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Anno 6 - n. 100    18 maggio 2005

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IN QUESTO NUMERO:

OMICIDIO CALIPARI:
UNA TRAGEDIA FINITA NEL RIDICOLO

di ENZO ALBANO

Il Dipartimento di Stato americano ha chiuso la sua inchiesta sulla morte di Nicola Calipari ed il ferimento di Giuliana Sgrena.

La conclusione è semplice e lapidaria (involontario umorismo nero): Nicola Calipari si è suicidato.

Le indagini degli 007 americani non lasciano dubbi. Calipari attraversava una pesante e devastante crisi depressiva a causa degli ultimi insuccessi professionali (la liberazione delle due Simone) e della scelta italiana di pagare i riscatti per i sequestrati. Non avendo il coraggio di togliersi la vita da solo, ha predisposto un piano accurato per il raggiungimento di tale scopo. Ha fatto trapelare agli americani la notizia del pagamento del riscatto, li ha avvisati che Giuliana Sgrena era una comunista, amica dei terroristi, ha scelto un autista tra i più veloci e una strada per l’aereoporto sicuramente presidiata da posti di blocco, non ha acceso le luci all’interno dell’auto, ha comandato all’autista di spingere l’auto a tavoletta e di non fermarsi quando gli americani al posto di blocco hanno acceso i fari.

Il capolavoro è, però, arrivato alla fine. Mentre gli americani sparavano, si è chinato a proteggere il corpo della Sgrena, non per un eroico atto di generosità, ma per il suo “male oscuro”, per la sua ricerca di morte ad ogni costo.

In verità vi è molto poco da scherzare. Il problema è che questa non è una fiction, non è un thriller con risvolti psicoanalitici, ma una vicenda che ha condotto alla morte una persona perbene, un uomo coraggioso, un funzionario fedele, un eroe del nostro tempo. Nicola Calipari è stato ucciso, come sa tutto il mondo, dal “fuoco amico” degli americani e, come tutto il mondo prevedeva, gli americani si sono autoassolti da questo ennesimo crimine, uccidendo nuovamente Calipari. Come si sono autoassolti dalle torture del carcere di Abu Ghraib.

In verità la motivazione di questa assoluzione era stata molto più semplice: le torture non si possono infliggere agli esseri umani e quando mai gli iracheni sono stati considerati essere umani? Come si erano autoassolti dalla strage del Cermis: un’allegra brigata di buontemponi, di top guns che si divertiva a giocare per i cieli italiani, abusivamente occupati da una stupida teleferica. Come…, ma l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Possiamo sintetizzare: l’Impero non processa e non permette che vengano processati i suoi funzionari, l’eccezione è la regola (non l’aveva già teorizzato Carl Schmitt, che lo stato di eccezione è il vero attributo della sovranità?), non vi sono corti internazionali che tengano, non vi è diritto internazionale, non vi è diritto. I tratti salienti dell’Impero sono, in fondo, assai semplici e di immediata comprensione: guerra preventiva e permanente all’esterno per gli stati da lui definiti “canaglia”, tolleranza zero per i marginali all’interno.

Una bella prova tecnica di questa ultima squisitezza teorica è stata l’arresto in manette di una bambina di cinque anni. Una vera incorreggibile discola. Piccoli terroristi crescono. Educhiamoli da piccoli. Soprattutto se sono neri. Diciamo le cose come stanno, quelle scene trasmesse in televisione di questa piccola, simpatica monella sono un’autentica vergogna civile. Una indegnità, degna del Paese che esporta democrazia con le bombe, che rielegge per un ulteriore mandato un presidente ed un governo, diretta filiazione di una multinazionale del petrolio.

Torniamo, però, all’inizio ed allo strappo che il nostro governo, in empito inedito di autonomia, ha operato nei confronti dell’ “amico americano”. Il governo italiano ed il dipartimento di stato Usa hanno sancito la rottura e la mancanza di accordo nella commissione mista incaricata delle indagini sulla morte di Calipari: «Impossibile una conclusione finale condivisa». Gli americani, cioè, hanno ribadito che i loro soldati non hanno alcuna colpa, che i comandi Usa non hanno alcuna responsabilità; gli italiani difendono l’operato di Calipari e del SISMI, sposano le testimonianze della Sgrena e dell’agente alla guida della Toyota colpita. Due verità opposte, si è detto. Ma quando mai! La verità è una sola e di una evidenza palmare che solo il cinismo e la spocchia degli americani hanno il coraggio di negare. Non era la responsabilità che si doveva accertare, ma esclusivamente se si fosse trattato di un tragico errore o di un vero e proprio agguato.

Lo schiaffo all’Italia ed al suo governo è stato violento e trucido. Il barlume di autonomia si è presto spento. «Per i valori comuni restiamo in guerra in Iraq», ha assicurato il nostro ministero degli Esteri. L’alleanza (la sudditanza?), cioè, non si discute. «La guerra continua a fianco dell’alleato tedesco», pardon, americano. E Calipari muore ancora.

Fonte: la Voce della Campania, maggio 2005

OMICIDIO CALIPARI (2):
DA RIPENSARE SONO
I SERVIZI SEGRETI MILITARI

di CARLO BIFFANI

Cosa leggere dietro all’apparente muro contro muro espresso dalle “due commissioni congiunte” incaricate di indagare sulla morte del dott. Nicola Calipari?

Intanto, come già detto da parte di referenziati e profondi conoscitori del mondo militare in generale e dei meccanismi che regolano i comportamenti di quello americano in particolare, era da ingenui ed incompetenti immaginare che gli alti comandi statunitensi accettassero non di consegnare alla nostra giustizia gli autori del misfatto, cosa che sappiamo bene non essere prevista dalla loro normativa (per i soldati americani solo tribunali americani), ma che condividessero conclusioni che facessero apparire come censurabile il comportamento della loro pattuglia.

Chi fra i loro soldati, si sentirebbe garantito andando a combattere la guerra globale contro il terrorismo, se corresse il rischio di venire indicato come l’autore di un assassinio, qualora commettesse un errore in uno dei posti dove tale guerra si guerreggia?

La realtà è che non ci diranno mai chi è stato a sparare, come mai sapremo davvero se il conducente dell’autovettura viaggiava come riportato dai giornali ai famosi quarantaallora. Personalmente sono orientato a non prendere come totalmente veritiera l’idea di una autovettura, i cui occupanti siano ad un soffio dalla salvezza, che si muova nel rispetto dei limiti imposti dal nostro codice stradale nel centro abitato di una nostra metropoli.

L’esperienza fatta in posti come quello in oggetto ed in altri simili, mi rende abbastanza certo del fatto che l’autovettura, della quale aveva il comando il dott. Calipari, non potesse muoversi a velocità folle come neppure ad una da passeggio.

D'altronde, tanto per continuare con le cose a cui non ho mai creduto, in tempi non sospetti avevo già espresso dubbi sulla possibilità che l’autovettura fosse stata fatta oggetto di “centinaia di colpi” od avesse dovuto sopportare una “pioggia di fuoco con centinaia di bossoli (?) finiti sui sedili” come raccontato dalla giornalista tratta in salvo.

Esistono delle discrepanze notevoli fra quanto riportato dagli uni e dagli altri e se è vero che è umanamente accettabile considerare la verità come qualcosa che stia nel mezzo fra le due versioni, è allora ipotizzabile che da un lato la macchina non andasse poi così piano e che dall’altro ci sia stata quasi contemporaneità fra l’accensione del faro e l’inizio dell’azione di fuoco.

