LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA

Anno 6 - n. 98 (speciale Iraq/Sgrena/Calipari)   11 marzo 2005

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LA LIBERAZIONE E LA MORTE
Quanti angoli oscuri
nella liberazione di Giuliana Sgrena
e nella morte di Nicola Calipari

Io ho perso un amico
di Sandro Provvisionato

Ancora un mistero

No, non è stata colpa dell'inesperienza
di Carlo Bifani

Incidente o agguato?

Il quarto uomo
di Stefania Limiti

Il metodo italiano...e quello americano

Il rientro precipitoso

 

IO HO PERSO UN AMICO

di Sandro Provvisionato

Di Nicola Calipari è stato scritto molto, moltissimo. La retorica ormai inevitabile, in questo Paese senza più certezze, non è riuscita ad evitare un termine ormai tristemente inflazionato: EROE.

Chiunque muoia in circostanze drammatiche, come per incanto, diventa un eroe: un poliziotto durante una rapina, una vittima della mafia o del terrorismo, un ostaggio caduto nelle mani più insaguinate.

Io non so se Nicola (permettetemi di chiamarlo così, perché lo conoscevo da tempo) sia stato un eroe. So solo che è morta una delle persone più belle che abbia mai conosciuto nella mia lunga carriera di giornalista. Un uomo semplice, schivo, che non amava i riflettori, ma soprattutto un uomo competente che adorava il suo lavoro.

Conobbi Nicola all'inizio del 2000 quando era al vertice dello SCO, Il servizio centrale operativo della polizia. Dopo la guerra del Kosovo, la "guerra umanitaria" ella NATO scatenata - con il pieno avallo del governo di centro-sinistra, guidato da Massimo D'Alema - per "liberare" la provincia serba, oggi finita nelle mani di un criminale di guerra, grande trafficante di droga, avevo deciso di scrivere un libro che però non raccontasse la mia esperienza di inviato di guerra, ma la realtà di un paese vocato a diventare uno narcostato, una Colombia infilata come un cuneo nei Balcani.

La storia di questi anni sembra aver dato ragione a quel libro (uscì sempre nel 2000 con il titolo: UCK, l'armata dell'ombra. Una guerra tra mafia, politica e terrorismo). E Nicola in quel libro ebbe un ruolo determinante: non volle essere citato, Nicola, ma tutte o quasi le notizie sui narcotrafficanti albanesi del Kosovo vennero da lui, da Nicola che proprio sulle filiere del traffico della droga era un vero esperto.

Tovai in lui sensibilità e competenza, ma soprattutto una grande diponibilità a ragionare.

Alla mia domanda: perché la NATO ha fatto una guerra per questa banda di criminali e trafficanti che è l'UCK? Lui mi rispose: "Me lo sto chiedendo dall'inizio della guerra".

Il nostro rapporto è continuato negli anni. Nei momenti di dubbio su fatti che via via accadevano lo chiamavo. E lui aveva sempre un modo di interpretare gli avvenimenti originale ed intelligente, mai banale, mai scontato. Sapeva analizzare gli accadimenti con una lucidità che legava un fatto ad un altro, fino a tessere una tela degna del migliore di quelli che oggi è di moda chiamare con disprezzo "dietrologi".

Scherzavamo spesso su questo termine. Gli dicevo: "Lo dicono a me, ma guarda che il vero dietrologo sei tu...". Lui rideva e ripeteva sempre: "Ma se non vai dietro a quello che succede hai solo una visione frontale che ti dà solo un'immagine parziale della realtà".

Lo avevo sentito un paio di settimane prima della sua morte. Gli avevo esposto dubbi su un'operazione condotta lo scorso anno dal SISMI (e quindi da lui) in Libano: un attentato sventato all'ambasciata italiana di Beirut con l'appoggio dei servizi segreti siriani (vedi la Newsletter n.93). Si era un po' innervosito della mia insinuazione, ma poi, come sempre, aveva riso e mi aveva detto: "Lo sai che il dubbio che i siriani ci abbiano tirato un bidone è venuto anche me...".  

