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STRAGE DI BOLOGNA:
DOPO 27 ANNI UNA NUOVA TESTIMONE.
MA E’ UNA BUFALA 

Dopo i duri attacchi che sono arrivati, con libri, conferenze e dibattiti alla sentenza definitiva con la quale tre neofascisti (Fioravanti, Mambro e Ciavardini) sono stati condannati per la strage di Bologna al termine di un processo assolutamente indizirio e senza prove, spunta - guarda caso - un nuovo testimone d’accusa.

Dopo 27 anni si tratta di appena il secondo testimone di accusa. Oltretutto rigorosamente anonimo. Un po’ poco.

Ma seguiamo la novità: è una donna che racconta di aver visto davanti alla stazione, poco prima dell’esplosione, due ragazzi, vestiti da tirolesi - il 2 agosto con i calzoncini di cuoio, le calze di lana e gli scarponi, tanto, ovviamente, per non dare nell’occhio - che potrebbero essere stati Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.

Quel 2 agosto nel 1980 la donna racconta di essersi trovata con la figlia davanti alla stazione in attesa di un pullman. Entrambe rimasero ferite dall'esplosione. Ma prima dello scoppio la donna ricorda che “a pochi metri da me sull'erba, notai un ragazzo e una ragazza vestiti in modo assurdo, vista l'afa che c'era. Avevano pantaloni a tre quarti da montagna, calzettoni di lana e scarponi. In particolare, la ragazza indossava calzoni verde militare, calzettoni rossi, una maglietta bianca, uno zaino, e aveva a fianco un golf o un giacchino tirolese. Quanto al ragazzo, ricordo la sua giacca, che non era il classico modello italiano, ma anch'esso tirolese”.

Il particolare le tornò alla memoria il 24 aprile 1982, leggendo i quotidiani che riferirono del ruolo di Massimo Sparti: a lui Fioravanti avrebbe chiesto il 4 agosto 1980 documenti falsificati per sè e per la sua compagna, parlando dell'attentato a Bologna e dicendo che lui era presente travestito da turista tedesco.

Gli inquirenti, racconta, le mostrarono delle fotografie segnaletiche con volti di donna: “Le guardai con attenzione e dissi 'Lei', indicando uno dei ritratti”. Era la foto di Francesca Mambro. Ma allora la donna non si sentì di collegare direttamente quel volto alla ragazza della stazione, limitandosi a dire di avere l'impressione di averla già vista. Un collegamento, dice oggi, “che mi è venuto dopo l'interrogatorio, quando è scemata l'angoscia per quello che stava succedendo”.

Stante la singolarità della testimonianza, resta da chiedersi cosa aspettino i magistrati bolognesi ad ascoltare questa anonima testimone, peraltro già ascoltata.

Forse anche loro hanno il sospetto che sia l’ennesima bufala di un’inchiesta giudiziaria fatta con i piedi?

FATTI DI GENOVA:
PADRE DI GIULIANI ACCUSA DE GENNARO 

Su De Gennaro devono emergere le sue precise responsabilità. Non può venire a Genova e dire io non c'entro. Chi ha mandato l'ormai defunto Arnaldo La Barbera ad esautorare tutta la catena di comando. Chi ha autorizzato l'irruzione alla Diaz? Chi ha lanciato la parola d'ordine 'arrestatene più che potete’”?

E’ Giuliano Giuliani, padre di Carlo, a parlare.

Commentando quanto emerso nelle ultime udienze dei processi, Giuliani ha affermato: “Si tratta di sprazzi, lumini di verità. Voglio credere che ci sia un po' di gente che in questi anni ha avuto un magone sullo stomaco e si è voluto liberare, perché non voglio fare pensieri più loschi”. E ha aggiunto: “Vorrei non doverci andare più in piazza Alimonda. Un attimo dopo che ci avranno dato la verità in quella piazza non ci andremo più”.

FATTI DI GENOVA (2):
DE GENNARO DAVANTI AL PM 

L’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, interrogato per circa quattro ore in procura a Genova, ha dichiarato di non aver indotto in nessun modo l'ex questore di Genova Francesco Colucci a rendere falsa testimonianza, né a modificare dichiarazioni fatte in precedenti interrogatori.

De Gennaro ha ribadito che non fu sua l'iniziativa di inviare Roberto Sgalla, direttore delle pubbliche relazioni del Dipartimento di Polizia, alla scuola Diaz la sera della sanguinosa irruzione, avvenuta durante il G8. Colucci, in un primo tempo, aveva raccontato che l'ordine era arrivato dal capo della polizia, salvo poi ritrattare il 3 maggio, assumendosene l’iniziativa.

Il filo sottile che lega l'ipotesi d'accusa nei confronti dei due indagati ruota infatti intorno alla presenza di Roberto Sgalla alla scuola Diaz la sera della sanguinosa irruzione dei poliziotti.

Chi volle che il responsabile delle relazioni esterne della Polizia, l’ex sindacalista del Siulp, Sgalla, andasse, quella sera, alla Diaz? Fu un'iniziativa del questore Colucci o questo lo fece perché glielo disse il capo della Polizia? E' questo ''il solo punto di divergenza” tra le dichiarazioni fatte oggi dal prefetto De Gennaro e le ''circostanze'' che il Pm della Procura di Genova gli contestavano.

A spiegarlo è il legale dell'ex capo della polizia, il prof. Franco Coppi.

Il prefetto De Gennaro - ha aggiunto il legale - ha dato spiegazioni su ogni circostanza. Compresa quella telefonata, poco prima dell' irruzione alla Diaz, nella quale De Gennaro chiedeva al questore Colucci se fosse certo dell'opportunità della perquisizione della scuola”.

De Gennaro, nel respingere l’accusa di concorso in falsa testimonianza, ha raccontato di essere stato sempre in contatto con Colucci, anche dopo il G8, per ragioni di servizio, di aver parlato spesso anche di quei fatti, ma ha escluso nel modo più categorico di averlo indotto a cambiare versione.

A De Gennaro, indagato per concorso in falsa testimonianza con Colucci, sarebbero state fatte conoscere numerose telefonate, intercettate dalla procura, in cui l'ex questore di Genova, parlando con alcuni funzionari, tra cui Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova, avrebbe rivelato: “In aula ho detto cose diverse perché me lo ha chiesto il capo”..

L'ipotesi di accusa dei pm genovesi fa riferimento alle dichiarazioni rese come teste da Colucci il 3 maggio scorso al processo per i fatti avvenuti nella scuola Diaz in cui sono imputati 29 poliziotti. In particolare la puntualizzazione che fu una sua iniziativa, e non per indicazione del capo della polizia, chiamare Roberto Sgalla.

Nel corso delle indagini preliminari, nell' ottobre del 2001, invece Colucci aveva raccontato ai pm che era stato il capo della polizia a dire di informare Sgalla. Alla contestazione in aula del pm Enrico Zucca, Colucci rispose: “Mi correggo...voglio dire questo...forse sono stato impreciso io... Il capo della polizia evidentemente mi ha richiamato per raccomandarmi la massima prudenza, mi ha...forse...mi avrà chiesto...ma non ricordo onestamente...gli ho detto...ho informato anche Sgalla...perché forse avrò detto al capo della polizia chi avevo informato di questa perquisizione...”.

A questo punto il pm Enrico Zucca gli aveva contestato: “Guardi che qui lei non é che riferisce un semplice contenuto di una conversazione..lei dice che ha informato il Capo della Polizia”.

FATTI DI GENOVA (3):
COSA DICHIARO’ DE GENNARO NEL 2002 AL PM 

L' ex capo della polizia Gianni De Gennaro fu interrogato per la prima volta il 17 dicembre del 2002 a Roma, come persona informata dei fatti, dai pm genovesi Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, titolari del indagini sulla sanguinosa irruzione dei poliziotti nella scuola Diaz.

