“Mio padre mi disse che Bernardo Provenzano godeva di una sorta di immunità territoriale per cui, anche da latitante, poteva muoversi liberamente”.
Lo ha detto Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, deponendo al processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento della mafia.
“Questa immunità - ha aggiunto Ciancimino - secondo quanto mi ha spiegato mio padre era garantita da una sorta di accordo alla stipula del quale aveva partecipato proprio mio padre. Accordo che risale al maggio del ‘92”.
Cosa dice in effetti Massimo Ciancimino? Una cosa gravissima: e cioè che la consegna ai carabinieri da parte di Provenzano del boss Totò Riina gli assicurò una immunità durata oltre 13 anni.
Celebrazione in tono decisamente minore quella della cattura, 17 anni fa, di Totò Riina avvenuta venerdì 15 gennaio scorso a Palermo. Anche se per la prima volta era tornato a Palermo il celebre reparto speciale guidato dal Capitano Ultimo, era evidente l’imbarazzo per le crepe che le rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, hanno aperto sull’effettiva dinamica della cattura del boss dei corleonesi. La domanda che aleggiava era: Riina è stato catturato dagli uomini del Ros dei carabinieri guidati dall’allora cap. Sergio De Caprio, detto “Ultimo”, al termine di un lungo lavoro di ricerca oppure, come è probabile, è stato consegnato dall’altro boss, Bernardo Provenzano, al termine di una trattativa condotta dal superiore dello stesso De Caprio, l’allora col. Mario Mori, con Vito Ciancimino?
La serata è comunque servita a raccogliere fondi per inaugurare una casa famiglia, fondata dall’Associazione Volontari Capitano Ultimo Onlus. Una casa famiglia al Prenestino, 30 ettari di periferia romana, dove saranno ospitati ragazzi difficili, figli dei carcerati.
La Procura della Repubblica di Palermo il 22 gennaio scorso ha riaperto l’inchiesta per associazione mafiosa nei confronti di Massimo Ciancimino, già avviata nel 2002 e archiviata nel 2007. La sua nuova iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto dopo che lo stesso Ciancimino ha ammesso di aver fatto da “postino” di messaggi indirizzati al boss corleonese Bernardo Provenzano da suo padre Vito, l’ex sindaco di Palermo morto nel 2002 dopo essere stato condannato per mafia, e ora indicato da suo figlio come intermediario della trattativa tra Cosa Nostra ed esponenti delle istituzioni. Nei mesi scorsi, a più riprese, Massimo Ciancimino ha consegnato al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e ai pm Nino Di Matteo, Paolo Guido e Roberto Scarpinato, i “pizzini” che aveva conservato e che custodiva in una cassetta di sicurezza all’estero. Ciancimino ha inoltre fornito ai magistrati il così detto “papello”, cioè la lista delle richieste che Totò Riina aveva messo a punto come condizione per cessare l'offensiva stragista contro lo Stato e che Vito Ciancimino aveva poi rimaneggiato.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Procura nel 2007, quando Massimo Ciancimino era stato considerato uno strumento inconsapevole di suo padre, i pm ora ipotizzano un suo ruolo attivo al servizio di Cosa Nostra anche in relazione ai contatti da lui tenuti con un mai identificato agente dei servizi segreti che avrebbe avuto un dialogo diretto con Provenzano.
Ciancimino, condannato in appello a tre anni e sei mesi per riciclaggio e fittizia intestazione di beni nell’ambito del processo sul tesoro del padre, è attualmente indagato anche dalla Procura di Ferrara per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e all’evasione fiscale.
Due anni fa venne condannato a 5 anni di detenzione per favoreggiamento semplice e rivelazione di segreto istruttorio, il 23 gennaio scorso, nel processo d’Appello, il senatore dell’Udc Salvatore Cuffaro, ex governatore della Sicilia, si è visto aumentare la pensa di due anni con un aggravante: agevolazione alla mafia. Una valutazione che ha portato a una riqualificazione in favoreggiamento aggravato del favoreggiamento semplice sancito dal primo verdetto.
