LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA

          Anno 7 - Numero 112                      30 luglio 2006

storia in rete
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IN QUESTO NUMERO:

ATTACCO AL LIBANO:
UNA TRAGEDIA
SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI 

Una tragedia di dimensioni spaventose con centinaia di vittime innocenti, soprattutto civili e soprattutto donne, vecchi  e bambini. Ogni giorno in Libano le bombe israeliane si comportano come i kamikaze palestinesi quando esplodono tra la folla. Ma se i secondi sono considerati a tutti gli effetti dei terroristi, le bombe con la stella di David hanno un che di neutro, di fatale, di predestinato, quasi di necessario.

E invece quello di Israele nel Libano, dove gli Hezbollah sono solo un parte minoritaria della popolazione, è vero e proprio terrorismo di Stato. Identico l’effetto delle bombe israeliane sui civili libanesi a quello cui mirano gli uomini bomba palestinesi quando colpiscono i civili israeliani. Identica anche la finalità ultima dei due gesti: terrorizzare per piegare, domare, isolare l’avversario.

Eppure, agli occhi del mondo, il kamikaze palestinese è un terrorista. La bomba israeliana che sfregia, strappa, macella e maciulla no: quello è un atto di guerra necessario, anzi di autodifesa.

Anche se le parole sanno distinguere, le bombe umane o no uccidono allo stesso modo.

Due pesi e due misure servono solo a perpetuare i massacri.

Se finalmente si dicesse la verità a qualcosa servirebbe.

Noi lo diciamo: tra il terrorismo dell’estremismo palestinese e quello dell’esercito israeliano non c’è alcuna differenza.

 

ATTACCO AL LIBANO (2):
COM’È REALMENTE COMINCIATA

Al di là di quello che dice la propaganda israeliana, che parla soltanto di diritto alla difesa, ad eccezione della stampa turca, nessuno ha raccontato, cronologicamente, come è cominciata l’ultima crisi che ha portato Israele ad aggredire il Libano.

Tutto comincia con il sequestro, da parte dell’esercito israeliano, di due civili palestinesi, un medico e suo fratello. Un arresto illegale o meglio un vero e proprio rapimento a cui i palestinesi rispondono con il sequestro di un soldato israeliano, proponendo subito uno scambio di prigionieri dal momento che, nelle galere di Tel Aviv e Gerusalemme, ci sono circa 10 mila prigionieri palestinesi.

Quindi nessuna azione terroristica, ma una ritorsione palestinese contro militari israeliani per il sequestro di due civili.

Da notare che questo rapimento di un militare israeliano è stato ritenuto da Israele più oltraggioso di un attentato contro dei civili. Mentre l’occupazione militare della Cisgiordania, questa sì illegale e vessatoria, è vista dall’Occidente come qualcosa di inevitabile.

Da qui, quindi, la sproporzionata e spropositata reazione delle truppe israeliane che hanno cominciato a martellare Gaza, massacrando numerosi civili. Su questa azione militare se ne è sovrapposta un’altra: militanti di Hezbollah libanesi hanno varcato il confine israeliano e hanno ucciso sette soldati israeliani, sequestrandone due. Un’azione militare? No, per Israele e per il mondo occidentale solo un atto terroristico.

Conclusione: se Israele ha il diritto di difendersi, i palestinesi e i loro sostenitori in territorio libanese non hanno questo diritto. Tutto quello che fanno gli avversari è terrorismo. Troppo facile.

 

ATTACCO AL LIBANO (3):
UN PIANO STUDIATO A TAVOLINO

Dire che Hezbollah è caduto in un tranello adesso è fin troppo facile. Di sicuro l’attacco al Libano era già stato preventivato da Israele e sicuramente ampiamente studiato e preparato a tavolino.

Quello che c’è da chiedersi è a che cosa miri questa azione militare cominciata con bombardamenti a tappeto che hanno già massacrato centinaia di civili e proseguito con un’azione da terra che sicuramente mira a distruggere le basi di Hezbollah nel sud del Libano.

Pensare che l’azione militare israeliana sia solo un deterrente momentaneo, che punti ad allontanare il più possibile le rampe di lancio missilistiche o dei semplici razzi kayiusha dal confine sud del Paese dei cedri è troppo semplicistico. Il progetto di Gerusalemme è molto più ampio e assomiglia molto al progetto (completamente fallito) del 1982 quando l’operazione Pace in Galilea mirava tatticamente ad allontanare la dirigenza palestinese dall’area (Arafat ed i suoi costretti ad imbarcarsi alla volta della Tunisia sotto protezione multinazionale) e strategicamente ad instaurare a Beirut un regime amico, nella fattispecie cristiano-maronita.

Oggi lo scenario è identico. Tatticamente si tratta di indebolire (sconfiggere è impossibile) Hezbollah. Strategicamente l’obiettivo rimane quello di un governo fantoccio a Beirut.

Obiettivo quest’ultimo impossibile da realizzare, pena una nuova guerra civile libanese che non vedrebbe però alcuna possibilità di azione moderatrice da parte della Siria che alla fine sarà la vera sconfitta di questa truculenta partita.

Ma con un effetto collaterale micidiale per Israele: la crescita politica e di supporto militare dell’Iran che resterebbe l’unica forza anti-israeliana presente nell’ara mediorientale. Esattamente lo scopo a cui mira Ahmadinejad, al momento il padrone di Teheran che in questo modo vedrebbe compattarsi attorno a sé non solo l’establishment religioso iraniano, ma anche la popolazione.

