANUELA ORLANDI:
ARRESTATA LA MINARDI
DOVRA' RIMANERE IN UN CENTRO DI RECUPERO 

Dovrà rimanere per sei mesi in una comunità di recupero per scontare un residuo di pena accumulato con cinque condanne definitive legate alle leggi sugli stupefacenti. Sabrina Minardi, la donna che dice di essere stata la compagna del boss della banda della Magliana e da tempo sta “collaborando” con la procura di Roma a proposito della scomparsa di Emanuela Orlandi, doveva scontare una pena di tre anni e mezzo, tre dei quali condonati grazie all’indulto.

Intanto sulla vicenda di Emanuela Orlandi gli avvocati Maurilio Prioreschi e Lorenzo Radogna, legali dei familiari di De Pidis, hanno chiesto alla procura di Roma di sapere perché se Sabrina Minardi, la supertestimone dell’inchiesta sulla sparizione di Emanuela Orlandi, è “così attendibile non sia stata ancora iscritta nel registro indagati, avendo la stessa confessato di aver partecipato quantomeno al presunto sequestro”.

STRAGI DEL ‘93:
NUOVO ARRESTO GRAZIE ANCHE A SPATUZZA 

A 17 anni dalle stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, la procura di Firenze ha individuato un altro responsabile. E’ Francesco Tagliavia, in carcere a Viterbo, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio del ‘92’ e adesso accusato di essere anche fra gli organizzatori degli attentati con autobombe della primavera-estate del ’93, oltre a quelli falliti allo stadio Olimpico e contro il “pentito” Totuccio Contorno.

Secondo la procura di Firenze, Tagliavia, boss della famiglia palermitana di Corso dei Mille - accusato anche di 26 omicidi compiuti nel gruppo di fuoco di Riina - avrebbe messo a disposizione i suoi uomini per l'esecuzione delle stragi.

Tagliavia è accusato di strage e devastazione, in concorso, tra gli altri, con Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Matteo Messina Denaro, Bernardo Provenzano, Salvatore Riina e Vittorio Tutino, tutti già condannati per l’inchiesta fiorentina sulla campagna stragista di Cosa nostra. Reati contestati con l’aggravante della finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico.

“Un contributo assolutamente determinante, forse primario - ha spiegato il procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi - è stato fornito dal “pentito” Gaspare Spatuzza, che ha riferito circostanze e richiamato persone, situazioni e occasioni che hanno trovato rispondenza in una serie di verifiche che vedevano Tagliavia organicamente inserito in Cosa nostra e capace di manovrare forze operative, gli esplosivisti, che da lui dipendevano e che lui ha orientato nella preparazione e nell’esecuzione delle stragi”.

Tagliavia, è emerso dall’ordinanza, era stato già indagato per le stragi del ‘93, ma la sua posizione venne archiviata. A far riaprire le indagini è stato proprio quanto riferito da Spatuzza. Quattrocchi ha anche ribadito come la procura ritenga Spatuzza “perfettamente attendibile”.

MAFIA:
LA QUESTIONE DEL GRATUITO PATROCINIO
DEGLI IMPUTATI DI COSA NOSTRA 

Processi per mafia a rischio di allungamento. L’allarme è stato lanciato dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che, in una nota, prende atto con preoccupazione della sentenza della Corte costituzionale (la 139 del 2010) con la quale è stata ammessa la possibilità di ottenere il gratuito patrocinio anche per chi ha già ricevuto una condanna definitiva per reati di mafia. Il Governo Berlusconi aveva introdotto il divieto assoluto per i mafiosi già condannati di farsi pagare l’assistenza legale dallo Stato sulla base di una dichiarazione di nullatenenza.

La Consulta ha ammesso che il mafioso possa presentare una procura contraria e quindi accedere al patrocinio senza spese. Proprio questa possibilità di contestazione della presunzione, secondo il ministro “rischia di intasare non poco la gestione dei processi di mafia”. Perché i giudici, saranno costretti “a valutare le prove di nullatenenza addotte dal mafioso che aspira a farsi difendere gratis pur a fronte della notorietà del fatto (riconosciuto dalla stessa Corte) che chi esercita l’attività di mafioso lo fa non per scelta ideologica, ma per scopi di potere e arricchimento personale nonché per godere dei meccanismi di protezione, anche di tipo economico, che l’associazione mafiosa assicura ai propri membri ed alle loro famiglie in caso di difficoltà anche conseguente ai periodi di detenzione (come dimostrato inconfutabilmente dalle risultanze giudiziali dell’ultimo trentennio)".

MAFIA AL NORD:
116 COMUNI LOMBARDI
HANNO ALMENO UN BENE CONFISCATO 

Sono 116 i Comuni lombardi con almeno un bene confiscato alla mafia. Complessivamente i beni sequestrati sono finora 639.

Sono dati  forniti nel report “Mafie in Lombardia” dell’associazione Libera.

“La Lombardia è oggi una metafora perfetta della ramificazione molecolare della 'ndrangheta in tutto il Nord - spiega l’associazione antimafia - tanto che la squadra mobile di Milano dispone di una mappa dove ogni centro di una certa importanza, compreso tra il capoluogo e il confine con la Svizzera, è colonizzato”. Un territorio che ha nel suo capoluogo il “crocevia europeo del narcotraffico”.