“Non mi dimetto”, aveva detto due anni fa sollevato dal fatto che “fosse caduta l’infamante accusa di mafia”. “Lascio ogni incarico di partito” ha detto invece dopo la sentenza di secondo grado.
La corte di Appello si è spinta dove i giudici di primo grado non erano arrivati, sostenendo che Cuffaro, autore della fuga di notizie che consentì al boss Giuseppe Guttadauro di ritrovare una microspia in casa sua, favorì non solo il capomafia e il suo sodale, l'ex assessore Udc Mimmo Miceli, intermediario tra il governatore e il padrino, ma l’intera organizzazione di Cosa nostra.
Una rilettura dei fatti, quella dei magistrati d’Appello, che non si è limitata alla posizione dell’ex governatore. Anche altri due protagonisti di quello che fu definito il processo della Talpe alla Dda, sono usciti dal secondo grado di giudizio con pene più pesanti. Michele Aiello, ex manager della sanità privata, accusato di associazione mafiosa, ritenuto l’alter ego nell’imprenditoria del boss Bernardo Provenzano, si è visto aggravare la pena, passata da 14 anni a 15 e 6 mesi. Pena più pesante anche per un altro personaggio chiave della vicenda: l’ex sottufficiale del Ros Giorgio Riolo. Condannato in primo grado per favoreggiamento aggravato - faceva parte della rete di spionaggio ordita da Aiello per avere informazioni sulle indagini di mafia - è stato riconosciuto colpevole di concorso esterno e dovrà scontare 8 anni di reclusione contro i 7 inflitti in primo grado.
Il giudice della quarta sezione penale del tribunale di Milano, Oscar Maggi, nelle motivazioni della sentenza del processo per il sequestro dell’ex imam di Milano Abu Omar, pur ribadendo la sua “assoluta obbedienza” ai dettami della sentenza della Consulta sul segreto di Stato, ritiene che, nella sentenza stessa, vi siano “elementi di possibile pericolosità interpretativa”.
“Consentire che gli imputati di una gravissima vicenda penalmente perseguibile possano andare esenti da una corretta valutazione delle loro responsabilità - annota il giudice in riferimento al non doversi procedere disposto per i funzionari del Sismi - perché, i loro rapporti con servizi segreti di altri paesi e gli assetti organizzativi e operativi del loro servizio, pur se collegati al fatto reato in questione, sono coperti da segreto di Stato, significa, in termini molto semplici, ammettere che gli stessi possano godere di un'immunità di tipo assoluto a livello processuale e sostanziale, immunità che non sembra essere consentita da nessuna legge di questa Repubblica”.
Il giudice Oscar Maggi, lo scorso 4 novembre, a conclusione del processo per il sequestro di Abu Omar, aveva condannato 22 agenti della Cia a 5 anni di reclusione; a 8 anni Robert Seldon Ledy; a 3 anni di reclusione gli ex funzionari Sismi Pio Pompa e Luciano Seno ma per la sola accusa di favoreggiamento. Per l’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari, per l’ex numero due del servizio segreto militare Marco Mancini e per altri funzionari del servizio aveva disposto il non doversi procedere per esistenza del segreto di Stato. Per altri tre agenti Cia era stato disposto il non doversi procedere in quanto godevano dell'immunità diplomatica.
Maggi nelle motivazioni della sentenza scrive ancora che da parte del Sismi c’è stata “conoscenza... o forse compiacenza” nel rapimento.
“L'esistenza di un’autorizzazione organizzativa a livello territoriale nazionale da parte delle massime autorità responsabili del Servizio segreto Usa - scrive ancora il giudice - lascia presumere che tale attività sia stata compiuta quantomeno con la conoscenza (o forse con la compiacenza) delle omologhe attività nazionali, ma di tale circostanza non è stato possibile approfondire le evenienze probatorie (pur esistenti) per la posizione/opposizione di segreto di Stato da parte delle Autorità governative italiane”.
Maggi aggiunge ancora che (in seguito alla delimitazione dell'area del segreto operata dalla Corte Costituzionale e alle conseguenti opposizioni da parte degli imputati), è stato tirato una sorta di “sipario nero” su tutte le attività operate dagli agenti Sismi in relazione al fatto-reato 'sequestro di Abu Omar, “impedendone in via assoluta la valutazione”.
