FATTI DI GENOVA:
RIBALTATA IN APPELLO
LA SENTENZA DI PRIMO GRADO 

Chi cerca giustizia dice di solito che “c’è sicuramente un giudice a Berlino”. Questa volta il giudice in questione non era a Berlino, ma a Genova dove in Appello, nonostante le tante prescrizioni, la giustizia è stata molto severa con alcuni dei poliziotti, dei medici e delle guardie penitenziarie presenti nella caserma di Bolzaneto durante i gioni del G8 di Genova del luglio 2001. La caserma-lager delle torture.

La prescrizione infatti non ha cancellato la responsabilità dei 44 imputati nel processo di secondo grado. E anche se i reati sono stati dichiarati prescritti, i poliziotti, i secondini e anche i medici sono stati dichiarati responsabili civilmente. I reati furono commessi - è in sostanza quello che hanno stabilito i giudici della seconda sezione penale della Corte di appello di Genova - e i responsabili dovranno pagare. Non con anni di galera, ma con il denaro.

La sentenza è arrivata il 5 marzo scorso dopo undici ore di camera di consiglio e ha ribaltato la decisione di primo grado. Il 14 luglio 2008 furono condannati 15 imputati a pene ridicole per un totale di 23 anni e nove mesi di reclusione, mentre 30 furono assolti. In appello i condannati penalmente sono stati solo sette: la pena più severa (3 anni e due mesi) è stata inflitta all’assistente capo della Polizia di stato Massimo Luigi Pigozzi che divaricò le dita di una mano, strappandone i legamenti, a uno dei fermati di Bolzaneto. Ad un anno sono stati condannati i secondini Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia. Due anni e due mesi sono stati inflitti al medico Sonia Sciandra. Infine ad un anno ciascuno sono stati condannati gli ispettori della polizia di Stato Mario Turco, Paolo Ubaldi e Matilde Arecco, che avevano rinunciato alla prescrizione convinti di essere innocenti e quindi assolti.

Tra i nomi di spicco che sono stati dichiarati responsabili anche Oronzo Doria, all’epoca dei fatti colonnello della polizia penitenziaria, che era stato assolto in primo grado.

I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati si sono dichiarati soddisfatti alla lettura della sentenza. “E' stato accolto l’impianto accusatorio. E' stato riconosciuto l’abuso per tutti - hanno detto - e anche i falsi dei medici nelle cartelle cliniche e negli atti delle matricole. Sono state anche aumentate le pene e anche le provvisionali”.

Soddisfazione anche dell’avvocato di parte civile Stefano Bigliazzi: ''La sentenza ha corrisposto integralmente a tutti gli appelli delle parti civili e dei pm. Le prescrizioni, purtroppo, sono un dato di fatto ma non spostano di una virgola il risarcimento del danno”.

Ha invece annunciato che presenterà ricorso in Cassazione l’avv. Piergiovani Iunca, difensore dell’ispettore Paolo Ubaldi. ''E' una sentenza che mi lascia allibito perché agli effetti civili ha dichiarato tutti responsabili. Il mio cliente, tra l’altro, aveva rinunciato alla prescrizione credendo fermamente nella possibilità di un’assoluzione”.

Molto soddisfatti anche Giuliano e Heidi Giuliani, i genitori di Carlo, il giovane ucciso il 20 luglio 2001 in piazza Alimonia: “Riteniamo che si debba esprimere soddisfazione. Sono stati condannati tutti, anche quelli che erano stati assolti in primo grado e quindi si è affermata la responsabilità. Erano reati che prevedevano un certo numero di condanne. Finalmente si può dire che una sentenza positiva è arrivata sui fatti di Genova. Attendiamo le altre”.

L’importanza della sentenza, che riconosce che a Bolzaneto vi furono “gravi violazioni dei diritti umani” è stata sottolineata anche da Amnesty International: “La mancanza nel codice penale italiano del reato di tortura, che l'Italia è obbligata a introdurre dal 1988 - ha commentato il portavoce Riccardo Nouby - ha fatto sì che alla gravità delle azioni commesse non abbiano corrisposto sanzioni altrettanto dure. La previsione del reato di tortura avrebbe impedito la prescrizione. E' importante che anche attraverso questa sentenza non vi siano più altre Bolzaneto in Italia”.

 

DELITTO DI PERUGIA:
MOTIVAZIONI SURREALI 

Contraddicono tutte le perizie ed hanno un che di surreale le motivazioni della sentenza di primo grado con chui il 5 dicembre scorso la corte d’Assise di Perugia ha condannato a 25 anni Raffaele Sollecito e a 26 Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher.

Secondo le motivazioni l’assassino di Meredith è stato un omicidio con un movente “erotico, sessuale, violento”, maturato in un “crescendo” cominciato con Rudy Guede che, “cedendo alla propria concupiscenza'”, tentò un approccio con la giovane. Venne però respinto e a quel punto intervennero Raffaele e Amanda per i quali la prospettiva di aiutarlo “poteva apparire come un eccitante particolare che, pur non previsto, andava sperimentato”.