Ed ecco, in definitiva, lo scopo vero di Israele, cieco e folle allo stesso tempo: spingere gli Stati Uniti e la comunità occidentale ad attaccare l’Iran, un’impresa che, dopo il disastroso fallimento della guerra in Iraq, aprirebbe scenari che definire apocalittici è dire poco.

 

ATTACCO AL LIBANO (4):
OLMERT FA FINTA DI IGNORARE
I GUAI DEL 1982 

Anche gli israeliani, come gli americani, mostrano di conoscere bene la geografia ma molto poco la storia.

Il premier israeliano Olmert, in particolare, sembra non ricordare quale iattura fu per Israele aver spedito il macellaio Sharon in Libano in quel lontano 1982, quando il generale comandò la disastrosa operazione militare, coprendo anche delle ignobili stragi di donne e bambini, come quella avvenuta nei campi profughi di Sabra e Chatila, una delle più grandi vergogne di Israele.

Doveva durare 48 ore, come Sharon aveva promesso. Terminò dopo 18 anni. Nel 1982, infatti, con l’attacco al Libano, Israele infilò i suoi piedi nel pantano libanese, provocando la nascita, la crescita e oggi l’espansione capillare nel Paese dei cedri di Hezbollah che all’epoca non esisteva e che fu invece un prodotto di esportazione, favorito dall’Iran e garantito dalla Siria.

Fu poi il fondamentalismo religioso sciita di Hezbollah a dar vita, per imitazione, alla nascita di quello sannita di Hamas all’interno della Cisgiordania, certamente una complicazione sulla via di una possibile pacificazione, ma soprattutto un grave pericolo per l’esistenza stessa di Israele.

Ora l’errore viene ripetuto. A cosa può portare l’attacco alla Libano da parte israeliana se non a un compattarsi della popolazione musulmana libanese attorno ad Hezbollah? Cosa può produrre tutto questo in Cisgiordania se non la crescita della stella sanguinaria di Hamas?

Il dubbio, o meglio la certezza, allora, è che in realtà Israele non voglia la pace in medioriente che avrebbe come diretta conseguenza la creazione dello Stato palestinese, ma una perenne instabilità, fino alla resa dei conti definitiva con i palestinesi. Passando magari, e qui sta l’errore storico, sul cadavere dell’Iran.

Saremo pure facili profeti: ma dall’attacco israeliano al Libano deriveranno solo, ancora una volta, nuovi pesanti sofferenze per Israele, ma soprattutto per il suo già martoriato popolo che invece la pace la meriterebbe.

Il problema oggi è che a Gerusalemme e a Tel Aviv non comanda più la politica, ma i militari. Proprio come nel 1982.

 

ATTACCO AL LIBANO (5):
CHI FACILITA CHI?

di Manlio Dinucci

Dopo il colloquio «molto cordiale» col presidente Bush, Prodi ha dichiarato che nessuno può essere mediatore nella difficilissima situazione in Medio Oriente: l'espressione più seria per il ruolo che ha l'Italia è quella di «facilitatore». Si tratta però di sapere chi viene facilitato. Ecco una cronologia dei fatti.

 

Nell'aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l'«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.

Nel luglio 2001 il Pentagono da il nullaosta per la fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe aeree «stupide», permettendo agli F-16 israeliani di colpire simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.

Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d'intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l'altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.

Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all'uso delle sue tecnologie.

Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni '90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.

Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare» e in particolare per «combattere la proliferazione delle armi di distruzione di massa» (ignorando che Israele è l'unica potenza nucleare in Medio Oriente).

Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.

Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al Senato e alla Camera, il memorandum d'intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della Difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l'«importazione, esportazione e transito di materiali militari, l’organizzazione delle forze armate, la formazione/addestramento».

Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell'Assemblea parlamentare della Nato.

Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.

Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina.

Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».

 

In tal modo l'Italia, nel quadro della Nato, ha facilitato militarmente e politicamente una sola parte: Israele.

Ha così contribuito a rendere più efficienti le forze aeree, navali e terrestri israeliane che stanno martellando il Libano e Gaza.

Se il governo italiano volesse realmente svolgere il ruolo di «facilitatore», dovrebbe - come richiede la mozione dell'Assemblea del 15 a Roma - «cominciare dalla revisione dell'accordo di cooperazione militare con Israele e dalla richiesta di un intervento di interposizione dell'Onu nei Tenitori occupati».

Fonte: il manifesto, 18 luglio 2006

 

ATTACCO AL LIBANO:
IL GIOCO DELLE PAROLE 

Nell’informazione quotidiana che ci vediamo propinata c’è in questi giorni un abuso di frasi fatte, parolette chiave e menzogne di cui è bene essere consapevoli.

Qualche esempio: se Hezbollah, senza attaccare i civili, compie un’azione militare in territorio israeliano, uccidendo sette soldati con la stella di David e sequestrandone due, siamo in presenza di un “atto terroristico”. Invece se il tanto democratico Stato di Israele attacca con gli F16 abitazioni civili libanesi, ammazzando in pochi giorni più di 400 persone, il suo è un “atto di difesa”, e non, come invece è, un’azione terroristica.