Ci eravamo ripromessi di vederci per parlarne meglio. Non c'è stato tempo.

Ciao, Nicola.

ANCORA UN MISTERO

Spiace dirlo, ma anche l'assassinio di Nicola Calipari resterà un mistero.

Potete scommetterci, la commissione d'inchiesta italo-americana ha già la conclusione in tasca: incidente.

Al massimo volerà qualche straccio: forse, ma non ce da crederci troppo, un soldato ragazzino americano, intontito dal sonno o dai troppi spinelli fumati, forse impaurito dal rombo di un motore nella notte, che ha aperto il fuoco con troppa fretta.

Ma purtroppo, nella ricostruzione dei fatti, gli americani vorranno senz'altro inserire un elemento a nostro carico: incidente sì, imperizia pure da parte di noi yankee pistoleri, ma anche voi, benedetti italiani, avete fatto le cose con troppa imperizia. Ma si va in giro di notte, su un'auto qualsiasi, senza neanche uno straccio di contrassegno?

E vedrete che qualcuno, larvatamente, subdolamente, cercherà di infilarci il dubbio che se quell'operazione fosse stata condotta non da un civile (Calipari era un poliziotto), ma da un militare...chissà, forse non sarebbe andata così.

Nessun processo, nessuna vera inchiesta giudiziaria, nessun dibattimento in aula. Il pm  Franco Ionta sa benissimo di avere le mani legate. Basta ricordare la tragedia del Cermis per capire che mai e poi mai gli americani ci permetteranno di processare uno di loro, specie se militare.

Calerà il sipario anche su questa morte straziante.

Ma gli interrogativi che poniamo a seguire resteranno tutti tali.

Mai smettere di elencari, di trovare loro una risposta, questo sì sarebbe davvero criminale.

NO, NON E' STATA COLPA DELL'INESPERIENZA

di Carlo Bifani*

Chiunque sia mai stato in vita sua impegnato in attività a rischio, nelle quali il pericolo che possa succedere l'irreparabile è parte integrante del lavoro che si svolge, sa che non è mai finita fintanto che non è finita.

La grande quantità di valutazioni, di considerazioni non sempre corrispondenti a verità che stanno accumulandosi sui media in merito a quanto accaduto nelle fasi immediatamente successive alla liberazione della giornalista del Manifesto, ha motivato la realizzazione di questa paginetta, nella quale cercherò di raccontare per quel poco di esperienza professionale che posseggo, quale sia la mia opinione in merito agli accadimenti.

Proviamo allora a partire da quello che sappiamo.

-   Nella operazione di rilascio dell'ostaggio e di esfiltrazione del medesimo e del personale operativo impegnato, erano coinvolti i migliori elementi di cui la nostra intelligence disponga.

-   II gruppo viaggiava su una Toyota Corolla, in allestimento standard.

-   II gruppo si muoveva su una ruotabile fra le più pericolose dell'area.

- L'autovettura è stata fatta oggetto di azione di fuoco da parte di personale militare americano.

Ai miei occhi appare quantomeno avventata, l'ipotesi di poter da qui, fornire interpretazioni e suggerimenti in ordine alle scelte tattiche da attuare in alternativa a quelle messe in essere dal Responsabile della missione, che come più volte sottolineato, era persona competente, esperta, ed aveva la capacità ed il potere per scegliere la migliore delle opzioni possibili.

Per quanto riguarda la scelta dell'autovettura, si può solo aggiungere a quanto già detto, che se questa fosse caduta su di un mezzo dotato di un coefficiente di blindatura adeguato (B5 o categorie superiori) reperirne una avrebbe significato attingere dal parco macchine della nostra Ambasciata, coinvolgendo di fatto l'apparato di sicurezza della medesima, che evidentemente doveva essere tenuto al di fuori della fase di cui stiamo parlando.

Va anche detto che, nel caso in cui il fuoco cui è stata sottoposta l'autovettura fosse stato effettuato con l'arma di reparto (calibro 12,7) di cui è dotato il mezzo blindato americano coinvolto nei fatti, a ben poco sarebbe servita la blindatura.