I motivi della loro decisione i giudici li spiegano in 427 pagine depositate il 5 marzo scorso. I fideisti giudici di Perugia hanno sposato in pieno la pur confusa ricostruzione del pm Giuliano Mignini, già distintosi in altre fantasiose ricostruzioni, come quella relativa alla morte del medico  Francesco Narducci, messa in relazione con i delitti del mostro di Firenze.

Con grande sprezzo del ridicolo i giudici di Perugia definiscono il quadro dell’omicidio “senza vuoti e incongruenze”.

Cosa successe dunque, secondo la corte d’assise, nella casa di via della Pergola (dove Mez abitava insieme all'americana e a due italiane assenti la notte del delitto? Invece di sostenere che Amanda e Raffaele erano sicuramente presenti nella casa del delitto, con un oscuro giro di parole i giudici affermano che “nessun elemento” ha confermato che i due imputati non si trovassero lì ma a casa di Sollecito come hanno invece sostenuto. “False e finalizzate a sottrarsi all’accertamento della verità” sono state considerate le affermazioni su questo punto dell’americana che per i giudici vanno quindi valutate come “indizio a carico”. A ben vedere il ragionamento è incredibile: siccome nulla dimostra che Amanda e Raffaele non erano in quella casa allora vuol dire che c’erano.

Per Sollecito e la Knox il collegio - facendo propria la ricostruzione dei pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi - ha delineato una serata improvvisamente libera durante la quale si recarono in via della Pergola facendo entrare in casa (verso le 23) Guede (processato con il rito abbreviato e condannato in appello a 16 anni di reclusione) che

andò subito in bagno mentre i due allora fidanzati si appartarono in camera della giovane “per stare in intimità”. Una situazione probabilmente avvertita dall'ivoriano come “carica di sollecitazioni sessuali”, tanto da indurlo - è l'ipotesi ritenuta più probabile dalla Corte in base agli indizi a disposizione - a cercare un approccio con Mez ancora sveglia, vestita e intenta nella lettura di un libro o in un compito universitario in camera sua. Avance alle quali però l’inglese - si legge ancora nelle 427 pagine - oppose un “netto rifiuto” dopo il quale Sollecito e la Knox “intervennero

spalleggiando Rudy”. Perché - ritengono sempre i giudici - la prospettiva di aiutarlo “nel proposito di soggiogare Meredith per abusarne sessualmente poteva apparire come un eccitante particolare che, pur non previsto, andava sperimentato”. Il tutto in un contesto segnato anche dall’uso di droga (leggasi spinelli) da parte dei due ex fidanzati che ferirono al collo Mez: prima Sollecito, dopo avere tagliato il reggiseno, provocando la ferita più piccola con un coltello che portava sempre con sé e quindi la

Knox, che provocò la lesione maggiore con quello da cucina poi sequestrato in casa del giovane pugliese. Per i giudici è “affidabile” l’esito dell’indagine genetica condotto dalla scientifica sulla lama definita “assolutamente compatibile” (leggasi, appunto, compatibile e cioè non certa) con la ferita più grave dopo un ultimo “grido fortissimo di dolore”. Dopo che Guede aveva violentato con una mano la giovane inglese ormai “quasi completamente denudata”. Poi il tentativo da parte di Sollecito e della Knox di inscenare un furto e le accuse, risultate infondate, dell'americana a Patrick Lumumba, per le quali è stata condannata anche per calunnia.

Un quadro accusatorio contro il quale i difensori di sollecito e della Knox hanno comunque già annunciato appello.

E data la debolezza di questo quadro è molto probabile che in Appello la sentenza di primo grado sarà ribaltata.

 

DELITTO DI PERUGIA (2):
E ADESSO SPUNTANO
LE PRESUNTE CONFIDENZE DI GUEDE 

Una confidenza di Rudy Guede, raccolta da Mario Alessi, potrebbe contribuire a scagionare Raffaele Sollecito e Amanda Knox dall’accusa di avere ucciso Meredith Kercher.

Ne è convinta la difesa del giovane pugliese che ha acquisito la deposizione del muratore siciliano condannato all’ergastolo per l’omicidio del piccolo Tommaso Onori nell’ambito delle proprie indagini difensive. Guede infatti avrebbe riferito ad Alessi che la notte in cui venne uccisa Mez, i due ex fidanzati non erano nella casa di via della Pergola. A colpire mortalmente alla gola la giovane inglese con un coltello sarebbe stato invece un uomo non ancora identificato che era lì con lui.

La deposizione di Alessi è stata verbalizzata e videoregistrata dai difensori di Sollecito, gli avvocati Luca Maori e Giulia Bongiorno che hanno depositato alla procura di Perugia il nuovo materiale.

Guede e Alessi sono entrambi rinchiusi nel carcere di Viterbo. Nella sezione riservata a chi è accusato di reati a sfondo sessuale dove il muratore, in base alla sua versione, ha raccolto le confidenza dell'ivoriano (già condannato in appello a 16 anni di reclusione per il concorso nell’omicidio Kercher).