“Va soltanto evidenziato che, tirando le somme processuali di tali avvenimenti, l’esistenza di tale zona oscura e, soprattutto, la sua rilevante estensione in termini probatori, costituisce un elemento di assoluta essenzialità in termini di denegata conoscenza e, quindi, impone l’emissione della sentenza di non doversi procedere”.
E’ stato fissato per il 2 marzo prossimo l’inizio dell’udienza preliminare davanti al Gup di Perugia Carla Giangamboni a carico dell’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari e dell’ex funzionario dello stesso servizio segreto Pio Pompa per la vicenda relativa all’ archivio riservato trovato a Roma negli uffici di via Nazionale.
La procura del capoluogo umbro ha chiesto nei giorni scorsi il rinvio a giudizio dei due ipotizzando, tra l’altro, il reato di peculato. Secondo il pm Sergio Sottani, infatti, risorse dell’organismo sarebbero state utilizzate per realizzare decine di dossier su magistrati, giornalisti e politici, a fini considerati non istituzionali.
Il governo ha confermato il segreto di stato opposto da Marco Mancini, ex vertice del Sismi, tra gli imputati a Milano per la vicenda dei dossier illegali.
Mancini è uno dei protagonisti della vicenda dell’attività di dossieraggio illecito insieme all’ex capo della security di Pirelli e Telecom Giuliano Tavaroli e all’investigatore privato Emanuele Cipriani.
Era stata il gup di Milano Mariolina Panasiti ad interpellare la presidenza del Consiglio dopo che il funzionario del Sismi (ora sospeso), lo scorso 13 novembre, interrogato nel corso dell’udienza preliminare, per la terza volta dall’inizio dell’inchiesta, aveva opposto il segreto di stato: in aula non aveva risposto a quasi nessuna delle domande, anche a quella se mai avesse intrattenuto rapporti con Marco Tronchetti Provera, allora maggior azionista di Telecom e attuale presidente di Pirelli, mai indagato dalla Procura milanese come se non fosse al corrente della vicenda, a differenza delle due società.
Nella lettera che Berlusconi ha inviato al gup si specifica che gli argomenti su cui Mancini aveva opposto il segreto “attengono alle relazioni con organismi informativi di altri Stati, alle direttive e agli ordini interni, ai compiti, alle attribuzioni e alle attività istituzionali dei servizi di informazione, nonché ai loro assetti organizzativi e alle loro modalità tecniche operative”. Quindi, secondo il premier, “il complesso degli elementi sopra descritti, (...) merita protezione al massimo livello attraverso il vincolo del segreto di Stato”. Inoltre, si sottolinea, che “il disvelamento di informazioni di siffatta natura potrebbe da un lato minare la credibilità degli organismi informativi nei rapporti con le strutture collegate, dall’altro pregiudicarne la capacità ed efficienza operativa, con grave nocumento per gli interessi dello Stato”.
Se Palazzo Chigi, in una nota, ha tenuto a precisare che il segreto di stato è limitato in quanto riferito alle “relazioni internazionali tra i Servizi di informazione e gli interna corporis degli organismi informativi”, c’é anche da registrare che tutto ciò non facilita l’andamento del processo. Processo già azzoppato dalla decisione della Consulta di distruggere gli stessi dossier, importante fonte di prova, e nel quale, come è già accaduto per il rapimento di Abu Omar, il funzionario del Sismi potrebbe uscirne assolto per improcedibilità. La procura dovrà poi valutare se sollevare o meno il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato e sarà anche necessario esaminare se la decisione della Presidenza del Consiglio tocchi anche la posizione di altri imputati che non hanno ancora chiesto di patteggiare.
L’Fbi avrebbe più volte violato i regolamenti sulle intercettazioni telefoniche in nome della lotta al terrorismo. E’ la conclusione dell'inchiesta interna del dipartimento della Giustizia americano, come anticipato dal Washington Post.