La strada che collega la capitale all'aeroporto è la più pericolosa nell'area in oggetto e questo per l'orografia della zona circostante, perché è difficilissimo se non impossibile mantenere sterile il territorio in prossimità della stessa, per il semplice fatto che non è possibile impedire che si inseriscano lungo il percorso autovetture preparate per esplodere ad uno dei posti di controllo. Questo, insieme al discutibile grado di preparazione di parte del personale militare statunitense impiegato, spiega a mio modo di vedere perché si può essere verificato l'incidente.

Ci si è chiesti come mai il dott. Calipari, non avesse predisposto l'effettuazione dell'ultima parte del trasferimento in convoglio, mettendosi così al riparo da sorprese come quella purtroppo capitatagli e rendendo più evidente l'appartenenza dei mezzi in movimento ad un gruppo della Coalizione. Per rispondere forse a questa domanda, proviamo a capire di cosa è fatto il lavoro che svolgono gli operatori dei servizi in zona d'operazioni.

Quel lavoro è fatto di attese, di appuntamenti rimandati, di giri a vuoto, di spostamenti nei quali si è sottoposti a sorveglianza e di fasi nelle quali si può solo sottostare alle volontà di chi genera le regole del gioco.

Cosa avrebbe dovuto fare il personale impiegato? Chiedere al convoglio di seguirli a debita distanza a mo' di carovana, fintanto che non avessero ottenuto il rilascio dell'ostaggio? E se questo è poi avvenuto in prossimità della strada che collega all'aeroporto, avrebbero forse dovuto attendere lungo il percorso, di notte, in area non protetta, l'arrivo dei mezzi blindati dell'ambasciata?

Appare evidente, a mio giudizio, come solo l'essere sul posto ed il conoscere ogni aspetto della vicenda ci autorizzerebbe ad esprimere valutazioni e giudizi degni di nota.

Credo che la cosa peggiore sia quella di aver perso un uomo ed un professionista come il dott. Calipari, che immagino fosse felice, ma consapevole del fatto che nonostante stessero tutti tornando a casa, niente è davvero finito fintanto che non lo è.

* Amministratore Start sicurezza - www.startsicurezza.com

INCIDENTE O AGGUATO?

Sono decisamente pochi e frammentari gli elementi che ci portano a propendere per l'incidente in cui è rimasta coinvolta l'auto a bordo della quale viaggiavano i tre (quattro?) passeggeri della Toyota oppure per l'agguato scientemente studiato.

TESI DELL'INCIDENTE

E' quella più facile. Ma anche la più semplicistica.

Depongono a favore di questa tesi gli inumerevoli casi di civili ammazzati ai check point americani.

Sindrome dello sceriffo? E' possibile. In fondo è la cultura di cui è impregnato tutto l'esercito americano. Una cultura assai diffusa anche nella società dell'America più profonda abituata a comprare e detenere armi con grande facilità.

Resta da chiedersi come sia possibile voler costruire un pianeta su misura americana e non riuscire a gestire neppure un posto di blocco. Ma si tratta, comunque, di elementi di sostegno a questa tesi del tutto teorici.

L'unico elemento concreto a sostegno dell'incidente, del "fuoco amico", potrebbe essere il "non elevato" volume di fuoco che ha investito l'auto, una decina di colpi in tutto, forse anche meno (otto). Ma, come vedremo, anche questo concreto elemento di sostegno è molto debole.

TESI DELL'AGGUATO

I dati che possono supportare questa seconda tesi sono invece molto più sostanziosi.

Innanzitutto le motivazoni per così dire "politiche", che sono lampanti, molto più evidenti di quelle a sostegno dell'incidente.

Le evidenziamo più avanti, nel capitolo IL METODO ITALANO...E QUELLO AMERICANO.

Ci sono poi gli elementi concreti:

-       dall'analisi sommaria della Toyota e dalle foto che sono arrivate in Italia (dono degli israeliani al Tg1) si deduce che i colpi non erano indirizzati sulle gomme dell'auto o sul motore, obiettivi richiesti da qualsiasi regola d'ingaggio di militari in pattuglia o fermi ad un chek point.  I proiettili sono inidirizzati verso la parte posteriore dell'auto (dove sedevano la Sgrena e Calipari), alcuni hanno perforato il vetro del finestrino del passeggero seduto davanti (il quarto uomo), nessuno era indirizzato verso il guidatore, terzo obiettivo, dopo le gomme ed il motore, se lo scopo è quello di fermare un'auto in corsa.