Per quanto consta poi l’aspetto legato ai colpi di avvertimento da indirizzare sul vano motore, non mi sento di escludere che qualcuno possa esserci anche finito, ma sfido chiunque sia fornito di un addestramento minimo come quello (parrebbe…) di cui era dotata l’aliquota in questione, a fare bersaglio in quelle condizioni di stress, di illuminazione, di posizione e di teatro, con l’esiguo margine di tempo a disposizione per discernere.

Forse senza voler studiare chissà quali nuove regole di ingaggio, agli Stati Maggiori del nostro principale alleato, basterebbe dare un’occhiata ai protocolli addestrativi ed operativi dei loro colleghi inglesi, che non ci risulta abbiano mai avuto la quantità di incidenti ai ceck-point occorsi invece ai loro soldati.

Non ne caveremo un ragno dal buco ed allora tanto vale contentarci, tanto a tutti noi rimarrà il ragionevole dubbio sulle conclusioni espresse dalle commissioni, e proprio per non offendere la memoria di un Caduto con aggiustamenti cerchiobottisti, suggerirei di concentrarci magari su altri aspetti della vicenda che non sono a mio modesto parere di secondo ordine.

Come? Promuovendo ad esempio, una analisi propositiva, una riflessione costruttiva su quanto senso abbia ancora definire Militare, un Servizio di Informazione che di Militare sembrerebbe avere solo il nome. Forse varrebbe la pena chiedersi se ha un senso celebrare un funerale in una atmosfera ed in una circostanza come quelle cui abbiamo assistito, come anche se la pur lodevolissima strada iniziata con l’apertura di un sito web dell’Intelligence, sia l’unica percorribile per far capire ai nostri connazionali che i Servizi esistono per il cittadino e non contro di esso.

www.startsicurezza.com

OMICIDIO CALIPARI (3):
LE INTERCETTAZIONI USA
ESISTONO O NO?

Ma esistono o meno le intercettazioni delle telefonate che, sulla strada dell’aeroporto, Calipari faceva con palazzo Chigi?

L'ipotesi di un grande orecchio americano pronto a captare in Iraq tutte le conversazioni, persino quelle degli alleati, se vera e riscontrata, costituirebbe un clamoroso autogol per gli Stati Uniti nella vicenda Calipari. E' questa la valutazione fatta da chi indaga alla procura di Roma sull'uccisione del funzionario del SISMI, secondo cui la circostanza potrebbe provare la consapevolezza, da parte degli americani, del passaggio della Toyota e della presenza a bordo dell'ostaggio italiano e di due componenti del servizio segreto alleato, e fosrse anche di una quarta persona.

Se fossero fondate le indiscrezioni apparse sulla stampa, si insinuerebbe il sospetto che gli USA non avrebbero fatto alcunché per impedire l'apertura del fuoco contro l'auto, segnalandone tempestivamente l'arrivo o che addirittura avrebbero dato ai soldati fermi a quel maledetto check point un ordine ben preciso.

OMICIDIO CALIPARI (4):
AVVOCATO SGRENA:
“TEMO CHE L’AUTO SIA STATA MANOMESSA”

«Il timore che l'auto sia stata manomessa c'è. Ma non perché pensiamo ad un complotto: gli accertamenti tecnici in alcuni casi sono irripetibili e deteriorano l'oggetto analizzato. Per ora non sappiamo se la commissione interna americana abbia compiuto analisi "irripetibili", sappiamo solo che la procura di Roma aveva cercato esplicitamente di evitare questo pericolo. Sapremo com'è andata solo quando potremo realmente analizzare l'auto».

Alessandro Gamberini, l'avvocato che rappresenta Giuliana Sgrena in quanto «persona offesa» nell'inchiesta sulla sparatoria di Baghdad, non nasconde che il ritardo nell'arrivo della vettura in Italia potrebbe aver messo in pericolo l'indagine in corso. «L'arrivo della Toyota è comunque un fatto positivo - premette - perché segna l'avvio effettivo dell'inchiesta della procura che fin'ora è stata penalizzata. Dagli accertamenti balistici dovrebbe essere possibile ricostruire la velocità del veicolo oltre che la direzione da cui provenivano i colpi. L'inchiesta fatta dagli americani fin'ora aveva principalmente una necessità autoreferenziale, cioè quella di dare ragione ai militari che sostengono di aver agito rispettando le regole d'ingaggio. Quella per l'accertamento della verità comincia ora».

Secondo Giuliana Sgrena, “La versione dei fatti fornita fin'ora dagli americani non ha nulla a che fare con la realtàe sinceramente sono anche un po' offesa visto che sono stata sentita due volte dalla commissione Usa. Ho raccontato più volte che gli americani non hanno fatto alcun segnale di avvertimento e che il faro abbagliante è stato acceso contemporaneamente all'inizio della sparatoria. Eppure il mio racconto, che per altro coincide perfettamente con quella del maggiore del SISMI che guidava, non è stato tenuto in nessun conto».

Gli USA, in effetti, hanno interrogato la Sgrena per due volte a poche settimane di distanza l'una dall'altra. In un caso di persona, tramite il gen. Campregher (uno dei due membri italiani della commissione) e nell'altro in video conferenza in diretta da Baghdad.

Secondo il direttore del Manifesto, Gabriele Polo, “la domanda che bisogna porsi è: "Chi non ha avvertito la pattuglia USA di non sparare e perché lo ha fatto?”.

Ai colleghi della stampa italiana - ha aggiunto Polo - vorrei proporre un patto: noi smettiamo di parlare di "agguato" ma voi per favore non parlate più di incidente, perché quello di Nicola Calipari è stato un omicidio».

MAFIA:
QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO
DEL COVO DI RIINA

Erano già pronte tre o quattro auto per effettuare la perquisizione del covo di Riina subito dopo il suo arresto, ma all'ultimo momento qualcuno decise di rimandare e di proseguire l'attività di osservazione perché sarebbero potuti tornare sul luogo boss come Bagarella o Brusca all'epoca latitanti”.

E’ stato un ufficiale dei carabinieri, è stato il ten. col. Domenico Balsamo a raccontare, per la prima volta in un’aula di tribunale, la mancata perquisizione del covo del boss mafioso Salvatore Riina, subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio del '93.

L’aula è stata quella dove si sta svolgendo il processo a carico del direttore del SISDE, Mario Mori, all’epoca al vertice del ROS dei carabinieri, e del capitano Ultimo, al secolo il ten. col. Sergio De Caprio, entrambi accusati di favoreggiamento a Cosa nostra.

In circa tre ore di interrogatorio, Balsamo - oggi in forza alla DIA di Roma, ma che nel '93 prestava servizio al gruppo carabinieri di Monreale - ha ripercorso i giorni precedenti all'arresto del boss Riina, a partire dal fermo a Novara di un altro mafioso, Balduccio Di Maggio, che proprio in quei giorni decise di collaborare con la giustizia nella persona dell’allora col. Francesco Delfino, fino al giorno in cui fu effettuata la perquisizoine nella villa di via Bernini, cioè il 2 febbraio del '93, dopo circa tre settimane dall'arresto del boss.

Raccontando i momenti successivi alla cattura di Totò u curtu, Balsamo ha ricordato: “Subito dopo l'arresto sono arrivato alla sede del comando regione dei carabinieri dove era stato portato Riina. Lì trovai i colleghi del ROS, c'erano il cap. Sergio De Caprio e poi arrivò il comandante Mario Mori. Subito dopo arrivarono il magistrato di turno Luigi Patronaggio e altri magistrati come Vittorio Aliquò, Giuseppe Pignatone e anche Giancarlo Caselli che era arrivato come nuovo procuratore capo proprio quel giorno a Palermo”.