Le cosche calabresi, in particolare, “hanno fatto un definitivo salto di qualità, non limitandosi più a dare vita a delle srl, ma anche a spa” che si occupano di numerose attività: dalle costruzioni edili alle autorimesse, dai locali di ristorazione e divertimento allo stoccaggio e smaltimento dei rifiuti, dai distributori di carburante ai servizi di facchinaggio e pulizia, dai centri commerciali alle sale scommesse e finanziarie. Senza contare le infiltrazioni nelle grandi opere, nell'Ortomercato di Milano e nella gestione delle occupazioni degli alloggi popolari in alcuni quartieri del capoluogo. Oltre al timore di infiltrazioni nei ricchi appalti dell'Expo 2015.

CSM:
ROBERTO SCARPINATO
NUOVO PROCURATORE GENERALE DI CALTANISSETTA 

Una carriera tutta vissuta negli uffici della procura, buon conoscitore di Cosa nostra, tra i primi a teorizzare l’esistenza dei rapporti tra la mafia e la politica e a indagare sulla zona grigia rappresentata dalla cosiddetta borghesia mafiosa: questi alcuni dei tratti distintivi del pm di Palermo, Roberto Scarpinato, nominato il 7 aprile scorso dal plenum del Csm procuratore generale di Caltanissetta.

Nato proprio a Caltanissetta, 58 anni, Scarpinato è entrato in magistratura nel 1977. Il lungo lavoro in procura ha avuto due brevi parentesi: una alla Pretura di Nicosia (Enna), l'altra alla commissione antimafia del Consiglio superiore della magistratura, cooptato dall'area di Md, la corrente di sinistra delle toghe.

Padre magistrato a Caltanissetta, Scarpinato è arrivato alla procura del capoluogo siciliano nel 1989. Dopo la strage di Capaci ha guidato la “rivolta” dei sostituti palermitani contro l’allora capo della procura Pietro Giammanco.

Il 27 marzo del 1993, insieme all’allora procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, e ai colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, Scarpinato deve registrare un primo scivolone: la firma dell’avviso di garanzia, per concorso in associazione mafiosa, a Giulio Andreotti. E' stato proprio lui a rappresentare in aula l’accusa al processo al sette volte presidente del consiglio poi assolto al termine dell’iter giudiziario. Sue anche le inchieste sull’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima e dell’ex presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, quest’ultima vicenda ancora densa di misteri, e quella sui cosiddetti “sistemi criminali” che nulla di processabile è mai riuscita a produrre.

Nel 2000 Scarpinato è diventato procuratore aggiunto a Palermo con delega alle indagini sulla mafia del trapanese, purtroppo ancora oggi la provincia meno colpita e dove la struttura mafiosa è praticamene intatta.

Ritenuto molto vicino a Giancarlo Caselli, con cui condivide l’appartenenza a magistratura democratica, è entrato in contrasto con il suo successore alla guida della procura, Pietro Grasso. Un contrasto che, nel settembre del 2002, è sfociato nell’annuncio delle dimissioni dalla Dda - presentate insieme a Lo Forte che certamente di Md non è. Un’azione clamorosa seguita al pentimento del boss Nino Giuffrè di cui i due pm lamentarono di essere stati tenuto all’oscuro.

Nel 2008, come prevede la legge che fissa nel massimo di otto anni la permanenza nei ruoli semidirettivi - nel frattempo a capo della procura è arrivato Francesco Messineo - Scarpinato ha lasciato l’incarico di aggiunto ed è tornato a fare il sostituto con una delega molto ampia alle indagini su mafia ed economia. In meno di due anni il pool da lui coordinato ha ottenuto il sequestro di patrimoni mafiosi per 2 miliardi e 800 milioni di euro. Negli ultimi mesi, insieme ai colleghi Nino Di Matteo e Paolo Guido, ha indagato sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Un filone di inchiesta, quello dei rapporti oscuri tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra in cui potrebbe tornare a imbattersi a Caltanissetta. Davanti alla corte d'appello del capoluogo nisseno, infatti, potrebbe discutersi la revisione dei processi per le stragi mafiose del ‘92 che i legali degli imputati condannati stanno per chiedere dopo le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza.

OMICIDIO CALVI:
PROCESSO D’APPELLO.
PG: ERGASTOLO PER CARBONI, CALO' E DIOTALLEVI 

Tre condanne all'ergastolo sono state chieste dal pm Luca Tescaroli, per l’occasione applicato come sostituto procuratore generale, nel processo d’Appello per l’omicidio del banchiere Roberto Calvi, il presidente del vecchio Banco Ambrosiano, trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri, a Londra, il 18 giugno del 1982.

Il magistrato, a conclusione della sua requisitoria, ha sollecitato il carcere a vita nei confronti di Flavio Carboni, Pippo Calò ed Ernesto Diotallevi (assolti in corte d'assise), per concorso in omicidio volontario premeditato.

