LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA

          Anno 6 - Numero 105                                                           4 novembre 2005

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IN QUESTO NUMERO:

DOCUMENTAZIONE:

MASSACRO DEL CIRCEO:
IL CADAVERE DI MELILLA E’ DAVVERO QUELLO DI GHIRA?

Occorrerà l’esame del DNA per stabilire se il cadavere dell’uomo sepolto a Melilla, in una data ancora incerta del 1994, appartiene o meno ad Andrea Ghira, uno dei tre massacratori del Circeo, l’unico a non aver mai scontato - nonostante una condanna definitiva all’ergastolo - neppure un giorno di galera.

Tra gli aspetti oscuri della vicenda rimane, infatti, l’incongruenza della data di morte annotata sul registro cimiteriale (1 o 2 settembre 1994) rispetto a quella indicata sulla lapide (11 aprile 1994).

In attesa di questo atto che, forse, diciamo forse, chiarirà l’identità del cadavere trovato nell’enclave spagnola, restano ancora molti interrogatici a cui rispondere.

In primo luogo la rete di protezione della quale, sicuramente, il figlio del facoltoso costruttore romano ha beneficiato. Ovvio che il luogo delle indagini deve essere la Spagna. Come ha fatto Ghira ad espatriare, se davvero è espatriato subito dopo il massacaro, dal momento che all’epoca per entrare in Spagna (la Spagna che stava appena uscendo dal regime fascista di Francisco Franco) occorreva, a differenza di oggi, un passaporto?  Chi gli ha fornito questo documento?

C’è poi da appurare il giro di connivenze e di coperture che hanno consentito a Ghira, specie dopo il suo allontanamento dalla Legione Straniera, di continuare un’esistenza all’insegna della clandestinità. Per questo gli investigatori dovranno ricostruire tutte le tappe del soggiorno del latitante in terra iberica ed i suoi contatti con l’Italia. E al setaccio, in particolare, dovrà finire il giro di comunicazioni intercorse in concomitanza con il suo arresto, nel 1980, per detenzione di droga e con la sua morte nel 1994.

A questo proposito c’è da regsitrare che, soltanto di recente, e dopo la cattura del suo amico di massacri, Angelo Izzo - il “pentito” buono per tutte le stagioni, coccolato dai magistrati di mezze procure d’Italia, reo confesso di aver ucciso altre due donne - sono stati messi sotto controllo i telefoni di tutti i famigliari e parenti di Ghira. Perché mai questi controlli non sono mai stati fatti nei precedenti 29 anni della sua latitanza?

La vicenda di Ghira e della sua tomba riporta alla memoria la storia di una altro neofascista, Gianni Nardi, il cui cadavere sarebbe stato trovato, guarda caso, sepolto sempre in Spagna, nel 1976, ma sulla cui identità si scatenò una vera e propria bagarre nel 1993, dopo le dichiarazioni di Donatella Di Rosa, moglie di un ufficiale dell’esercito.

Due perizie, una sul Dna e una sulle impronte digitali, avevano stabilito che il cadavere dell' uomo, sepolto a Palma di Majorca, fosse dell’ex estremista di destra. Ma, la Di Rosa, pur ammettendo che tutta la storia da lei montata su un presunto golpe era una fandonia, ancora oggi insiste nel die che il cadavere di Palma di Majorca non è quello di Gianni Nardi.

L’avv. Juvara, difensore della donna, ancora nel 1999 chiese, senza ottenerli, nuovi esami sulla salma di Palma di Majorca, sostenendo che i primi esami fatti non erano validi

 

PANTANO IRAQ:
IL NIGER-GATE SCUOTE LA CASA BIANCA.

L’FBI non è ancora riuscita ad individuare gli autori e le origini dei documenti falsi su un presunto traffico d'uranio dal Niger all’Iraq che finirono nel dossier delle accuse di Washington a Saddam Hussein.

Dopo due anni di lavoro, il Bureau considera l’indagine una materia di controspionaggio e non un caso criminale, ma non ha indizi sufficienti per chiudere l'inchiesta.

Il lavoro dell’FBI su quello che è stato chiamato il Niger-Gate prosegue separato dall’inchiesta del procuratore speciale Patrick Fitzgerald sul Cia-Gate e per il momento i due filoni non sembrano destinati a unirsi.

Nell'incriminazione del braccio destro di Dick Cheney alla Casa Bianca, Lewis “Scooter” Libby, non c'è infatti traccia di elementi legati alle origini delle informazioni sul Niger che fecero da sfondo alla vicenda ora al centro del più grosso scandalo che negli ultimi anni ha coinvolto la Casa bianca.

Al centro dell’attenzione degli investigatori ci sono due possibili teorie sull'origine dei documenti: la prima punta sull'ambiente degli esuli iracheni che ruotava intorno ad Ahmed Chalabi, l'ex presidente dell'Iraqi  National Congress che per lungo tempo, prima della guerra del 2003, è stato un interlocutore privilegiato del Pentagono.

La seconda teoria, che le fonti del controspionaggio indicano come più probabile, è che i documenti siano stati creati nell'ambasciata del Niger a Roma e che dietro la vicenda ci possa essere lo zampino, come al solito compiacente verso gli americani, del SISMI, il servizio segreto militare italiano. Anche se, secondo fonti governative italiane, l’FBI, il 20 luglio scorso, avrebbe informato, con una lettera ufficiale, il governo italiano che la vicenda ”è stata archiviata per quanto concerne l'Italia”.

L’orientamento generale dell’inchiesta privilegia, comunque, l’ipotesi di una manovra organizzata a livello di organismi di intelligence o governativi, per tentare di orientare le scelte politiche americane circa la guerra all’Iraq.

Di recente, però, un’inchiesta del quotidiano La Repubblica ha ribadito il ruolo avuto dall’Italia nella vicenda, ricordando una visita compiuta a Washington, il 9 settembre 2002, cioè prima dell’aggressione angloamericana dell’Iraq, dal direttore del SISMI Nicolò Pollari, visita da mettere in relazione a un possibile passaggio di informazioni sull'uranio del Niger.

 

PANTANO IRAQ (2):
IL CICLONE INVESTE ANCHE L’ITALIA

 “Così il Sismi consegnò alla Cia il falso dossier sull’uranio”.

Questo il titolo del primo di una serie di articoli con cui il quotidiano La Repubblica ha messo nel mirino l’attuale dirigenza del SISMI, il servizio segreto militare italiano.

L’attacco contro il SISMI ed il suo direttore, Nicolò Pollari, ha costretto il governo ad una levata di scudi e alla difesa serrata del servizio d’intelligence.

Francesco Cossiga, da buon esperto di “dirty affairs”, in un’intervista all’agenzia Il Velino ha cercato di spiegare che cosa si nasconde dietro questo attacco: “Circolano due ipotesi principali: la prima, che l’attacco sarebbe ispirato dal dipartimento di pubblica sicurezza, cui da tempo vengono imputate le accuse di ‘allarmismo” in materia di attacchi del terrorismo islamico, per le informazioni ‘passate’ dal Sismi. Ma si tratta di una ipotesi basata soltanto su pettegolezzi tra presunti legami, solo informativi e di sostegno reciproco beninteso, tra giornalisti della Repubblica e il dipartimento. La seconda ipotesi, ben più verosimile, è che si tratti di un attacco al SISMI e a Pollari sferrato per ritorsione e vendetta dall’amministrazione americana per l’attività svolta dal Servizio per la liberazione di ostaggi italiani, e non solo italiani, mediante trattative con il terrorismo e la guerriglia e il pagamento di riscatti, in difformità alla linea americana e britannica”.

E la Cia?