E’ stato questo il momento in cui il pm Antonio Ingroia ha chiesto se si decise in quell'occasione di effettuare una perquisizione nella villa di via Bernini dove abitava la famiglia di Riina, cioè a poche centinaia di metri di distanza dal luogo in cui era stato arrestato Riina, in viale Regione Siciliana. “Venne spontaneo - ha spiegato l'ufficiale dei carabinieri - dire 'andiamo a fare la perquisizione', anche se non sapevamo dove farla visto che il residence consisteva in una dozzina di ville. Bisognava andare a perquisire villa per villa. Noi, comunque decidemmo di andare a fare la perquisizione. Ne parlammo con l'autorità giudiziaria. Eravamo io, l'allora cap. Minicucci (che comandava il reparto operativo, NDR) e il pm Patronaggio. Venne anche chiamato altro personale”.

Ma all'improvviso si cambiò rotta: “Fu quando arrivarono i nostri superiori - ha spiegato ancora il ten. Col. Balsamo - che emerse la possibilità di non fare subito la perquisizione e di rinviarla”.

Alla domanda del pm su chi avesse preso la decisione, Balsamo ha risposto: “Credo il collega Sergio De Caprio volesse vedere chi entrava e chi usciva dal residence. Era, infatti, possibile che dei mafiosi tornassero sul luogo per aiutare la famiglia di Riina che rimase a casa. Se ne parlò con i magistrati. Furono informati del rinvio tutti i presenti, come Patronaggio, ma anche Casaelli ed Aliquò. Io, a quel punto, ho preso atto della volontà e basta”.

Fu il ROS ad occuparsi dell'osservazione, ha ricordato ancora Balsamo, che poi ha aggiunto: “Io rimasi convinto che l'osservazione dovesse continuare. Successivamente, Caselli chiese un chiarimento scritto sul perché l'attività di osservazione non fosse stata svolta”.

Sollecitato ancora dal pm, Balsamo ha poi riferito dell'effettiva perquisizione del covo di Riina, avvenuta soltanto il 2 febbraio del '93, quindi ben 18 giorni dopo la cattura del boss: “La casa era disabitata. C'erano dei mobili al centro di una stanza, ma erano coperti. L’abitazione era stata ripulita. Nella casa c'era anche un passaggio segreto, spostando un muro di legno c'era un cunicolo che portava all'esterno”.

Nel corso del controesame della difesa del direttore del SISDE Mario Mori, il ten. col. Balsamo ha parlato della riunione operativa del 26 gennaio del '93, quando l'allora procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli, chiese a Mori a che punto fosse l'attività di osservazione della villa di via Bernini: “Non ricordo bene le parole - ha spiegato Balsamo - era una frase interlocutoria. Non disse, insomma, né sì, né no. Disse soltanto che il servizio 'era difficoltoso' e che 'il personale era stanco'. Comunque, a quella riunione non c'ero soltanto io ma c'erano altre persone”.

Alla domanda dell'avv. Pietro Milio, difensore di Mori, di spiegare chi “materialmente decise di rinviare la perquisizione”, l'ufficiale ha replicato: “A suggerirlo fu l'allora cap. De Caprio, ma la decisione venne presa dall'autorità giudiziaria. C'erano, in particolare, l'allora procuratore aggiunto Vittorio Aliquò, il pm Luigi Patronaggio e lo stesso procuratore capo Giancarlo Caselli”.

Subito dopo è stato ascoltato il mar. Rosario Merenda, oggi alla DIA di Palermo e nel '93 in servizio presso il Nucleo operativo dei carabinieri del gruppo 2.

La mattina dell'arresto di Riina ero tra quelli che dovevano effettuare la perquisizione - ha ricordato Merenda - Eravamo in venti o trenta, distribuiti in varie autovetture, tutti in attesa dell'ordine per partire. Poi, invece, arrivò il contrordine. Fu un mio superiore, non ricordo chi, forse Balsamo, a dirmi che la perquisizione del covo di Riina era sospesa, perché c'era ancora in corso l'attività di osservazione. Poi non seppi più nulla”.

Merenda fu tra gli uomini che parteciparono alla perquisizione del covo di via Bernini, ma solo tra l'1 e il 2 febbraio '93: “Fui tra i primi a scavalcare il cancello, la villa sembrava abbandonata, da alcuni giorni era disabitata, c'erano lavori di muratura in corso, sembrava in fase di ristrutturazione: nel bagno i sanitari e alcune mattonelle erano stati addirittura rimossi”.

Al processo è intervenuto con dichiarazioni spontanee anche l’ex cap. Ultimo: “Quando mi resi conto che volevano svolgere una perquisizione in via Bernini, compresi subito che l'iniziativa poteva arrecare grave pregiudizio alle indagini - ha detto il ten. Col. Sergio De Caprio - Per questo motivo feci la proposta di rinviare quella perquisizione, cosicché si potessero proseguire le indagini, soprattutto le indagini sui Sansone e sulle loro numerose attività economiche, per non pregiudicare possibilità e interessanti sviluppi. Questo e solo questo è il senso della mia proposta”.

Sul servizio di osservazione predisposto con una telecamera a bordo di un furgone di fronte al cancello di ingresso del residence di via Bernini, De Caprio è scivolato su una giustificazione tecnica piuttosto peregrina: “da quella postazione - ha detto - non si era in grado di osservare chi entrava e usciva dalla casa di Riina”, perché la telecamera inquadrava l'ingresso di un complesso abitativo che conteneva una dozzina di villette.

Una spiegazione che ha fatto sorgere in molti dei presenti in aula una semplice domanda: ma allora, di che razza di osservazione si trattava?

MAFIA (2):
PER IL COVO DI RIINA
LA SOLITA SPIEGAZIONE DEBOLE

Chi ripulì il covo di Salvatore Riina? Chi ne svuotò la preziosissima cassaforte?

La solita spiegazione minimalista viene dalla difesa degli imputati, Mori e De Caprio. Una spiegazione che ha dell’incredibile. Talmente banale da diventare clamorosa.

Furono due semplici muratori, regolarmente pagati con tanto di fattura Iva, a ripulire l’abitazione dove aveva vissuto, fino al 15 gennaio del ’93, il capo di Cosa nostra. E fu un capitano dei carabinieri, Marco Minicucci, ad aprire il forziere e a trovarlo del tutto vuoto.

L'avvocato Pietro Milio, difensore di Mori, ha spiegato al Velino che dei due muratori non c’è traccia nei documenti che la procura palermitana ha “versato” nel processo ai due militari. Eppure, quella stessa procura avrebbe dovuto conoscerli bene perchè, nel maggio del ’93, appena tre mesi dopo la perquisizione del covo, avvenuta il 2 febbraio, i carabinieri del nucleo operativo di Palermo indagarono su due fratelli, Pietro e Angelo Parisi. Erano i muratori che fra il 29 gennaio e il 2 febbraio del ’93, avevano “ripulito” e rinfrescato l’appartamento-covo.

Pietro e Angelo - racconta Milio - furono incriminati dal sostituto procuratore Antonino Di Leo del pool antimafia per favoreggiamento, ma un anno dopo vennero assolti dal giudice dell’udienza preliminare.

Primo fatto strano: di questo processo a Palermo non si è mai saputo nulla, nessuno ne ha mai parlato e gli incartamenti relativi sono rimasti segreti a tutti, o quasi. Un segreto durato fino ai giorni nostri nonostante tre anni fa, nel 2002, i due muratori fossero stati convocati dai giudici di Sciacca che stavano processando per mafia l’imprenditore Montalbano, figlio di un ex deputato comunista. Chiamati a testimoniare, Angelo e Pietro Parisi raccontarono che nel settembre del ’92 - cinque mesi prima che Riina fosse catturato - erano stati contattati dai fratelli Sansone, titolari di una impresa di costruzione fra le più note a Palermo in quegli anni e costruttori delle villette del condominio dove c’era pure il “covo”, perché ristrutturassero una delle villette.