-       l'auto non verrà consegnata alle autorità giudiziarie italiane, ma verrà "custodita" dagli americani nella loro base adiacente all'aeroporto.

-       anche il telefono satellitare non sarà consegnato, almeno per ora, dagli americani alla magistratura italiana. Sarà analizzato, forse allo scopo di trarre indicazioni sulle comunicazioni intercorse tra gli agenti del SISMI e i rapitori della Sgrena.

-       Con ogni probabilità manca all'appello un altro telefono satellitare.

-       I posti diblocco: in una delle sue prime dichiarazioni, poi sfumate, la Sgrena ha parlato di almeno tre posti di blocco americani attraversati senza incontrare problemi. E' noto che i militari dai vari check point lungo una stessa strada comunicano tra di loro. Come mai la comunicazione che una Toyota stava viaggiando verso l'aeroporto non è arrivata al blindato killer?

IL QUARTO UOMO                

di Stefania Limiti

Fonti parlamentari confermano che c'era un quarto uomo lungo la strada dell'aeroporto per Bagdad da dove Giuliana Sgrena avrebbe raggiunto di nuovo l'Italia: era un iracheno di cui è "necessario tutelare l'incolumità".

Fino a qui nulla di straordinario: ciò che resta davvero incomprensibile è il rapido tentativo di cancellarne l'esistenza, attuato già a pochissime ore dalla sparatoria che ha colpito a morte Nicola Calipari.

Nella primissima ricostruzione dei fatti lo stesso presidente del Consiglio ha parlato pubblicamente di "Alcuni colpi che hanno raggiunto la macchina e il dirigente di polizia, accompagnato da altri due funzionari" (oltre alla giornalista liberata. Si sa anche che tra i funzionari del Sismi c'era il maggiore Corsaro, ex componente del Ros dei carabinieri ed ex collaboratore del capitano Ultimo.

Il Corsaro è sceso silenziosamente dall'aereo giunto a Ciampino è stato medicato al Celio per una scheggia che gli ha colpito un piede e poi è di nuovo silenziosamente sparito.

L'ultima versione dello stesso Berlusconi, resa nota durante il suo intervento in Senato il 9 di marzo, sostiene che il quarto uomo era un ufficiale di collegamento italiano rimasto all'aeroporto di Baghdad....

L'agenzia ANSA ha riferito i fatti sulla base del racconto di "fonti qualificate" le quali hanno subito confermato che "la sparatoria in cui è rimasto ucciso Calipari e' avvenuta lungo la strada per l'aeroporto" percorsa "da un convoglio di auto - tra cui quella con a bordo la Sgrena appena liberata" - dunque non c'era una sola auto (versione coincidente anche con le notizie diffuse dalla stessa Agenzia da Beirut).

Nella sparatoria, costata la vita a Calipari, oltre alla Sgrena - subito ricoverata nel vicino ospedale americano – sono rimasti feriti anche gli altri due agenti che erano nell'auto con a bordo l'inviata del Manifesto".

Riferisce sempre l'ANSA che uno dei due agenti del Sismi rimasti feriti nella sparatoria di Baghdad è ''in condizioni serie. L'uomo è stato ferito da un colpo di arma da fuoco ad un polmone ed è stato sottoposto ad un intervento chirurgico nell'ospedale militare americano".

Non basta: i pm Franco Ionta e Piero Saviotti, del pool antiterrorismo della capitale, hanno subito fatto sapere di voler sentire, nell'ambito dell'inchiesta aperta per l'omicidio di Calipari, oltre a Giuliana Sgrena, anche "i due funzionari del Sismi feriti durante la sparatoria al check point, non appena sarà possibile riportarli in Italia". (L' indagine della Procura di Roma si è presentata subito estremamente complessa visto il teatro dove è avvenuta la sparatoria è una zona di guerra e tutto deve perciò essere subordinato ad una eventuale rogatoria internazionale nei confronti degli USA).