No, non la Cia, né la Dia, ma gli ambienti militari e in particolare la Military Intelligence che opera sul campo in Iraq e che si sarebbe sentita ingannata per l’‘operazione Sgrena’ e messa sotto accusa per l’‘operazione Calipari-Fuoco amico’ condotta da unità militari americane. Ma io credo, e non solo io, che vi sia una terza ipotesi, ben più credibile”.

Quale sarebbe?

Quella che l’operazione anti-Pollari sia condotta dagli ambienti dello Stato Maggiore della Difesa, e in particolare dal capo di Stato Maggiore ammiraglio Giampaolo Di Paola, attraverso il reparto informazioni e sicurezza dello Smd, che opera in assoluta libertà, con ingenti mezzi e al di fuori di ogni controllo politico e parlamentare e in collegamento con il comando generale dell’Arma dei carabinieri”.

Secondo Cossiga, dietro a questa ipotesi ci sarebbe uno scopo ben preciso: “Delegittimare l’attuale gestione del Sismi, punendola per essersi svincolata da via XX settembre, e di riappropriarsi del servizio, costringendo il governo a sostituire Nicolò Pollari con il protetto di Di Paola, l’ammiraglio Campegher, attuale capo del ben noto Ris”.

E il comando generale dell’Arma?

Esso è gestito attualmente dal ‘clan’ toscan. Il generale che sostituì allo Stato Maggiore del comando generale, per volontà dell’ammiraglio Di Paola, il generale Piccirillo, cacciato in ventiquattro ore senza neanche il preavviso previsto per le…collaboratrici domestiche! Con l’accusa di ‘collaborazionismo’ con il ministero dell’Interno”.

Il senatore indica inoltre quale sarebbe l’utile per il ‘clan Toscano’: “Anzitutto, dopo avere contribuito a silurare con molta finezza la candidatura del generale Stefano Orlando alla vice direzione del Sismi, piazzare a questo posto un altro ‘clan’, il generale Borruso, e poi vedere sostenuta dall’ammiraglio Di Paola la candidatura del generale Toscano a prossimo comandante generale dell’Arma, nell’ambito della politica di ‘riappropriazione’ dell’Arma dei carabinieri da parte del ministero della Difesa, proteso a costituirsi in ‘ministero dell’Interno’ parallelo, in mancanza di prospettive di vere guerre, non dico di una Trafalgar o di una Waterloo, ma neanche di una Lissa o di una Caporetto…E questo collegamento anche con una parte del centrosinistra”.

Ma come? Notoriamente Pollari gode della fiducia anche della sinistra.

Sì, della sinistra! Ma l’ammiraglio Di Paola, ‘figlioccio’ del generale Mosca-Moschini, ‘padrino’ a ‘La Nunziatella’ di Arturo Parisi, che lo impose come capo di Stato Maggiore della Difesa negli ultimi sette giorni del governo Amato è uomo di fiducia dei ‘prodian-ciclisti’. E così il cerchio si chiude…”. 

 

PANTANO IRAQ (3):
PERDITE USA OLTRE 2010

Il numero dei militari americani morti in Iraq continua ad aumentare.

Secondo i computi dei media, il totale delle perdite è già superiore a 2010. Ma, solo il 27 ottobre, per la prima volta, il Pentagono ha ufficialmente ammesso che le perdite militari americane in Iraq hanno superato le 2000, aggiornando il suo “pallottoliere della morte”, sempre un pò in ritardo sui calcoli giornalistici.

La cifra ufficiale è di 2004 perdite, di cui 1567 caduti e 437 vittime d'incidenti o di fuoco amico.

Gli alleati degli americani in Iraq hanno perso quasi 200 militari, fra cui 96 britannici e 26 italiani.

Il numero dei feriti americani ufficialmente dichiarati dal Pentagono in Iraq supera i 15.500, con una media di oltre 7,5 ogni morto.

Il novembre 2004, con 137 militari Usa morti ufficialmente contati, resta in Iraq il mese più letale di tutto il conflitto per le forze armate americane, peggiore dell'aprile di sangue 2004, quando i morti USA erano stati 135.

 

PANTANO IRAQ (4):
EPIDEMIA DI SUICIDI FRA REDUCI FORZE SPECIALI USA

I suicidi, a breve distanza l'uno dall'altro, di tre reduci dall'Iraq, tutti membri del 10/mo gruppo delle forze speciali dell'esercito di stanza a Fort Carson, in Colorado, suscita interrogativi, negli USA, sul grado di preparazione dei soldati americani a gestire lo stress da combattimento. I tre militari suicidatisi - un ufficiale con 15 anni d'esperienza; un sergente che faceva il contabile del reparto e un soldato scelto specialista di elettronica - non si conoscevano a non avevano nulla in comune, a parte l'esperienza in Iraq. Tutti e tre si sono uccisi nel giro di un anno e mezzo dopo essere tornati dal servizio al fronte. I loro superiori tendono a parlare di “tragica coincidenza”, ma c'è chi sospetta che l'”ambiente di lavoro” in cui si sono trovati a operare abbia avuto un ruolo. Nonostante il Pentagono non confermi mai suicidi al fronte, spesso le scarne note che accompagnano l'annuncio di morti accidentali o per fuoco amico fanno pensare a suicidi. Mancano però statistiche precise.

 

PANTANO IRAQ (5):
STRAW, PER STABILITA' POTREBBERO SERVIRE 10 ANNI

Consolidare la democrazia in Iraq e rendere il Paese stabile potrebbe richiedere una decina d'anni, secondo il ministro degli Esteri britannico Jack Straw.

Sono ottimista sull'Iraq, penso che da qui a 5-10 anni lo vedremo diventare stabile”, ha detto Straw nel corso di un dibattito televisivo trasmesso dalla Bbc.

Al dibattito in Tv partecipavano anche genitori di soldati morti in Iraq che hanno chiesto il ritiro immediato del contingente britannico, forte di circa 8.000 uomini.

Sue Smith, madre di un soldato ucciso in luglio, ha raccontato che suo figlio, parlandole del lavoro di addestramento dei poliziotti iracheni, lo aveva definito una “perdita di tempo”. “La democrazia si fabbrica dell'interno, non si può arrivare e dire 'Ecco la nostra democrazia'. Ciò ha richiesto secoli in Inghilterra”, ha detto la donna.

Straw ha replicato che la durata dell'impegno britannico in Iraq è una questione “aperta”, legata all'atteggiamento delle autorità di Baghdad. “Non c'è una data fissata per il ritiro, ma speriamo che tutto possa svolgersi in un numero assai limitato di anni”, ha sottolineato.

 

SERVIZI SEGRETI ITALIANI:
PER ACCAME LE GLADIO ERANO DUE

Falco Accame, già presidente della Comissione Difesa della Camera, ha scritto al Copaco, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, per chiedergli di indagare sulla Gladio o meglio sulla “seconda Gladio”, quella militare di cui facevano parte diversi personaggi usciti allo scoperto negli ultimi anni e su cui “nessuno vuole andare in fondo”. Accame si rivolge al Copaco con una lettera che ricorda gli elementi essenziali della vicenda e cioè che esiste “una Gladio di natura militare operante all'estero” come ha confermato il ministro dell'Interno Beppe Pisanu in una intervista al Corriere della Sera del 1997. In quel contesto Pisanu affermò che è esistita una rete Gladio che operava principalmente nel Nord Africa, nei Balcani e nel Corno d'Africa e che naturalmente questa era composta da personale in aggiunta alla lista dei 622 resa nota al Parlamento a suo tempo. La lettera, oltre che al Copaco, è stata inviata al presidente della commissione Mitrokhin, Paolo Guzzanti, e per conoscenza al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, al ministro della Difesa e al procuratore militare della Repubblica di Roma.