I due, dopo un sopralluogo nel corso del quale - dissero ai giudici - non ebbero contatti con chi abitava nei locali, presentarono un preventivo, stabilendo che non avrebbero potuto cominciare i lavori prima di qualche mese. E così andarono le cose: alla fine di gennaio del ’93, “raccolti i mobili al centro della stanza e coperti con il cellophane”, cominciarono i lavori di tinteggiatura e di riparazione. Dovettero sospenderli, però, qualche giorno dopo, il 2 febbraio, quando i locali furono perquisiti da magistrati e carabinieri e posti sotto sequestro.

L'interrogatorio dei due muratori al dibattimento di Sciacca, così come l'udienza davanti al Gup di Palermo, non hanno mai fatto la loro comparsa né nelle indagini preliminari, né tanto meno nelle carte del processo appena avviato contro Mori e De Caprio. Eppure questi documenti avrebbero, sostiene la difesa del prefetto Mori, chiarito aspetti non secondari della vicenda e rivelato fatti che nessuno, tranne alcuni magistrati e carabinieri del nucleo operativo palermitano, conosceva fino a ieri.

Da Sciacca, nuove rivelazioni anche sulla cassaforte a muro che avrebbe conservato il famoso “papello”, e cioè una specie di contratto fra i vertici istituzionali dell’epoca e la “cupola” per far cessare le stragi di mafia. Il 2 febbraio del ‘93 la cassaforte fu aperta dall’allora comandante del nucleo operativo dei carabinieri di Palermo Marco Minicucci, che la trovò vuota.

Anche i verbali delle dichiarazioni di Minicucci, rese ai giudici di Sciacca nel processo contro Montalbano, non figurano fra le carte del dibattimento che si è aperto a Palermo e la difesa si appresta a chiedere perché. 

MAFIA (3):
ARRIVA LA “PENTITA”

Giusi Vitale è la prima vera donna di mafia che comincia a collaborare con la giustizia. In passato ci sono stati personaggi femminili, come mogli, figlie, amanti e madri che hanno dato un contributo, ma mai un contributo che venisse dall'interno dell'organizzazione così come sta facendo la stessa Vitale”.

E' questa l'opinione dei pm Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene.

Giusi Vitale - ha spiegato De Lucia - ha svolto un ruolo anche direttivo, all'interno di un importante mandamento mafioso che è quello di Partinico. Lei inoltre è legata da vincoli di sangue con importanti esponenti mafiosi della famiglia Vitale. Quindi, al di là del contenuto delle sue dichiarazioni, che sono ancora in gran parte coperte da segreto istruttorio, resta il fatto che ha una carica dirompente avere una donna così vicina ai vertici dell'organizzazione mafiosa che inizia a collaborare, in una zona in cui le collaborazioni sono sempre state particolarmente poche”.

Giusi Vitale è la “pentita” che al processo contro Mori e il cap. Ultimo per la mancata operquisizione del covo di Riina aveva detto: “Se si fosse fatta la perquisizione nella villa di Totò ci sarebbe stato il finimondo, dentro c'erano documenti che avrebbero potuto rovinare uno Stato intero”.

La “collaboratrice” aveva riferito di avere appreso dal fratello Vito, capo della cosca di Partinico, che la mancata perquisizione del covo di Totò Riina era stata considerata un “bene” da Cosa nostra, in quanto all'interno dell'appartamento erano custoditi “numerosi documenti ritenuti imbarazzanti per diversi uomini delle istituzioni”.

Fonte: ANSA

IL MASSACRO DI FERRAZZANO:
IZZO, UN “PENTITO” MAI PENTITO

Ci vorrà del tempo perché investigatori e magistrati possano davvero chiarire l’esatta dinamica e le vere motivazioni del duplice omicidio avvenuto nella villetta di Ferrazzano (Campobasso), vittime Maria Carmela Maiorano e sua figlia Valentina, assassino Angelo Izzo.

Ma occorrerà del tempo anche per capire perché il “massacratore del Circeo” sia tornato ad uccidere. Di sicuro, in questo nuovo massacro, non c’entrano né i soldi, né il sesso, o almeno il sesso così come generalmente inteso. Anche perché, cosa che nessuno ha finora avuto il coraggio di scrivere, Izzo teme il sesso, ne ha una profonda fobia ed anche una grave incapacità a praticarlo, il che lo porta a comportamenti omicidiari simili a quelli che si sono ripetuti a distanza di 30 anni.

Quello che invece fin da ora è possibile chiarire della personalità di Izzo è la sua astuzia, un’astuzia che è riuscita ad ingannare, per anni ed anni, magistrati ritenuti più che qualificati dall’opinione pubblica.

Il primo interrogativo da porci è un altro: Angelo Izzo è mai stato davvero un “collaboratore di giustizia”, un “pentito”, come si dice?

Il paradosso sta tutto qui: Izzo non è mai stato di alcun aiuto per la magistratura, non è mai stato un “collaborante”, come si dice in gergo, anzi è sempre stato un calunniatore ed un depistatore, eppure è sempre stato trattato da “pentito”. Perché?

La risposta sta nell’impreparazione di certi magistrati e anche nell’abitudine che molti magistrati italiani hanno di costruire teoremi. Siccome Izzo è sempre stato un tipo furbo, quando capiva che per compiacere un magistrato c’era un teorema da sostenere, eccolo pronto ad inventare.

A partire dalla metà degli anni '80, infatti, Izzo fu interrogato in carcere dai magistrati di mezza Italia sui rapporti tra alcuni gruppi neofascisti e la criminalità organizzata. Ma tante delle “rivelazioni” del “pentito” Izzo finirono per rivelarsi false: come quelle sull'uccisione del col. Russo o sull'omicidio di Piersanti Mattarella. Per quest'ultima inchiesta, Izzo fu anche accusato di calunnia da uno dei pochissimi magistrati che non lo hanno mai preso sul serio: il giudice Giovanni Falcone.

Ci cascarono in pieno invece magistrati come il bolognese Libero Mancuso che credette ad Izzo nel corso dell’inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna, od altri quando il presunto “pentito” indicò in Massimo Carminati, estremista di destra legato alla banda della Magliana, l'autore dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, accusa per la quale Carminati venne poi definitivamente assolto a Perugia.

Eppure, ancora ai nostri giorni, Angelo Izzo era arrivato nel carcere di Campobasso come “dichiarante”. Tant’è che per un lungo periodo è stato dtetenuto in una sezione diversa e separata rispetto a quella dei detenuti comuni.

L’ambiguità sta nel fatto che Izzo, seppure fosse classificato come “collaboratore di giustizia” non beneficiava del programma di protezione, unica msiura di riconoscimento per un “pentito”.

Eppure Izzo, nel corso della sua carriera carceraria, con le sue calunnie ed i suoi depistaggi era riuscito ad accreditarsi così da ottenere benefici processuali e penitenziari che ha poi puntualmente utilizzato per commettere nuovi reati: dall'evasione all'omicidio.

Izzo, e con lui altri falsi “pentiti”, sono stati utilizzati da una certa magistratura e concentrati in quella fabbrica di falsi “collaboratori di giustizia” che è stato il carcere di Paliano.

Nel 1995 Izzo arrivò all’assurdo di autoaccusarsi, falsamente, di un omicidio, due rapine e perfino della partecipazione a un traffico internazionale di stupefacenti.