Da questa vicenda sono già usciti di scena, con un’assoluzione diventata definitiva, Manuela Kleinszig e Silvano Vittor.

Nell’udienza del 21 aprile, Daniela Mobili, donna legata in passato a Danilo Abbruciati, boss della banda della Magliana, è stata rinviata a giudizio per falsa testimonianza. La Mobili, nel corso del processo per l’omicidio del banchiere Roberto Calvi, dove deponeva come testimone, il 15 marzo 2006 aveva negato qualsiasi legame con l’uomo, contraddicendo ciò che aveva affermato in un interrogatorio avvenuto nel 1982. In aula, davanti ai giudici, la Mobili, sempre nel corso della deposizione avvenuta nel 2006, aveva spiegato di aver parlato dell’imprenditore Flavio Carboni, come del capo della P2 Licio Gelli, o di Ernesto Diotallevi, in seguito al suggerimento di alcune “codetenute nel carcere di Rebibbia o per convenienza”, in “un periodo in cui non era nel pieno delle sue facoltà mentali”. Sono 13 gli episodi mendaci previsti nel capo d’imputazione dal pm Luca Tescaroli. Il processo a carico della Mobili comincerà il 26 ottobre prossimo.

UNO BIANCA:
OCCHIPINTI IN PERMESSO PARTECIPA A VIA CRUSIS 

Marino Occhipinti, l’ex poliziotto della squadra mobile di Bologna condannato all’ergastolo per gli omicidi della banda della Uno bianca, ha usufruito di un permesso di uscita dal carcere di Padova per partecipare ad una Via crucis. La manifestazione, organizzata da Comunione e liberazione, si è svolta a Sarmeola di Rubano (Padova), nella sede dell’Opera della provvidenza di Sant’Antonio.

Occhipinti, ex componente della banda della Uno Bianca, è al primo permesso dopo 16 anni di detenzione, di uscita dal carcere padovano dove partecipa attivamente alle iniziative dell’associazione Ristretti Orizzonti ed ai laboratori di artigianato gestiti dalla cooperativa Giotto. L’ex poliziotto lavora, in particolare, alla realizzazione dei manichini per l'alta moda.

Negli ultimi anni, l’uomo aveva chiesto più volte permessi premio, sempre rifiutati.

L’associazione delle vittime della Uno bianca ha fortemente criticato la decisione del tribunale di sorveglianza della città veneta. “Non possiamo tollerarlo - ha detto Rosanna Zecchi, presidente dell'associazione - perché lui è stato zitto per sette anni. Sapeva cosa faceva la banda e avrebbe potuto salvare altre vite se avesse parlato”.

OMICIDIO ELISA CLAPS:
I RISULTATI DELL’AUTOPSIA 

Accoltellata numerose volte al culmine di un tentativo di violenza sessuale e poi soffocata.

Questa - secondo quanto stabilito dall’autopsia – la dinamica dell’assassinio di Elisa Claps, la studentessa potentina di cui si erano perse le tracce il 12 settembre 1993 quando aveva appena 16 anni. Fu uccisa - è la certezza a cui sono giunti gli investigatori - proprio in quella calda domenica mattina, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, dove i suoi resti sono stati trovati, ma solo “ufficialmente”, il 17 marzo scorso.

Il 12 aprile scorso l’anatomopatologo Francesco Introna ha consegnato ai magistrati di Salerno - che coordinano l’inchiesta - la perizia dell’autopsia, eseguita nell’Istituto di medicina legale del Policlinico di Bari. Introna è giunto alla conclusione che Elisa fu colpita più volte mortalmente al torace con un’arma da taglio (forse un coltello) e poi finita per soffocamento.

Ulteriori dettagli sull’omicidio si attendono anche dall’esito dell’incidente probatorio sulle decine di reperti portati via dal sottotetto e da altri locali della canonica.

Intanto sul registro degli indagati continua ad esservi un solo nome: quello di Danilo Restivo. E' accusato di violenza sessuale, omicidio e occultamento di cadavere. Nel '93 aveva 21 anni. Oggi ne ha 38 e le cronache associano il suo volto ad altri due omicidi, avvenuti a Bournemouth, città inglese in cui vive da tempo: quello di Jong-ok Shin (12 giugno 2002) e di Heather Barnett (12 novembre 2002).

Restivo ha sempre ammesso di aver parlato il 12 settembre 1993 con Elisa all’interno della chiesa del centro storico potentino e poi di averla vista uscire.