Del resto, il primo rapporto della Digos consegnato alla Procura di Roma, ricostruendo la sparatoria, parla di una quarta persona e il 9 marzo si è appreso che l'esistenza di un presunto quarto uomo nell' auto presa di mira dai militari USA a Baghdad con a bordo Nicola Calipari, Giuliana Sgrena ed un funzionario del Sismi sarà approfondita dai pm che indagano sulla sparatoria avvenuta il 4 marzo scorso.

E ancora: durante il dibattito alla Camera, il ministro degli Esteri Gianfranco Fini ha esplicitamente  smentito (tanto che molti hanno subito tradotto la sua affermazione come una ammissione) l'esistenza del quarto uomo: "Non c'è nessun mistero circa la presenza di un ''quarto uomo'' nell'autovettura che trasportava la giornalista appena liberata e i due agenti del Sismi, tra cui Calipari, verso l'aeroporto".

Fini lo ha detto rivolgendosi direttamente ad un parlamentare verde, Paolo Cento, il quale gli aveva chiesto risposte chiare sulla sorte della persona gravemente ferita e subito trasportata all'ospedale militare del comando statunitense.

''È vero - ha spiegato ancora Fini - che, nelle ore concitate, tragiche, immediatamente successive alla sparatoria che ha portato alla morte di Calipari, vi è stata confusione; è altrettanto vero che fin dalle ore 24,05, quindi nella mezzanotte tra venerdì e sabato, Palazzo Chigi precisava (nella nota di Palazzo Chigi, diffusa dopo l'incontro tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e l'ambasciatore americano Mel Sembler): "Oltre alla morte di Nicola Calipari e al ferimento di Giuliana Sgrena, il fuoco dei militari americani al check point sulla strada dell'aeroporto di Baghdad ha provocato il ferimento di una sola altra persona". Quella immediata, troppo repentina, versione dei fatti di cui dicevamo all'inizio.

Il ministro Fini nel suo intervento alla Camera ha chiaramente premesso che saranno tutelati i cittadini iracheni che hanno collaborato con le autorità italiane: a questo punto si pone tuttavia un altro problema. E' noto che la rete informativa italiana sia basata sul ruolo di molti iracheni (tanto che lo scorso settembre in occasione della audizione davanti al Comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti (COPACO) il direttore del SISMI, Nicolò Pollari aveva detto che dalla primavera di quest'anno nessun agente segreto italiano è presente in Iraq spiegando che i nostri 007 hanno lasciato il paese per motivi di sicurezza. Vedi Newsletter n. 91): tuttavia, se davvero un informatore, o un agente operativo, iracheno è ora nelle mani del comando USA, l'Italia dovrebbe pretendere di poterne garantire direttamente la sicurezza, anziché lasciarlo al suo destino.

Visto che le smentite assomigliano più a delle conferme, delle due, l'una: o il mistero del "quarto uomo"  è legato al suo nome e cognome, magari quello di una persona di spicco che l'Italia intendeva tutelare (forse come conseguenza delle trattative per la liberazione di Giuliana Sgrena) oppure l'autonomia dell'Italia in Iraq, quella rivendicata da un uomo come Nicola Calipari, è definitivamente morta e sepolta.

IL METODO ITALIANO...E QUELLO AMERICANO

C'è un'ipocrisia tutta italiana alla base di questa triste vicenda.

L'ipocrisia è quella di avere una legge sbagliata, scioccamente severa e inflessibile sul reato di sequestro di persona, una legge che ormai da anni viene regolarmente violata e tutti fanno finta di niente. Ipocritamente, appunto. 

La legge italiana, infatti, considera il sequestro di persona non come un reato contro la persona, appunto, ma come un reato contro il patrimonio. Da qui il divieto di pagare riscatti ai sequestratori, fino al congelamento dei beni dei familiari della persona sequestrata. 

Quindi pagare il riscatto di un sequestro in Italia è un reato, punibie anche se commesso all'estero.