Izzo, quell’anno, si autodenunciò ai pm della procura di Roma, raccontando di aver compiuto questi reati quando era ancora un ragazzo. Creduto da quei magistrati, il fascicolo passò alla procura presso il tribunale per i minorenni: l'indagine venne affidata al sostituto procuratore Simonetta Matone che interrogò Izzo nel carcere di Rebibbia, dove era detenuto. L'autore del massacro del Circeo parlò a lungo e nel dettaglio della sua presunta attività criminosa; dichiarazioni raccolte in due corposi verbali, decine di facciate di fogli protocollo.

L'omicidio di cui si accusò era quello di Fabio Miconi, un ragazzo la cui morte, sino a quel momento, era stata classificata come suicidio: si era sparato con il fucile del padre. Venne allora ascoltata la madre di Miconi: attraverso la sua testimonianza, ma soprattutto graze al ritrovamento successivo di una lettera di addio del ragazzo ai familiari, fu accertato che Izzo aveva mentito, attribuendosi un omicidio che non c'era mai stato.

Per questo l'inchiesta della procura minorile si chiuse due anni dopo con una richiesta di archiviazione per infondatezza delle notizie di reato, che venne accolta dal gip. La Matone trasmise però gli atti anche alla procura della capitale perché procedesse nei confronti di Izzo per calunnia, autocalunnia e simulazione di reato.

Ma all’epoca nessun magistrato mosse un dito contro Izzo.

STRAGE DI PIAZZA FONTANA:
E A CATANZARO I DOCUMENTI PROCESSUALI
GETTATI IN UNO SCANTINATO

di Alessandro Sgherri

Un tesoro storico-giudiziario giace nei sotterranei del tribunale di Catanzaro. Si tratta

degli atti del processo di piazza Fontana. Reperti fotografici, come la celebre foto del riconoscimento di Pietro Valpreda, relazioni dei servizi, atti delle commissioni parlamentari, verbali di interrogatorio dei testimoni, reperti.

Nel sotterraneo del Tribunale catanzarese, che dal 1972 al 1981 ospitò quattro processi per la bomba esplosa nella Banca nazionale dell' agricoltura di Milano è conservato un pezzo della memoria nazionale. Un tesoro a rischio, però. Molti degli atti, infatti, sono sbiaditi, i faldoni confusi, le carte inservibili e spesso illeggibili.

A Catanzaro sono confluiti tutti gli atti del processo e le istruttorie di Milano, Roma e Treviso. Adesso questa mole immensa di documenti giace nei sotterranei del tribunale in un caos primordiale: i faldoni sono confusi tra loro, conservati in scatoloni di supermercato e per distinguerne la provenienza qualcuno ha attaccato esternamente un pezzo di scotch colorato.

Il problema è la mancanza di indicizzazione: le relazioni dei servizi sono mescolate agli atti delle commissioni parlamentari, ai verbali di interrogatorio dei testimoni, ai reperti. Oltretutto, del materiale non esiste copia, solo alcune parti sono state fotocopiate nel corso dell'ultima istruttoria a Milano. Ma gli originali, gli atti non fotocopiati rischiano di essere perduti per sempre per il logorio del tempo.

Per digitalizzare la mole di documenti occorrerebbero, secondo il cancelliere che si occupa da vicino della gestione dell'archivio, non più di 50mila euro, ma i fondi non ci sono. Sulla vicenda, nei mesi scorsi, è intervenuto anche il parlamentare dei DSNuccio Iovene, che ha presentato un'interrogazione al ministro della Giustizia per chiedere lo stanziamento di un apposito fondo di bilancio al fine di archiviare, digitalizzare e salvaguardare la documentazione.

A scoprire lo stato in cui versa la documentazione è stata Maria Itri, una ventiquattrenne reggina trasferitasi a Padova nel 1999 dove si è laureata in Scienze della comunicazione, giornalista praticante. Maria Itri ha scritto la tesi Cinque anarchici del sud-Una storia degli anni '70 in cui ripercorre il periodo di Piazza Fontana e la storia di cinque militanti anarchici calabresi impegnati a scoprire cosa ci fosse dietro l'attentato al treno Freccia del sud che il 22 luglio del '70 provocò la morte di sette persone nei pressi di Gioia Tauro ed i moti di Reggio Calabria. La tesi è pubblicata sul sito www.lsdi.it (Libertà di stampa, diritto all'informazione).

Nella tesi, Maria Itri tenta di ricostruire la vicenda dei cinque giovani anarchici calabresi morti la notte del 26 settembre 1970 in un incidente stradale alle porte di Roma. Con loro avevano un'inchiesta di controinformazione sul coinvolgimento di mafia e destra eversiva nel deragliamento della Freccia del Sud. Nella tesi la praticante ha ricordato che i documenti e l'inchiesta dei ragazzi scomparvero nel nulla, la dinamica dell'incidente è sempre rimasta poco chiara e più volte si è affacciata l'ombra di Junio Valerio Borghese.

Nel 1993 il “pentito” Giacomo Ubaldo Lauro è tornato a parlare di questa vicenda e di presunti mandanti, ma il caso non è stato riaperto.

FATTI DI GENOVA:
IL MISTERO DELLA PIETRA
ACCANTO AL CORPO DI GIULIANI

Inopinatamente chiuso con l’archiviazione, senza cioè un pubblico dibattimento, l’omicidio di Carlo Giuliani torna ad essere al centro dell’attenzione in un altro processo, quello in corso a Genova contro un gruppo di manifestanti.

E’ stata proprio la difesa di alcuni di quei manifestanti ad ottenere, in una delle scorse udienze, di poter mostrare ad un funzionario di polizia il sasso trovato accanto al corpo di Carlo Giuliani, ucciso dopo ore di scontri innescati dalla carica ingiustificata dei carabinieri ad un corteo regolarmente autorizzato.

Il funzionario è il vice-questore aggiunto Adriano Lauro, responsabile dei cento carabinieri del Battaglione Sicilia, agli ordini del capitano Cappello, che agirono in piazza Alimonda. E' lui il poliziotto, immortalato nei filmati, che prova a incolpare un manifestante che grida “assassini” di aver ucciso Giuliani con un sasso. Un sasso che, in alcune foto c'è, in altre scompare, senza che Lauro sappia spiegarne le ragioni.

Nel corso della sua deposizione, il funzionario ha ripetuto la sua versione: avrebbe visto il corpo da 70 metri e avrebbe ritenuto che fosse stato colpito dai manifestanti. “Stupidamente - ha precisato - valutai male poiché non avevo sentito nessuno sparo”. Lauro, voce strozzata, leggermente commossa, ha provato a buttare la propria deposizione sul piano emotivo, ricordando la stanchezza dei suoi uomini (“le vie di Genova sembravano quelle dell'Iraq”), ma la sua deposizione è apparsa farraginosa.

Da parte sua l'accusa ha cercato di giustificare l'operato scomposto delle forze dell'ordine (soprattutto in piazza Alimonda), ma alla fine è stata l'attendibilità del teste Lauro ad essere messa in discussione: non sapeva che il corteo era autorizzato e, pur avendo partecipato agli incontri preparatori, non aveva la minima cognizione della topografia cittadina.

Nel corso della sua deposizione, Lauro, ha anche raccontato che “quel giorno vennero cambiati tutti gli ordini di servizio”. Alle forze dell'ordine fu ordinato di cambiare la strategia: da difensiva, con particolare riguardo alla zona rossa, ad offensiva, cioè l’ordine era quello di attaccare gruppetti e cortei.

Per questo - ha raccontato Lauro - nonostante fossi stremato come i militari dalle lunghe ore di servizio, mi ero consultato con il capitano dei carabinieri Cappello per decidere se avanzare in piazza Alimonda contro i manifestanti oppure tirare diritto. Decidemmo di affrontare i manifestanti, con il risultato che alcuni carabinieri vennero presi dal panico, per cui fuggirono e io dietro di loro”. A quel punto il Defender rimase solo e venne accerchiato dai no global. A bordo c'erano MarioPlacanica, Filippo Cavataio e un altro carabiniere. Il risultato fu l'uccisione di Carlo Giuliani.