Fonte: ANSA

 

BANDA DELLA MAGLIANA:
GIUDICE LUPACCHINI,
“NON MI FIDAVO DELLA POLIZIA ROMANA”

Quando iniziai ad indagare sulla Banda della Magliana chiesi ed ottenni dal capo della Polizia,  Vincenzo Parisi, che mi fosse assegnata una squadra di investigatori, nessuno dei quali romano”.

Lo afferma il giudice Otello Lupacchini, che condusse nel '93 l'operazione Colosseo contro la Banda della Magliana nel corso di una intervista al settimanale Gente.

Lupacchini nell'intervista sostiene anche che al tempo pretese che “l'apporto della questura della capitale, fosse solo strumentale, si limitasse cioé all'esecuzione dei mandati di cattura e alla custodia di Maurizio Abbatino”.

Il giudice  spiega anche il perché: “Da cio' che si leggeva negli atti non ritenevo opportuno che ad indagare fossero gli investigatori capitolini. Del resto, sarà stato senza dubbio un caso, ma uno dei pochi arresti che fallirono, quello di Raffaele Pernasetti, nell'operazione Colosseo, era affidato all'allora capo della Criminalpol del Lazio”.

 

BANDA DELLA MAGLIANA (2):
GIUDICE IMPOSIMATO,
“FU DE CATALDO AD ASSOLVERE DIOTALLEVI”

Sempre nello stesso numero del settimanale Gente è stata pubblicata anche un’intervista al giudice Ferdinando Imposimato che per primo indagò sulla banda.

Secondo Imposimato “il vero capo della Banda era Ernesto Diotallevi che, a quanto ne so, fu assolto con una sentenza emessa proprio dal dottor Giancarlo de Cataldo, l’ autore del libro che ha ispirato il film di Michele Placido, Romanzo criminale”.

 

DELITTO DELL’OLGIATA:
PROCURA PROPENDE PER ARCHIVIAZIONE INCHIESTA

Gli inquirenti della Procura di Roma sono propensi ad avanzare una nuova richiesta di archiviazione per l'inchiesta sul delitto dell'Olgiata, l'omicidio della contessa Alberica Filo Della Torre.

Secondo quanto si è appreso a piazzale Clodio, neppure dalle dichiarazioni rese ai Carabinieri da Naike Rivelli, la figlia di Ornella Muti, non è stato possibile ricavare degli spunti investigativi.

Si tratta del fascicolo aperto recentemente dalla procura di Roma, su istanza di Pietro Mattei, vedovo della nobildonna, il quale chiedeva di approfondire alcune dichiarazioni attribuite alla Rivelli.

Lo sanno tutti chi è stato. Invece a suo tempo misero in mezzo un ragazzo che non c’entrava niente, Roberto Jacono”. Era stata questa affermazione, in particolare, a destare l’attenzione di Mattei e ad indurlo a rivolgersi alla magistratura. Due  giorni fa la giovane attrice, che all’epoca dei fatti aveva 14 anni, è stata sentita come testimone dai carabinieri del nucleo operativo, ma non ha fornito alcun elemento utile per una riapertura delle indagini e, soprattutto, ha detto di non sapere chi é l’assassino di Alberica Filo Della Torre.

 

OMICIDIO PASOLINI:
PINO PELOSI PAGATO DALLA RAI

Ottomila euro lordi, al netto 6.500 euro: tanto è stato il compenso ricevuto da Pino Pelosi detto “la rana” per fare, il 7 maggio scorso, le clamorose rivelazioni sull'uccisione di Pier Paolo Pasolini, durante la trasmissione Ombre sul giallo, mandata in onda da Raitre.

Nell’archiviare l’indagine provocata dalle dichiarazioni di Pelosi - che per il delitto avvenuto il 2 novembre del '75 ha scontato nove anni di reclusione - i magistrati romani sottolineano non solo l'entità della cifra pagata per notizie che si sono rivelate senza fondamento, ma danno anche una valutazione delle “rivelazioni”.

Le famose minacce - scrivono i magistrati - che avebbero indotto Pelosi a tacere per trent'anni e ad assumere la responsabilità di un omicidio così eclatante, sarebbero state proferite da persone che il Pelosi non avvrebbe in nessun caso potuto accusare, posto che non aveva la minima idea della loro identità. Un effetto altamente utilitaristico, invece - proseguono i magistrati - deve essere stato avvertito da Pelosi nel compenso pattuito per rilasciare l'intervista contenente le clamorose rivelazioni: 8000 euro lordi (6.500 al netto delle ritenute)”.

Tutti i dati processuali acquisiti - aggiungono i magistrati - l'attività di indagine svolta all'epoca dell'omicidio e quelli sviluppatisi nel corso degli anni successivi, portano a definire l'omicidio di Pasolini come un delitto maturato in un contesto di prostituzione giovanile e commesso unicamente da Pelosi”.

Fonte: Adnkronos

 

OMICIDIO PASOLINI (2):
SERGIO CITTI: LA SUA VERITA’

Sergio Citti, uno dei migliori amici di Pier Paolo Pasolini, recentemente scomparso, aveva una sua verità su ciò che accadde la notte del 1 novembre di 30 anni fa in cui il poeta fu ucciso.

La raccontò al Corriere della Sera, a Rinascita e ad altre pubblicazioni nel maggio scorso, quando si tornò a parlare dell'omicidio per un’intervista televisiva a Pino Pelosi. E la raccontò anche ai magistrati della procura di Roma che il 13 settembre scorso hanno, comnque, predisposto la richiesta di archiviazione della terza inchiesta sull'omicidio di Paosolini.

Quella notte, Pelosi era insieme ad altre quattro persone e quelle persone erano lì per uccidere Pier Paolo. Pier Paolo era scomodo. Scriveva cose scomode, anche sul Corriere. No, non fu una lite: fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che dovesse morire”, raccontò Citti, già malato e sulla sedia a rotelle.

Secondo Citti, Pasolini fu adescato da Pelosi con la promessa di restituzione delle “pizze” originali del film Salò , che erano state rubate. “Un tale, che si chiamava Sergio P., e gestiva un traffico di prostitute, mi disse di avere lui le pellicole del film. Ma il ricatto era una scusa, quelli picchiarono per uccidere”.

Con Pelosi, secondo Citti, Pasolini non ebbe un incontro casuale, ma un appuntamento per andare ad Acilia a riprendere la copia originale del film. “Ad Acilia lo sequestrarono. Poi lo condussero a Ostia, all'Idroscalo. E lì ci fu il massacro. Il ricatto delle pellicole del film Salò era una scusa. Picchiarono per uccidere, professionisti. Ho sempre pensato che, quei quattro, potessero essere anche poliziotti o agenti segreti. Pier Paolo era scomodo...”.

Per Sergio Citti, morto in miseria, un gruppo di artisti, tra cui il fratello Franco, Bernardo Bertolucci, Mimmo Calopresti, Mario Martone, Ida Di Benedetto, Laura Betti e poi il verde Angelo Bonelli e l'assessore capitolino alla cultura Gianni Borgna chiesero invano il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli.

 

DELITTO COGNE:
SLITTATA CONSEGNA PERIZIE FASE BIS

E' slittata di alcune settimane la consegna delle perizie di parte e del Gip per il cosiddetto processo Cogne bis e cioè quello in cui si sta esaminando il presunto inquinamento delle prove sulla scena del delitto.

Il deposito dei documenti dovrebbe quindi avvenire verso la metà di novembre dal momento che non sono arrivate le perizie dei tecnici dell’FBI.

Qualora questo atto avvenisse, però, a metà novembre si arriverebbe a ridosso del processo d'appello per Annamaria Franzoni che è stata condannata in primo grado a trent'anni per l'assassinio del figlio Samuele. In quel caso - e per dare la possibilità alle parti di esaminare le documentazioni del Cogne bis - il processo alla Franzoni si aprirebbe regolarmente, ma potrebbe essere subito rinviato.