Ci sono poi i rimandi storici. Quando Israele avverte che per ogni razzo scagliato da Hezbollah ci saranno dieci attacchi missilistici sul Libano il pensiero torna a qualcun altro che attuava rappresaglie con la stessa proporzione: uno a dieci. Non riusciamo a ricordare chi fu. E voi?

Sta di fatto che quel metodo e quella proporzione non portò fortuna a chi lo applicava. Il timore è che, anche in questo, la storia si ripeta.

 

SEQUESTRO ABU OMAR:
SINDROME ITALIANA,
LA SOVRANITÀ LIMITATA 

La guerra fredda è finita da quasi vent’anni ma l’Italia resta ancora un Paese a sovranità limitata dove dire “no” agli americani non è neppure pensabile e dove anche le leggi nazionali devono piegarsi ai voleri dell’unica superpotenza rimasta.

Quello che uno come Nicolò Pollari, ancora per poco direttore del SISMI, il servizio segreto militare, vorrebbe farci credere è davvero paradossale: la CIA, nel portare a termine il sequestro dell’imam Abu Omar, sospettato di essere un pericoloso terrorista, avrebbe agito senza avvisare il servizio alleato italiano, ossia proprio il SISMI di Pollari.

Alla sola di idea di avere guai giudiziari per aver collaborato ad una “extraordinary  rendition” - così, con un ridicolo eufemismo, gli americani definiscono un vero e proprio sequestro di persona - il prode Pollari preferisce passare per fesso: ”non c’ero, ma se c’ero dormivo”, sembra dire Pollari “cuor di leone”. Davvero paradossale. Perché delle due l’una: o Pollari è complice di un reato e quindi, se nessun esponente del passato governo gli lo ha ordinato, è anche un traditore oppure lo stesso Pollari è alla guida di un servizio segreto da barzelletta che, sotto il naso, si fa rapire dai “cugini” d’oltreoceano un pericoloso terrorista.

Ma al di là della brutta figura di Pollari, resta il problema dei problemi: i servizi segreti italiani fanno, come da sempre, quello che gli americani ordinano. Senza neppure l’alibi della guerra fredda.

 

SEQUESTRO ABU OMAR (2):
DEVIAZIONI NEL SISMI?
NO È IL SISMI AD ESSERE DEVIATO 

Come fosse un riflesso condizionato, la stampa italiana è tornata a parlare di “deviazioni del servizio segreto italiano”, di “SISMI deviato”, e amenità varie. Come a dire: l’istituzione dei nostri 007 è sana, anche se ogni tanto qualcuno va per conto suo.

Ma quando ad andare per proprio conto sono, quasi certamente, il suo direttore e assolutamente in modo certo il suo vice, Marco Mancini, come si fa a parlare di deviazione? E’ tutto il SISMI che ha deviato dai suoi compiti istituzionali. E’ stato tutto il servizio segreto militare a compiere reati che la legge punisce con almeno 15 anni di reclusione.

Non si può parlare di deviazioni del servizio segreto italiano.

Bisogna avere il coraggio di dire che i servizi segreti italiani sono deviati.

Se fosse ancora vivo ci piacerebbe sapere che cosa ne avrebbe pensato un vero agente segreto come Nicola Calipari. Ma in mezzo a tanti cialtroni ad andarsene è stato proprio lei. E non i creda sia un caso.

 

SEQUESTRO ABU OMAR (3):
LUCIANO VIOLANTE ED IL SEGRETO DI STATO 

Da almeno 20 anni a questa parte c’è un personaggio della “sinistra” che non fa mancare mai la sua voce ogni volta che il tema in questione sono i corpi dello Stato oppure i magistrati.

Si tratta di un ex magistrato non prestato alla politica, ma politico di professione. E’ stato un po’ tutto: presidente della Camera, della commissione antimafia, capogruppo alla camera dei DS, “garante” dei magistrati di sinistra.

Ai tempi della commissione d’inchiesta sui fatti di Genova al G8 del 2001, fu strenuo difensore di quello che senza dubbio era ed è il massimo responsabile del disastro genovese: il capo della polizia, Gianni De Gennaro. Adesso presiede la commissione Affari costituzionali di Montecitorio.

Il suo nome è Luciano Violante ed i suoi interventi non sono mai casuali.

Sulla vicenda del sequestro di Abu Omar, Violante, però, l’ha sparata davvero grossa, affermando che “il segreto di stato sarebbe opponibile” ai magistrati della procura di Milano che indagano sul sequestro di Abu Omar, “se fossero in gioco le relazioni internazionali”, ossia i rapporti tra Italia e Stati Uniti.

Più realista del re, Violante interpreta con zelo la vera preoccupazione del suo partito, i DS, che è quello di evitare di creare tensioni o peggio frizioni con il “grande” alleato americano.

Fino a qualche giorno fa, Violante aveva tentato una strenua difesa di Pollari, sostenendo che il capo del SISMI poteva non essere a conoscenza dell’esistenza di una “cellula deviata” del servizio. Ancora, Luciano…

 

SEQUESTRO ABU OMAR (4):
I SILENZI DEL CENTRO-SINISTRA
E GLI SCENARI DEL DOPO POLLARI 

Difficile non aver notato che da quando l’affare Abu Omar è balzato agli onori della cronaca c’è un imbarazzato silenzio da parte dei maggiori leader del governo di centro-sinistra.

Certo la materia è incandescente: l’inchiesta dei magistrati di Milano sul sequestro di persona dell’imam ora prigioniero in Egitto mette a nudo la totale dipendenza italiana dagli ordini americani. E, soprattutto, i “giochi sporchi” dei nostri servizi segreti.