La difesa ha chiesto e ottenuto, nonostante le proteste dei pm, di mostrare al teste il sasso trovato vicino al corpo di Carlo Giuliani. Il sasso era stato repertato e acquisito agli atti delprocedimento a carico del carabiniere Mario Placanica, primaindagato per l'omicidio di Giuliani e in seguito prosciolto dalGup in quanto avrebbe agito per legittima difesa.

La pietra - ha ribadito Giuliano Giuliani, padre di Carlo - è stata usata per spaccare la fronte a Carlo dopo che gli era stato sparato. Il teste Lauro ha confermato di averla vista vicino alla testa di Carlo e le foto mostrate hanno confermato che il sasso, al momento della morte di Carlo non c'era, per poi apparire subito dopo”.

L'ipotesi dei difensori dei no global, ed in particolare dell'avvocato Ezio Menzione, è che “uno degli uomini del vicequestore Adriano Lauro possa aver colpito alla testa Giuliani e che questi, per coprirlo, abbia gridato 'criminale, ad ucciderlo siete stati voi e le vostre pietre’”.

Un'ipotesi che potrebbe portare i genitori di Giuliani a chiedere la revisione dell'inchiesta sull'omicidio del figlio.

Nel corso dell’udeinza del 10 maggio scorso, Lauro è stato chiamato a fare il riconoscimento del sasso macchiato di sangue, ritrovato accanto al cadavere di Giuliani.

La difesa ha prodotto varie immagini dove si vedeva il ragazzo morto col passamontagna ancora in testa ed una, scattata a distanza molto ravvicinata, dove si evidenziava la grandezza e la profondità della ferita sulla fronte del giovane. In aula è

stato anche prodotto il passamontagna indossato da Giuliani al momento della sua morte. Dall'analisi dell'indumento è emerso che non vi erano lacerazioni in corrispondenza della ferita sulla fronte, per questo motivo, secondo l'avvocato, i colpi sarebbero stati inferti mentre il ragazzo era senza passamontagna.

Lauro ha ricordato di essere sopraggiunto mentre il ragazzo era ancora col passamontagna in testa ed ha affermato di aver visto il sangue zampillare. “La mia preoccupazione quando sono arrivato sul posto - ha spiegato - è stato il soccorso alla vittima e quello di circondare la zona per evitare che si avvicinassero curiosi o altro”. A conferma che, per un periodo non breve, il corpo di Giuliani rimase in balia delle forze dell’ordine.

Tra le altre stranezze emerse in aula: l'abbigliamento di Giuliani. In una foto il giovane è ritratto con la canottiera bianca ed i pantaloni, vicino alle ruote del Defender dei carabinieri e con uno stranissimo gilet scuro poco più tardi.

Tutta la documentazione fotografica sulla morte di Giulaini, compresa la vicenda del sasso ballerino, sono su www.misteriditalia.it nella sezione I fatti di Genova.

FATTI DI GENOVA:
IL CARABINIERE PLACANICA
MESSO FUORI DALL’ARMA

Mario Placanica, il carabiniere protagonista dei fatti del G8 di Genova, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio di Carlo Giuliani (anche se - secondo la magistratura - per legittima difesa) è stato posto in  “congedo assoluto” con effetto immediato perché “permanentemente non idoneo al servizio militare in modo assoluto” a causa di infermità dipendente da “causa di servizio”.

In altre parole l’Arma dei carabinieri lo ha scaricato.

L’avv. Colosimo, legale di Placanica, ha subito annuciato battaglia, rendendo noto di avere ricevuto mandato dell'ormai ex carabiniere di avviare “azioni giudiziarie a tutela dei suoi diritti nei confronti di quanti, italiani e/o appartenenti ai paesi che hanno partecipato al G8 di Genova, nell'esercizio dei rispettivi ruoli istituzionalmente rivestiti, hanno eventualmente concorso, a qualunque titolo (di colpa grave ovvero altro) alla causazione del gravissimo evento lesivo subito dal giovane carabiniere, all'epoca in servizio militare di leva da soli 10 mesi”.

Dal momento della sua esclusione dall’Arma, ha detto ancora il legale, Placanica si sente “forzatamente libero da vincoli di giuramento e remore morali nei confronti dello Stato”. Il che potrebbe voler dire che, finalmente, Placanica intende raccontare la verità di quel che accadde quel pomeriggio tremendo di un giorno di luglio di quattro anni fa.

FATTI DI GENOVA (3):
45 RINVIATI A GIUDIZIO
PER IL LAGER DI BOLZANETO

Dopo quasi quattro anni, la vicenda del lager di Bolzaneto diventa un pubblico processo.

Il Gup Maurizio De Matteis ha rinviato a giudizio 45 persone - tra agenti della polizia penitenziaria, della polizia di Stato, carabinieri e medici dell'amministrazione penitenziaria - per le violenze “di feroce gratuità” (così le ha definite lo stesso giudice) compiute nella caserma di Bolzaneto della Polizia nei confronti dei giovani arrestati durante il G8.

La decisione, che ha visto il proscioglimento completo di un solo indagato (l'agente di polizia penitenziaria Vittorio Bertone) e il non luogo a procedere, solo per alcuni capi di imputazione, per altre cinque persone, accoglie in pieno l’impianto accusatorio dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati che, nel marzo scorso, avevano depositato una memoria di oltre 600 pagine per raccontare “l'accoglienza” riservata agli arrestati da parte delle forze dell'ordine.

Tra gli episodi più inquietanti nei confronti delle persone arrestate, i pm avevano riferito di minacce a sfondo sessuale nei confronti di giovani e ragazze ed episodi come quello di far indossare un cappellino con il disegno di una falce e di un organo sessuale maschile, pretendendo una sorta di sfilata nei corridoi della caserma. Poi le lunghe attese con le braccia alzate, gli insulti, i calci e i pugni contro i fermati.

Il giudice De Matteis ha sottolineato “la gratuità della condotta contestata rispetto a qualsiasi ipotesi di limitazione ulteriore della libertà dei detenuti stessi, anche con forme di rigore non consentite. Non si vede infatti come, ad esempio, il costringere una persona a chinare la testa dentro un vespasiano possa costituire una misura di rigore non consentita. Tali azioni appaiono, per la loro feroce gratuità, totalmente estranee a qualsiasi nozione di misura di rigore, sia essa consentita o meno, in quanto non perseguono il fine di limitare e controllare la libertà di una persona, ma solo di umiliarne la personalità”.

I reati contestati agli indagati sono quelli di abuso d'ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, violazione dell'ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. E questo soltanto perché nel codice italiano non esiste il reato di tortura.

Tra le persone rinviate a giudizio figurano il vicequestore Alessandro Perugini, all'epoca numero due della Digos di Genova, il generale della polizia penitenziaria Oronzo Doria, all'epoca colonnello (è stato promosso mentre era sotto inchiesta penale della magistratura) e Biagio Antonio Gugliotta, ispettore della polizia penitenziaria, responsabile della sicurezza del centro di detenzione provvisorio.

Il gup De Matteis, nel marzo scorso, aveva concesso il rito abbreviato a un altro imputato, Antonio Biribao, che sarà processato il prossimo 6 ottobre.

Sempre in marzo De Matteis aveva emesso un'ordinanza di 45 pagine in cui aveva ammesso 150 circa parti civili, tra cui i genitori di molte parti offese e la costituzione di tre ministeri (Giustizia, Interno e Difesa) citati in giudizio su richiesta dei difensori delle parti offese.