Fra il 2002 e il 2006, l’Fbi avrebbe raccolto i dati relativi ad oltre duemila telefonate, invocando l’emergenza del terrorismo o convincendo le aziende telefoniche a fornire i tabulati prima che fosse formalizzata la richiesta. Fra questi casi, anche telefonate di giornalisti del Washington Post e del New York Times. Il numero totale delle telefonate per cui sono stati richiesti i dati nel periodo successivo agli attentati dell’ 11 settembre del 2001 è stato di 4.400.
I funzionari dell’Fbi non avrebbero rispettato le procedure che avevano essi stessi definito per proteggere i diritti civili degli americani, ovvero la Electronic Communications Private Act.
“Avremmo dovuto impedire che le richieste fossero fatte in questo modo. Siamo finiti con il farci male da soli” ha spiegato il General counsel dell'Fbi Valerie Caproni al Washington Post, riferendosi alla definizione di una richiesta formale destinata alle compagnie telefoniche successiva all'effettuazione delle intercettazioni. La Caproni difende il direttore del Bureau, Robert Muller, sottolineando come fosse venuto a conoscenza della pratica in uso solo alla fine del 2006 o ai primi dell'anno successivo, dopo l’avvio dell’inchiesta interna.
Dopo quasi 10 anni trascorsi in cella d’isolamento in due prigioni turche e quasi altrettanti rinchiuso nelle prigioni italiane, Alì Agca - il lupo grigio che il 13 maggio 1981 sparò a Papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro - è tornato a tutti gli effetti un libero cittadino. Libero e ricco, a quanto pare, visto che è ormai certo che una Tv americana gli ha offerto due milioni di dollari in cambio di un’intervista esclusiva.
Poco prima che Agca uscisse di prigione, i suoi avvocati Yilmaz Abosoglu e Gokay Gultekin hanno distribuito ai giornalisti un testo farneticante scritto dal loro assistito in cui tra l'altro annuncia la fine del mondo.
Dopo quattro ore di esami medici, Agca (che ha compiuto 52 anni lo scorso 9 gennaio) è stato dichiarato non abile a prestare il servizio di leva, referto che ha confermato quello emesso dai sanitari dell’ospedale militare Gata di Istanbul i quali lo avevano esaminato il 16 gennaio 2006. Quel giorno l’ex lupo grigio si era presentato al Gata per evitare una denuncia per diserzione.
Nella “lettera aperta ai giornalisti”, consegnata dai suoi avvocati, Agca dice che fornirà presto nuovi elementi sugli intrecci tra i servizi segreti russi e bulgari nell’attentato al Papa e sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la ragazza vaticana sparita nel giugno del 1983, oltre a proclamare “la fine del mondo e scrivere il Vangelo Perfetto”.
Nato a Yesiltepe in Turchia, Mehmet Ali Agca, militante dell’organizzazione terroristica di estrema destra dei Lupi grigi, il 1° febbraio 1979 uccide Abdi Ipekci, direttore del quotidiano liberale Milliyet. Per questo omicidio Agca viene condannato a morte, pena poi ridotta a dieci anni. Il 25 novembre 1979 riesce ad evadere dal carcere di massima sicurezza di Kartel Maltepe, aiutato dai suoi camerati dei Lupi grigi. Dopo l'evasione Agca minaccia di uccidere il Papa. E' probabile che la minaccia sia stata preconfezionata per eliminare i sospetti di un complotto nella successiva azione terroristica. La motivazione della sentenza di condanna all'’ergastolo emessa contro di lui in Italia rileva però che l’attentato “non fu opera di un maniaco, ma venne preparato da un'organizzazione eversiva rimasta nell’ombra”. La difesa ha invece sempre sostenuto che Agca aveva agito in piena solitudine, in preda ad una schizofrenia paranoica che gli faceva desiderare di diventare un eroe delmondo mussulmano.
Nel 1982, Agca cambia versione, comincia a collaborare e parla di una “pista bulgara” che collegherebbe l’attentato al Papa ai servizi segreti bulgari, che comprendeva anche la mafia turca e i Lupi grigi. Viene individuato anche un presunto complice di Agca, Oral Celik, anche lui in piazza San Pietro, che sarebbe intervenuto se Agca avesse fallito. La sentenza del 1986 non riesce però a dimostrare l’esistenza del complotto, o almeno la colpevolezza dei bulgari e dei turchi.