Resta però da chiedersi come mai Prodi non abbia detto sull’argomento una sola parola. E anche come mai il neo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, proprio come aveva fatto il suo predecessore, il leghista Roberto Castelli, non abbia ancora spedito a Washington la richiesta di arresto degli agenti della CIA avanzata dai magistrati milanesi.

C’è poi un altro argomento delicato su cui il governo italiano stenta ad esprimersi: la ormai improcrastinabile riforma dei servizi segreti, ferma dal 1977 e sopravvissuta alle brutte pagine della P2 (nelle liste c’erano i vertici di SISMI, SISDE e CESIS), ai depistagli delle nostre barbe finte nella stagione delle stragi, allo scandalo delle ruberie del SISDE, il servizio segreto civile e via dicendo.

Che fare dei servizi segreti italiani? Riformarli, si ma come? Se ne discute da anni e la forbice resta sempre la stessa: è meglio mantenere due servizi segreti ed un organismo di coordinamento che opera solo sulla carta (il CESIS) oppure riunificarli, affidandone ad un’unica autorità di comando, il responsabile della sicurezza? E come ignorare che a questa prestigiosa poltrona concorre un sol uomo, quel Gianni De Gennaro, capo della polizia sotto tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra?

 

INTERCETTAZIONI TELECOM:
L’INERZIA DELLA PROCURA DI MILANO
“GENERA” SUICIDI 

L’inchiesta è in piedi da tempo, ma finora non ha prodotto nulla se non generiche accuse a proposito del fatto che la Telecom intercettasse abusivamente decine di migliaia di persone. A quale scopo? Mistero.

L’indagato numero uno, Giuliano Tavaroli, già capo della sicurezza Pirelli prima e Telecom poi, è ancora in attesa di un qualche provvedimento assieme a Emanuele Cipriani, patron di tre agenzie private di investigazione. Ma intanto si sa che la procura di Milano, per sciogliere il fangoso nodo che avvolge CIA e SISMI nel sequestro di Abu Omar si serviva di un terzo personaggio, un altro ex poliziotto, Adamo Bove, anche lui dirigente Telecom, una specie di mago dell’informatica telefonica, geniale nel decifrare a chi era appartenuto e chi aveva usato, nel tempo, questo o quel numero telefonico. E’ stato grazie alla “consulenza” di Bove che la procura di Milano è riuscita ad incastrare nel caso Abu Omar sia Gustavo Pignero, direttore di divisione del SISMI, sia Marco Mancini, altro spione ben piazzato nelle anticamere del capo stesso del SISMI, il direttore del servizio segreto militare Nicolò Pollari. Bove “collaborava” anche con le procure di Roma e Napoli.

Il problema è che, misteriosamente, Bove è saltato giù da un cavalcavia della tangenziale partenopea, ammazzandosi. Perché?

L’impressione è che l’inchiesta sul sequestro di Abu Omar sia un affare davvero scottante attorno al quale si sta giocando una partita di ricatti e minacce che ci riporta indietro nel tempo, molto indietro nel tempo.

Siamo solo agli inizi di una brutta storia.

 

PANTANO IRAQ E MATTATOIO AFGHANISTAN:
IL 61% DEGLI ITALIANI
PER IL RITIRO INCONDIZIONATO

Per misurare ancora una volta quanto, anche con il “nuovo” governo di centro-sinistra, la distanza tra la politica e la società civile sia ancora immensa basta il sondaggio commissionato qualche giorno fa dal Corriere della Sera a Renato Mannheimer.

Alla domanda sul ritiro immediato delle truppe italiane da Iraq e Afghanistan, il 61% degli intervistati risponde sì, senza condizioni. Solo il 23 vuole che restino in entrambi i Paesi, il 6 lascerebbe i militari italiani in Afghanistan e appena il 2% in Iraq. Il tutto mentre al Senato ci si interroga su come uscire dalla dissidenza espressa da otto senatori della cosiddetta sinistra radicale, forse gli unici ad interpretare veramente la volontà della maggioranza dell’opinione pubblica nazionale.

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE:
PER LA CASSAZIONE
“BASTA UN PROGETTO PER ESSERE TERRORISTI” 

D’ora in avanti per essere considerato un terrorista non è necessario aver commesso un atto terroristico, basta averne avuta l’intenzione.

L’assurda teoria è stata sancita il 19 luglio scorso da una sentenza della Cassazione che ha stabilito che “è terrorismo anche la sola ideazione di un attentato”. E di conseguenza basta la semplice adesione ad un gruppo eversivo per configurare contro un gruppo di persone il reato di associazione con finalità di terrorismo.

Lo spunto è stato offerto alla seconda corte di Cassazione dal ricorso (respinto) della difesa di un gruppo di algerini fatti arrestare dalla procura di Salerno con l’accusa di aver ideato un attentato. E questa è la definizione dl perimetro del reato: “L’ideazione o la partecipazione ad un progetto terroristico, pur se formulato non nei suoi dettagli, ma in modo ancora generico, ma dimostrato dalla chiara piena disponibilità alla sua futura esecuzione e fondato sull’organizzazione di persone, che ne condividono le finalità e apprestano gli strumenti indispensabili per compiere azioni violente o eversive, già in sé integrano gli estremi del delitto”.