L'inchiesta, durata due anni e 7 mesi, iniziò nell' agosto 2001 e si concluse con la richiesta di rinvio a giudizio del 12 maggio 2004.

FATTI DI GENOVA (4):
LA MAGISTRATURA CHIEDE RINFORZI
PER I PROCESSI

La giunta ligure dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) ha sollecitato il CSM, i presidenti del tribunale e della corte di appello di Genova a rinforzare l' organico per porre rimedio alla situazione di emergenza venutasi a creare per i procedimenti del G8.

Sono, infatti, già pendenti davanti al tribunale del capoluogo ligure tre maxi dibattimenti per i fatti di Genova del 2001, mentre un quarto, su quanto accaduto nella caserma di Bolzaneto comincerà entro l'anno.

TERRORISMO ITALIANO:
PROCESSO D’ANTONA
VERSO LA SENTENZA

Potrebbe concludersi entro la prossima estate il dibattimento che vede imputati, davanti alla seconda corte d'Assise di Roma, 16 brigatisti accusati a vario titolo di banda armata, rapina e dell'omicidio del professor Massimo D'Antona, il giuslavorista ucciso dalle Br il 20 maggio 1999.

E' questo l'obiettivo del presidente della corte, Mario Lucio D'Andria, che mira ad una conclusione simultanea del processo di Roma e di quello di Bologna per il delitto di Marco Biagi.

TERRORISMO INTERNAZIONALE:
ANCHE IL PKK
NELLA LISTA DEL DIPARTIMENTO USA

Il Partito dei lavoratori curdi (PKK) è stato inserito il mese scorso nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata, come ogni anno, dal dipartimento di Stato americano.

A riferirlo è stata la televisione turca Ntv, precisando che nel rapporto si fa riferimento alla guerriglia intrapresa dai sostenitori del PKK per la creazione di uno stato curdo comperso tra la Turchia sudorientale, l'Iraq settentrionale e alcuni territori

della Siria e dell'Iran.

L'organizzazione - come si legge ancora nel rapporto Global Terrorism - ha tra i 4mila e i 5mila militanti, la maggior parte dei quali operativi in Iraq. La sua azione è mirata a colpire le forze di sicurezza turche, funzionari locali e semplici cittadini che si oppongono al progetto dello stato curdo.

Nel 1984 il PKK ha avviato una campagna armata contro il governo di Ankara, che ha messo al bando l'organizzazione e arrestato il suo leader Abdullah Ocalan, noto come Apo (padre), nel 1999. Nel rapporto si sottolinea, infine, come l'organizzazione sia sostenuta e finanziata dalla Siria, dall'Iraq e dall'Iran.

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE (2):
MA IL PROCESSO A OCALAN
E' DA RIFARE

La Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha confermato che Abdullah Ocalan, il capo del PKK, nel 1999 non ha avuto un processo equo e che per “riparare tale violazione” ci vuole un nuovo dibattimento.

Il giudizio definitivo è arrivato dalla Grande Camera della Corte, composta da 17 giudici, dopo la prima condanna della Turchia pronunciata il 12 marzo 2003 da un collegio formato da 7 magistrati.

Tra le violazioni più gravi messe in evidenza da Strasburgo, quella dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, relativo ad un processo equo. In altre parole, Ocalan - ha sentenziato la Grande Camera con 11 voti a favore e 6 contrari - non è comparso davanti ad un tribunale “indipendente e imparziale” a causa della presenza nel collegio giudicante di un magistrato militare, sostituito solo alla fine del procedimento e quindi in modo tale da non dissipare i dubbi.

Ma anche la sentenza di condanna a morte del leader curdo, in quelle condizioni, cioè in un processo non equo, è stata, secondo i giudici di Strasburgo, un “trattamento disumano”, contrario all'articolo 3 (divieto di tortura) della Convenzione.

Ocalan fu condannato alla pena capitale nel 1999, poi tramutata in carcere a vita che il capo del Pkk sta scontando nella prigione dell'isola di Imrali, dopo che il parlamento turco nel 2002 ha abolito la pena di morte in tempi di pace, una delle decisioni prese nel cammino di avvicinamento all'Europa.

Alla Turchia, in attesa dell'avvio il 3 ottobre prossimo dei negoziati di adesione all'UE, Bruxelles ha chiesto a chiare lettere di rispettare con atti concreti la decisione della Corte.

La Commissione europea ha preso atto della disponibilità dichiarata dalle autorità turche dopo la sentenza, “ma attende - ha puntualizzato un portavoce - di vedere come questo potrà tradursi in fatti”.

Il leader curdo, dal canto suo, ha fatto sapere di essere pronto per un nuovo processo. Ankara è stata condannata a pagare 120 mila euro agli avvocati di Ocalan.

ATTENTATO AL PAPA:
LA STASI GIÀ ALL’OPERA 24 ORE DOPO

Il 14 maggio 1981, il giorno dopo l'attentato a Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro, la polizia politica della Germania Est redigeva un rapporto informativo su Alì Agca. Venivano riportati tutti gli spostamenti del Lupo Grigio che precedono la data fatidica, compreso quello da Palma di Majorca, dove Agca riceve, poco prima del 13 maggio, il via libera dai suoi complici per uccidere Karol Wojtyla.

Il documento, redatto dalla 22esima Divisione della STASI, è contenuto nel faldone che la commissione parlamentare Mitrokhin ha ricevuto dal governo bulgaro. Sono 400 pagine di rapporti, scambi di telex tra Berlino e Sofia per il sostegno alla Bulgaria nel periodo del processo in cui venne coinvolto anche il capo scalo della Balkan Air, Sergei Antonov.

La STASI registra puntualmente l'ultimo viaggio di Ali Agca da Palma di Maiorca a Roma, il 10 maggio '81. Il turco passa da Milano il 9 maggio e arriva nella capitale il giorno dopo, in treno.

Nel faldone dei documenti che la Bulgaria ha trasmesso alla commissione c’è anche un rapporto nel quale si mette in relazione il rapimento di Emanuela Orlandi, avvenuto nel giugno '83, con l'organizzazione Turkeesh.

Jordan Ormankov, il giudice bulgaro che insieme al collega Markov Petkov, si reca diverse volte a Roma per parlare con Agca in carcere, viene citato nelle carte come uno dei partecipanti al gruppo di lavoro costituito da agenti berlinesi e bulgari per le operazioni di depistaggio da mettere in atto al fine di allontanare l'attenzione dalla cosiddetta pista bulgara.

OMICIDIOALPI/HROVANTIN:
PRESTO IN ITALIA L’AUTO
SU CUI FURONO UCCISI?

Sono occorsi 11 anni, ma alla fine qualcuno ci è riuscito.

A identificare il proprietario della Toyota sulla quale furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non è stato un magistrato della procura di Roma - titolare dell’inchiesta giudiziaria - né un poliziotto o un carabiniere, ma la commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta dal deputato forzista Carlo Taormina.

Ora lo scopo è quello di portare in Italia quell’auto da sottoporre a perizia, anche per comprendere appieno le modalità dell’assalto in cui la giornalista del Tg3 e l’operatore che lavorava con lei hanno perso la vita, ma - inutile nasconderselo - le difficoltà sono molte.

Nessuno, in 11 anni, si è mai preoccupato di indagare su quell’auto, neppure di ordinare una perizia sul posto, a Mogadiscio. Alla commissione non è rimasto altro che acquistare la Toyota, che è ancora funzionante, per consegnarla a degli esperti.

La commissione intende approfondire anche un altro aspetto: perché la magistratura italiana, e quella romana in particolare, non è mai andata avanti e non ha ricostruito con esattezza, ed era possibile, quanto accadde, esattamente, il 20 marzo del '94. 