 

PAZIENTI UCCISI DA INFERMIERA:
DUBBI PERITI SU CONFESSIONE

I periti nominati dalla Procura di Como hanno manifestato un certo scetticismo sulla possibilità che Sonya Caleffi, l'infermiera comasca indagata per 18 morti sospette a Como e imputata per altre 12 morti a Lecco (nel cui ospedale lavorava quando è stata arrestata), abbia potuto effettivamente uccidere i pazienti con iniezioni di aria, come da lei stessa confessato.

Lo si è appreso nel momento in cui la procura di Como si appresta a chiedere l'archiviazione per i 18 casi di morti sospette avvenute in provincia di Como.

Il pm Vittorio Nessi sta chiedendo l'archiviazione sulla base delle conclusioni delle perizie dei medici Antonio Osculati e Cesare Garberi.

I periti hanno escluso responsabilità dell'infermiera in ordine ai 18 casi comaschi, per una serie di svariati motivi, ma nella loro relazione hanno avanzato più di un dubbio sulla possibilità che la Caleffi possa realmente avere fatto quello di cui è imputata anche a Lecco.

Nelle loro premesse i periti osservano infatti che “l'iniezione endovenosa o comunque intravascolare di aria come meccanismo letifero è rara e non facile da applicare (...). La letteratura di merito è unanime a ritenere che la quantità di aria necessaria a provocare il decesso in un paziente adulto non può essere inferiore all'ordine di grandezza delle numerose decine o centinaia di centimetri cubi”.

E ancora: “Il meccanismo fisiopatologico con cui in casi consimili il decesso si verifica è abbastanza complesso, multifattoriale, difficilmente immediato, sempre implicante interessamento di diverse compromissioni di funzioni vitali sulle quali quella cerebrale prevale grandemente”.

I legali dell'infermiera hanno chiesto, inutilmente, di acquisire la perizia comasca agli atti dell'inchiesta della procura di Lecco, che ha proseguito sulla sua strada. La magistratura lecchese ha chiesto infatti il rinvio a giudizio della Caleffi (che ha confessato responsabilità soltanto per una parte dei delitti di cui è accusata), e si appresta a presentare le tesi accusatorie in udienza preliminare prevista per il 17 novembre prossimo.

In udienza, i legali Claudio Rea e Renato Papa torneranno alla carica, sostenendo che la confessione della Caleffi - che aveva affermato di aver praticato iniezioni di 50 cc d'aria - meriti quantomeno ulteriori approfondimenti tecnici.

 

CIRCE DELLA VERSILIA:
LA CASA DEL DELITTO
DIVENTATA DEPOSITO DI DROGA

Un italiano di 34 anni e un marocchino di 30 sono stati arrestati dai carabinieri in due distinte operazioni antidroga in Versilia.

L'italiano, originario di Ancona, è stato arrestato a Forte dei Marmi, dove abitava, nella villetta teatro del delitto di Luciano Iacopi, omicidio per il quale sono stati condannati la moglie Maria Luigia Redoli, soprannominata la Circe della Versilia e l'ex amante, l’ex carabiniere Carlo Cappelletti.

Secondo i militari, il trentaquattrenne avrebbe trasformato la casa in un centro per lo smercio e anche il consumo di eroina: nello scantinato sono state trovate una ventina di dosi già confezionate e anche molte siringhe usate.

 

STRAGE QUESTURA DI MILANO:
TUTTI ASSOLTI

Una sentenza prevista e fin troppo prevedibile.

La Prima sezione penale della Cassazione ha confermato l'assoluzione dei neofascisti di Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi e Francesco Neami, in relazione all’accusa di essere stati i mandanti della strage alla questura di Milano, che il 17 maggio 1973 provocò quattro morti e 45 feriti.

Il sostituto procuratore generale della Suprema corte, Tindari Baglioni, aveva chiesto l'annullamento delle assoluzioni e un nuovo processo per i due ordinovisti.

La Prima sezione penale, in particolare, ha “rigettato” i ricorsi presentati in Cassazione dalla procura di Milano, rappresentata dal Pg Laura Bertolè Viale, contro le assoluzioni e dalle parti civili rappresentate dai familiari delle vittime e dal Comune di Milano.

Il collegio è stato presieduto dal presidente titolare, Renato Teresi, affiancato dai consiglieri Severo Chieffi, Angelo Vancheri, Giuliano Turone e Grazia Corradini, che ha svolto la relazione dell’udienza.

In questo modo esce confermato il verdetto emesso il 1° dicembre 2004 dalla corte d'assise di appello di Milano, che aveva assolto Maggi e Neami “per non aver commesso il fatto”.

La Cassazione, nel luglio 2003 si era già occupata di questo processo e aveva disposto un nuovo processo di appello a carico dei due neofascisti per riesaminare la loro responsabilità. Ma il processo di appello bis non aveva raggiunto le prove necessarie a fondare la colpevolezza dei due imputati, pertanto, pur rimanendo accertata la matrice neofascista della strage, rimasero non identificati i mandanti.

L’unico colpevole è rimasto Gianfranco Bertoli, il sedicente anarchico che lanciò la bomba e che fu arrestato nell'immediatezza del fatto, processato e condannato all’ergastolo. Bertoli è morto qualche anno fa.

Questa sentenza segna un’ennesima sconfitta per la ricostruzione operata dai magistrati di Milano, basata unicamente sulle deposizioni di due “pentiti”, Carlo Digilio e Martino Siciliano, entrambi non ritenuti attendibili anche dalle corti che si sono occupate della strage di piazza Fontana.

Dopo oltre 30 anni si chiude così - in maniera che possiamo ormai ritenere definitiva, così come è avvenuto per Piazza Fontana - la ricerca dei colpevoli che ordinarono uno degli attentati nodali della strategia della tensione.

Resta la balorda teoria dei magistrati milanesi, ampiamente sconfitta. Secondo loro obiettivo della strage doveva essere l’allora ministro dell’Interno, Mariano Rumor, finito nel mirino dei neofascisti per l'adozione della legge che contrastava la rinascita della destra eversiva e, soprattutto, perché avrebbe tradito un patto d’azione con la destra estrema.

I magistrati milanesi non hanno mai spiegato come mai, Bertoli lanciò la bomba contro la questura quando l’auto con a bordo Rumor si era già allontanata da tempo. E se ne era andata in maniera ben visibile, con stridio di gomme, a tutta velocità.

Purtroppo, anche nel caso di questa strage, la predilezione per le teorie costruite a tavolino ha fatto perdere di vista l’obiettivo di qualsiasi processo: trovare le prove di quanto si vuole dimostrare.

 

STRAGI DEL ’93:
CONFERMATE CONDANNE RIINA E GRAVIANO
PER AUTOBOMBA STADIO OLIMPICO

La corte d'Appello di Firenze ha confermato la condanna a quattro mesi di isolamento diurno inflitta in primo grado a Totò Riina e Giuseppe Graviano per il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma del 31 ottobre 1993.

La pena si somma ai due anni e otto mesi di isolamento a cui i due imputati erano già stati condannati, come misura accessoria alla pena dell’ergastolo, nel processo d’appello per le stragi con autobombe di Firenze, Roma e Milano della primavera-estate del 1993.

Il processo è stato celebrato a seguito di una nullità formale commessa durante una fase dell’iter giudiziario per le stragi del 1993. La Cassazione aveva rilevato nel dispositivo della sentenza di primo grado - con cui Riina e Graviano, con altri 13 boss mafiosi, erano stati condannati all’ergastolo - la mancanza di qualsiasi riferimento all’episodio dell’Olimpico, che pure era stato ampiamente affrontato nel corso dei dibattimenti. Da qui l'indicazione della Cassazione per la celebrazione di un processo specifico per la vicenda del presunto attentato all’Olimpico.