In particolare Guede ha confermato (come fatto fin da subito dopo essere stato coinvolto nell’indagine) la sua presenza nella casa del delitto (al quale si è però sempre detto estraneo), sostenendo di non avere mai conosciuto Sollecito e di avere incontrato solo occasionalmente la Knox. L’ivoriano, sempre secondo Alessi, avrebbe inoltre riferito che ad uccidere la Kercher fu un altro uomo presente nella casa dopo che Mez aveva rifiutato di partecipare a un festino a sfondo sessuale. Rudy e il suo amico - è emerso ancora dalla deposizione del muratore - si sarebbero poi allontanati insieme recandosi in discoteca.

 

 

TRATTATIVA MAFIA-STATO:
L’AUTODIFESA DEL GEN. MARIO MORI 

Nell’udienza del 3 marzo scorso Mario Mori, generale dell’Arma ed ex direttore del Sisde, il segreto civile, imputato di avere condotto, per conto dello Stato, una trattativa con la mafia durata anni, ha negato di essere sceso a patti con Cosa nostra.

Mori, leggendo un memoriale lungo 39 cartelle, ha contestato le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, suo grande accusatore. L’ex alto ufficiale non ha negato di avere cercato la collaborazione di don Vito, longa manus dei boss corleonesi nella politica. Ma i primi contatti con l’ex sindaco risalirebbero a fine agosto del 1992, quando le stragi in Sicilia c’erano già state. Una differenza notevole rispetto a quanto raccontato da Massimo Ciancimino, che, collocando gli incontri tra il padre e i vertici del Ros nel periodo a cavallo tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, alimenta, negli inquirenti, il sospetto che la morte del giudice Paolo Borsellino fosse la carta giocata dal boss Totò Riina per accelerare la resa dello Stato.

Quella che Ciancimino chiama trattativa, per Mori fu solo il tentativo di indurre don Vito a collaborare con la giustizia in un periodo in cui lo Stato, in ginocchio dopo le stragi, rischiava il tracollo. “Ritenni preciso obbligo morale e professionale - ha spiegato il generale - di onorare la memoria dei due magistrati, con cui avevo condiviso lavoro e speranze, promuovendo nuove linee di contrasto a Cosa nostra".

Se, poi, per Massimo Ciancimino, i carabinieri, mandati da rappresentanti delle istituzioni - il teste ha fatto il nome del ministro dell’Interno dell’epoca Nicola Mancino - accettarono l’impunità del boss Bernardo Provenzano come prezzo da pagare per catturare Riina; per Mario Mori i militari non fecero alcuna concessione, pretendendo una resa incondizionata. “Dicemmo a Ciancimino, che aveva rapporti con la mafia, anche se non sapevamo con chi in particolare - ha spiegato l'imputato - che non ci sarebbero stati benefici e, al massimo, avremmo trattato bene i familiari dei capimafia che si fossero arresi”. Don Vito nel sentire le parole dei militari sarebbe impallidito. “Mi volete morto”, avrebbe detto pensando alla reazione di Cosa nostra nel sentire il no dello Stato.

E questa è davvero la parte più debole dell’autodifesa di Mori. Come si può conciliare quanto lui stesso afferma (“lo stato era in ginocchio dopo le stragi”) con la pretesa di imporre rese incondizionate?

Tra tentennamenti e ripensamenti la collaborazione, mai formalizzata, di don Vito sarebbe proseguita fino al suo arresto, a dicembre del 1992, pochi mesi prima della cattura di Riina. “Non fece in tempo a portarci al boss”, dice Mori (che quindi ammette implicitamente che una richiesta di “consegna” del capo dei capi era stata avanzata), smentendo uno dei punti caldi del suggestivo racconto di Massimo, che vuole il padre protagonista, insieme a Provenzano, dell'arresto del padrino corleonese, venduto da una mafia stanca delle stragi.

TRATTIVA MAFIA-STATO (2):
FAMILIARI DI VIA DEI GEORGOFILI:
“NOI ABBIAMO PAGATO CARO
GLI INCONTRI CONFIDENZIALI” 

“Se non c’é stata una trattativa, ma un tentativo serio delle istituzioni per fermare le stragi, dopo l’uccisione dei giudici palermitani, con incontri confidenziali, come afferma il generale Mario Mori, allora quel tentativo è stato veramente infausto e mal calcolato, perché noi abbiamo perso cinque persone fra gli affetti più cari e tantissimi li vediamo oggi alla disperazione e in balia di decisioni peregrine”.

E' quanto afferma, in una nota, Giovanna Maggiani Chelli, vice presidente  e portavoce dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, in merito alle dichiarazioni spontanee rese davanti ai giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo dove Mori è imputato insieme al colonnello Mauro Obinu, di favoreggiamento aggravato di Cosa nostra.

“La mafia dopo le stragi del 1992 - continua la Maggiani Chelli -  il tiro lo ha alzato, proprio come in una trattativa, è indiscusso, altrimenti oggi non piangeremo i nostri figli morti in via dei Georgofili il 27 maggio 1993. E’ un dato emerso dal processo di Firenze: la mafia doveva fare rumore più fortemente e lo ha fatto con 300 chili di tritolo. Ci spieghino perché doveva fare più rumore, rispetto a che cosa? Chiediamo quindi che sia esercitato sì il diritto di difesa, previsto ampiamente dalla legge per istituzioni o non, ma bando ai tentativi di linciaggio morale, perché i nostri figli sono morti per davvero e trattativa o incontri confidenziali sono stati un gravissimo errore, che noi abbiamo pagato carissimo in termini di vite umane”.