Eppure si sa che il SISMI (così come il SISDE, ricordate lo scandalo dei fondi neri di questo servizio scoperto nel 1992?) disponendo di bilanci segreti e non documentabili, dispongono anche di depositi occulti.

Con il fenomeno dei sequestri di cittadini italiani in Iraq, il governo italiano ha dato vita ad una macchina identica a quella con cui, un decennio fa, venivano risolti i rapimenti in Sardegna e in Calabria, gestendo cioè, illegalmente, i soldi dei servizi segreti.

Perché tanto rigore nella legge, se a violarla, per primo, è il governo italiano? Non sarebbe meglio togliersi la maschera dell'ipocrisia e pagare i riscatti alla luce del sole?

Perché continuare a dichiarare (a destra, al centro, a sinistra) "con i criminali (o i terroristi) non si tratta!!!" e poi trattare a tutto spiano fino a pagare?  Perché continuare a non avere il coraggio delle proprie azioni?

Il metodo americano è invece l'esatto contrario. La fermezza è fermezza. Punto e basta. Per i pochi ostaggi americani rapiti in Iraq (Nicolas Berg su tutti) il governo americano non ha mosso un dito. L'unica possoibilità di intervento, per gli americani, è il blitz, l'assalto armato.

Noi, convinti che la vita umana non abbia prezzo, preferiamo il metodo italiano. Ma senza vergognarcene. Senza ipocrisia.

Da qui nasce lo scontro (a fuoco) in cui è caduto Nicola Calipari.

Per gli americani è insopportabile che un paese alleato, pagando riscatti (è stato così per i Agliana, Stefio e Cupertino, così per le due Simone, così per la Sgrena, sarebbe certamente stato così anche per Baldoni) finanzi la resistenza irachena.

E allora il governo italiano agisce di nascosto. Anche agli occhi degli americani. I quali hanno inscenato il finto blitz per la liberazione dei tre body guard italiani e dell'industriale polacco, tanto per salvare la faccia. I quali hanno fatto finta che la liberazione delle due Simone fosse frutto dell'intervento umanitario della croce rossa italiana (che a differenza delle altre croce rosse dei paesi europei, però, è di nomina governativa).

Il modo in cui si è conclusa la vicenda Sgrena, comunque lo si voglia intendere, agguato o incidente, mostra un'inversione di tendenza della tolleranza americana che d'ora in avanti sarà uguale a zero.

Il messaggio è arrivato forte e chiaro al governo italiano da parte di quello americano.

D'ora in avanti non ci sarà alcuna trattativa segreta, alcuna azione coperta italiana per la liberazione di altri, eventuali, ostaggi in Iraq.

Questa è l'unica certezza che possiamo cogliere da questa storia orribile.

IL RIENTRO PRECIPITOSO

Parte di quanto abbiamo scritto fin qui spiega il perché del precipitoso rientro in Italia della missione che aveva liberato la Sgrena. Una missione sicuramente a quattro e non a tre: l'ostaggio, il capo missione Calipari, il carabiniere "Corsaro", alias Andrea e un mediatore iracheno, ora forse morto, forse nelle mani degli americani.

E' evidente che la giornalista del Manifesto non doveva essere mostrata agli americani o peggio, interrogata. Gli americani non dovevano sapere del riscatto.

Ma è evidente anche che il governo voleva sfruttare appieno la brillante conclusione della vicenda per raccogliere ottimi risultati d'immagine. Anche perché, come per  la liberazione di Agliana, Stefio e Cupertino, avvenuto alla vigilia delle elezioni europee, la liberazione della Sgrena è avvenuta a ridosso delle imminenti elezioni regionali.

L'annuncio della liberazione di Giuliana Sgrena doveva apparire sui telegiornali dell'ora di  cena e sui giornali dell'indomani.

Una sosta notturna in ambasciata avrebbe sortito un effetto di diluizione e l'impatto mediatico ne sarebbe uscito certamente indebolito.

Di fronte a queste due "clausole", siamo certi che Nicola Calipari non fosse nelle condizioni di decidere un  programma diverso di quello terminato con la sua morte.

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