La strage, secondo gli inquirenti, fu evitata solo perche' non funzionò l' innesco che avrebbe dovuto far esplodere 120 chili di tritolo e una cassa piena di chiodi e bulloni, con cui era stata imbottita una Lancia Thema parcheggiata nel luogo dove il pullman dei carabinieri avrebbe dovuto fermarsi.

 

TORTURA:
TALEBANO EVASO,
“VI RACCONTO LE CRUDELTA’ DELLE CARCERI USA”

Si chiama Sheikh Hassan Qaid, detto “Il Libico”, ed è uno dei quattro “pericolosi presunti terroristi” -come li aveva definiti il portavoce militare USA, Cindy Moore - che l'11 luglio scorso erano riusciti a fuggire dalla base Usa di Bagram, a nord di Kabul. O almeno questo è il nome che firma un lungo messaggio pubblicato su un sito islamista in Internet e che descrive minuziosamente le procedure di arresto e detenzione e i metodi di tortura applicati dagli USA nei confronti dei Mujaheddin.

Qaid coglie l'occasione per denunciare “la verità di quanto avviene dietro le sbarre delle carceri americane”,  “testimoniando quello che abbiamo subito” e che “ci è stato riferito di prima mano”.

La missiva elenca “le più importanti carceri utilizzate dai crociati nel mondo”, accusando “Egitto, Giordania, Emirati Arabi, Marocco ed Indonesia” di gestire prigioni i cui detenuti sarebbero stati inviati dagli USA. Ma ci sarebbero anche carceri in “Germania, Kenya, Gibuti, Stato degli Ebrei (sic), Singapore e Thailandia”, luoghi di detenzione che “provvisoriamente oppure saltuariamente” vengono “utilizzati” dagli USA per interrogare i Mujaheddin.

In Somalia ed “alcune misere reppubbliche dell'ex Urss come la Georgia”, gli USA non esiterebbero ad incaricare “bande mafiose” per catturare i Mujaheddin.

Queste sarebbero le informazioni di maggior interesse per la CIA, appena catturano un sospetto Mujahid:

  1. primo: “qualunque indizio su preparativi per nuove operazioni di Al Qaida contro gli USA” ed i suoi alleati,
  2. secondo: “dove è nascosto Osama Bin Laden”, ed i leader più pericolosi del terrorismo internazionale,
  3.  terzo: “le fonti di finanziamento dei Mujahiddin”,
  4. Quarto: “i luoghi d'incontro dei Mujahiddin”.

 

Procedure di detenzione:

Dopo aver descritto le “prime” procedure d'arresto, il “Libico”, racconta che “solo in un momento succesivo appare l'uomo americano”, che “sostituisce le tradizionali manette”, con quelle “tremendamente più dolorose di plastica, che strette al massimo, dietro la schiena, producono dolori mortali ai legamenti della spalla, come se si tagliassero le vene ai polsi ed alle caviglie”.

Il fuggiasco del carcere di Bagram dettaglia in 5 punti le procedure d'arresto, e prosegue: “Il momento più delicato per un Mujahid detenuto”, è quando “dopo avergli strappato gli indumenti con armi taglienti”, una volta nudo, “con violenza gli viene strappato il nastro adesivo da sopra gli occhi. Ti senti che stanno portando via anche tutti i peli delle sopracciglie”.

Le procedure, secondo il “Libico”, esigono “impronte e foto da quattro posizioni e un campione di saliva oltre ad un pelo che viene strappato dalla barba dell'ostaggio”. Le manette verrebbero tolte solo per mettere al detenuto un pannolino, “di quelli usati per i bambini”.

Giuro su Dio di non ricordare in tutta la mia vita un dolore come quello subito durante il tragitto in aereo da Karachi a Kabul”, scrive il “Libico” e aggiunge: “pregavo insistentamente Dio di far cadere l'aereo per farla finita”.

Molti dei suoi compagni, trasportati in Afghanistan da “Indonesia, Gibuti, Thailandia, Georgia, Germania, Marocco, Mauritania, Egitto e Emirati”, avrebbero confermato le stesse pene subite dal libico durante il tragitto in volo.

 

Alcune immagini di tortura:

Nel capitolo delle torture, l'ex detenuto elenca le 7 più diffuse pratiche che “i fratelli Mujahiddin subiscono per mano degli adulatori della croce” oppure “sotto la loro supervisione”.

Variano: da quelle più diffuse nelle carceri d'”Egitto ed Emirati”, dove “il detenuto, completamente nudo, viene appeso al soffitto per una mano per lunghi periodi”, e gli viene data “da bere molta acqua per costringerlo ad urinarsi addosso”, a quello particolarmente in voga nelle carceri giordane: “picchiare il detenuto sulle piante dei piedi (Falaqah), così da farle sanguinare”, per poi “versare sulle ferite acqua salata, ordinando all'ostaggio di correre”.

Le altre pratiche prevedono “versare acqua gelida sul detenuto vestito” e “lasciare il detenuto nudo in cella, tremante e senza coperte”, oppure dentro il 'barile' che è un contenitore morbido di plastica dove viene rinchiuso il detenuto nudo: “non appena cerchi di muoverti dentro il barile morbido in cerca d'aria, ti investono le onde dell'acqua che ti penetra la gola e le narici, soffocandoti”. Quest'ultima procedura sarebbe di prassi nella ex casa del capo dei Talebani Afgani, il Mullah Omar a Kandahar, trasformata ora in carcere.

Un'altra pratica sarebbe “porre il fratello in una cassa da morto 'Tabut', malodorante”, e lasciarvelo “ben chiuso” per lunghe ore.

Fonte: Ap-biscom

 

SERVIZI SEGRETI BRITANNICI:
SITO INTERNET

I servizi segreti esterni di Sua Maestà, l’MI6, per anni così segreti da non esistere ufficialmente, sono usciti adesso allo scoperto lanciando addirittura un sito Internet allo scopo di reclutare future spie.

I servizi segreti sperano che questo loro sbarco sul web aiuti ad eliminare alcune teorie di cospirazioni come quella secondo la quale alcuni agenti dell'MI6 sarebbero responsabili della morte della principessa Diana, scomparsa a Parigi nel 1997.

Il sito internet - www.sis.gov.uk oppure www.mi6.gov.uk - presenta la storia ed illustra le competenze dell’organizzazione incaricata di operare all’estero, mentre un'altra agenzia britannica, l’MI5, è incaricato della sicurezza interna.

E' importante che il pubblico conosca meglio i servizi britannici e capisca perché l’MI6 deve essere segreto per le sue operazioni e il suo personale”, ha sottolineato il portavoce Nev Johnson, prima del lancio del sito.

Lo sbarco dell’M16 in Internet segna una svolta nella storia di questa agenzia, fondata nel 1909. Malgrado la sua esistenza fosse ampiamente conosciuta, il suo riconoscimento ufficiale nei testi governativi è solo del 1994.

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE:
L’ATTACCO DEL COMA

Il gruppo terroristico Coalizione per l’azione militante nel Delta del Niger (COMA), legato ad Al Qaeda, ha rivendicato in un comunicato la paternità dell’attentato terroristico contro un aereo il 23 di ottobre.

Il velivolo, un Boeing 737 della compagnia Bellview Airlines, si presume sia stato abbattuto da un missile a una trentina di chilometri a nord dall'aeroporto di Lagos dal quale era decollato. Nell’incidente hanno perso la vita 116 persone.

Il COMA, oltre ad affermare che il missile è stato lanciato da alcuni membri del gruppo, minaccia anche nuove azioni verso personalità e infrastrutture nigeriane, “fino a che Mujahid Dokubo-Asari, leader della formazione, non sarà liberato”.