TRATTATIVA MAFIA-STATO (3):
PER EX GIUDICE DI LELLO
CIANCIMINO MISCHIA VERO E FALSO 

“Massimo Ciancimino? mi convince e non mi convince, mischia cose vere e cose false”. Per questo sulle sue dichiarazioni occorreranno “riscontri esterni, come chiede un'ormai consolidata giurisprudenza”.

Giuseppe Di Lello, per anni giudice istruttore a Palermo accanto a Giovanni Falcone in quel pool antimafia creato e voluto da Rocco Chinnici, è “perplesso” su alcune delle deposizioni che sta rendendo il figlio dell’ex sindaco di Palermo.

“C’è abbastanza giurisprudenza - sostiene Di Lello - che dice che queste dichiarazioni di per sé non hanno valore, vanno riscontrate; che insomma bisogna procedere con i piedi di piombo”. Una prudenza più che necessaria nel caso di Massimo Ciancimino: “Sta facendo parlare un morto, suo padre. E i morti non sono attendibili. Se non si cercassero riscontri esterni, sarebbe troppo facile. Inoltre Ciancimino parla di cose che risalgono a quando era piccolissimo e che gli avrebbe riferito suo padre. Mi pare strano che lui ne sia venuto a conoscenza”.

E se gli si chiede di spiegare quali sono le affermazioni di Ciancimino che puzzano di falso, Di Lello risponde con un esempio: “Racconta che il padre fosse dispiaciuto del sacco di Palermo, proprio lui che è stato tra i distruttori della città. Che ora il primo sindaco della mafia debba parlare per bocca del figlio non può che lasciarmi perplesso”.

ASSOLUZIONE MANNINO:
PER LA CASSAZIONE
“DA BOCCIARE LA PROCURA DI PALERMO” 

Per la Cassazione, Calogero Mannino, assolto dopo 17 anni dall’inizio delle indagini dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa non ha “stipulato alcun patto” con Cosa nostra e merita la piena “bocciatura” il ricorso con il quale la procura della corte d’Appello di Palermo ha chiesto ai supremi giudici di annullarne l’assoluzione.

Per la Cassazione - come si legge nelle motivazioni della sentenza - il ricorso della procura non solo confonde la sentenza di assoluzione di primo grado con quella di annullamento con rinvio disposta nel 2004 dalla stessa Suprema Corte, “scambiando una parte narrativa della sentenza di annullamento con una parte valutativa che apparteneva, invece, alla sentenza del tribunale”, ma si limita ad affermare, senza fornire una adeguata base probatoria, “la notoria compromissione della politica siciliana con la mafia”.

Secondo la Cassazione, contro l'ex ministro non sono state fornite prove che abbiano “rilievo penale” sulla presunta “stipula del patto elettorale” con Cosa nostra nel 1981.

Nelle 52 pagine di motivazione con la quale la Suprema Corte ha messo la parola fine alla vicenda giudiziaria di Calogero Mannino, i supremi giudici concludono che “alla indimostrata efficienza causale, dell’impegno e della promessa di aiuto del politico (a Cosa Nostra), sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell’ente, non può che derivare il proscioglimento del Mannino dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa”.

Con questa decisione la Suprema Corte ribadisce che “la promessa e l’impegno del politico di attivarsi, una volta eletto, a favore della cosca mafiosa” realizzano il reato di concorso esterno a Cosa Nostra “a condizione che sia provato che tale patto elettorale politico-mafioso abbia prodotto risultati positivi, qualificabili in termini di reale rafforzamento o consolidamento dell'associazione mafiosa”. Altrimenti non è possibile condannare nessuno sostenendo un “apodittico ed empiricamente inafferrabile contributo al rafforzamento dell’associazione mafiosa in chiave psicologica: nel senso che, in virtù del sostegno del politico, risulterebbe automaticamente aumentato, all’esterno il credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento, e, all’interno, rafforzato il prestigio dei capi”.

Risulta così pienamente convalidata la sentenza di assoluzione emessa nell’appello bis il 22 ottobre 2008 con la quale i giudici avevano evidenziato che Gioacchino Pennino (segretario cianciminiano della sezione della Dc di Brancaccio e uomo d’onore riservato della famiglia di Brancaccio), unico e principale accusatore di Mannino, aveva escluso di essersi attivato “in ambienti e contesti mafiosi per favorire

L’imputato nelle consultazioni elettorali”. Inoltre la Cassazione ricorda come, in maniera logica e immune da contraddizioni, i giudici dell'appello bis avessero osservato come “appena due anni dopo la stipula del preteso patto politico elettorale con Pennino, il Mannino si attivò non già per aiutare il Pennino stesso, bensì per ostacolarne in maniera determinante l’azione, contribuendo ad emarginare sia il suo referente politico (Ciancimino) sia tutto il gruppo a lui facente capo”.