Alla domanda dei magistrati di come e da chi fosse stato informato dell’operazione, De Gennaro rispose: “Fu il questore di Genova (Francesco Colucci, ndr) che mi disse che avrebbero fatto una perquisizione in una scuola e che nella circostanza aveva bisogno di impiegare anche dei carabinieri... Ho pensato ai rischi del fatto che si operasse di notte e ho chiesto al centralino riservato di passarmi Andreassi o La Barbera; mi passarono La Barbera e gli esternai questa preoccupazione, chiedendogli se fosse proprio necessario procedere... mi rispose di sì ed allora gli raccomandai di seguirla personalmente...”.

In merito poi alle dichiarazioni rese da Colucci sul fatto di aver inviato sul posto il direttore dell' ufficio pubbliche relazioni del dipartimento di polizia, Roberto Sgalla, su indicazione del capo della polizia, De Gennaro precisò: “Credo che Colucci ricordi male”.

Sentito su questo punto il 3 maggio scorso davanti al tribunale di Genova, Colucci ha precisato: “Fui io e non il capo della polizia a chiamare il portavoce dei rapporti con la stampa”.

Questa precisazione, e il fatto che Colucci, davanti al tribunale, abbia attribuito la responsabilità di tutta 1’operazione a Lorenzo Murgolo (la cui posizione è stata archiviata) indicando anche il prefetto Arnaldo La Barbera (morto durante le indagini), hanno indotto i pm a pensare ad un mutamento di strategia processuale che sarebbe stata suggerita dallo stesso De Gennaro.

FATTI DI GENOVA (4):
RISARCITA CON 24.3OO EURO
DONNA PRESA A MANGANELLATE 

Sarà risarcita con 24.300 euro per danni biologici ed esistenziali Rita Sieni, di 44 anni, abitante a Pinerolo (Torino), che durante il G8 del 2001 a Genova venne gravemente ferita nel corso di ripetuti pestaggi da parte dei poliziotti.

La donna riportò la frattura di una mandibola, trauma cranico e lesioni varie in tutto il corpo.

Lo ha deciso il giudice civile Angela Latella. A farsi carico del risarcimento, maggiorato della rivalutazione secondo gli indici Istat, sarà il ministero dell’Interno.

L' episodio in cui la donna subì la violenza dei poliziotti si verificò il 21 luglio del 2001 davanti a Punta Vagno, in corso Italia, quando alcuni agenti si misero all'inseguimento di un gruppo pacifico, il Coordinamento pinerolese contro il G8, di cui anche lei faceva parte, cominciando a picchiare tutti i manifestanti indistintamente e a lanciare lacrimogeni.

Secondo il racconto  di alcuni testi, Rita Sieni, come altre persone, per fuggire dal fumo e dalla furia degli agenti cominciarono a scappare, prese dal panico.

La donna venne però raggiunta dai poliziotti e picchiata a manganellate. Le venne anche spruzzato in faccia un liquido urticante che la rese cieca per alcuni minuti.

FATTI DI GENOVA (5):
TORTURA.
PARLA UN ESPERTO 

Squadre formate da uomini della polizia specializzate in “torture e sevizie degli arrestati” ci sono state fin dalla lotta al terrorismo negli anni Ottanta.

La grave affermazione è di un poliziotto: Salvatore Genova, uno degli uomini che nel gennaio 1982 liberò il generale James Lee Dozier, rapito dalle Brigate rosse, e finì sotto processo con l’accusa di aver torturato i brigatisti arrestati.

Fin dai tempi delle Br sono esistiti, nella polizia, corpi speciali, soprannominati I vendicatori della notte e I cinque dell’Ave Maria che hanno esercitato torture e sevizie sugli arrestati”, ha affermato in un’intervista al Secolo XIX, Salvatore Genova, attualmente dirigente della Polfer

Genova, nel 1983 parlamentare socialdemocratico, è stato tra i poliziotti in servizio nel luglio 2001 al G8 (dove “i superiori - dice - ci hanno lasciato in 50 davanti a ventimila”), parla oggi “alla soglia della pensione”.

Posso permettermi di svelare dopo 30 anni di servizio alcuni dei mali profondi della polizia”. E racconta di aver denunciato l’esistenza delle “squadrette” a più riprese ai suoi superiori.

Secondo il suo racconto, almeno cinque brigatisti vennero sottoposti a torture  nella sede del reparto mobile di Padova: legati, ad occhi bendati, e obbligati a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Tra i destinatari di questo trattamento anche il Br Antonio Savasta che, racconta Genova, gli disse: “Ma perchè continuano a torturarci se stiamo collaborando?”.

FATTI DI GENOVA (6):
DA SETTEMBRE IN AULA
I 45 IMPUTATI DEL LAGER BOLZANETO 

A partire da settembre sfileranno in aula i 45 imputati del processo per le violenze avvenute nella caserma-lager Bolzaneto durante il G8 di Genova, appartenenti alle forze dell'ordine, medici e personale medico.

Il Tribunale, presieduto da Renato De Lucchi (pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruziello), ha fissato il calendario delle deposizioni: il 21 settembre verrà sentito 1'allora vicecapo della Digos Alessandro Perugini, soprannominato “il calciatore” perché ritratto in una foto mentre prendeva a calci un minorenne immobilizzato da altri poliziotti; il 24 verrà sentita la poliziotta della penitenziaria Anna Poggi; il 25 il generale Oronzo D'Oria; l'8 ottobre il medico Aldo Amenta e il 12 Giacomo Toccafondi.

Si riprende il 17 settembre con gli ultimi tre manifestanti feriti a Bolzaneto.

Il processo potrebbe arrivare a sentenza di primo grado entro la fine dell'anno.

PESTAGGIO ALDROVANDI:
POLIZIOTTI ALLA SBARRA 

Ferrara, via dell'Ippodromo. All'alba del 25 settembre 2005 muore, a seguito di un controllo di polizia, Federico Aldrovandi, 18 anni.

Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell'innocenza dei tutori dell'ordine, è del 20 giugno scorso la notizia del rinvio a giudizio degli agenti che fermarono il diciottenne.

Omicidio colposo l'ipotesi di reato per i poliziotti che avrebbero “cagionato o comunque concorso a cagionare la morte” di Federico per non aver chiamato il soccorso medico, ingaggiando al contrario “una colluttazione in maniera imprudente, pur trovandosi in evidente superiorità numerica”.

Mentre il ragazzo implorava aiuto e chiedeva agli agenti di fermarsi “con la significativa parola basta, lo mantenevano ormai agonizzante ammanettato con la faccia in giù”.

Se presto un gruppo di poliziotti verrà processato, lo si deve al coraggio della madre di Federico Aldrovandi, che con il suo blog ha fatto e sta facendo di tutto per scoprire e diffondere la verità sulla morte del figlio.

Il blog di Patrizia Moretti, la mamma di Federico, risulta in particolar modo rilevante alla luce dell'immediata reazione dei media che, dopo l'accaduto, hanno deciso di seguire le tesi della polizia che cercavano di far passare Federico semplicemente come violento e drogato.

L'ultima perizia, che risale al novembre 2006, ha consegnato maggiori elementi all'indagine dopo quelle delle consulenze di parte, pur mantenendo il campo libero per le varie ipotesi. Nel sangue di Federico sarebbero state trovate infatti tracce di stupefacenti in concentrazioni troppo basse per spiegare il decesso che, sempre secondo i periti, non sarebbe stato nemmeno diretta conseguenza delle percosse, ma di asfissia. Un argomentazione che non mette fine all'ambiguità che ha segnato questa vicenda, specialmente dopo la scoperta di contraffazioni nei registri della polizia.
Il processo inizierà il 21 ottobre, più di due anni dopo quella notte di settembre del 2005, durante la quale Federico, di ritorno da una serata al Link di Bologna, trovò la morte sulla strada di casa.