Agca non parla però solo di una “pista bulgara”. In un secondo momento cita ufficiali dei servizi segreti Usa che gli avrebbero chiesto di chiamare in causa paesi dell’Est europeo quali mandanti, coinvolge Francesco Pazienza il quale in seguito attribuisce invece la nascita della “pista bulgara” al brigatista rosso Giovanni Senzani che, stranamente, non solo è stato compagno di carcere di Agca, ma addirittura il suo insegnate di italiano. Agca cerca di cavalcare il collegamento della sua vicenda alla scomparsa di Emanuela Orlandi e lega l’attentato ai misteri del terzo segreto di Fatima, poi torna di nuovo sulla “pista bulgara”, alternando dichiarazioni e richieste di perdono ad atteggiamenti profetici in cui sostiene di essere un nuovo Messia, la “reincarnazione di Gesù Cristo”. In carcere scrive anche un libro autobiografico (“La mia verità”).
Negli ultimi anni Agca cambia ancora atteggiamento. Sembra aver perso ogni protagonismo e comincia insistentemente a chiedere la grazia o il permesso di finire di scontare la detenzione nel suo Paese. Dopo le rivelazioni del Papa sul “terzo segreto” di Fatima, Agca dice: “Sono stato strumento inconsapevole di un disegno misterioso”.
Nel giugno 2000 il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi gli concede la grazia. Alì Agca viene trasferito in Turchia per scontare la pena per l’assassinio del giornalista Abdu Ipekci. Ottiene uno sconto e torna in libertà il 12 gennaio 2006 ma la Cassazione turca annulla il provvedimento e il terrorista torna in carcere.
Nel 2007 da Istanbul viene trasferito in un istituto di massima sicurezza alla periferia di Ankara. Nel 2008 ha scritto al presidente della Polonia per chiedere la cittadinanza.
E' pronta a incontrare Mehmet Alì Agca la madre di Emanuela Orlandi, dopo le dichiarazioni dell’uomo che ferì nel 1981 Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro. Appena tornato libero l’ex lupo grigio, in una lettera-intervista a Repubblica, ha svelato che la Orlandi é ancora viva e “sul suo caso l’Italia non deve credere alle menzogne della Banda della Magliana”.
Maria Orlandi incontrerebbe Agca a patto che le nuove rivelazioni dell’attentatore di Papa Wojtyla “non siano una buffonata. Dopo 26 anni sarebbe triste. Si spera veramente bene e, soprattutto, ci si augura che quell’uomo dica la verità”.
Sul coinvolgimento della banda della Magliana la mamma di Emanuela ha spiegato che “stando in Vaticano io nemmeno conoscevo questa Magliana. Poi sono arrivate rivelazioni di una cattiveria inaudita secondo le quali mia figlia sarebbe stata uccisa per mano di questa banda. A questo punto mi auguro che qualcosa di buono possa uscire anche dall’attentatore del Papa. Un po’ di coscienza, dopo tanti anni, ci vorrebbe. Emanuela è sempre nei nostri pensieri, nelle preghiere, nelle passeggiate. Si parla delle cose della quotidianità, ma alla fine il pensiero é sempre fisso su mia figlia. Se veramente Agca sa dove si trova Emanuela noi lo incontriamo. Auguriamoci che sia la verità”.
Nella lettera-intervista ad Agca pubblicata da Repubblica, l’attentatore di Papa Wojtyla scrive: “Spero di portare Emanuela in Vaticano proprio questo anno. Magari il 22 giugno 2010. L’anniversario del rapimento”.
La Procura di Roma non ha alcuna intenzione di ascoltare Alì Agca sul rapimento di Emanuela Orlandi. Su questa vicenda, dal giugno 2008, la procura della capitale è tornata ad indagare sulla base delle dichiarazioni, spesso contraddittorie e prive di riscontri, di una donna, Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano, che sostiene di essere stata l’amante del boss della banda della Magliana Enrico De Pedis, detto “Renatino”.