MAFIA:
CUFFARO NUOVAMENTE SOTTO PROCESSO
IL PROSSIMO 15 APRILE 

Il Gup di Palermo Vittorio Anania ha fissato al prossimo 15 aprile un nuovo processo, questa volta con rito abbreviato, contro Totò Cuffaro, ex governatore siciliano, ora senatore Udc, già condannato in appello a 7 anni di reclusione per favoreggiamento aggravato nell’ambito dell’inchiesta sulle cosiddette talpe alla Dda.

Questa volta all’ex governatore non si contesta soltanto la fuga di notizie che portò alla scoperta delle microspie piazzate dal Ros a casa del boss Giuseppe Guttadauro, oggetto del primo dibattimento, ma l’avere contribuito, durante tutta la sua carriera politica, al “sostegno ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa”. Un apporto, quello assicurato alle cosche, che avrebbe fruttato all’ex governatore i voti della mafia. Per i pm, dunque, Cuffaro, che avrebbe avuto rapporti con diversi uomini d'onore - da Guttadauro, ad Angelo Siino, dall’agrigentino Maurizio Di Gati, all’ex manager della sanità privata Michele Aiello - avrebbe messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo, consentendole di influenzare l’andamento della vita politica siciliana e di assicurare l’impunità ai propri esponenti.

Accuse pesanti che si poggiano su vecchi e nuovi “pentiti” e, ora, anche sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo che sta svelando i retroscena della trattativa tra Stato e mafia. Testimone dei rapporti del padre con boss del calibro di Bernardo Provenzano, Ciancimino jr ha recentemente consegnato ai pm un pizzino che il padrino corleonese avrebbe scritto all’ex sindaco. Nella lettera c’é un riferimento a un interessamento “del nostro sen. e del nuovo pres.” a un provvedimento di clemenza per i detenuti mafiosi. Il biglietto risale all’11 settembre 2001. Per i pm Provenzano avrebbe fatto riferimento a Marcello dell'Utri, all’epoca deputato, e a Cuffaro, insediatosi a palazzo D’Orleans da pochissimo. Secondo il capomafia, la normativa di favore per i mafiosi sarebbe stata spinta anche da un avvocato che la procura di Palermo ha identificato nell’avv. Nino Mormino, allora deputato e presidente della commissione Giustizia. Ed ora legale dell’ex governatore della Sicilia.

MAFIA (2):
LA ‘NDRANGHETA E’
L’ORGANIZZAZIONE CRIMINALE PIU’ PERICOLOSA 

La ‘Ndrangheta ha ormai soppiantato Cosa nostra nella classifica delle organizzazioni criminali mafiose più pericolose. Un’indicazione sottolineata nell'ultimo rapporto dei servizi segreti al Parlamento: la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza.

“La criminalità organizzata calabrese resta l'espressione delinquenziale più insidiosa e pervasiva - si legge nel Rapporto - particolarmente attiva nell’infiltrazione degli appalti pubblici, nello sviluppo dei rapporti di natura collusiva o intimidatoria con i locali livelli tecnico-amministrativi, nella ricerca di referenti affaristico-imprenditoriali attraverso i quali partecipare occultamente ai progetti di riqualificazione del territorio, nella tessitura di reti transnazionali funzionali soprattutto alla gestione del narcotraffico”.

L’intelligence sottolinea anche le tensioni derivanti dalla competizione tra le cosche locali per il controllo degli appalti e per la spartizione degli affari illeciti. Una situazione aggravata dall’assenza delle leadership tradizionali, in gran parte detenute, che hanno lasciato la guida delle cosche a soggetti più giovani, poco disponibili alla mediazione.

I Servizi, nel loro rapporto al Parlamento, rilevano anche “l’attitudine della ‘Ndrangheta a trasferire competenze e relazioni criminali sia all’estero, dove resta attore primario nel narcotraffico, sia nel centro-nord d’Italia, area d’insediamento delle articolate reti dello smercio di droga, nonché ambito di penetrazione per un livello affaristico propenso ad innestare nel tessuto ospite i tradizionali modelli collusivi e intimidatori”.

In particolare, l’intelligence rileva presenze della ‘Ndrangheta in Lombardia, “dove alcuni fatti di sangue testimonierebbero il trasferimento nell’area di tensioni interclaniche, nonché in Piemonte, in Umbria e nel Lazio”, dove attività dell’AISI, confermate da specifiche indagini di polizia, “hanno evidenziato intrecci tra interessi economici e criminali”.

Alla ‘Ndrangheta o “Calabrian Mafia” è dedicato anche un capitolo della sezione “Crimine organizzato” del sito web dell’Fbi.

“Ci sono circa 160 cellule della ‘Ndrangheta - si legge sul sito del Federal Bureau of Investigation - con circa seimila membri. Sono specializzate nei rapimenti, nella corruzione a livello politico, ma anche nel traffico di droga, negli omicidi, negli attentati dinamitardi, nella contraffazione, nel gioco d'azzardo, nelle frodi, nelle rapine, nel racket legato al mondo del lavoro, nell’usura e nella tratta di esseri umani”. Negli Stati Uniti, conclude l'Fbi, sono attivi tra i cento e i duecento membri e affiliati, principalmente a New York e in Florida.

MAFIA (3):
IN UN LIBRO LA SCIOCCANTE STORIA
DI LUIGI ILARDO 

di Paolo Cucchiarelli

“Molti attentati addebitati a Cosa nostra non sono stati commessi da noi ma dallo Stato. Voi lo sapete benissimo”.