MINACCE A BAGNASCO:
GAFFE DEGLI INVESTIGATORI
COINVOLGE LA LIOCE 

Una busta bianca, probabilmente traslocata da carcere a carcere, insieme a Nadia Lioce, condannata per gli omicidi D’Antona e Biagi, fino ad arrivare al penitenziario dell'Aquila, dove è stata sequestrata, era diventata indizio del coinvolgimento della stessa brigatista come mandante delle minacce a monsignor Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale.

Ma era solo l’ennesima gaffe di investigatori ormai ossessionati dalla minaccia terroristica.

Ad insospettire investigatori evidentemente inesperti erano stati pezzi di frasi impressi sulla parte superiore di quella busta, quella che si ripiega per la chiusura, che su due righe recitavano: “...ne do...asco.. ne...” e poi “religios...”.

Sulla busta, in realtà, la frase completa era: “Associazione Don Vasco Nencioni per la ricerca religiosa”. Cancellando le prime dieci lettere della parola “Associazione” veniva fuori “...ne..”; Don diventava “do” e “Vasco” diventava, sulla busta sequestrata, “...asco”. Da qui l’allarme per gli inquirenti che si è poi rivelata una beffa per loro.

La busta bianca apparteneva ad un lotto di carta riciclata, assieme a centinaia di altre buste e carta da lettera, da volontari e distribuita due anni fa, quando Angelo Bagnasco era solo arcivescovo di Genova e al timone della Cei c'era ancora Camillo Ruini. Il lotto di carta riciclata era finito alle detenute del carcere fiorentino di Sollicciano. Tra quelle detenute c'era anche Nadia Lioce. Tutto qui.

La ricostruzione di questa gaffe di investigatori un po’ troppo zelanti scaturisce dalla segnalazione di un volontario che consegnò materiale di cancelleria alla terrorista e che, dopo gli sviluppi dell'indagine della procura dell'Aquila, ha segnalato la circostanza ai difensori di Nadia Lioce.

Il materiale riciclato per le detenute proveniva, infatti, da una associazione religiosa di Firenze, la  “Don Vasco Nencioni”, un sacerdote, nonché teologo, a cui è intitolato un fondo donato alla Biblioteca della facoltà teologica dell'Italia centrale.

E' incredibile - hanno spiegato gli avvocati Serra e Caglia, legali della Lioce - che l'intestazione dell'associazione “Don Vasco”, con parole cancellate, sia diventata un indizio contro la nostra assistita. In realtà sarebbe stato sufficiente confrontare la busta e chiedere spiegazioni alla Lioce la quale, come si evince dal documento depositato al riesame, ha chiarito che politicamente le Brigate Rosse con le minacce a monsignor Bagnasco e più in generale con Bagnasco stesso, non hanno nulla a che fare. Insomma sarebbe stata sufficiente maggiore cautela per evitare uno spreco di soldi dei contribuenti”.

CASO CALVI:
UN OMICIDIO SENZA COLPEVOLI 

Nulla da fare. I mandanti e gli esecutori dell'omicidio del banchiere Roberto Calvi, trovato il 18 giugno del 1982 a Londra sotto un ponte dei Frati neri, restano sconosciuti.

A venticinque anni dalla morte del “banchiere di Dio”, un tribunale italiano, pur giudicando insufficienti e contraddittorie le prove a carico del faccendiere Flavio Carboni, del cassiere di Cosa Nostra Pippo Calò, di Ernesto Diotallevi, boss della banda della Magliana, e del contrabbandiere Silvano Vittor, ha stabilito che Calvi venne assassinato e che il suo, quindi, non fu suicidio, come stabilito, invece, dalle autorità londinesi.

Ben poco per l’accusa sostenuta dal pm Luca Tescaroli, secondo il quale, in ogni caso, la sentenza è “un passo in avanti rispetto agli esiti dell'inchiesta di Scotland Yard che lasciarono aperta l'ipotesi del suicidio”.

Tutti assolti gli imputati, secondo la formula che una volta indicava la insufficienza di prove. La quinta imputata, Manuela Kleinsig - già fidanzata di Carboni - è stata invece assolta con formula piena.

Il pm, al termine della requisitoria, aveva chiesto quattro condanne all'ergastolo per concorso in omicidio volontario con l'aggravante della premeditazione.

Tutti gli imputati erano finiti a giudizio perché, in concorso tra loro e con altri non ancora identificati, avvalendosi delle organizzazioni criminali di tipo mafioso (Cosa Nostra e Camorra), avrebbero organizzato la morte di Calvi ”per punirlo di essersi impadronito - si legge nel capo di imputazione - di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle organizzazioni criminali” stesse.

Calvi, secondo l'accusa, avrebbe pagato con la morte anche il “potere ricattatorio - scrive il pm - che avrebbe avuto nei confronti di referenti politico-istituzionali della massoneria, della Loggia P2 e dello Ior”, la banca del papa.

A conclusione delle indagini, il pm era andato addirittura oltre. Dietro la morte del banchiere - aveva sostenuto - si nasconderebbero una serie di intrecci torbidi: dalla cattiva amministrazione del denaro di Cosa Nostra affidato al banchiere milanese, al pericolo che fossero rivelati segreti su riciclaggi compiuti attraverso il Banco Ambrosiano, alla volontà dei mandanti di quella morte di acquisire maggiore peso negoziale nei confronti di coloro che erano in rapporti con Calvi, ovvero massoneria, P2, Ior, referenti politici e istituzionali, enti pubblici nazionali.

Evidente la soddisfazione dei difensori degli imputati quando il presidente D'Andria ha scandito la parola “assolti per non aver commesso il fatto”.

Sulla morte di Calvi in procura a Roma c'è un secondo fascicolo aperto: un'indagine-stralcio sui mandanti, che vede indagate una decina di persone tra le quali l'ex Venerabile della Loggia P2 Licio Gelli.

CASO ALPI/HROVATIN:
GENITORI SI OPPONGONO AD ARCHIVIAZIONE 

Non deve andare in archivio, come ha deciso la procura della Repubblica di Roma, il procedimento riguardante l'uccisione di Ilaria Alpi e dell’operatore televisivo Miran Hrovatin, avvenuto in Somalia il 20 marzo 1994.

E' quanto chiedono i genitori di Ilaria Alpi, con l'assistenza dell'avv. Domenico D'Amati, in un documento di 60 pagine depositato in procura.

Nel documento vengono indicate quali indagini, secondo i famigliari, devono essere svolte per arrivare ad identificare i mandanti dell'omicidio.

Sulla opposizione dei genitori dovrà ora decidere il gip Emanuele Cersosimo.

Era stato il procuratore aggiunto di Roma Franco Ionta a chiedere l'archiviazione dell’inchiesta-stralcìo sull'omicidio della giornalista del Tg3 e del suo cameraman. Per Ionta non è stato possibile accertare le responsabilità di altri soggetti, oltre al miliziano somalo Omar Hashi Hassan, condannato a 26 anni di reclusione, sebbene palesemente innocente.

L'inchiesta era stata aperta dopo la condanna dello stesso Hassan. Nel fascicolo erano confluiti gli atti della Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta dall’on. Taormina.

STRAGE DI GIOIA TAURO:
DOPO 37 ANNI VERDETTO DEFINITIVO 

La Cassazione ha detto, almeno per ora, l'ultima parola su uno dei meno noti misteri d'Italia: il deragliamento del treno Freccia del Sud, avvenuto il 22 luglio del 1970 a Gioia Tauro, che provocò sei morti e 87 feriti.