OMICIDIO DI VIA POMA:
IL SUICIDIO DI VANACORE STUDIATO NEI DETTAGLI 

Tutto premeditato, con una meticolosità che lascia sconcertati e che alcuni criminologi definiscono “lucida follia”. Pietro Vanacore è morto per annegamento, come ha stabilito l’autopsia. L’esame ha anche rafforzato la tesi del suicidio dell’ex portiere dello stabile di via Poma dove vent'anni fa venne uccisa Simonetta Cesaroni. Cade così l’ipotesi di reato formulata dal pm della procura di Taranto Maurizio Carbone che aveva aperto un fascicolo d’inchiesta a carico di ignoti con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. L’autopsia, eseguita dal medico legale Vito Sarcinella, ha già fatto archiviare alcuni dubbi. Ad esempio sembra certo che la morte di Vanacore sia avvenuta solo per annegamento dal momento che i suoi polmoni erano pieni d’acqua. Non sono state invece trovate tracce del liquido anticrittogamico che Vanacore aveva ingerito prima di legarsi ad un albero e calarsi a testa in giù in acqua. E' probabile che quel liquido, ingerito in minima quantità, sia stato fortemente diluito dall’acqua di mare ingerita. Per cercare le tracce dell'anticrittogamico verranno eseguiti esami di laboratorio.

Restano però da svolgere gli accertamenti grafici sui cartelli scritti a mano e lasciati nella sua auto da Vanacore, nei quali lo stesso ricorda i sospetti che lo hanno inseguito per 20 anni e che gli avrebbero reso la vita impossibile.

Vanacore ha trascorso le sue ultime ore di vita con apparente tranquillità. E' uscito da casa poco dopo le 8. Verso le 8,30 ha preso un caffè in un bar della frazione di Monacizzo (dove abitava) insieme a due amici, gli stessi che poi lo ritroveranno ormai morto in mare dando l'allarme. Poi ha fatto la spesa, comprando un po' di frutta (qualcuno lo avrebbe visto anche in piazza mangiare un mandarino) e portandola a casa.

Dalla sua abitazione Pietrino è uscito per l'ultima volta verso le 9,40, è andato un po' in giro e alle 10,57 ha acquistato in un panificio un pezzo di pane (che verrà trovato morsicato nella sua auto) e un dolce pasquale (la zeppola, i cui resti il medico legale ha trovato nel corpo della vittima). Poi, alla guida della sua vecchia Citroen Ax, Vanacore si è recato in una piccola baia del litorale di Torre Ovo, ha spento il motore della vettura e ha tirato fuori una corda lunga circa 30 metri che aveva fabbricato da solo annodando vari pezzi (una passante pare l’abbia visto con la corda in mano, non immaginando cosa stesse per accadere). Quindi, l’ha legata ad un albero, ha annodato l'altra estremità ad una caviglia e si è immerso in mare a testa in giù, in un punto in cui l’acqua è alta poche decine di centimetri. Per gli inquirenti avrebbe fatto così perché voleva che il suo corpo non venisse risucchiato dal mare.

OMICIDIO DI VIA POMA (2):
MA LA PM OSTINATA PARLA ANCORA DI DEPISTAGGIO 

Sarebbe un depistaggio lungo 20 anni quello attuato da Pietrino Vanacore e dalla moglie Giuseppa De Luca. Ne è ostinatamente convinta la pm Ilaria Calò che - dopo anni di fallimenti investigativi da parte della procura di Roma - nell’aula dove si processa Raniero Bosco, già fidanzato di Simonetta Cesaroni, ha spiegato come i comportamenti della coppia abbiano contribuito ad inquinare le indagini sulla morte della ragazza.

Per la pm “le chiavi sono uno snodo fondamentale in questa inchiesta. Vanacore individuò il corpo senza vita della Cesaroni nella stanza del direttore, Corrado Carboni. Trovò il corpo ma non chiamò la polizia L’ex portiere pensando al tragico epilogo di un incontro clandestino della Cesaroni, effettua tre telefonate: al presidente degli Ostelli della Gioventù, Francesco Caracciolo, al direttore Corrado Carboni e al capo di Simonetta, Salvatore Volponi. Vanacore non allerta la polizia, prende le chiavi con il nastro giallo, che erano quelle di riserva per accedere agli uffici e stavano appese ad un chiodo dietro la porta, e va via chiudendo la porta d'ingresso. Vanacore, però, dimentica nell'appartamento una agendina rossa con la scritta “Gavazza”, che venne poi, circa un mese dopo, restituita dalla polizia alla famiglia della Cesaroni. I familiari però non riconobbero nell’agenda un oggetto di Simonetta e lo restituirono agli agenti”.

Una tesi, quella dell’accusa, che viene respinta da Antonio De Vita, legale della famiglia Vanacore: “Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all’epoca del proscioglimento di Vanacore. A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla. Sento per la prima volta da voi questa ricostruzione”.

Dal canto suo Antonietta La Mazza, legale di Salvatore Volponi, in merito alle telefonate si limita a dire: “E’ la ricostruzione della pm, bisognerà vedere poi quel che dirà in aula Volponi. Lui comunque non ne è a conoscenza e a me ha sempre detto di non aver mai ricevuto telefonate”.

CASO MARRAZZO:
PER LA CASSAZIONE
I CARABINIERI RAPINAVANO TRANS
E SOGGETTI DEBOLI 

Le accuse raccolte nei confronti dei carabinieri della Compagnia Trionfale di Roma, implicati nel caso Marrazzo, “quantomeno autorizzano a ritenere che il gruppo era solito assumere, agendo di comune accordo, atteggiamenti fortemente prevaricatori e di vera e propria rapina nei confronti di soggetti facilmente esposti ai condizionamenti nascenti dall’attività esercitata o dalla loro precaria condizione sociale”.