Il capo del COMA è stato arrestato recentemente durante una retata, nell’ambito di operazioni antiterrorismo, in quanto il gruppo di guerriglieri è strettamente legato ad Al Qaeda e in particolare al terrorista giordano, Abu Musab al Zarqawi.

Questa rivendicazione testimonia che Zarqawi e i suoi seguaci stanno ramificando la loro presenza in Niger, ma anche in altre zone dell’Africa.

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE (2):
GRUPPO ISLAMICO MAROCCHINO
SU LISTA NERA USA

Il Dipartimento di Stato americano ha annunciato di avere inserito nella sua lista nera delle organizzazioni terroristiche il Gruppo Islamico Combattente Marocchino (GICM), ritenuto tra i responsabili degli attentati di Madrid, l'11 marzo 2004, e di Casablanca, l'anno precedente.

 

MEDIORIENTE:
L’ENIGMA DELLA MORTE DI HARIRI

Il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha adottato una risoluzione che chiede alla Siria di collaborare con l'indagine delle Nazioni Unite sulla morte dell'ex primo ministro libanese Rafik Hariri, prefigurando altrimenti la possibilità di intraprendere future azioni punitive.

La risoluzione è stata adottata con 15 voti a favore e nessuno contrario, dopo che i principali paesi proponenti, USA e Francia, hanno accettato di togliere uno specifico riferimento a sanzioni economiche, dicendo invece che il Consiglio prenderà in considerazione possibili ulteriori azioni non specificate nei confronti della Siria se questa non ottempererà a quanto richiesto.

Alla Siria, la risoluzione chiede di cooperare “incondizionatamente” all'inchiesta ONU per accertare i retroscena dell'omicidio di Hariri, avvenuto il 14 febbraio scorso, ed ordina a Damasco di arrestare e mettere a disposizione degli investigatori ONU le persone sospettate di essere coinvolte nel delitto.

La risoluzione chiede anche il congelamento dei beni finanziari ed il divieto di mettersi in viaggio per le persone sospettate che saranno indicate da una commissione ONU, guidata dal procuratore tedesco Detlev Mehlis, o dal governo libanese.

Un noto oppositore siriano, Nazar Nuoif, esiliato a Parigi, in un’intervista con il sito arabo al-Jazeera.net, attribuisce la morte di Hariri a precise ragioni. La principale è quella del “tesoro” del deposto dittatore iracheno Saddam Hussein.

Si tratterebbe di lingotti d’oro, di grandi quantità di platino e di una montagna di soldi, il cui valore ammonterebbe a tre miliardi di dollari. Tutto trafugato in Libano dal vertice dell'intelligence siriano con il benestare del dittatore prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003. “Hariri, all’epoca primo ministro - dice Nuoif - era stato informato del passaggio del denaro e minacciò di rivelare tutto agli americani”. Quei soldi furono prelevati da Ghazi Kanan, il ministro dell’Interno siriano morto suicida due settimane fa, almeno secondo la tesi ufficiale di Damasco.

Con Kanaan andò a Baghdad per prelevare il “tesoro” anche il generale Mustafa al-Tajer, allora vice-capo del servizio segreto militare, comandato dal cognato di Assad, racconta Nuiof. Il generale al-Tajer morì in seguito in circostanze misteriose.

Secondo il dissidente siriano, al-Tajer sarebbe stato ucciso e non morto per cause naturali, come fu dichiarato all'epoca da Damasco. Il regime, a suo avviso, non aveva tollerato il fatto che il generale avesse rivelato agli americani il nome di chi trasportò i soldi di Saddam e dove erano stati piazzati: nella Banca al-Madina di Beirut fallita poco dopo.

Alla domanda su chi comanda in Siria, Nuiof ha risposto, sostenendo che il regime sotto la guida del giovane Bashar Assad non abbia un unico centro di potere bensì molteplici. Uno di essi sarebbe la guardia repubblicana comandata dal fratello del “raiss”, Maher Assad, che ha definito “uno Stato nello Stato”. Poi c’e il Mukabarat, il sevizio segreto militare, guidato dal generale Asef Shawkat, cognato del presidente, il servizio segreto generale, il servizio segreto dell’aviazione e infine le diverse divisioni dell’esercito stazionate attorno alla capitale Damasco.

Quanto alla richiesta rivolta dall’amministrazione americana alla Siria di mitigare la propria linea politica, l’oppositore Nuoif è del parere che il regime di Assad potrebbe cambiare registro a patto che venga risolta la questione delle alture del Golan, occupate da Israele dal 1967.

Ma forse è troppo tardi. Dopo il rapporto di Mehlis, la situazione è divenuta più complessa: Washington non vuole parlare di processo di pace, ma di un processo penale per tutto il vertice siriano. 

 

MEDIORIENTE (2):
AMBASCIATORE ISRAELIANO FURENTE
PER VIA INTESTATA AD ARAFAT

Piccinerie di un ambasciatore. E’andato su tutte le furie l'ambasciatore d'Israele in Italia, Ehud Gol, alla notizia della decisione del consiglio comunale di Marano, in Campania, di dedicare una strada all'ex presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e premio Nobel, Yasser Arafat.

Ecco il suo commento alla notizia: “E' oltraggioso e doloroso sentire che i governanti della città dichiarino di guardare 'con rispetto e affetto' a un leader corrotto che per noi israeliani e per molti altri, compresi palestinesi, è stato causa di tanto sangue e dolore, con uccisioni di bambini, donne e anziani”.

Ci chiediamo: ma un ambasciatore non ha di meglio da fare…

 

SCHIAVITU’ CONTEMPORANEA:
UN FATTURATO DA 32 MILIARDI DI DOLLARI

Sfruttamento sessuale, lavori fozati: la schiavitù contemporanea è nel mondo un business da circa 32 miliardi di dollari l’anno, equivalente a una media di circa 13 mila dollari l’anno per ognuna delle sue vittime, che sono almeno due milioni e quattrocentomila.

Si tratta di dati contenuti in un rapporto intitolato “Alleanza globale contro il lavoro forzato” dell’International Labour Organisation (ILO).

La schiavitù contemporanea genera profitti paragonabili soltanto al traffico di armi e stupefacenti.

 

PERU’:
GUZMANN,
“SONO UN COMBATTENTE, NON UN TERRORISTA”

Sono un combattente rivoluzionario e non accetto di essere definito un terrorista”.

Questo il proclama di Abimael Guzman, il fondatore di Sendero Luminoso, che da tre settimane è alla sbarra in Perù, dove viene processato per i crimini commessi dalla sua organizzazione, accusata della morte di circa 34.500 persone delle 70mila che hanno perso la vita nella guerriglia che ha insanguinato il Paese tra il 1980 e il 2000.

Al maxi processo, iniziato nella base militare di Callao, dove Guzman, detto “presidente Gonzalo”, è detenuto dall'aprile del 1993, l’imputato si è rifiutato di rispondere alle domande.

Autodefinitosi un tempo la “quarta spada del marxismo”, dopo Marx, Lenin e Mao, il leader di Sendero Luminoso rischia l’ergastolo, chiesto dalla pubblica accusa per lui ed altri 10 leader dell'organizzazione, tra cui la sua compagna, Elena Iparraguirre, conosciuta come “la compagna Miriam”.

Catturato in un blitz della polizia nel 1992, mentre si era nascosto a casa della ballerina Maritza Garrido Lecca, che la scorsa settimana è stata condannata a 20 anni di carcere, Guzman, 71 anni il prossimo 3 dicembre, era stato già condannato all'ergastolo da un tribunale militare ai tempi del governo del presidente Alberto Fujimori. Due anni fa quel processo era stato annullato per incostituzionalità.