La difesa degli algerini sosteneva che le prove raccolte a carico dei loro assistiti (intercettazioni telefoniche e ambientali) non sarebbero state sintomatiche di un progetto terroristico, ma solo “innocue intemperanze verbali”. La Cassazione ha risposto che è punibile “la sola adesione ideologica” e la volontà di realizzare “seri propositi, anche senza materiale iniziale esecuzione”.

Tra le fonti citate dal relatore della sentenza, Antonio Morgigni, c’è la decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 2002 dove si afferma che sono comunque terroristici “gli atti diretti a intimidire gravemente la popolazione o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi a atto o destabilizzare, distruggere le strutture politiche fondamentali di un Paese”.

Da notare che tra le intercettazioni usate come prova la più importante riguarda riferimenti ad una “strage da compiere con una nave di grosse dimensioni che avrebbe causato la morte di 10 mila persone”. Ipotesi concreta o millanteria? D’ora in avanti non importerà più.

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE (2):
SENTENZA BOLOGNA:
I COMBATTENTI IN IRAQ E AFGHANISTAN
NON SONO TERRORISITI 

Dalle teorie della Cassazione alla pratica di un sentenza del tribunale della Libertà di Bologna che, nel respingere la richiesta di custodia cautelare in carcere di 18 sospetti terroristi islamici, ha stabilito che “restano esclusi dall’ambito della definizione di terrorismo gli atti di violenza, da chiunque compiuti, contro militari impegnati in un conflitto armato, slavo la illiceità di tali atti sotto altri profili del diritto internazionale umanitario (crimini di guerra o contro l’umanità)”.

La sentenza, emessa il 26 giugno scorso, ma resa nota solo ora, si muove lungo la linea tracciata dal tribunale di Milano il 24 gennaio 2005, quando il Gup Clementina Forleo assolse tre islamici che arruolavano kamikaze da inviare in Iraq, sostenendo che “la guerriglia non è terrorismo”, sentenza poi confermata in Appello il 28 novembre 2005. Essa conferma l’equiparazione, sul piano della legalità, delle forze multinazionali impegnate in Afghanistan e in Iraq e di quelle che le combattono, si tratti resistenza organizzata o di formazioni aderenti ad Al Qaeda.

Dice ancora la sentenza del tribunale della Libertà di Bologna: “Né pare condizione sufficiente a caratterizzare come ‘terroristica’ la partecipazione ad un conflitto bellico da parte di persone non appartenenti ai Paesi in conflitto, dovendo ricondursi alla nozione di forze armate sia l’esercito regolare di uno Stato, sia ogni organizzazione armata che partecipi al conflitto, purché posta sotto un comando responsabile che garantisca la disciplina tra i subordinati ed il rispetto del diritto internazionale umanitario”.

Per contestualizzare la sentenza, si tratta dell’esame del ricorso contro l’arresto a Bologna di Ben Alì Lofti, già indagato nel procedimento denominato “Vento di guerra”, accusato di aver partecipato a combattimenti in Afghanistan nell’agosto del 2002. Lofti viene ritenuto dal tribunale della Libertà di Bologna non un terrorista, bensì un resistente. E’ scritto ancora nella sentenza: “Dai contenuti delle conversazioni si può cogliere come egli fosse impegnato in attività di combattimento. In particolare egli riferiva ai suoi interlocutori dell’accoglienza a lui riservata dalle popolazioni locali che, pure poverissime, aiutavano lui e i suoi compagni nelle loro esigenze di vita quotidiana. Ben Lofti non agiva contro le predette popolazioni, ma al loro fianco. Gli elementi sopra riportati portano ragionevolmente ad escludere che egli partecipasse ad azioni terroristiche contro la popolazione civile o ad altre persone non partecipanti al conflitto armato”. 

 

TAV IN VAL DI SUSA:
L’IMBROGLIO DEI CAROTAGGI SULL’AMIANTO 

L’annuncio era stato dato con squilli di trombe e rollii di tamburi: in Val di Susa non c’è l’amianto e quindi nessun rischio ambientale si oppone all’inizio dei lavori per la costruzione della TAV, la ferrovia ad alta velocità alla quale da sempre si oppongono gli abitanti della valle. A seguire il coro della coordinatrice europea del famigerato Corridoio 5, l’ex ministra degli Esteri spagnola Loyola De Palacio, quella che, subito dopo gli attentati di Al Qaida alle stazioni di Madrid, dava disposizioni agli ambasciatori di Spagna perché insistessero che a colpire non era stata Al Qaeda, bensì l’ETA. E del ministro delle Infrastrutture Lunardi. Un coro a una voce: si parta subito con i lavori della TAV.

Tutto questo avveniva lo scorso 22 marzo. A dare l’annuncio un organismo di tutto rispetto, al di sopra delle parti, istituzionale ed indipendente, l’ARPA, l’Agenzia Regionale per l’Ambiente, in altre parole l’Ente riconosciuto, incaricato di vigilare sulla tutela ambientale della regione Piemonte.

Adesso si scopre che l’ARPA, nel caso dei carotaggi per verificare o meno l’esistenza del pericolosissimo amianto in Val di Susa, non si è comportato in maniera del tutto trasparente. Anzi, l’esatto contrario. L’ARPA ha monitorato il terreno unicamente su indicazione di una delle parti in causa, la LTF, ossia la società incaricata di costruire materialmente la TAV.