La Suprema Corte ha ritenuto responsabile in concorso di omicidio volontario plurimo il “pentito” di `Ndrangheta Giacomo Ubaldo Lauro, assolvendolo, tuttavia, perché il reato è prescritto.

Lauro è l'uomo che 37 anni fa procurò l'esplosivo necessario a far saltare i binari su cui transitava la Freccia del Sud, diretto da Siracusa a Torino, e quindi a provocare la strage.

Negli anni '70 si tenne un primo processo contro quattro ferrovieri accusati di omicidio colposo plurimo e si concluse nel '74 con la loro assoluzione.

Seguirono 20 anni di silenzio fin quando, nel 1994, Giacomo Ubaldo Lauro rivelò al pm di Reggio Calabria, Vicenzo Macrì ed al giudice di Milano Guido Salvini di essersi procurato l'esplosivo in una cava di Bagnara (Reggio Calabria) e di averlo consegnato alle persone (tutte decedute, nel frattempo) che poi lo avrebbero collocato

sui binari vicini alla stazione di Gioia Tauro, durante i moti di Reggio Calabria.

Lauro raccontò ai giudici di Palmi, durante il processo di primo grado, che i responsabili di quell'attentato non volevano causare una strage, ma soltanto interrompere i collegamenti ferroviari con il resto d'Italia.

Dopo cinque giudizi (dopo l'Appello la Cassazione aveva cassato la sentenza e rinviato il processo in secondo grado) questa terribile vicenda di stragismo ha avuto la sua conclusione giudiziaria, confermando il legame esistito, durante la rivolta neofascista di Reggio Calabria, tra eversione nera e Ndrangheta.

TERRORISMO ITALIANO:
PER LA MORTE DI TOBAGI
NON SERVE UN CAPRO ESPIATORIO 

La vicenda del giornalista Renzo Magosso, imputato a Monza per diffamazione

L'Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa,
il ministro della Giustizia,
le forze  politiche e i tanti sedicenti garantisti,
di destra e di sinistra,
non hanno nulla da dire?

di Franco Corleone

Walter Tobagi poteva essere salvato? Questo è l'interrogativo su cui si sono arrovellati nel corso degli anni politici, giornalisti, amici, e prima ancora il padre Ulderico e i famigliari.

Le polemiche sulle responsabilità della sua morte erano esplose immediatamente. Lo scontro aveva al centro le vicende del Corriere della Sera, stretto tra il ruolo della P2 e dell’amministratore Tassan Din da una parte e il sindacato guidato da Raffaele Fiengo dall'altra. I socialisti scesero in campo accusando i giornalisti avversari di Tobagi di essere i mandanti morali dell'omicidio. Anche questa tragedia entrò nel conto del dissidio insanabile tra Craxi e Berlinguer e ancor più della frattura tra il Psi e la magistratura milanese, ben prima di Tangentopoli.

Dopo 27 anni questa vicenda non è ancora storia ma rimane cronaca. Il 28 maggio, in occasione dell'anniversario, la morte di Tobagi è stata rievocata in tono rituale, mentre invece attende ancora giustizia. D'altronde, la ferita è aperta da tutti i punti di vista. Infatti, nel silenzio più assoluto, presso il Tribunale di Monza è in corso un nuovo processo.

In realtà, il procedimento penale vede come imputato il giornalista Renzo Magosso, autore del volume Le carte di Moro. Perché Tobagi querelato dal gen. Ruffino e dalla sorella del gen. Bonaventura.

La querela per diffamazione concerne un articolo del settimanale Gente del 17 giugno 2004 in cui il giornalista Renzo Magosso intervistava un sottufficiale dei carabinieri dell'epoca, Dario Covolo, che dichiarava di avere presentato sei mesi prima del delitto una nota informativa sui terroristi che stavano progettando l'azione criminosa e che i suoi superiori la chiusero in un cassetto. Sulla base dell'articolo, in Parlamento, alla fine della scorsa legislatura, fu discussa un’interrogazione a risposta immediata dell'on. Marco Boato e successivamente una interpellanza urgente sui misteri del caso a firma sempre dell'on. Boato e sottoscritta dai deputati Intini, Biondi, Pisapia e Bielli. In quella occasione il ministro Giovanardi per la prima e unica volta in vita sua difese la magistratura di Milano e si rifece alle affermazioni del dott. Armando Spataro. Vale la pena riportare una frase sconcertante della risposta del governo: «Quindi il governo non ha potuto fare altro che raccogliere nuovamente dalla procura di Milano, dai magistrati, sulla base di dichiarazioni rese in passato e di quelle di oggi, la loro volontà di non (proprio così, ndr) spiegare nuovamente cose già chiarite in tutte le sedi competenti».

L'on. Boato in sede di replica definì la risposta di Giovanardi «semplicemente indecente». Da quel momento si sviluppò, proprio in coincidenza con il venticinquesimo anniversario della morte di Tobagi, una ricerca e un approfondimento sui lati oscuri che facevano dire al direttore del tempo del Corriere della sera, Stefano Folli, «di non ritenere ancora chiusa la vicenda».

Sono stati pubblicati alcuni volumi: Il caso Tobagi di Ugo Finetti; Le parole di piombo di Paolo Franchi e Ugo Intini; Walter Tobagi di Daniele Biacchessi. Giovanni Minoli ha dedicato all'affaire diverse puntate de La storia siamo noi e Claudio Martelli una trasmissione che gli ha fatto guadagnare una dura contestazione da parte di Tino Oldani, caporedattore di Panorama sul ruolo di Caterina Rosenzsweig, fidanzata dell'omicida Marco Barbone, che per la procura di Milano «poteva non sapere».

È sterminato l'elenco dei pezzi giornalistici usciti in quel periodo che hanno riportato i nuovi elementi emersi dall'inchiesta di Magosso. Cito alla rinfusa i nomi degli autori: Antonio Dipollina, Luca Fazzo, Riccardo Chiaberge, Attilio Giordano, Giangiacomo Schiavi, Sebastiano Messina, Giuseppe Caruso, Dario Fertilio, Enrico Bonerandi, Gaspare Barbiellini Amidei, Stefano Salis, Dino Martirano, Piero Degli Antoni, Gian Guido Vecchi, Annachiara Sacchi, Claudia Fusani, Ruggiero Capone. Nessuno è sotto accusa, solo Magosso è sotto processo per una intervista.

La cosa ha dell'incredibile, eppure non suscita scandalo. Le udienze finora si sono svolte nel silenzio più assoluto. Mi sono chiesto la ragione della latitanza dell'Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale della Stampa. Qui non è in gioco una difesa corporativa, ma l'essenza della libertà di stampa e del diritto-dovere dell'informazione. La giurisprudenza della Cassazione è chiara sul punto, ma la solitudine di Magosso pone un problema politico.

In Sicilia situazioni del genere segnano il destino di una persona. Qui la partita è ancora più delicata.

Renzo Magosso da imputato si è trasformato in accusatore. Ha rivendicato la sua amicizia con Tobagi e il suo impegno perché l'oblio non nasconda le ragioni occulte che hanno determinato quella tragedia. Magosso, peraltro, ha riferito in aula una circostanza inedita e clamorosa: venti giorni dopo il delitto, nel giugno 1980, il gen. Dalla Chiesa incontrò l'allora direttore del Corriere Franco Di Bella e gli disse chiaramente che a uccidere Tobagi era stato Marco Barbone, figlio di un alto dirigente dell'Editoriale. Di Bella chiese a Magosso, che lavorava al quotidiano L'Occhio, e che seguiva le indagini sul terrorismo, di accertare quanto ci fosse di vero. Magosso si rivolse all'allora cap. Bonaventura che confermò la circostanza, aggiungendo: «Abbiamo la certezza, la notizia arriva da Varese».