Delinenando un vero e proprio abuso di potere, lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni della sentenza 15082 della Quarta sezione penale - relatore Giacomo Foti - confermando la pericolosità degli uomini dell’Arma coinvolti nel ricatto ai danni dell’ex governatore del Lazio Piero Marrazzo.

Per questo la Suprema Corte ha accolto il ricorso della procura di Roma contro la scarcerazione del maresciallo Nicola Testini con l’ulteriore accusa di aver procurato la morte del pusher Gianguerino Cafasso, ucciso da una overdose il 12 settembre 2009 e trovato morto in un albergo romano sulla Via Salaria.

A proposito di Testini e dei carabinieri scelti Carlo Tagliente e Luciano Simeone, la Cassazione segnala, tra i loro “comportamenti anomali”, quello di aver preteso, più volte, l’utilizzo gratuito di camere del bed and breakfast Wilson sulla Via Cassia - come hanno testimoniato il titolare e un dipendente - e solo dopo aver ottenuto le camere gratis per loro “uso personale” erano cessati i “continui controlli” ai quali sottoponevano la struttura. 

Intanto la procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati per la morte del pusher  Gianguarino Cafasso, oltre a Testini, anche Simeone e Tagliente, entrambi tuttora detenuti a Regina Coeli nell’ambito dell’inchiesta sul presunto ricatto ai danni dell’ex Governatore del Lazio. L’ipotesi di indagine è che Cafasso sapeva troppo ed era inaffidabile proprio per il suo stato di tossicodipendente. Per questo andava eliminato. Omicidio volontario in concorso: questa l’ipotesi di accusa del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del sostituto Rodolfo Sabelli. “Cafasso dopo l’esito negativo dell’offerta del filmato alle giornaliste del quotidiano Libero - è detto nel provvedimento - era diventato una persona che “sapeva troppo” ed inaffidabile, considerate anche le sue condizioni di abituale consumatore di droga”. Per gli inquirenti Cafasso era, in sostanza, un testimone scomodo che poteva ricattare coloro che avevano girato, e tentato di vendere, il filmato che ritraeva Marrazzo in atteggiamenti intimi con il transessuale Natali.

CASO CESARE BATTISTI:
L’ESTRADIZIONE NELLE MANI DI LULA 

Il destino di Cesare Battisti è nelle mani di Lula. Il Supremo Tribunal Federal brasiliano (Stf) ha pubblicato il 17 aprile le motivazioni della sentenza con la quale mesi fa ha dato via libera all’estradizione in Italia dell’ex terrorista dei Pac, rilevando che ora spetta al presidente brasiliano pronunciare l’ultima parola: un documento, quello dell’Alta Corte, in cui si smonta in sostanza la tesi che Battisti sia un perseguitato politico.

Uno dei punti chiave delle motivazioni sulla sentenza contro Battisti, che si trova in un carcere di Brasilia, rileva infatti che i quattro omicidi - commessi alla fine degli anni 70 - per i quali l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo è stato condannato in Italia, sono stati perpetrati “senza alcun obiettivo politico immediato”, né rappresentano “una legittima reazione ad un regime oppressivo”. Il testo parla inoltre dell’Italia dell’epoca come di un paese “in piena normalità istituzionale dello Stato di diritto”.

Proprio sulla base di tale punto, sottolineano analisti locali, nel caso in cui il presidente Lula decidesse di confermare l’asilo politico a Battisti - come continuano ad ipotizzare alcuni media brasiliani - dovrà presentare una motivazione diversa dalla persecuzione politica.

Il dispositivo della sentenza, pronunciata nel novembre scorso, rileva inoltre che “nonostante la decisione” - e cioè il sì all’estradizione - dell’Alta Corte “non sia vincolante”, Lula dovrà “osservare i termini del trattato di estradizione firmato tra Brasile e Italia”.

A concedere lo status di rifugiato politico a Battisti era stato, nel gennaio 2009, l’ex ministro della Giustizia, Tarso Genro, che aveva preso tale decisione sulla base “dello statuto dei rifugiati del 1951”, il quale prevede quali ragioni valide per la concessione dell’asilo “il fondato timore di persecuzione per motivi di razza o di opinione politica”.

La pubblicazione delle motivazioni sul sito web dell’Stf (due pagine di sintesi, su un totale di 200) è giunto pochi giorni dopo il colloquio avvenuto tra il premier Silvio Berlusconi e lo stesso Lula, il quale in quell’occasione aveva fatto sapere di voler aspettare “le motivazioni” con cui la Corte avrebbe argomentato la sua sentenza.

OMICIDIO ALPI/HROVATIN:
POTREBBE RIAPRISI IL PROCESSO 

"Se si riapre il processo, con molta probabilità ci costituiamo parte civile". E’ questa la reazione di Luciana Alpi, mamma di Ilaria, alla notizia di una possibile revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Hassan, il ragazzo somalo accusato dell'omicidio della figlia.