L’inchiesta, ora condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo assieme al sostituto Simona Maisto, appare al momento molto confusa. La Minardi, già nel 2008, aveva sostenuto che Emanuela era stata uccisa poco dopo il suo sequestro ad opera della banda assieme ad un ragazzo, Domenico Nicitra, a sua volta figlio di un altro boss della Magliana. Il problema è che Nicitra scomparve nel 1993, dieci anni dopo la Orlandi e che lo stesso “Renatino” venne ucciso nel 1990. Semplici “confusioni temporali” secondo i magistrati romani, ma che rendono alquanto complicato credere alla Minardi che nelle sue “confessioni” ha tirato in ballo anche una coppia di ex affiliati alla banda e una loro amica che avrebbero tenuto prigioniera Emanuela nei sotterranei di un appartamento romano del quartiere Monteverde. Anche qui assoluta mancanza di riscontri ed una nuova “confusione temporale” perché tutte e tre queste persone tra il 1982 ed il 1984 era detenute in carcere.
Dieci poliziotti, fra i quali due funzionari, sono stati condannati per i fatti avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001 durante il vertice Global Forum, una vera e propria prova generale in vista del G8 di Genova che si svolse quattro mesi dopo.
La pena più severa, due anni e otto mesi di reclusione ciascuno per sequestro di persona è stata inflitta ai due funzionari Carlo Solimene e Fabio Ciccimarra. Due anni e mezzo a Raffaele Manna, due anni e due mesi a Damiano Tedesco. Le pene per questi quattro imputati risultano comunque condonate per effetto dell’indulto. Sempre per sequestro di persona sono stati condannati a due anni di reclusione ciascuno, e tutti con il beneficio della sospensione condizionale, i poliziotti Pietro Bandiera, Michele Pellegrino, Francesco Incalza, Paolo Chianese, Damiano Avallone ed Espedito Avellino.
Undici le assoluzioni e dieci i proscioglimenti per intervenuta prescrizione.
Secondo i giudici di primo grado che hanno emesso la sentenza nella caserma Raniero di Napoli avvenne un vero e proprio sequestro di persona. 85 manifestanti furono condotti e trattenuti per ore a margine degli scontri di piazza esplosi mentre in città si teneva il vertice Global Forum. I manifestanti - aveva sottolineato il pm Del Gaudio durante la requisitoria - erano stati portati in caserma senza ragione e “senza avvisare il pubblico ministero. Costretti a stare inginocchiati, picchiati, insultati”.
Affermano di non aver mai fatto parte di alcuna organizzazione terroristica, Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio, arrestati il 18 gennaio scorso dalla Digos a Milano nell’ambito di un'inchiesta coordinata dalla Procura di Roma con al centro Per il comunismo Brigate Rosse, un gruppo che, sempre stando all’accusa, si proponeva di rilanciare la lotta armata e già decapitato con cinque arresti lo scorso giugno.
Dal canto suo la procura di Roma ha già incontrato un intoppo: il gip si è opposto alla richiesta di arresto di altri due presunti terroristi, Francesco Paladino e Maurizio Calia, quest'ultimo ora in carcere in Sardegna per reati comuni.
Secondo l’accusa, l’associazione terroristico-eversiva di cui avrebbero fatto parte anche Morlacchi e Virgilio - si legge nell’ordinanza del Gip - si proponeva “di rilanciare la lotta armata in Itali” anche mediante “attentati selettivi a obiettivi qualificanti dell’imperialismo, quali i beni immobili dello Stato (...) e enti sopranazionali”. Nell’ordinanza si cita, fra gli altri, l’attentato fallito alla caserma Vannucci, sede della Brigata Folgore di Livorno, del 25 settembre 2006. Però per quell’attentato - lo scoppio di quell’ordigno rudimentale provocò lievi ferite a due parà - la procura di Firenze da tempo ha chiesto l’archiviazione dell'inchiesta, in quanto non sarebbero stati raccolti elementi sufficienti per individuare gli autori dell’attentato.