Va chiarito che Rocco Ricciardi, l'informatore citato da Dario Covolo, abitava proprio nel varesotto. Ebbene, il 25 settembre, a poche ore dall'arresto di Barbone, Magosso scrisse sull'Occhio, il tabloid della Rizzoli, diretto da Maurizio Costanzo, che era stato arrestato il killer di Tobagi e fece esplicito riferimento a Varese. Solo il 10 ottobre, «in maniera inaspettata e clamorosa», come riferiscono gli atti processuali, Barbone confessò di aver ucciso Tobagi. Magosso dunque non si era sognato nulla. E questa sembra proprio la riprova che nella vicenda ci sia ancora moltissimo da chiarire.

Occorrerebbe allora cogliere l'occasione per far fare finalmente chiarezza e giustizia. Ma l'impressione che si ricava dall'andamento del processo di Monza è che non si voglia andare in fondo, così che chi ha dato un contributo alla verità rischia di essere invece punito: serve a molti una condanna per diffamazione e magari una causa civile per danni per mettere una pietra tombale sulla vicenda.

Perché non fu salvato Tobagi? Fu solo sciatteria e insipienza, o ebbe un ruolo la P2? Fu decisivo l'utilizzo dei pentiti e un indecente rapporto di scambio? Dopo l'uccisione di quattro Br in via Fracchia a Genova faceva comodo una ripresa del terrorismo in cui la vittima sacrificale poteva ben essere un riformista socialista, magari vicino alla direzione del maggiore quotidiano italiano?

Sono domande inquietanti.

Barbone venne prontamente scarcerato, grazie alla collaborazione con i magistrati, che portò all'arresto di decine di suoi ex compagni. La sua ex fidanzata non venne neppure inquisita, nonostante avesse partecipato al progetto di sequestrare lo stesso Tobagi. Ora il processo contro il giornalista Magosso rischia di trasformarsi, al di là della volontà dei giudici, nella identificazione di un capro espiatorio che sia di monito per chi volesse insistere nel non rassegnarsi a una verità di comodo.

L'Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, il ministro della Giustizia, le forze politiche e i tanti sedicenti garantisti, di destra e di sinistra, non hanno nulla da dire?

Fonte: Il Riformista, 10 luglio 2007

ANARCHICI:
I FANTASMI
DI UN MAGISTRATO BOLOGNESE 

Prive di fondamento - secondo il Tribunale del Riesame di Bologna - le ipotesi di apologia di attentato terroristico e associazione sovversiva per gli anarchici del Centro di Documentazione bolognese Fuoriluogo, che subirono quattordici perquisizioni familiari il 31 maggio scorso.

Per l'ennesima volta si rivelano infondate le costruzioni accusatorie di Paolo Giovagnoli, pm della procura bolognese, ossessionato dall’idea di vivere in una città sull'orlo dell'insurrezione.

Questa volta è stato il Tribunale del Riesame, presieduto dal giudice Sergio Cornia, a smontare le accuse rivolte da Giovagnoli a otto attivisti del Centro, ordinando il dissequestro di tutto il materiale sequestrato.

Gli otto anarchici distribuirono all'entrata di un convegno tenutosi alla Facoltà di Economia il 21 marzo scorso un opuscolo intitolato “La classe operaia va all'inferno” all'interno del quale la frase “certe responsabilità prima o poi si pagano”, riferita al giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse, avrebbe delineato, secondo l'accusa, i reati di apologia di attentato per finalità terroristiche o di eversione, nonché di associazione sovversiva.

Una vera caccia alle streghe o, nella migliore delle ipotesi, la persecuzione di un mero reato di opinione incompatibile con uno stato di diritto.

Distribuire quell'opuscolo, che il Riesame definisce “ironico... e privo di espressioni particolarmente radicali” sarebbe stata sì una condotta “gravemente provocatoria e offensiva della sensibilità dei partecipanti”, ed in particolare nei confronti di Marina Orlandi, vedova Biagi, ma rivolta ad un pubblico del tutto “refrattario a raccogliere stimoli a delinquere”.

In altre parole, non c’è fondamento per le ipotesi di reato formulate da Giovagnoli.

OMICIDIO DEL PICCOLO TOMMASO:
A RAIMONDI 20 ANNI,
ASSOLTO BARBERA  

Salvatore Raimondi merita la pena massima per aver rapito e causato, pur senza volerlo, la morte di Tommaso Onofri. Pasquale Barbera viene assolto perché non ha commesso il fatto.

Il gup di Bologna Rita Zaccariello ha emesso la prima sentenza sul caso Del piccolo Tommaso Onofri, sequestrato e ucciso a Casalbaroncolo (Parma) il 2 marzo 2006. Il rito abbreviato garantisce uno sconto di pena di un terzo all'ex pugile Raimondi: la condanna, quindi, è a 20 anni.

A Bologna si chiude un atto della vicenda che lo scorso anno scosse l'Italia. E' solo un passaggio: il 21 settembre a Parma saranno giudicati con rito ordinario Mario Alessi, il muratore siciliano accusato di aver rapito e materialmente ucciso sul greto del fiume Enza il bimbo di 17 mesi, perché spaventato dall'arrivo di una volante. Sarà giudicato assieme alla sua compagna, Antonella Conserva, anch’essa accusata del sequestro. Andranno a dibattimento, rinunciando così allo sconto di pena del rito abbreviato. Scelta definita “un suicidio” dal procuratore aggiunto della Dda di Bologna, Silverio Piro.

Pasquale Barbera, il capomastro di 33 anni - amico degli Onofri al punto che, raccontò, “ci si scambiava i vestitini del bambini” - è uscito in lacrime dal palazzo che ospita Procura e uffici dei Gip: “E' la fine di un incubo”.

Per l’accusa fu lui che raccontò ad Alessi della florida situazione economica degli Onofri, che l'aiutò a portare via il cane per evitare abbaiasse la sera del sequestro. Ma contro Barbera, evidentemente, c'era troppo poco: c'era soprattutto la parola di Alessi, cui però gli stessi inquirenti non credono quando accusa Raimondi di aver ucciso il piccolo.

MOSTRO DI FIRENZE:
RIAPERTO CASO MORTE MISTERIOSA
DI 27 ANNI FA 

A distanza di 27 anni, su disposizione del gip di Firenze, la procura del capoluogo toscano torna a indagare sulla morte di Renato Malatesta, che il 24 dicembre del 1980, quando fu scoperta, venne classificata come suicidio per impiccagione, ma che poi era entrata a far parte delle indagini satellite dell'inchiesta sul mostro di Firenze.

Nel registro degli indagati, per l'ipotesi di reato di omicidio volontario, sono state iscritte due persone: Antonio Andriaccio, cognato di Malatesta, e Filipponeri Toscano, ex appuntato dei carabinieri.

Intanto, su disposizione dei pm che conducono l'inchiesta, Paolo Canessa e Alessandro Crini, la salma di Malatesta è stata disseppellita dalla tomba nel cimitero di Tavarnelle per essere portata all'istituto di medicina legale dell'ospedale fiorentino di Careggi dove il 24 luglio sono stati eseguiti l'esame autoptico e altri accertamenti che all'epoca della morte non vennero effettuati.

L'incarico è stato affidato al professor Aurelio Bonelli che avrà 30 giorni per consegnare alla procura i risultati degli esami.

DELITTO DELL’OLGIATA:
NUOVE PERIZIE 

Un nuovo incarico peritale e la nomina di tre consulenti per cercare di fare luce, dopo 16 anni, su uno dei gialli irrisolti di Roma: l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, noto come il delitto dell'Olgiata.