La scoperta è dovuta al consigliere regionale de PRC, Yuri Bossuto, il quale ha notato che dei 454 metri di carotaggi effettuati, l’ARPA ha analizzato soltanto quattro campioni e - come scritto in un verbale redatto dalla stessa Agenzia – “i punti di campionamento sono stati individuati sulla base delle indicazioni fornite dalla LTF”. Come dire il controllore ha fatto quello che ha deciso il controllato.

Ha commentato l’avv Sergio Bonetto: “Che l’ARPA si assuma la responsabilità di dire che non c’è l’amianto sulla base di questo metodo è per lo meno sconcertante. Come cittadino ero convinto che l’agenzia pubblica avesse condotto l’analisi e la verifica”.

E di fatti l’analisi e la verifica era stata compiuta, ma attenzione solo sulle zone di terreno indicato dalla LTF. Quando si dice il caso….

 

AMERICANI IN ITALIA:
VIA DALLA MADDALENA,
ARRIVANO A VICENZA 

Nella primavera del 2008, se tutto va bene, gli americani lasceranno la Maddalena, in Sardegna, e la loro base, presente sull’isola dal 20 ottobre 1954, cesserà di esistere.

In compenso una nuova base americana sorgerà nell’aeroporto Dal Molin di Vicenza, città che già ospita, per la precisione ad Ederle, un’altra base militare a stelle  strisce. Anzi la nuova base vicentina rappresenterà un “ricongiungimento funzionale” con quella già esistente, ospiterà circa due mila soldati della 173/esima Aerobrigata e diventerà una non meglio precisata Unità d’azione. 800 milioni di dollari lo stanziamento previsto per la costruzione della nuova base.

Mentre la popolazione si oppone al progetto che ha trovato grandi difficoltà per la sua approvazione anche in seno alla giunta di centro-destra che governa la città, gli americani mostrano grande determinazione. Si sa già che la base sarà divisa in tre settori: un’area logistica, una tattica e una terza abitativa e che i lavori saranno assegnati a ditte italiane, in pole position i gruppi Maltauro e Marchetti.

Anche se l’ultima parola spetterà al nuovo governo, l’impressione è che la costruzione della nuova base americana sia entrata nel pacchetto relativo al ritiro dei soldati italiani dall’Iraq. Come dire: noi lasciamo Nassiryia, ma vi concediamo una base sul nostro territorio che possa servire proprio per le operazioni militari americane nello stesso Iraq ed in Afghanistan, considerando che già la base di Ederle ha svolto un importante ruolo di supporto per le operazioni militari americane in giro per il mondo.

Per meglio comprendere a cosa servirà la nuova base vicentina basta ripercorrere la storia dell’Aerobrigata che vi avrà sede, la 173/ma, appunto.

Questa brigata nasce nel 1963 ad Okinawa nel momento in cui comincia l’escalation militare USA in Vietnam. La 173/ma brigata aerotrasportata è infatti la prima brigata dell’esercito americano a partire per il Vietnam dove rimane per oltre sei anni, partecipando ad azioni in cui si distingue per l’impiego di elicotteri. Dopo il disastroso fallimento in Vietnam, la brigata viene trasferita negli USA e qui disattivata nel 1972.

Rinasce nel 2000, inglobando la brigata di fanteria Setaf (Forza tattica nel sud Europa) e dislocandosi proprio ad Ederle e partecipando attivamente all’aggressione all’Iraq del 2003, quando la Turchia nega agli USA l’impiego del proprio territorio come base di partenza per gli attacchi in territorio iracheno. Nel 2005 la 173/ma viene spostata dall’Iraq all’Afghanistan e oggi deve essere potenziata con una nuova base vicina proprio perché la guerra in Afghanistan, dopo il disastro americano in Iraq, torna ad assumere una priorità.

 

FATTI DI GENOVA:
CINQUE ANNI DOPO 

Promozioni a parte – ne hanno avute anche i “secondini” che gestivano il lager di Bolzaneto – ecco la situazione processuale per i fatti di Genova cinque anni dopo.

 

DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO

II primo processo post G8 ad arrivare nelle aule del tribunale di Genova è stato quello a 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio, pena da 8 a 15 anni. E' l'unico che non finirà per prescrizione. Il reato - che prevede il «concorso morale» - era stato applicato spesso agli ultras del calcio, dopo Genova è stato utilizzato per i fatti della Val Susa e per gli incidenti milanesi dell'11 marzo. La sentenza sarà emessa entro un anno, gli imputati rischiano condanne a due cifre. In aula è emerso piuttosto il disastro nella gestione dell'ordine pubblico.

 

IL PROCESSO PER L’ASSALTO ALLA DIAZ

Per i fatti della Diaz, 61 feriti e 93 arrestati con prove false, come le due bottiglie molotov, gli imputati sono 29. Sono dirigenti, funzionari e agenti di polizia che rispondono a vario titolo di lesioni, abuso d'ufficio, falso e calunnia, perquisizione arbitraria, danneggiamento e peculato per la distruzione dei computer e l'asportazione degli hard disk nel media center della scuola Pascoli. Delle violenze rispondono Vincenzo Canterini, il comandante del nucleo speciale della celere romana che fece l'irruzione, incredibilmente promosso questore un anno fa, e i 10 capisquadra accusati di lesioni.

Coinvolti, per l'affaire delle molotov, uomini di vertice come Francesco Gratteri, oggi questore a Bari, Gilberto Calderozzi (Sco), Giovanni Luperi, dirigente della polizia di prevenzione.