Il gup di Roma Di Lauro ha infatti rinviato a giudizio per calunnia Ali Rage Hamed, detto Gelle, testimone chiave dell'accusa nei confronti dell'ex miliziano somalo Hashi Omar Hassan, condannato con sentenza definitiva a ventisei anni di reclusione come esecutore del duplice omicidio, il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin.

Determinanti per il rinvio a giudizio di Gelle le testimonianze di otto persone che smentiscono la sua presenza sul luogo del duplice omicidio.

"Abbiamo sempre nutrito dubbi sulla colpevolezza di Hashi Omar Hassan - ha detto ancora Luciana Alpi - Ben venga dunque la riapertura del processo. Sono infatti anni che combattiamo per avere la verità".  Potrebbe dunque avvicinarsi la revisione del processo che nel 2003 si concluse senza chiarire chi fossero i mandanti dell'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, impegnati in una complessa inchiesta su traffici internazionali di armi e rifiuti tossici.

OMICIDI IN FAMIGLIA:
1 OGNI 2 GIORNI 

In Italia si conta un omicidio in famiglia ogni due giorni. Il contesto familiare è quello più a rischio in assoluto ed uccide più delle mafie e della criminalità comune. Appartengono a questa tipologia, infatti, 171 dei 601 casi di omicidio volontario avvenuti in Italia nel 2008 (il 28% del totale), secondo l'ultimo rapporto Eures-Ansa.

Quello che sembrerebbe l'ambiente più sicuro si scopre così essere ricco di insidie: sono infatti i rapporti familiari a causare talvolta tensioni, odi, violenze che sfociano non di rado in uccisioni. E si tratta di eventi difficili da prevenire e da contrastare.

Negli ultimi sette anni sono state complessivamente circa 1.500 le vittime di queste situazioni. E la statistica è confermata dai fatti di cronaca nera avvenuti ultimamente: la donna uccisa dal marito e gettata nel lago di Como, la donna che ha ucciso il figlio e si è suicidata a Lucca, l’uomo che ha provato a strangolare la moglie a Siracusa per poi uccidersi credendola morta, il ragazzo che ha ucciso la fidanzata al primo giorno di convivenza nel vicentino.

Dal 2000 (226 omicidi in famiglia, l’anno record del decennio) ad oggi i numeri sono tuttavia in calo. Quasi la metà di questi delitti è avvenuta nel Nord (78 casi), ma in termini relativi i valori più elevati si registrano in Calabria (14 vittime, pari a 7 per milione di abitanti). In circa un terzo di questi omicidi (56 casi) la vittima è il coniuge-convivente; la donna è colpita nella maggior parte dei casi, così come è uomo il killer in

prevalenza.

Nella relazione genitori-figli si consuma un omicidio familiare su quattro (22 genitori uccisi dai figli e 21 figli uccisi dai genitori). Il movente passionale risulta prevalente (in 45 omicidi), seguono litigi e dissapori (40 vittime).

Fonte: Ansa

INQUINAMENTO DA AMIANTO:
MORTI PALERMO, CONDANNATI VERTICI FINCANTIERI 

Il giudice di Palermo Gianfranco Criscione ha condannato per omicidio colposo plurimo e lesioni gravissime tre ex dirigenti della Ficantieri - Luciano Lemetti, Giuseppe Cortesi e Antonio Cipponeri  - accusati delle morti da amianto nell’azienda palermitana.

Lemetti ha avuto 7 anni e 6 mesi, Cortesi 6 anni e Cipponeri 3 anni; a tutti e tre gli imputati sono stati condonati 3 anni. Gli ex vertici di Fincantieri sono stati condannati a

risarcimenti milionari nei confronti dell’Inail, costituita parte civile.

Al centro del processo la morte di 37 operai deceduti per tumore ai polmoni determinati dall’inalazione delle fibre di amianto e le lesioni riportate da altri 26 dipendenti che hanno contratto la malattia.

L’AMERICA DI OBAMA:
PER LA PRIMA VOLTA
LA CIA OTTIENE LA LICENZA
DI UCCIDERE UN CITTADINO AMERICANO 

Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un cittadino americano è stato inserito nella lista delle persone che la Cia è autorizzata ad uccidere.

Si tratta del predicatore musulmano Anwar al Aulaqi che vive nello Yemen ed è considerato l’ispiratore del fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit. L'uomo era già sulla lista degli obiettivi del Comando Congiunto per le Operazioni Speciali delle forze armate americane ed è sopravvissuto ad un raid condotto dalle forze yemenite con l'appoggio americano. Tuttavia, trattandosi di un cittadino americano, serviva l'autorizzazione della Casa Bianca per inserirlo nella lista della Cia.

Secondo gli analisti della Central intelligence Agency, Aulaqi non è più soltanto un predicatore militante, ma ha assunto un ruolo più ampio in seno alla branca yemenita di al Qaeda. “E' recentemente diventato una figura operativa di al Qaeda nella penisola arabica - ha riferito un funzionario americano- lavora attivamente per uccidere americani, quindi è legale e saggio cercare di fermarlo”.