DOCUMENTAZIONE

 

UNA RIFLESSIONE

di Sergio Segio*

La puntata di Blu notte -Misteri italiani di domenica 2 ottobre sugli anni Settanta e la violenza politica potrebbe vantare una positiva differenza rispetto ad altri programmi che sono intervenuti sullo stesso tema: i materiali di repertorio (assai più che non le interviste, assai frammentate) e lo stesso elenco sterminato di morti dovrebbero rendere assai difficile continuare nella finzione, più o meno interessata, di considerare quegli eventi quali un fenomeno di impazzimento di massa o una manifestazione di inarrestabile pulsione criminale di qualche migliaio di giovani militanti, di destra e di sinistra.

Così pure, vedendo quella sequenza e quell’elenco è parimenti difficile continuare a sostenere che un conto erano gli anni Settanta e la violenza politica espressa (e organizzata) dai gruppi extraparlamentari e radicalmente altro ciò che è successo dopo, qualificato come terrorismo, prima solo dalle destre e poi da tutti. La continuità, ancorché pervicacemente negata e rimossa da troppi, è infatti più forte della rottura, e sarebbe miope o disonesto non riconoscerle entrambe.

Pure, e contradditoriamente, la puntata di Blu notte, nonostante l’indubbia bravura di Lucarelli e della sua redazione, ha avuto l’effetto opposto, vale a dire quello di non fare comprendere agli spettatori, specie se giovani, come si sia arrivati alla catena di morti, lasciando in definitiva del tutto impliciti questi nessi, preferendo adagiarsi o comunque scivolando nella più comoda categoria degli “opposti estremismi”, non volendo o non osando incrinare per davvero quello che efficacemente Andrea Colombo ha definito «un tabù, ormai interiorizzato quasi ovunque, che vieta di interrogarsi sulla natura della crisi italiana degli anni Settanta e costringe a leggerla come un’epopea criminale», per giunta «priva dei moventi che innescano le guerre criminali» (vedi il manifesto, 4 ottobre 2005).

Eppure, basterebbe partire da una domanda assai semplice quanto costantemente elusa: Come è cominciata? E perché? O fornire qualche cifra e sequenza cronologica, così da costringere le opinioni, i sentimenti e le letture soggettive ad ancorarsi e fare i conti con i fatti.

Lucarelli cifre ne ha date poche. Ma sarebbe stato davvero necessario, e illuminante, per gli ascoltatori della prima serata RAI sapere che dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica avvenuti sono stati a opera della destra fascista, così pure l’85% nel 1974 e il 78% nel 1975 (cfr. D. Della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna 1984; Guido Crainz, Il Paese mancato, Donzelli 2003). O, utilizzando un’altra scansione temporale e una diversa fonte, che su 4.384 attentati o atti di violenza politica avvenuti tra il 1969 e il 1975, l’83% è stato di impronta neofascista (cfr. Eversione di destra, terrorismo, stragi, a cura di Vittorio Borraccetti, Angeli 1986).

Lucarelli ha dato altri numeri, comunque significativi ma assai parziali, concentrati appunto sugli opposti estremismi e sui reciproci agguati: ha detto che 26 giovani di sinistra sono stati uccisi da militanti di destra, mentre sono stati 17 i morti di destra uccisi da militanti di sinistra; aggiungendo che complessivamente quella stagione ha prodotto 452 morti e circa 4.500 feriti.

Cifre tremende. E certo potrebbe essere avvertito come sconveniente indagarle e suddividerle, e certo sarebbe cinico tentare di scomporle al fine di ricercare giustificazioni o di ricavarne supposti torti o ragioni.

Pure, anche i numeri del sangue e del dolore vanno conosciuti e resi nel dettaglio se si vuole davvero rileggere e comprendere quella stagione.

Secondo una delle ricerche più approfondite (Vent’anni di violenza politica in Italia, 1969-1988, realizzata dall’International School on Disarmament and Reasearch on Conflicts e pubblicata nel 1992), nel periodo tra il 1° gennaio 1969 e il 31 dicembre 1987 si sono avuti in Italia 14.591 atti di violenza politicamente motivati contro persone o cose. I morti sono stati complessivamente 419 e i feriti 1.181. In parte maggiore si tratta di vittime dello stragismo (nelle otto stragi perpetrate in Italia tra il 1969 e il 1984 vi sono stati 149 morti e 688 feriti), cui occorre sommare le persone uccise dalle organizzazioni di destra e poi da quelle di sinistra e gli stessi militanti uccisi in agguati o conflitti a fuoco.

Altre fonti (La mappa perduta, ed. Sensibili alle foglie, 1994) quantificano in 128 le persone colpite mortalmente dalle organizzazioni armate di sinistra e in 68 i militanti di queste organizzazioni uccisi o deceduti, ma non sono qui ricompresi i morti “di movimento” e le vittime di scontri di piazza.

I numeri non sono tuttavia sufficienti a rispondere alla fondamentale domanda di cui sopra. Né a farci capire come sia avvenuto che «con un dilagante stupro del linguaggio, chi aveva commesso stragi o comunque coperto gli stragisti chiamava terroristi quanti spesso avevano imboccato la strada senza ritorno delle armi proprio per reazione alle bombe nelle piazze, sui treni, nelle stazioni, tra genti inermi usate come carne da macello per imporre a una generazione refrattaria ciò che oggi è norma ineluttabile».

Sono parole di una recensione dello scrittore Pino Cacucci di un bel libro dal bellissimo titolo: L’amore degli insorti, di Stefano Tassinari (la recensione, pubblicata su Liberazione del 5 ottobre 2005, è scaricabile dal sito www.micciacorta.it).

È vero - continua Cacucci - che dire, come fa il libro «i morti sono morti, i nostri e i loro, e per di più non siamo stati noi a cominciare», potrebbe «far storcere il naso a certi “irriducibili” - che hanno se stessi come unico referente - convinti che “comunque” la rivoluzione andava fatta».

E in effetti, in altre occasioni sia Adriano Sofri che Oreste Scalzone o Valerio Morucci, dalla loro diversa esperienza, coerenza e statura, hanno sostenuto che non è stata la strage di piazza Fontana a costituire l’innesco. Ma qui subentrano forse differenze anagrafiche, di sentimenti e di proponimenti, tra quanti ambivano a “prendere il potere” e coloro che si ribellavano all’ingiustizia; o, per dirla di nuovo con le acuminate e sapienti parole di Cacucci, tra i «ribelli come scintilla e scoppio di qualunque motore che tiene in movimento la democrazia» e i «rivoluzionari come futuri repressori o pentiti del proprio ardire».

Fatto sta che le memorie e le rappresentazioni di quegli anni sono spesso distanti dal vero e dal vissuto. E tanto è più potente e visibile la rappresentazione, tanto quella distanza si fa baratro.

Non sfugge a ciò il dibattito attorno all’evento cinematografico del momento, quel Romanzo criminale tratto dall’omonimo romanzo di un ottimo scrittore, il giudice Giancarlo De Cataldo, ora nelle sale e su tutti i giornali.

Se ne è discusso anche su La7, nella puntata di Otto e mezzo del 5 ottobre, assieme al regista Michele Placido. E in effetti faceva impressione vedere come dal film e dalle parole dei protagonisti (autore, regista, attori) si cercava di sfumare sino a rendere invisibile e inconsistente una lampante verità, vale a dire i legami stretti tra la banda della Magliana, di cui libro e film narrano le gesta, e la destra eversiva di quegli anni.

Una verità arcinota, sostanziata ad esempio nel sodalizio con Aldo Semerari, vero e proprio snodo con vari gruppi neofascisti dell’epoca, o nell’internità alla banda di Massimo Carminati o nelle cointeressenze con pezzi di servizi e con la P2, oltre che certificata in numerosi atti giudiziari (materiali sono reperibili sul sito www.misteriditalia.it del valido e competente giornalista Sandro Provvisionato).