E' Luigi Ilardo, l’infiltrato nel vertice di Cosa nostra, a parlare. Le sue vecchie rivelazioni sono alla base del processo in corso a Palermo a carico dell’ex capo del Sisde, il servizio segreto civile, e del Ros, il gen. Mario Mori, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Una vicenda che è il cuore della trattativa tra spezzoni dello Stato e Cosa Nostra e che chiama in causa il senatore Marcello Dell'Utri. Ora questa vicenda, relegata finora ai margini della cronaca, è ricostruita nel volume “Il Patto. Da Cianciminino a Dell’Utri. La trattativa Stato e mafia nel racconto inedito di un infiltrato”, scritto da Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci e  pubblicato da Chiarelettere.

Ilardo è un infiltrato dentro Cosa nostra negli anni delle stragi e all’inizio della Seconda repubblica. Un uomo d’onore al servizio dello Stato ma che muore alla vigilia della  suo formale riconoscimento dello status di “pentito”. Muore perché aveva fatto un passo falso o perché “bruciato” da qualcuno nel vortice di contrattazioni tra Stato e mafia? Oggi le rivelazioni di Ilardo - raccolte dal col. Michele Riccio - sono alla base del processo in corso a Palermo che vede come principale imputato il gen. Mario Mori ed un altro ufficiale, il col. Obinu.

Ilardo parla di patti e di arresti di capimafia (“In Sicilia i capi o muoiono o si vendono”). Fa i nomi. Cita, per primo, Marcello Dell'Utri: “un esponente insospettabile di alto livello appartenente all’entourage di Berlusconi”.

Sembra una storia sudamericana, ma è realmente accaduta in Italia. Meno di venti anni fa. E oggi, dopo le rivelazioni del figlio di Vito Ciancimino, molti parlano, confermano proprio quello che per primo disse Ilardo.

Nel 1994 però nessuno lo ascoltò, a parte il colonnello Riccio, che registra tutto su preziose cassette. Ilardo è credibile perché proprio l'infiltrato porterà gli uomini del Ros nel casolare di Provenzano. Basta ascoltare Ilardo (ci sono i nastri con la sua voce e il tutto è dettagliatamente ricostruito nel volume) per capire quale incredibile partita si è giocata in quei mesi.

Tra il colonnello Riccio e Ilardo, nell’estate del 1995 intercorre questo dialogo:
- Per caso l'uomo dell’entourage di Berlusconi di cui mi parlavi è Dell'Utri?
- Colonnello, ma se lei le cose le capisce, che me le chiede a fare?”.

MAFIA (4):
PER IL VICE CAPO DELLA POLIZIA
“NON SI SCONFIGGERA’ MAI” 

“La crimininalità organizzata è la più grande emergenza del Paese, ma purtroppo non si sconfiggerà mai”.

Lo ha affermato Paola Basilone, vicecapo della Polizia di Stato, in un’intervista al settimanale “Diva e donna”.

“Oggi - ha aggiunto - si è fatto un grande passo avanti con le catture dei latitanti e le norme che mettono le mani in tasca ai criminali: la direzione è quella giusta anche se la mafia è fortissima, dà da mangiare a migliaia di famiglie e gestisce un bilancio parallelo. Non si può sradicare un fenomeno del genere e questo mi fa venire rabbia, anche se non dobbiamo gettare la spugna”.

Paola Basilone è la donna ai vertici della Polizia dagli inizi degli anni ‘90.

CAMORRA:
PER LA CASSAZIONE E’ CORRETTA
L’ACCUSA DI CONCORSO ESTERNO
NEI CONFRONTI DELL’ON. COSENTINO 

L’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti del sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino è corretta.

In particolare la Suprema Corte, nella sentenza del 3 marzo scorso, osserva che “l’accertamento dei dati fattuali dai quali sono stati desunti i gravi indizi di colpevolezza resiste alle censure esperibili con il ricorso diretto in Cassazione”. Resta, inoltre, “intangibile dal sindacato di questa Corte la motivazione sviluppata dal Gip per esprimere il proprio convincimento in ordine alla elevata probabilità di colpevolezza relativa al concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso realizzatosi mediante il patto concluso con il sodalizio camorristico e il coinvolgimento nella società Eco4, operante nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti”.

Ad avviso della Cassazione, da tutto ciò si deve trarre “il corollario che è immune da mende logiche e giuridiche, apprezzabili in questa sede, l’operazione di sussunzione dei fatti accertati nello schema di concorso esterno in associazione di stampo mafioso”.

L’emissione della richiesta di arresto per Cosentino - negato dalla Camera dei Deputati il 10 dicembre 2009 - è stata avanzata dal Gip del Tribunale di Napoli nell’ambito di una inchiesta sui presunti rapporti, nati sin dall’inizio degli anni Novanta, tra l’attuale sottosegretario all’Economia e vari esponenti del clan dei casalesi. I contatti sarebbero avvenuti prima con la famiglia Bidognetti e, in una seconda fase, con gli Schiavone. Cosentino sarebbe stato non solo il “referente politico” dei casalesi nella società Eco4 - incaricata della raccolta diretta dei rifiuti in numerosi comuni del casertano - ma anche il “cogestore”.