MEDIO ORIENTE:
PIÙ DI SETTEMILA I PALESTINESI
DETENUTI DA ISRAELE 

Sono più di 7.000 i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane e 270 di loro sono minorenni. È la stima aggiornata diffusa a Ramallah dall’Istituto centrale di Statistica dipendente dall’Autorità nazionale palestinese (Anp).

Il dato rivela una riduzione complessiva, rispetto ad alcune cifre registrate nel passato (quando si era giunti a indicare un numero approssimativo di circa 11.000 reclusi), ma resta spropositata, secondo i responsabili dell’Anp.

Tre dei reclusi conteggiati dall’Istituto di statistica sono in prigione in Israele da oltre 30 anni, 315 da oltre 15, mentre altri 264 risultano ancora in attesa di giudizio. In totale, l’Anp calcola che 760.000 palestinesi sono passati per le galere israeliane negli ultimi 43 anni: a partire dall’occupazione dei territori seguita alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Fra i detenuti più noti dell’attuale generazione spicca il nome di Marwan Barghuti, esponente di al-Fatah (il partito cardine dell’Anp), ex leader della milizia dei Tanzim e ispiratore della seconda Intifada, in galera da otto anni.

OMICIDIO MALCOLM X:
SCARCERATO L’ULTIMO DEGLI ASSASSINI 

Thomas Hagan, uno dei tre assassini di Malcolm X e l’unico ad aver confessato il delitto, ha ottenuto la libertà condizionale ed è uscito di prigione.

Hagan, 69 anni, era stato arrestato nel 1965, pochi istanti dopo la sparatoria alla Audubon Ballroom di Washington Heights, a Manhattan, in cui era rimasto ucciso il leader nero. Dal 1988 aveva avuto il permesso di lavorare fuori dal carcere con l’obbligo

di trascorrere due giorni alla settimana nella Lincoln Correctional Facility, un carcere sulla 110/ma strada di Manhattan. Nel 1966 Hagan, che all’epoca si faceva chiamare Talmadge X Hayer, era stato condannato all’ergastolo assieme ad altri due esecutori dell'assassinio. Il giudice aveva raccomandato che non venisse liberato sulla parola prima di 20 anni. Scaduto questo termine gli altri due complici, Muhammed Abdul Aziz e Kalil Islam, erano tornati in libertà.

CRIMINI GUERRA IN BOSNIA:
ACCUSATO EX UFFICIALE MUSULMANO 

La procura del tribunale per i crimini di guerra di Sarajevo il 27 aprile ha formalizzato l’accusa contro un ex ufficiale musulmano, Nihad Bojadzic, per crimini commessi nell'aprile del 1993 nel villaggio di Trusina, in Erzegovina, una cinquantina di chilometri a sud di Sarajevo.

Bojadzic, 47 anni, che all’epoca dei fatti era il vice comandante dell’unità Zulfikar delle forze governative, in prevalenza musulmane, è accusato di aver ordinato e poi comandato a distanza l’attacco al villaggio, nel corso del quale furono uccisi 22 croati bosniaci, di cui 19 civili e tre militari che si erano in precedenza consegnati, mentre altre

quattro persone, di cui due bambini, rimasero ferite.

Per il massacro di Trusina sono stati arrestati altri quattro ex militari musulmani accusati di essere gli esecutori materiali del crimine, nonché i comandanti dell’unità Zulfikar e della brigata di cui facevano parte, accusati di aver saputo del crimine ma di non aver fatto nulla per punirne i responsabili.

La guerra in Bosnia (1992-95) ha provocato 100.000 morti e 2,2 milioni di profughi e sfollati. Il Tribunale statale per crimini di guerra di Sarajevo è stato istituito nel 2005 per processare i cosiddetti crimini minori e per continuare i lavori del Tribunale penale internazionale dell'Aja (Tpi). La procura sta indagando su centinaia di denunce di crimini di guerra in cui sarebbero coinvolte oltre diecimila persone.

ABUSI DI POTERE:
NEL 1979 LA POLIZIA BRITANNICA
UCCISE UN MANIFESTANTE E INSABBIO’ IL CASO 

Un cold case, un caso freddo scuote la Gran Bretagna. 31 anni dopo la morte di Blair Peach, un manifestante, un rapporto rimasto finora riservato ha rivelato che il giovane morì quasi sicuramente a causa delle percosse della polizia.

I documenti, pubblicati sul sito di Scotland Yard, rivelano che la causa del decesso  fu il violento colpo alla testa, da parte di un poliziotto che poi, secondo l'accusa, tramò con i suoi collegi per insabbiare la vicenda. Nonostante le pressioni dei famigliari della vittima, la polizia era riuscita finora a tenere nascosti i due rapporti compilati nei mesi successivi al decesso, ma ha cambiato idea sull’onda del parallelismo tra le circostanze della morte di Peach e gli eventi che circondano la morte di Ian Tomlinson, l’edicolante di 47 anni morto durante le proteste del G20 dello scorso anno.