E viene da chiedersi perché queste lampanti e risapute verità non si possano più dire. O che senso abbia che De Cataldo, intervistato non amichevolmente da Roberto Silvestri, le annacqui in questo modo: «potrei risponderle che le alleanze con mafia, neofascisti e servizi deviati (ma perché dimenticare certi settori della massoneria?) furono di alcuni componenti dell’“ala testaccina e non dell’intera banda» (cfr. il manifesto, 6 ottobre 2005).

Cosa significa e cosa cambia? Perché non si può parlare del “romanzo criminale” della destra, assai fondato nella realtà e bisogna invece introdurre nel film una figura inventata e irrealistica, come quella di un fantomatico personaggio con un passato nel movimento studentesco e poi trafficante d’armi in Africa? Leggi e interessi della produzione (anche nel cinema, come nella politica e in ogni sfera dell’umano e ogni parte del globo domina suprema l’economia) o segno dei tempi? O forse solo il portato lungo e indelebile di una sconfitta. O magari perché bisogna occultare del tutto e per sempre quanto scrive Tassinari nel suo libro: «la certezza che si possa sbagliare dalla parte giusta», vale a dire il rifiutarsi di assumere tutte le colpe e le nefandezze del secolo scorso o di validare il sillogismo per il quale siccome i movimenti e la sinistra hanno perso ciò significa che loro, gli altri, avessero e abbiano ragione.

Certo oggi la sinistra è qualcosa di irriconoscibile se guardata con lenti di quegli anni. Quella nuova, giovane e più radicale, decisamente analfabeta al riguardo (basti leggere certi messaggi - al più entusiasti della puntata di Blu notte - su indymedia, che nonostante permanga come luogo virtuale utile perché libero, troppo spesso ricorda “radio parolaccia”, il microfono aperto sperimentato da radio radicale che rivelò il grumo inacidito e un po’ schifoso di culture, istinti e sentimenti che alberga nell’ombra e negli anfratti del popolo di destra e di quello di sinistra).

E quella meno nuova, e anzi antica, quella intellettuale e quella istituzionale non di rado adagiatesi o trovatesi comunque prigioniere della subalternità della politica alla magistratura.

E proprio di questo parla Luciano Violante in una lettera a La Repubblica del 6 ottobre, rispondendo all’ex procuratore capo Saverio Borrelli: «la subalternità del sistema politico alla magistratura e l’anomalia del rapporto tra opinione pubblica e processi». Peccato che queste patologie vengano dal capogruppo DS riferite solo agli anni di Tangentopoli, successivi al 1992, quand’invece il vulnus e il disequilibrio tra poteri, le patologie del rapporto tra applausi e processi e della figura del “magistrato combattente” e le apologie delle manette (chi si ricorda l’allora segretario del PSDI affermare, dopo le torture su Br arrestati a Padova, che anche lui avrebbe volentieri partecipato al pestaggio assieme ai NOCS?) origina dall’emergenza antiterrorismo degli anni Settanta.

Violante conclude la sua lettera con queste parole: «Occorrerebbe che tutti i protagonisti avessero il coraggio di riflessioni aperte e franche, anche se inevitabilmente dure, su tutti quegli anni. Senza negazionismi e senza giustificazionismi. Altrimenti sarà difficile liberare il presente e il futuro dalle ombre del passato».

Parole del tutto sottoscrivibili, solo se fossero coerentemente estese alle ferite degli anni Settanta. Che continuano a sanguinare e a dividere anche in conseguenza delle amnesie interessate di molti e della pesante cappa stesa dai mezzi di informazione. E su questo si veda un altro piccolo frammento di verità nascoste e distorte, che risalgono al 12 dicembre del 1969, raccontato sul suo blog dal giornalista dell’Espresso, Pino Nicotri (anche questo testo è reperibile su www.micciacorta.it) e che chiamano in causa per omissione il programma di Lucarelli e quello di Minoli.

Allora si capisce meglio il commento un po’ amaro di Silvestri a proposito di Romanzo criminale: «Siamo convinti che il film non restituisce il senso in più di quegli anni, semmai si irrigidisce, come molto cinema civile all’italiana, in un senso unico, consentito dalla legge».

Ma la posta in gioco non è tanto il personaggio inventato del film, quel Carenza con un passato nel movimento studentesco. È ben altro, e ben di più. È l’onore e la memoria autentica di una parte consistente della mia generazione, che accettando di allontanare da sé come incomprensibile, aliena e criminale la peggio gioventù - per usare il titolo di un altro libro in argomento - accettandone anche l’eterna dannazione, non si è resa conto di recidere assieme e di rendere impronunciabile quel pezzo di senso e di verità del quale ora ci si sente menomati.

 

* Sergio Segio, ex militante e dirigente di Pima Linea, svolge attualmente lavoro nel sociale. Di recente è uscito un suo libro, Miccia corta, dedicato ad u episodio della lotta rmata.

 

CABARDINO-BALKARIA:
NUOVO FRONTE DELLA POLVERIERA CAUCASO

Nella polveriera nord-caucasica, da due anni la Cabardino-Balkaria si è aggiunta alla lista delle zone ad alto potenziale di esplosione.

A maggioranza musulmana, come quasi tutte le repubbliche del Caucaso russo (eccetto l'Ossezia del Nord, teatro della terribile strage di Beslan, nel settembre 2004), la Cabardino-Balkaria è attraversata da crescenti tensioni, inevitabilmente legate al conflitto ceceno, oltre che al complicato mosaico di interessi e conflitti di potere.

Il tutto, sullo sfondo di una storica opposizione tra cabardino e balcari. I cabardini sono etnicamente affini ai circassi - che, decimati al tempo degli zar, mantengono qui la loro più grande comunità, circa 400.000 unità - e rappresentano il 43% della popolazione. Parlano una lingua caucasica.

I balkari controllano una parte minore del già piccolo territorio, e costituiscono l'8% della popolazione. La loro lingua è di ceppo turco.

Complessivamente, compresa un'ampia percentuale (circa 30%) di russi, su questo fazzoletto di terra caucasica vivono 900.000 persone. Sempre meno in pace tra loro.

Gli attacchi avvenuti alle forze di sicurezza a Nalchik non sono una novità. Un anno fa nella regione è comparso un gruppo armato - lo Yarmuk - che ha esordito con un assalto ad una sede della polizia anti-droga, dove hanno ucciso quattro agenti e sottratto una notevole quantità di armi. Uno scenario in qualche modo simile a quello recente: tra gli obiettivi del commando entrato in azione c'era un negozio di armi.

Il gruppo Yarmuk (fiume che sfocia nel Giordano) prometteva allora la guerra santa contro le autorità locali, dichiarate corrotte, inette e fautrici di una violenta politica di repressione nei confronti dell'islam.

In effetti la zona è terra di caccia dei cosiddetti wahabiti, termine che in Cecenia significa terroristi islamici senza molte sfumature, mentre nelle regioni circostanti ha maggiore valenza religiosa. L'islam radicale prende piede sullo sfondo di una situazione sociale ed economica molto degradata, diventa poi motivo di repressione e si alimenta così un circolo di violenze sempre più ampio.

Nell'estate 2003, in Cabardino-Balkaria ci fu una serie di blitz della polizia e delle forze di sicurezza  contro gruppi considerati estremisti. Furono chiuse molte moschee e luoghi di ritrovo. A scatenare la repressione, la risposta armata di un gruppo di ribelli all'arrivo di agenti inviati a verificare le voci della presenza di Shamil Basaev nella regione.  Come sempre a queste latitudini, il conflitto ceceno è dietro l'angolo, e muove trame poi poco controllabili.

 

 

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