Cinque ergastoli ad altrettanti capi di Cosa nostra, per tre delitti eccellenti compiuti nell’ennese negli anni ‘80 e ‘90. Il 23 gennaio scorso la corte di Assise di Caltanissetta ha inflitto l’ergastolo a Totò Riina, riconosciuto colpevole di essere stato il mandante del delitto di Giovanni Mungiovino, ed ergastolo anche all’esecutore materiale Giacomo Sollami. Ergastolo e un anno di isolamento diurno per Giuseppe Piddu Madonia, boss di Caltanissetta, condannato come mandante dell’omicidio di Salvatore Saitta, esponente di spicco della cosca ennese, assassinato nel ‘92 a Valguarnera e per l’esecutore materiale Pietro Pernagallo.
Madonia è stato condannato anche per la “lupara bianca” di Giuseppe Cammarata, autotrasportatore di Enna, scomparso nel maggio del 1989 indicato come capo della cosca ennese. Ergastolo pure per il capo della famiglia di Enna, Gaetano Leonardo, accusato di essere stato con Madonia il mandante della “lupara bianca” di Cammarata. Madonia è invece stato assolto dall’accusa di avere ordinato la “lupara bianca” di Francesco e Mariano Seggio, padre e figlio, imprenditori di Valguarnera, scomparsi nell’aprile del 1990. La scomparsa dei due imprenditori rimane quindi irrisolta.
Omicidio che fece grande scalpore fu quello di Mungioino, esponente politico della Dc, indicato dai “pentiti” come rappresentante ennese della vecchia mafia, ma mai processato, venne assassinato il 9 agosto 1983, perché si opponeva all'ascesa dei Corleonesi e al traffico di stupefacenti che all’epoca era il grosso affare sul quale Cosa nostra si era lanciata.
La sentenza conferma l'impianto accusatorio sostenuto dal pm Roberto Condorelli, sostituto procuratore della Dda di Caltanissetta che da anni coordina le indagini sulla mafia ennese e sui suoi legami con le famiglie delle altre province.
La mafia “ha subito colpi molto duri ma non è in ginocchio”. Lo ha affermato a Trieste il 23 gennaio scorso il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia.
Parlando con i giornalisti prima di un incontro con gli studenti, Ingroia ha sottolineato che “la criminalità organizzata ha subito colpi molto duri, sono stati arrestati quasi tutti i capi latitanti e c’è un’azione dello Stato sul territorio importante, grazie soprattutto alle forze dell’ordine”. Per il magistrato tuttavia “la mafia sta attraversando una fase di finanziarizzazione della sua attività, e perciò più facilmente può mimetizzarsi e più facilmente è propensa a reinvestire i capitali sporchi nelle zone più ricche del Paese. Significativo è il fatto che negli ultimi anni la presenza degli interessi mafiosi sia aumentata al Nord”.
Nell’Expo DI Milano del 2015 il rischio di infiltrazioni mafiose c’è. L’amministratore delegato della società di gestione, Lucio Stanca, lo ha confermato il 22 gennaio scorso nel coso della sua audizione davanti alla Commissione Antimafia.
Stanca ha spiegato però che al momento non ci sono evidenze anche perché “non siamo in una fase operativa. I cantieri si avvieranno nel 2011-2012”.
Nasce a Ragusa L’”Archivio Giovanni Spampinato”, con raccolta di documenti, cartacei e digitali, di facile consultazione, accessibile on-line, sugli anni della strategia terroristico-mafiosa “per documentare le attività eversive, gli episodi di violenza politica, i traffici illeciti e i fatti di sangue che si verificarono in Sicilia con un intreccio ancora non del tutto chiarito con la criminalità mafiosa e con le attività politico eversive della strategia della tensione che insanguinò l’Italia alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta”.
Saranno così ricostruiti gli avvenimenti che si verificarono nelle province di Ragusa, Siracusa e Catania, ovvero gli episodi di violenza politica, le attività eversive, i traffici illeciti e i fatti di sangue nella Sicilia orientale, di cui si occupò in particolare il giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo, Giovanni Spampinato, assassinato il 27 ottobre 1972 e alla memoria del quale e' stato proposto di intitolare un premio giornalistico.
E’ cominciato lo scorso 20 gennaio a Torino il processo noto come “Cogne bis”, relativo al presunto tentativo di inquinare la scena dell’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi. Gli imputati sono Anna Maria Franzoni, la madre del bambino e uno svizzero che prese parte ad un sopralluogo nella villetta di Cogne (Aosta) alla fine del luglio del 2004.