L’accusa è quella di aver ricevuto in più occasioni, e durante la militanza in diversi partiti, l’appoggio elettorale dei casalesi inserendoli, in cambio, nella gestione di imprese per la raccolta dei rifiuti nelle quali venivano assunte persone gradite ai clan. L’inchiesta ha fatto perdere a Cosentino la candidatura a governatore della Campania per il Pdl che gli ha preferito Stefano Caldoro. Lo scorso 19 febbraio, Cosentino - dopo un incontro con il premier Silvio Berlusconi - ha ritirato le dimissioni da sottosegretario e quelle da coordinatore del Pdl in Campania, presentate il giorno prima, quando il suo partito aveva scelto di appoggiare la candidatura del centrista Domenico Zini, dell'Udc, alla Provincia di Caserta in cambio dell'appoggio del partito di Pierferdinando Casini alla corsa di Caldoro.

OMICIDIO FRAGALA':
INDAGINI PUNTANO SU KILLER SOLITARIO 

Era un suo ex cliente l’uomo indagato per l’omicidio del penalista palermitano, già parlamentare, Enzo Fragalà, ucciso a colpi di bastone. L’uomo in passato era già stato condannato, a suo avviso, “ingiustamente” ed era convinto di non essere stato difeso bene dal legale che aveva seguito in prima persona il suo caso.

Si trattava di un processo di microcriminalità, estraneo a reati di mafia. Il giovane, che corrisponderebbe alla descrizione fornita da alcuni dei testimoni sentiti dagli inquirenti, covava rancore nei confronti del legale. Sarà solo l’esame del Ris dei suoi vestiti e del casco a stabilire se effettivamente ci siano tracce di sangue o di saliva del penalista ridotto in fin di vita a colpi di bastone il 23 febbraio scorso e poi morto dopo tre giorni di agonia. I Carabinieri stanno anche passando al vaglio l’alibi fornito dal giovane.

In un primo momento l’attenzione degli investigatori si era puntata sugli ultimi casi di omicidio trattati dal legale. Gli inquirenti avevano sequestrato una serie di fascicoli esaminando, in particolare, quattro o cinque vicende processuali. Come quella controversa e molto travagliata della faida tra due famiglie palermitane - i D’Amore e i Lo Forte. Gli animi delle parti decisamente accesi e il contesto della faida - sullo sfondo c’é anche la famiglia mafiosa di Vicari alla quale i Lo Forte sarebbero legati - aveva attirato l’attenzione degli inquirenti.

Analizzato a fondo anche il processo ai cosiddetti “amanti diabolici” che, dopo la confessione poi ritrattata e infine confermata di uno dei due imputati, Gianfilippo Marotta, ha portato alla sua condanna a 16 anni con il rito abbreviato. L’uomo è libero, mentre è ancora sotto processo l'ex compagna Elena Smeraldi: insieme avrebbe ucciso il marito di lei, Giuseppe Lo Cicero, colpito a morte in testa con una statuetta.

CASO CONTRADA:
PER I GIUDICI “NON E’ PERICOLOSO”
E PUO’ RESTARE AI DOMICILIARI 

Il tribunale di sorveglianza di Palermo ha deciso che Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde che sta scontando una pena a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, non è più “pericoloso” e, per questo, gli sono stati prorogati per altri nove mesi gli arresti domiciliari che Contrada sta scontando a Palermo, in casa sua. Ancora: il tribunale, presieduto da Alberto Bellet e a latere il magistrato di Sorveglianza Nicola Mazzamuto, ha accolto la tesi dell’avvocato di Contrada, Giuseppe Lipera.

Il legale di Contrada ha commentato: “Spero che  si tratti dell’inizio di una nuova stagione di verità e di giustizia. Adesso aspettiamo che la Corte di Appello di Caltanissetta si determini a dichiarare ammissibile l’istanza di revisione del processo”.

OMICIDIO CALVI:
COMINCIATO PROCESSO D’APPELLO 

Prima udienza del processo d’Appello per la morte del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra il 18 giugno del 1982, e formalizzazione della richiesta della pubblica accusa di sentire in aula Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito.

E’ quanto accaduto il 3 marzo scorso davanti ai giudici della I Corte d’assise d’Appello di Roma, presieduta da Guido Catenacci, che devono valutare l’atto di appello proposto dalla procura generale della capitale contro la sentenza di assoluzione, per insufficienza di prove, pronunciata il 6 giugno 2007 dalla II corte d’Assise nei confronti di Flavio Carboni, Silvano Vittor, Pippo Calò ed Ernesto Diotallevi.

Secondo l’accusa, tutti gli imputati, avvalendosi delle organizzazioni criminali di tipo mafioso, avrebbero organizzato la morte di Calvi “per punirlo di essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle organizzazioni criminali”.

GIUSTIZIA MALATA:
A PROCESSO LE MAESTRE DI RIGNANO 

Comincerà il prossimo 27 maggio il processo a cinque imputati coinvolti nei presunti abusi di almeno 21 bambini che frequentavano l’asilo Olga Rovere di Rignano Flaminio. La nuova caccia alle streghe in perfetto stile medioevale continua.