Per il pestaggio nel cortile del giornalista britannico freelance Mark Covell, è stato aperto anche un fascicolo per «tentato omicidio».

 

IL LAGER BOLZANETO

Per gli abusi alla caserma di Genova Bolzaneto su circa trecento arrestati e fermati del G8 del luglio 2001, «atti inumani e degradanti» ai sensi della Convenzione europea sulla tortura, sono imputati 45 tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici. In aula le vittime hanno raccontato il clima «di impunità» all'interno della caserma, le minacce di stupro alle ragazze, l’obbligo di cantare marcette fasciste, le botte all'arrivo e nel corridoio, le umiliazioni in infermeria.

 

UN POLIZIOTTO (UNO) CONDANNATO NEL 2004

Giuseppe De Rosa, Digos di Milano «squadra tifoserie», è il primo poliziotto condannato per i fatti del G8. Un anno e otto mesi per il pestaggio di un minorenne, il cui volto sfigurato fece il giro del mondo.

Per gli stessi fatti è imputato Alessandro Perugini, ex numero 2 della Digos, oggi responsabile logistico della questura di Genova, incredibilmente promosso a primo dirigente, imputato anche per Bolzaneto quale responsabile della caserma.

 

PROCESSO BIS A COSENZA PER 13 «COSPIRATORI»

Collegato agli eventi genovesi è il processo di Cosenza. Imputati 13 attivisti della rete del sud ribelle tra cui Francesco Caruso, più Luca Casarini, per svariati reati tra in quali la cospirazione politica e l'associazione sovversiva in relazione ai fatti di Genova e Napoli del 2001.

 

COVO DI RIINA:
PIÙ SI LEGGONO LE MOTIVAZIONI
E PIÙ IL MISTERO RESTA 

Più si leggono le motivazioni con cui il direttore del SISDE, il servizio segreto civile, Mario Mori e il già “capitano Ultimo”, Sergio De Caprio sono stati assolti dall’accusa di aver ritardato la perquisizione del covo di Riina e più i dubbi (e i misteri) crescono.

Nella sentenza, infatti, esistono clamorosi fatti accertati, circostanze che, se pur incredibilmente, non hanno condotto ad alcuna condanna.

Essi meritano di essere conosciuti e ricordati. Ne riportiamo alcuni allucinanti passaggi:

 

IL COVO SVUOTATO

(...) La Procura della Repubblica decise, d'accordo con la territoriale, di disporre le perquisizioni domiciliari in tutte le ville di via Bernini, che vennero eseguite il giorno 2.2.93, a seguito dell'accelerazione dei tempi dei provvedimenti imposta da un lancio di agenzia Ansa di Palermo dell'1.2.93, secondo il quale le forze dell'ordine avevano finalmente individuato il covo del Riina nel complesso di via Bernini. Nel frattempo, però, l'abitazione dove il Riina aveva alloggiato con la famiglia era stata svuotata di ogni cosa; erano state ritinteggiate le pareti, ristrutturati i bagni, smontati e ripristinati gli impianti, accatastati i mobili in ciascuna stanza, tutto allo scopo evidente di ripulirla da qual-siasi traccia che potesse consentire di risalire a chi vi aveva abitato.

 

CHE STRESS...

(...) Alla presenza dello stesso procuratore aggiunto e del dott. Caselli, l'imputato Mori avrebbe sollecitato indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, aggiungendo di non avere urgenza in merito alla perquisizione e che l'osservazione su via Bernini stava creando "tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione".

 

LA CASSAFORTE

(...) In quell'occasione il La Barbera gli rivelò di avere portato via i familiari lo stesso giorno dell'arresto o quello successivo e che a "ripulire" la casa ci avevano pensato i Sansone che abitavano nello stesso residence, i quali gli avevano raccontato che erano riusciti a portare via tutto, a ristrutturare i locali della villa, e che avevano avuto persino il tempo di estrarre dal muro una cassaforte e murare il vano in cui era posizionata.

 

UN SOSPIRO DI SOLLIEVO

II dato certo del ritrovamento indosso al Riina di materiale cartaceo (...) già di per sé consente di ritenere che l'omessa perquisizione della casa e l'abbandono del sito sino ad allora sorvegliato abbiano comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera al Giuffré (i quali ebbero a dichiarare che per fortuna le forze dell'ordine non avevano potuto trovare "nulla" con ciò intendendo riferirsi proprio a documenti). Ed, ancora, alla soddisfazione espressa, durante le fasi dello svuotamento della casa, da parte del Sansone, e condivise dal La Barbera, dal Gioè, dal Brusca, dal Bagarella per il fatto che stava procedendo tutto "liscio" (cfr. in particolare le dichiarazioni di Gioacchino La Barbera).

 

Fonte: La Voce della Campania

 

OMICIDIO DEL PICCOLO TOMMASO:
ONORI PATTEGGIA PER PEDOFILIA 

Paolo Onori, il padre del piccolo Tommaso, sequestrato ed ucciso a Parma nel marzo scorso, ha raggiunto un accordo per patteggiare una pena di sei mesi di reclusione con la procura del capoluogo per il possesso di immagini pedopornografiche ritrovate nella cantina della sua abitazione.