La difesa ha chiesto l'audizione di una sessantina di testimoni, tra i quali figurano l’avv. Carlo Taormina (che nel 2004 assisteva la Franzoni), Irene Pivetti, in qualità di conduttrice di un programma televisivo che parlò del caso Cogne e il magistrato che si occupò dell'inchiesta in primo grado, Stefania Cugge. La procura intende chiedere la convocazione di 27 testimoni, tra cui lo stesso Taormina.
Anna Maria Franzoni, che sta scontando nel carcere di Bologna la condanna definitiva per l’omicidio del figlio, risponde del reato di calunnia a carico di un uomo residente in Valle d'Aosta, Ulisse Guichardaz. L’altro imputato è lo svizzero Eric Durst. L’accusa, per lui, è quella di frode processuale: lasciò un'impronta digitale sulla porta di una camera della villetta del delitto.
Nel corso della prima udienza, il 20 gennaio scorso, il pm Giuseppe Ferrando ha detto: “Questo processo non deve essere l’occasione per ripercorrere le indagini sull’omicidio di Samuele Lorenzi, perché c’é una sentenza irrevocabile di condanna, e nemmeno per una revisione mascherata del processo che l’ha prodotta”.
Troppo difficili da processare, troppo pericolosi per essere rilasciati: secondo l’amministrazione Obama una cinquantina di detenuti di Guantanamo sono destinati a restare nel “limbo giuridico” in cui si trovano ormai da anni.
Lo ha scritto il New York Times il 22 gennaio scorso, nel giorno in cui, secondo l’impegno preso un anno fa, la base prigione della guerra al terrorismo avrebbe dovuto essere ormai chiusa.
Si trovano attualmente a Guantanamo poco meno di 200 prigionieri. Quasi una cinquantina di prigionieri tuttavia continueranno a essere detenuti senza processo. Una quarantina, tra cui il presunto cervello delle stragi dell’11 settembre, Khalid Sheik Muhammed, verranno processati per terrorismo o crimini di guerra. Dei rimanenti, circa 110 sono destinati al rimpatrio o al trasferimento in altri paesi per un possibile rilascio, anche se per una trentina di questi, di nazionalità yemenita, il trasferimento è stato rimesso in forse dopo l'attentato fallito di Natale al volo Delta Northwest.
Il presidente Barack Obama si era ripromesso a chiudere Guantanamo a un anno dal suo insediamento, una delle molte promesse inevase al giro di boa dell’inizio del suo secondo anno di Casa Bianca.
Aumenta la fiducia degli italiani verso le forze dell’ordine. È quanto emerge dal rapporto Italia 2010 dell’Eurispes, presentato il 29 gennaio scorso a Roma.
Secondo l’analisi, il consenso verso i carabinieri è aumentato di quasi sei punti percentuali, passando dal 69,6% del 2009 al 75,3% del 2010. Ma anche la polizia registra un aumento di fiducia analogo, passando dal 63,3% al 67,2%.
Di segno contrario, invece, il trend dei consensi verso la polizia penitenziaria, che evidenziano un calo di quasi cinque punti percentuali. “Con tutta probabilità - spiega l’Istituto - questo risultato è anche il frutto dei recenti fatti di cronaca (presunte violenze nei confronti dei detenuti, ecc.) che hanno contribuito ad influenzare l’opinione pubblica”.
"Prendendo in esame l’area politica di riferimento - si legge nel rapporto - emerge che tra coloro che si collocano nell’area di centro vi è una maggiore propensione nell’accordare fiducia ai Carabinieri (80,6%), seguiti dal centro-destra (78,3%). Di particolare interesse appare il giudizio positivo espresso dal centro-sinistra (78,2%) e dalla sinistra (75,4%), segno evidente del superamento di un’antica distanza e diffidenza che avevano segnato negli anni passati i rapporti tra l’opinione pubblica di sinistra e i carabinieri. Fiduciosi nell’Arma, in misura minore anche rispetto a chi non si riconosce in nessuna area politica (71,7%) sono coloro i quali dichiarano di essere di destra (69,7%)”.
Fonte: Apcom