Il procuratore aggiunto Italo Ormanni e il pm Settembrino Nebbioso, nel quadro delle nuove indagini sollecitate da Pietro Mattei, vedovo della contessa, hanno nominato tre consulenti, i professori Paolo Arbarello, Carla Vecchiotti e Vincenzo Pascali. I tre periti dovranno riesaminare i reperti ancora in possesso della procura: i pantaloni dei due indagati - il filippino Manuel Winston e Roberto Iacono - il lenzuolo del letto della contessa e lo zoccolo con il quale fu colpita alla testa il 10 luglio del 1991.

La perizia è cominciata il 2 luglio scorso e i consulenti avranno 90 giorni di tempo per giungere alle conclusioni.

L'incarico prevede il confronto tra il Dna degli indagati e comparato con quello che eventualmente sarà ricavato dai reperti.

La procura di Roma, nel marzo scorso, aveva nuovamente iscritto i nominativi di Roberto Iacono e del filippino Winston Manuel nel registro degli indagati come atto dovuto. La nuova iscrizione, per omicidio volontario, dei due indagati (entrambi furono prosciolti nella prima inchiesta) è scaturita dalla necessità di consentire loro di nominare un consulente che possa prendere parte agli accertamenti di laboratorio che la procura ha deciso di far svolgere sui loro pantaloni, dove furono trovate alcune macchie di sangue, e su altri reperti.

Iacono è difeso dall'avv. Alessandro Cassiani che ha nominato come consulente di parte Riccardo Cortese. Manuel Winston, difeso dall'avv. Ugo Longo, ha nominato Andrea Guidi, mentre l'avv. Giuseppe Marazzita, legale di Pietro Mattei, ha affidato la consulenza di parte alla prof. Francesco Fiorentino che partecipò alla stesura dell'esposto presentato nei mesi scorsi a piazzalo Clodio, da cui è scaturita la riapertura delle indagini.

Era la mattina del 10 luglio del 1990 quando il killer entrò nella stanza da letto della contessa Filo della Torre e la uccise. Un groviglio di piste coinvolsero personaggi di tutti i generi, compresi alcuni funzionari dei servizi segreti.

USURA:
CONDANNA PER NICOLETTI,
GIA’ BANDA DELLA MAGLIANA  

Enrico Nicoletti, considerato dalla magistratura romana l'ex cassiere della banda della Magliana, i suoi due figli Massimo e Antonio ed Enrico Terribile, sono stati condannati rispettivamente a 12 anni e sei mesi, nove anni, cinque anni e nove mesi e a sette anni di reclusione al termine del processo contro presunti appartenenti a una organizzazione accusati, a seconda delle posizioni, di associazione di tipo mafioso finalizzata all'usura, estorsione e riciclaggio.

La Corte, presieduta da Giancarlo Millo, ha emesso altre 15 condanne per altrettanti imputati, per pene variabili tra i cinque anni e sei mesi e un anno e nove mesi. Sono inoltre stati assolti 22 imputati.

La Corte non ha ritenuto sussistente il reato, a carico dei tre Nicoletti e di Terribile e di altri, di associazione a delinquere di stampo mafioso. Nei loro confronti è stata riconosciuta l'associazione semplice: i tre Nicoletti ed Enrico Terribile sono stati ritenuti i promotori dell'associazione stessa. Secondo l'accusa gli imputati avrebbero fatto parte di un'organizzazione che avrebbe gestito, con l'uso di prestanome, un complesso sistema di società attive sul mercato e finanziarie fittizie acquisite con usura ed estorsioni. Realtà economiche che, secondo gli investigatori, potevano usufruire di grosse quantità di denaro riciclato, falsando così il mercato ai danni degli altri operatori, e presentare anche garanzie migliori per accedere al credito bancario.

Il gruppo, secondo l'accusa, avrebbe creato anche una rete di basi operative, costituita da un autosalone in via Salaria a Roma, da altri negozi e dall'abitazione di Nicoletti e una serie di legami operativi con altre realtà mafiose, appartenenti a clan siciliani, calabresi e campani. Una tesi, quest’ultima che non è stata accolta dalla Corte.

A capo dell'organizzazione, per gli inquirenti, ci sarebbe stato proprio Enrico Nicoletti. L'ex presunto cassiere della Banda della Magliana, e i suoi figli, furono arrestati, per la vicenda che è stata al vaglio del tribunale, nell'ottobre 2003 in quella che fu denominata operazione “Nuvolari Star Gate”.

MAFIA:
A GIUDIZIO TOTUCCIO CONTORNO
ACCUSATO DI ESTORSIONE 

E' stato rinviato a giudizio dal gup del Tribunale di Roma, Claudio Mattioli, il “pentito” di mafia Totuccio Contorno. L'ex boss, iscritto a ruolo con un alias, è accusato di estorsione nei confronti di un conoscente, Antonio Rapisarda. Il processo comincerà il 23 ottobre prossimo davanti al giudice monocratico.

Contorno è accusato di aver tentato di estorcere, attraverso minacce, un’attività commerciale a Rapisarda, per saldare un debito di alcune decine di migliaia di euro. Contorno, che nelle carte processuali viene indicato ancora come “collaboratore di giustizia” e destinatario di un programma di protezione che però gli è stato sospeso anni fa dopo il suo coinvolgimento in un traffico di droga, fu arrestato in flagranza di reato nel dicembre del 2004 nelle vicinanze di uno studio di un notaio del quartiere Prati e posto agli arresti domiciliari. Il tribunale del riesame annullò successivamente la misura per un difetto di procedura.

L’attività di indagine sfociata con l'arresto dell'ex boss siciliano era cominciata con la denuncia dell'imprenditore ai carabinieri. In particolare, l'uomo segnalò che la cifra che doveva restituire a Contorno aumentava sempre di più nel corso del tempo fino a raggiungere una somma che non era in grado di corrispondere. Per questo motivo il “pentito” di mafia avrebbe preteso la cessione di un’attività commerciale, il cui valore, peraltro, è superiore al debito.

L'ex boss, a cui nel 1984 don Masino Buscetta dette il permesso di parlare, cominciando la sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone, fu anche al centro della vicenda delle “lettere del corvo”, in cui lo stesso Falcone, l’ex capo della polizia  De Gennaro ed altri magistrati ed investigatori erano accusati di averlo usato come un “killer di Stato”. Contorno, sotto protezione negli USA, infatti, era improvvisamente ricomparso in una zona della provincia di Palermo dove era in corso un mattanza di corleonesi, nemici storici della mafia perdente cui lo stesso Contorno apparteneva.

11 SETTEMBRE 2001:
PER UN MINISTRO FRANCESE E’ BUSH IL REGISTA 

Il presidente americano George W. Bush è “all’origine degli attentati dell' 11 settembre 2001?”  “Penso che sia possibile”.

Così rispose Christine Boutin, attuale ministro delle politiche urbane nel governo francese di Francois Fillon, nel novembre 2006, quando era solo parlamentare dell’Ump, ospite di una trasmissione di una web tv francese.

Il video con l’affermazione della ministra, che sta sollevando scandalo in Francia negli ambienti governativi, viene ora riproposto da alcuni siti d’oltralpe.

Singolare la spiegazione data dalla Boutin: “I siti che parlano di questo problema sono i più visitati. Io che sono molto sensibile alle nuove tecniche dell’informazione e della comunicazione, dico che questa espressione della massa e del popolo non può essere senza qualche verità”.