 

MOSTRO DI FIRENZE:
RAPINA MOGLIE PACCIANI,
ASSOLTA VEDOVA MEDICO

E’ destinata a restare misteriosa la donna che il 22 gennaio del 1996 aggredì in casa Angiolina Manni, la moglie di Pietro Pacciani, alla vigilia del processo d'appello al contadino di Mercatale accusato di essere il mostro di Firenze, all’epoca già deceduto.

Quello che è sicuro è che non era la vedova di un medico, morto nel 1989, un professionista che una serie di voci aveva collegato alla vicenda del maniaco delle coppiette.

Il Gup di Firenze ha infatti prosciolto, per non aver commesso il fatto, la donna, 69 anni, per la quale il “mostrologo” numero uno, il pm Paolo Canessa, ormai protagonista di molti errori in questa vicenda, aveva chiesto il rinvio a giudizio per rapina, lesioni e sequestro di persona.

L' aggressione alla moglie del contadino, scomparsa nel 2005, è stato uno degli episodi che hanno fatto da sfondo alle indagini sui delitti del maniaco delle coppiette. La misteriosa donna, descritta come una persona di 60-70 anni, capelli biondi e pelliccia, avvicinò in strada a Mercatale Angiolina Manni, accompagnandola in farmacia a comprare del Tavor con cui, secondo l'accusa, l'avrebbe poi “stordita” per rubarle documenti e soldi in casa, dileguandosi poi. La moglie di Pacciani fu anche ricoverata in seguito all'aggressione.

Gli accertamenti sulla vedova del medico partirono in seguito alle voci che chiamavano in causa il professionista nella vicenda del mostro di Firenze. Angiolina Manni e la farmacista di Mercatale riscontrarono poi entrambe una somiglianza tra la donna che commise la rapina e la vedova del medico, che possedeva effettivamente una parrucca bionda. Riconoscimenti rivelatisi, però, non univoci, secondo i legali dell'imputata, difesa dagli avvocati Umberto e Francesco Paolo Guidotti. La difesa ha inoltre spiegato che un esame del Dna su un capello trovato su un cuscino in casa di Angiolina, e la perizia grafica su un biglietto, rinvenuto sempre nell'abitazione della moglie di Pacciani, hanno escluso collegamenti con la loro cliente.

 

DELITTO CONIUGI DONEGANI:
IL NIPOTE A PROCESSO
IL 29 SETTEMBRE PROSSIMO

Guglielmo Gatti, il 41enne arrestato il 17 agosto 2005 per il duplice omicidio degli zii Aldo Donegani e Luisa de Feo, sarà processato a Brescia il 29 settembre prossimo.

Gatti è in carcere dal giorno in cui parti dei cadaveri smembrati degli zii, scomparsi da alcuni giorni, vennero trovate disperse in un dirupo in alta montagna, tra le province di Brescia e Bergamo.

Contro Gatti non c’è al momento alcuna prova, ma diversi indizi che, secondo i magistrati bresciani, trovano riscontro nel riconoscimento di Gatti al passo del Vivione, il 1 agosto dello scorso anno; nelle targhette apposte sulle confezioni di sedano ritrovate al passo del Vivione e coincidenti con le  indicazioni trovate sullo scontrino di Gatti. Sul medesimo scontrino, peraltro, risalente alla mattina del 30 luglio, è documentato l'acquisto, tra l'altro, di diverse confezioni di sacchi per rifiuti e guanti in lattice. E un guanto in lattice era stato notato nei pressi di un cassonetto, a poca decine di metri dalla villetta di via Ugolini, nelle ore successive all'inizio delle indagini.

Altri indizi riguardano la presenza di tracce di sangue compatibili con Luisa De Leo sulla custodia del triangolo catarifrangente collocato nel cofano dell’autovettura di Gatti, e di quelle - sia di sangue che di materiale biologico dei due coniugi - rilevate in molti punti della villetta.

Dal canto suo, Gatti, aveva dichiarato d'essere stato a Piancamuno, in Valcamonica, perché, dopo aver tentato di fare benzina a Concesio, aveva deciso di dirigersi verso Iseo e successivamente in Valcamonica. Questo perché si era ricordato che “lungo questa strada ci sono delle aree di servizio che funzionano come in autostrada e sono sempre aperte”.

Dopo aver fatto benzina a Piancamuno, nella bassa Valcamonica, a circa 80 chilometri da Concesio, Gatti sarebbe tornato verso il lago d'Iseo e avrebbe poi passeggiato per circa un'ora a Sale Marasino.

Rimane ancora tutto da chiarire il movente del duplice delitto.

 

AGGIORNAMENTI DEL SITO:

www.misteriditalia.com
www.misteriditalia.it

E’ stata molto ampliata la pagina della sezione ALTRI MISTERI dedicata ai delitti del  MOSTRO DI FIRENZE.

Nella sezione LA MAFIA, nella parte riguardante i MISTERI DI PALERMO, è stato inserito IL SUICIDIO DEL MARESCIALLO ANTONINO LOMBARDO.

Sono in via di ampio aggiornamento le sezioni MONDO IN FIAMME con novità relative all’11 SETTEMBRE, ALL’AMERICA LATINA e alla QUESTIONE MEDIORIENTALE con particolare riferimento al LIBANO e all’ALGERIA.

Novità anche nelle sezioni LA STRAGE DI USTICA e ALTRI MISTERI (La scomparsa in Libano dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo; la scomparsa di Davide Cervia; l’affondamento della Kater I Rades).

 

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