Incomprensibile resta anche il disinteresse del SISMI, il servizio segreto militare, su questa vicenda. A cercare di spiegare il perché il SISMI si disinteressò di quel duplice omicidio ci ha provato, di recente, Afredo Tedesco, l'uomo che il servizio segreto militare aveva spedito in Somalia in quel periodo perché raccogliesse informazioni utili a garantire la sicurezza del contingente italiano che doveva ripiegare e rientrare in patria. Secondo Tedesco, il SISMI non aveva alcun potere/dovere di indagine sulla morte della Alpi e di Hrovatin. Davanti al tribunale di Roma - che agisce per calunnia contro Giampiero Sebri - Tedesco ha impapocchiato una spiegazione, affermando che “soltanto le Nazioni Unite avevano il potere di fare indagini su quell'agguato”.

Istituzionalmente - ha aggiunto Tedesco, mostrando uno scarso senso del ridicolo - non rientrava nei nostri compiti fare indagini anche se, per quel poco che potevo vedere, lavorando a Mogadiscio, avevo l'impressione che chi di dovere non facesse molto per individuare i responsabili della morte della cronista e del suo operatore. Della Alpi, qualche giorno prima dell'agguato, seppi, attraverso alcuni suoi colleghi, che aveva subito minacce nel corso di una sua trasferta a Bosaso, ma dopo poche ore appresi anche che gli stessi colleghi furono rassicurati da una struttura delle Nazioni Unite. Per questa ragione, non collegai inizialmente la morte della Alpi a quelle minacce”.

CRIMINALITÀ:
VALLANZASCA CHIEDE LA GRAZIA A CIAMPI

Con una lettera al capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, Renato Vallanzasca ha chiesto la grazia.

Vallanzasca è “tecnicamente” detenuto da quasi 33 anni, anche se vi sono stati periodi più o meno lunghi, negli anni 70 e '80, passati in latitanza dal Bel René dopo le sue leggendarie evasioni. Sta scontando quattro ergastoli, collezionati assieme a 260 anni di carcere per i molti delitti commessi a partire dalla metà degli anni '60 quando, ancora ragazzino, iniziò la sua carriera di malavitoso nel quartiere della Comasina.Vallanzasca è ritenuto responsabile di 7 omicidi (fra le sue vittime anche uomini delle forze dell'ordine), tre sequestri, tra i quali quello della giovane Emanuela Trapani, rapine e molti altri reati.

Una detenzione, la sua, che stando a diverse testimonianze lo avrebbe profondamente cambiato, ma senza spegnere il suo orgoglio. In carcere, dopo gli anni delle rivolte e delle clamorose evasioni compiute o tentate (l'ultima il 31 dicembre '95 dal carcere di Nuoro), è diventato un esperto di computer. Soprattutto non si è mai rassegnato al regime molto duro cui è sottoposto.

A quanto trapela dalla casa di pena di Voghera, la stessa in cui Michele Sindona bevve il mortale caffè avvelenato, dietro l'atteggiamento di Vallanzasca ci sarebbe non solo l'impossibilità di vedere l'anziana madre, ma anche la sua crescente insofferenza per il regime restrittivo.

Vallanzasca è infatti rinchiuso nel settore di “elevato indice di vigilanza”, uno dei reparti più severi e sorvegliati dell'intero istituto. E' costretto a stare in cella da solo e qualche tempo fa è stato anche punito con due settimane d'isolamento per il suo rifiuto di rientrare nel settore di competenza al termine dell'ora d'aria. Durante questo periodo gli sono stati negati anche i momenti di socialità con gli altri detenuti e l'accesso alla saletta computer.

Ai giovani che mi scrivono dico sempre che non solo non devono emularmi, ma devono prendere ad esempio negativo ciò che ho fatto, rendendosi conto che a fare i banditi si finisce col marcire in galera”: così scriveva Vallanzasca, nel novembre scorso, in una lettera inviata ad un giornalista. “Penso - aggiungeva - che una seria prevenzione del crimine passi attraverso la conoscenza del dolore: a questi ragazzi parlo del dolore che ho inferto agli altri e di quello che provo dopo 32 anni passati in galera, a soli 54 anni”.

Alcuni mesi prima, nel febbraio dello scorso anno, Vallanzasca, in un'intervista al settimanale Panorama, aveva chiesto l'intervento del prefetto di Roma, Achille Serra, funzionario della Squadra Mobile ai tempi delle sue sanguinose scorribande milanesi, perché gli desse una mano ad allentare il suo regime carcerario. “Era un feroce assassino, ma oggi non sarebbe nemmeno in grado di rubare una macchina - aveva risposto Serra - Io non dico di rimetterlo in libertà, ho negli occhi e nel cuore i volti dei miei uomini morti sotto i suoi colpi. Ma il carcere ha anche il compito di riammettere alla vita il peggiore dei delinquenti”.

Con indignazione, qualche mese dopo, Vallanzasca aveva accolto la notizia dei permessi concessi al “pentito” di mafia Giovanni Brusca. “Io ho solo chiesto, inutilmente, di essere trasferito a Milano per curare i disturbi odontoiatrici di cui soffro e rivedere mia madre, che ha 87 anni e che non incontro dal 2001. Chi si 'pente' dopo avere ucciso bambini di 12 anni può addirittura uscire dal carcere, e penso che questo sia un problema da affrontare in Italia”.

Nella richiesta di grazia rivolta al presidente della repubblica Vallanzasca ha scritto: “Perché dovrebbe essermi concessa la graziaonestamente non lo so. Pensandoci mi sovvengono molte più ragioni per non concedermela, visto i tanti disastri da me commessi. Ma, al di là dei reati, 33 anni di prigione sono una vita intera”.

COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO:
L’ITALIA FANALINO DI CODA

L’Italia è il paese dell’area OCSE che nel 2004 ha destinato alla cooperazione allo sviluppo la minore quantità di risorse rispetto al proprio Pil: solo lo 0,15 % (lo 0,16 nel 2003).

Davanti all’Italia ci sono gli Stati Uniti (0,16%)  per cento, contro lo 0,15 per cento del 2003) e il Giappone (0,19 per cento, contro lo 0,20 per cento dell’anno precedente). I donatori più generosi sono la Norvegia con lo 0,87 % (0,92 nel 2003), il Lussemburgo (0,85), la Danimarca (0,84), la Svezia (0,77), l’Olanda (0,74).

Sempre nel 2004, la media dei paesi OCSE è stata dello 0,25 per cento.

L’obiettivo fissato dall’Ue per i Paesi membri è di destinare alla cooperazione allo sviluppo nel 2006 lo 0,39 per cento del Pil.

In realtà, e in cifre assolute, l’ Italia è all’ottavo posto della classifica dei donatori, con 2.484 milioni di dollari nel 2004 rispetto ai 2433 milioni del 2003”, ha precisato Giuseppe Deodato, direttore generale della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina.

La classifica in valore assoluto è guidata dagli Stati Uniti (18.999 milioni di dollari), seguiti da Giappone, Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda e Svezia.

VIETNAM:
30 ANNI DOPO TORNANO ANCORA
LE SPOGLIE DI SOLDATI USA

I resti di tre marines e di un paramedico della U.S.Navy, caduti in Vietnam nella guerra conclusasi trent'anni or sono, sono stati individuati, recuperati, identificati e rimpatriati il 26 aprile scorso per essere sepolti con gli onori militari.

Tutti e quattro rimasero uccisi in uno scontro a fuoco con i VietCong nel 1967: i loro corpi, all'epoca, non poterono essere recuperati perché il fuoco era troppo intenso.

Fonte: ANSA

 

 

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