VATICANO:
I CONTI IN TASCA ALLA SANTA SEDE 

Due milioni di attivo nel 2006 per la Santa Sede, quasi 22 per lo Stato della Città del Vaticano, raddoppio dell’Obolo di San Pietro - che supera i cento milioni di dollari - e investimenti “rilevanti” in arrivo per i media vaticani.

È il “miracolo economico” del secondo anno di Pontificato di Benedetto XVI, certificato dal Consiglio dei cardinali per lo Studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, presieduto dal Segretario di Stato, Tarcisio Bertone.

Il bilancio 2006 della Santa Sede è in attivo per quasi 2,5 milioni di euro: il cardinale Sergio Sebastiani, presidente della Prefettura degli Affari Economici, ha presentato entrate per 227.815.031 euro e uscite per 225.409.716 euro, con un avanzo quindi di 2.405.315 euro.

Le uscite sono da attribuirsi, per la maggior parte, alle spese ordinarie e straordinarie dei dicasteri e organismi della Santa Sede, nei quali lavorano complessivamente 2.704 persone, di cui 773 ecclesiastici, 331 religiosi, 1.600 laici.

Il bilancio consuntivo 2006 dello Stato della Città del Vaticano risulta invece attivo per 21.849.155 di euro. Allo Stato della Città del Vaticano compete la gestione del territorio e l’esercizio delle attività di supporto alla Santa Sede: è compito specifico del governatorato la tutela, valorizzazione e restauro del patrimonio artistico della Santa Sede, di cui espressione peculiare sono i Musei Vaticani, visitati nel 2006 da oltre 4,2 milioni di turisti.

I dipendenti dello Stato della Città del Vaticano sono 1.693. A tutela di tutto il personale è istituito in Vaticano il Fondo pensioni che nel 2006 ha erogato pensioni per oltre 15 milioni di euro.

L’Obolo di San Pietro - l’insieme delle offerte delle Chiese particolari, raccolte in occasione della solennità dei Santi Pietro e Paolo, quelle degli Istituti di vita consacrata, delle Fondazioni e dei singoli fedeli - ammonta nel 2006 a 101.900.192,71 dollari. Quasi il doppio rispetto al 2005, quando le donazioni complessive ammontavano a 59.441.654,64 dollari.

A sostegno della struttura centrale della Chiesa, i vescovi, per il vincolo dell’unità e della carità, hanno contribuito, secondo le possibilità delle loro Diocesi, con l’importo di 24.081.560 di euro, da distinguersi da quelli stabiliti tramite accordi bilaterali con alcuni Stati (come l’otto per mille in Italia), che sono invece destinati alle rispettive Chiese particolari.

Fonte: Il Velino (www.ilvelino.it)

TERRORISMO IN GIAPPONE:
SETTA DEL GAS NERIVONO,
TERZA CONDANNA A MORTE DEFINITIVA 

La corte suprema giapponese ha confermato la pena di morte per Masato Yokoyama, membro  della setta Aum Shinrikyo, responsabile nel 1995 di una strage al gas nervino nella metropolitana di Tokyo che provocò la morte di 12 persone e l'intossicazione di almeno altre 5.500.

Yokoyama, 43 anni, era stato riconosciuto colpevole di avere fatto sprigionare il gas sarin su una delle cinque linee della metropolitana prese di mira il 20 marzo di dodici anni fa.

Yokoyama è il terzo membro della setta Aum a essere condannato in via definitiva alla pena capitale: lo scorso settembre il “braccio della morte” aveva accolto anche il

fondatore della setta, il santone cinquantunenne Shoko Asahara, riconosciuto responsabile per 13 reati tra cui l'attentato del 1995; nel 2005 la corte suprema aveva emesso il verdetto inappellabile di impiccagione per Kazuaki Okazaki, giudicato colpevole di aver ucciso nel 1989 l'intera famiglia di un avvocato che stava indagando sulle attività criminali della setta e di aver soppresso nello stesso anno un giovane adepto che voleva abbandonare il gruppo.

La setta esoterica Aum Shinrikyo (Insegnamento della verità) era stata fondata nel 1986 da Shoko Asahara, che a quel tempo aveva 31 anni e diceva di aver raggiunto l'illuminazione del Buddha. La sede centrale dell'organizzazione si trovava a Fujinomya, nei pressi del monte Fuji.

Nel gennaio  2000 l'organizzazione ha cambiato nome in Aleph e la sua guida spirituale è stata raccolta da Fumihiro Joyu. Da allora il gruppo pseudo religioso, sottoposto a un regime di sorveglianza costante dalla polizia, sostiene di avere un'ispirazione pacifica.

- DOCUMENTAZIONE -
FATTI DI GENOVA:
LE TELEFONATE TRA POLIZIOTTI 

Il 6 luglio scorso sono state depositate dagli avvocati di parte civile al processo per la sanguinosa irruzione della polizia nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova, 34 trascrizioni di conversazioni telefoniche con il 113 intercorse nelle giornate del 21 e 22 luglio 2001. Eccone una sintesi. Non c’è bisogno di alcun commento.

In due telefonate, una delle ore 21,35 e l'altra delle 21,57 del 21 luglio 2001, qualche ora prima dell'irruzione dei poliziotti nella scuola Diaz, una funzionaria della centrale operativa (CO) parla prima con una pattuglia (D79) della Digos e poi, via radio, con un collega:

CO: “In piazza Merani - dice la funzionaria - ci sono... hanno segnalato, devi solo guardare se è vero o meno, ma senza fermarti... eh... che hanno segnalato questi dieci zecconi maledetti che mettevano i bidoni della rumenta (in italiano spazzatura. Ndr) in mezzo alla strada”.

D79: “Ma stai mandando anche qualche volante? C'è' qualche?

CO : “No, per ora no”.

D79: “Perché io per dirti vedo cosa c'é e ti chiamo e buona notte”.

CO: “Sì, aspetta un po', via Trento è lì vicino?

 D79: “Via?”.

CO: “Via Trento è lì vicino?”.

D79: “Sì, sì è in zona”.

CO: “Allora stai attento perchè in via Trento c'è un ...planet (una pizzeria, ndr), sono andati a mangiare lì degli altri e quando hanno visto delle volanti che dovrebbero essere in quella zona o la stradale non lo so, hanno buttato, si sono liberati dei caschi e dei manganelli che avevano e li hanno buttati giù da una rupe che non so bene adesso da dove, comunque transita veloce e dicci solo se è vero e basta e vattene, ok Michè?”.

D79: “Ok, ciao Marina, a dopo”.

CO: “Ciao, ciao”.

Nella telefonata successiva la stessa funzionaria, parla via radio con un collega che le chiede: “Stai montando adesso?”.

CO: “Eh, guarda veramente ho montato alle quattro che stavo con l'u-boot e la maschera antigas pronti a caricare le zecche che tiravano le pietre alla caserma... e poi invece niente, però c'era il buon reparto mobile di Napoli che erano delle montagne enormi”.

R: “Eh lo so, lo so”.

CO: “Ero dietro di loro, non mi vedevano neanche”.

R: “Tutto bene tutto sommato?

CO: “Sì, no siamo sopravvissuti”.

R: “Per fortuna”.

CO: “Spero che a mezzanotte non mi abbiano sfasciato la macchina perché sono passati sotto casa mia oggi, c'era una marea, iniziato alle 11 nel pomeriggio... di mattina.. alle 2 meno un quarto ancora camminava gente...terribile”.

R: “Ma guarda che io alle 7 di ieri e di oggi sono stato in servizio fino alle 11, quindi... ho visto tutti sti' balordi queste zecche del cazzo... comunque...”.

CO: “...Speriamo che muoiano tutti...”.

R: “Eh sei simpatica simpatica”.

CO: “Tanto uno già va be' e gli altri... 1-0 per noi...”.