La morte di Blair Peach, un insegnante 33enne neozelandese, che il 23 aprile 1979 partecipava a una manifestazione contro l’estrema destra del Fronte Nazionale, a Southall, a ovest di Londra, segnò uno degli eventi più controversi nella storia moderna della polizia britannica.  La famiglia del giovane si batteva da tempo perché il rapporto fosse reso pubblico. Le due relazioni furono scritte dal comandante John Cass che guidò le indagini. Secondo il Guardian, gli anatomopatologi accertarono che il cranio del giovane era stato sfondato da un’arma impropria, un manganello di piombo o una radio della polizia. Durante le indagini fu trovato un poliziotto che nascondeva un manganello di metallo (probabilmente  non quello che uccise il giovane) e un altro con simboli nazisti; e quando Cass ordinò un'ispezione nel quartier generale dello Special Patrol Gourp, il corpo d’elite anti-sommossa della polizia, trovò manganelli illegali, coltelli, due piedi di porco, una frusta, una doga di legno lunga quasi un metro e un bastone, appesantito con piombo e ricoperto di pelle.

“Si può ragionevolmente concludere che fu un poliziotto a dare il colpo letale”, scrisse Cass, confermando che c’erano una serie di testimoni che sostenevano che Peach fu colpito da un ufficiale. Ma Cass non fu in grado di individuare l’agente che effettivamente colpì il dimostrante.

LIBRI:
MONDIALI CALCIO ARGENTINA '78.
“I MONDIALI DELLA VERGOGNA” 

Durante i campionati del mondo del 1978 successe di tutto: morte, corruzione, desaparecidos, doping, paura, corruzione, bugie. Eppure Argentina ‘78 sarà il momento di maggiore popolarità della dittatura di Videla.

La storia di quei mondiali, i retroscena e il triste momento storico di quel periodo oscuro del paese sudamericano sono l’argomento de “I Mondiali della vergogna - i campionati di Argentina '78 e la dittatura” (edizioni Alegre), del giornalista e avvocato argentino Pablo Llonto con la prefazione del magistrato Giuseppe Narducci, il pm del processo Calciopoli che ha messo sotto sopra il mondo del calcio italiano.

Il libro - che sarà presentato il 27 maggio a Roma con la partecipazione, tra gli altri, del giornalista Gianni Minà e del regista Stefano Incerti - affronta le responsabilità collettive della società argentina nell’occultamento della realtà, ripercorrendo i principali eventi sportivi che riempirono di orgoglio il paese. Un testo che dimostra come l'innocenza sportiva e i festeggiamenti si convertono spesso, in modo cosciente e incosciente, in appoggio ai governi anche i più sanguinari. Un libro di storia, anche se questi episodi sono stati rimossi dalla memoria collettiva.

Pablo Looonto nel 1978 lavorava per la pagina sportiva del quotidiano argentino Clarin. Come avvocato ha rappresentato diverse famiglie di desaparecidos o assassinati durante la dittatura. E' autore del libro “La noble Ernestine”, inchiesta sul passato occulto del Clarin. Giuseppe Narducci, sostituto procuratore a Napoli, ha svolto importanti inchieste: come pm della Direzione distrettuale antimafia ha indagato sui principali clan di Napoli, Nel 2006 ha condotto, insieme con Filippo Beatrice, l’inchiesta di Calciopoli e, in questi giorni, sta svolgendo il ruolo di pubblico accusatore al processo nei confronti di Luciano Moggi e altri imputati in corso davanti alla nona sezione del Tribunale.

LA NEWSLETTER di MISTERI D'ITALIA viene inviata gratuitamente, con cadenza quindicinale, a tutti coloro che ne faranno richiesta.
Essa è parte integrante del sito
http://www.misteriditalia.it
Direttore: Sandro Provvisionato
Webmaster: Matteo Fracasso
AVVERTENZA ai sensi del Codice in materia di protezione dei dati personali Dlgs n. 196/2003.
Gli indirizzi e-mail presenti nel nostro archivio provengono da richieste di iscrizioni pervenute al nostro recapito e nelle quali è stato prestato il consenso in base al vigente Dlgs n. 196/2003 (art. 23, 24, ) oppure da richieste e consensi prestati ai sensi della normativa precedente e non più in vigore dal 31.12.03.
Il conferimento dei dati personali è obbligatorio per poter ricevere le newsletter.
Il recapito delle newsletter è gratuito, ma è condizionato dall'ottenimento dei dati.
Gli autori del sito si riservano il diritto di interrompere la fornitura della newsletter nel caso in cui le informazioni fornite si rivelino essere non veritiere.
I dati raccolti vengono utilizzati esclusivamente per l'invio della presente newsletter e trattati mediante sistemi automatizzati e sistemi informatici, secondo quanto previsto dal Codice in materia di protezione dei dati personali introdotto con Dlgs n. 196/2003.
Per essere rimossi dalla lista inviare un e-mail vuota con oggetto "cancellazione dalla newsletter" a:
cancellazione@misteriditalia.it
Se avete problemi a visualizzare questa newsletter cliccate qui.
Se avete inserito MISTERI D'ITALIA tra i vostri preferiti o se lo avete in memoria nella cronologia del vostro computer, ricordatevi SEMPRE di cliccare su AGGIORNA.
Meglio ancora farlo su ogni pagina.
Sarete subito al corrente delle novità inserite
.