 

La telefonata completa può essere ascoltata cliccando qui sotto:
http://mediacenter.corriere.it/MediaCenter/action/player?uuid=91ae5e96-2bda-11dc-999b-0003ba99c53b

In una telefonata fatta alle 2,36, un poliziotto che si trovava all'ospedale San Martino di Genova, per piantonare i manifestanti arrestati, al centralino del 113 (COT) che chiede se ci sono feriti gravi da taglio, risponde concitato: “No,no, teste aperte a manganellate”.

Alla stessa ora un altro agente (PI) della prevenzione chiama la centrale operativa per sapere quante sono le persone ferite da piantonare. Ma la centrale operativa non sa rispondere e chiede delucidazioni.

L’agente, dopo essersi consultato, spiega: “Sono 25 persone che tra l'altro stanno distribuendo in più piani dell'ospedale, perchè uno ha problemi al torace lo mette in chirurgia, l'altro in neurologia, insomma qui c'è una situazione talmente...”.

COT: “Sono in stato d'arresto?”.

PI: “No,devono essere accompagnati. Ce n'è quattro ricoverati e quindi ci va il piantonamento e gli altri, se anche decidessero di essere dimessi, il collega mi ha detto che vanno guardati a vista in una stanzetta perchè poi andranno accompagnati a Bolzaneto”.

COT: “Io non so ragazzi, io posso chiedere ma non so neanch'io cosa devono dire...”.

PI: “Si vede che questi sono i protagonisti degli scontri di oggi quindi sono adesso a far refertare però chi ha proceduto io non lo so”.

COT: “Guarda non lo so neanch'io, adesso chiamerò un attimino e vediamo...”.

 

Una telefonata, tra le altre trascritte e depositate dalle parti civili al processo per l'irruzione nella scuola Diaz, riguarda una comunicazione tra un agente ed il dott. Nando Dominici, all'epoca capo della squadra mobile di Genova, poco prima dell'irruzione nella scuola, sulla presunta presenza di infiltrati della polizia tra i manifestanti nei cortei .

Un agente della mobile riferisce a Dominici di un filmato, trasmesso in televisione su La 7 nel corso di un dibattito, in cui si vedono due persone con un fazzoletto sul viso, definite da esponenti del Genoa Social Forum e di Rifondazione Comunista degli “infiltrati”.

Dominici chiede alcune precisazioni.

L'agente spiega: “Hanno sostenuto in trasmissione che i due fossero degli infiltrati della polizia all’interno dei cortei... per diciamo dare fastidio. Nel filmato però c'è un piccolo particolare: si vede che tutti e due, è vero, sono travisati, ma hanno la placca della polizia in vista...”.

Dominici: “Ma sul serio?”.

Agente: “Sì, quindi se glielo dice al questore di far immediatamente rettificare quello che hanno raccontato, le bugie...”.

Dominici: “Ma hanno le placche della polizia, sul serio?”.

Agente: “L'hanno, si vede nel filmato”.

Dominici: “Ma è coperto il viso?”.

Agente: “Hanno i fazzoletti bianchi che probabilmente saranno serviti nel momento in cui sono stati sparati i lacrimogeni”.

Ad altre domande di Dominici, l'agente spiega: “Sono due ragazzi in borghese ma saranno dei nostri...il particolare è che quelli del GSF hanno detto che praticamente questi due erano sicuramente...perchè hanno sostenuto che noi avevamo degli infiltrati in mezzo ai black bloc.. e che avessimo fatto da provocatori mentre invece nel filmato si vede che i due avevano la placca esposta”.

- DOCUMENTAZIONE -
OMICIDIO CALVI:
25 ANNI DI MISTERI 

Questi gli elementi principali della vicenda Calvi:

18 giugno 1982: II cadavere di Roberto Calvi viene scoperto, con una corda al collo, appeso sotto il ponte di Blackfriars, a Londra. Nelle tasche ha cinque chili di pietre e un documento intestato a Gian Roberto Calvini. Il primo a notarlo è, poco dopo le 7 di mattina, un impiegato del Daily Express che andava al lavoro in Fleet Street.

Il riconoscimento mette fine alle ricerche del presidente del Banco Ambrosiano avviate dalle autorità italiane l’11 giugno. Il 17 giugno la segretaria del banchiere si era suicidata gettandosi da una finestra.

L'autopsia sul corpo del banchiere accredita una tesi, quella del suicidio, che si è progressivamente sgretolata.

23 luglio 1982: una giuria inglese emette un verdetto favorevole alla tesi del suicidio. La famiglia Calvi fa ricorso.

Agosto 1982: il Tribunale civile di Milano mette in liquidazione coatta amministrativa il Banco Ambrosiano. Sono trascorsi due mesi dopo la morte di Calvi.

L’inchiesta sui risvolti penali dell’insolvenza (un crack da circa 1.000 miliardi delle vecchie lire) coinvolge i vertici della P2 e del Banco. Al termine di una lunga vicenda giudiziaria, nel 1998, la Cassazione riconoscerà definitivamente colpevoli del crack dell’Ambrosiano 14 imputati fra i quali il banchiere Umberto Ortolani (condannato a 12 anni); il capo della loggia P2 Licio Gelli (12 anni) e Flavio Carboni (8 anni e sei mesi).

27 giugno 1983: arriva un secondo verdetto dalla Gran Bretagna, questa volta “aperto”, in cui in sostanza si dichiara l'impossibilità di decidere tra omicidio e suicidio. Nel 2003, in seguito all'inchiesta della procura romana, l'indagine londinese viene riaperta e si conclude, a maggio 2005, con la conclusione che Calvi, fu strangolato da due o più persone con una corda e impiccato ad un'impalcatura collocata sotto il ponte dei Frati Neri.

Luglio 1982: l’inchiesta della procura di Roma sulla morte di Calvi viene trasferita a Milano, ma tornerà a Roma dieci anni dopo.

Per alcuni “pentiti” di mafia (tra cui Mannoia e Buscetta) la mafia avrebbe affidato grosse somme a Calvi, che non mantenne gli impegni. Nell'aprile 2003, i periti sostengono che Calvi sarebbe stato ucciso in un cantiere-discarica e il cadavere trasportato fino al vicino ponte dei Frati Neri, dove sarebbe stato poi inscenato il finto suicidio.

CAUSA CIVILE PER LA POLIZZA SULLA VITA

1989: arriva a sentenza la causa civile intentata dalla vedova per il premio dell'assicurazione sulla vita stipulata dal marito con le Generali (e che contiene una clausola che esclude il pagamento in caso di suicidio).

La sentenza di primo grado stabilisce che Calvi è stato ucciso. In appello il giudizio è sospeso in attesa delle conclusioni dell'inchiesta penale.

La vedova Calvi e le Assicurazioni Generali raggiungono un accordo sulla base di una cifra inferiore, ma il tribunale civile ne dispone il sequestro conservativo fino all'accertamento delle cause della morte.

CHI ERA CALVI

Conosciuto come il “banchiere di Dio” per i suoi legami con lo Ior, la banca del papa, diretta da monsignor Marcinkus; nelle liste della P2 con il numero di tessera 519, Roberto Calvi era entrato nel 1946 (a 26 anni) al Banco Ambrosiano come semplice impiegato e ne era diventato presidente e amministratore delegato.

Con 1’uscita di scena di Michele Sindona, Calvi diventa il braccio operativo finanziario della loggia massonica P2. Le sue spericolate operazioni finanziarie portano presto la banca sull'orlo del crollo.

Nel 1981 Calvi viene arrestato e, mentre è in carcere, tenta il suicidio.

Nello stesso anno viene condannato a 4 anni (di cui due condonati) per esportazione all’estero di capitali.

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