Il giudice Pier Luigi Balestrieri il 12 febbraio scorso ha deciso che sui fatti che sarebbero avvenuti nella scuola del paese alle porte di Roma tra il 2005 e il 2006 si dovrà svolgere un processo. Alla sbarra le tre maestre Marisa Pucci, Silvana Magalotti e Patrizia Del Meglio, una bidella, Cristina Lunerti e l’autore tv, nonché marito dalla Del Meglio, Gianfranco Scancarello. Le accuse parlano di maltrattamento, violenza sessuale e stupro di gruppo.

Per gli avvocati difensori, la decisione del giudice è “sconcertante” ma si dicono  pronti ad affrontare un processo dove dimostreremo ”l’innocenza dei nostri assistiti” perché “siamo in presenza di un paradosso: in dibattimento ci dovremo confrontare sugli stessi indizi che sia il Riesame che la Cassazione avevano ritenuti insussistenti”.

Sarà, quindi, un processo a chiarire cosa sia davvero avvenuto quattro anni fa nell’asilo di Rignano. Una vicenda che fin dal primo momento ha diviso l'Italia in innocentisti e colpevolisti. L’accusa si basa sul racconto fatto da alcuni bambini ai genitori: tra il 2005 e il 2006 i piccoli sarebbero stati prima narcotizzati e poi avrebbero subito violenza sessuale in una villa poco distante dalla scuola, il tutto alla presenza di un uomo che avrebbe filmato (filmato mai trovato).

Il 24 aprile del 2007 vengono disposti gli arresti delle maestre, di Scancarello, e di un benzinaio cingalese, Kelum Weramuni De Silva, la cui posizione verrà poi archiviata così come quella di un’altra maestra, Assunta Pisani. Dopo poche settimane, il 10 maggio del 2007, il Tribunale del Riesame li rimette in libertà, smontando fin dalle fondamenta la tesi accusatoria, così come farà la corte di Cassazione.

Ma la Procura di Tivoli non ammette il suo abbaglio e prosegue nell’inchiesta raccogliendo - a suo dire – “nuovi indizi” anche grazie all’incidente probatorio.

Ma la ciliegina sulla torta arriva 15 giorni dopo il rinvio a giudizio, quando il 27 febbraio si apprende che ad appoggiare Roberto Fiore - segretario di Forza Nuova, organizzazione dell’estrema destra spesso accusata di razzismo e oscurantismo - alla presidenza della Regione Lazio sarà una esponente dell’Agerif, ovvero proprio l’associazione che raccoglie alcuni genitori di Rignano Flaminio, parenti dei bimbi coinvolti nei casi di presunta pedofilia avvenuti nella scuola materna Olga Rovere.

E così la Lega Italia Fronte Verde, che appoggia Fiore, avrà come capolista Arianna Di Biagio, dirigente dell'Agerif, tra le madri più abbagliate dall’ipotesi della pedofilia di Rignano. La lista giusta per continuare un percorso negativo che ha all’origine una psicosi di massa.

TERRORISMO ITALIANO ANNI ‘70:
SU FACEBOOK GRUPPI A FAVORE BRIGATE ROSSE 

“Il terrorismo in Italia è stato sconfitto, non altrettanto si può dire per il seme dell’odio, che periodicamente torna a germogliare. Lo abbiamo visto rinascere pochi anni fa con l'omicidio di Marco Biagi. Oggi i segnali sono preoccupanti, basta vedere cosa accade nel mondo dei social network dove nascono in continuazione gruppi pro Lioce o pro Brigate Rosse o pro Prima Linea. Questo è preoccupante perché vuol dire che c’è ancora un focolaio acceso”. Lo ha detto Lorenzo Conti, figlio dell’ex sindaco di Firenze Lando, assassinato dalle Brigate Rosse il 10 febbraio 1986.

TERRORISMO ITALIANO:
VERSO IL PROCESSO MORLACCHI E VIRGILIO 

E’ attesa quanto prima la richiesta di rinvio a giudizio di Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio, i due presunti brigatisti arrestati a Milano il 18 gennaio scorso nell’ambito di un’inchiesta della magistratura romana riguardante un gruppo eversivo che, secondo l’ipotesi di lavoro degli inquirenti, si proponeva di rilanciare la lotta armata.

Il 4 febbraio scorso il Tribunale del riesame della capitale aveva respinto la richiesta di scarcerazione.

Morlacchi e Virgilio sono accusati dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti e dai sostituti Luca Tescaroli ed Erminio Amelio di partecipazione ad associazione sovversiva e banda armata nelle nuove Br, ruotanti, secondo i magistrati, intorno alla figura del romano Luigi Fallico, arrestato nel giugno dello scorso anno insieme con altre quattro persone.

TERRORISMO ITALIANO (2):
LA CASSAZIONE CHIEDE PENE PIU’ DURE
PER ATTENTATI DIMOSTRATIVI 

Serve una condanna più pesante per i tre sardi appartenenti ai Nuclei proletari combattenti che la notte tra il 21 e il 22 marzo 2006 attentarono alla sede elettorale di Bruno Murgia, candidato di An, con una bomba rudimentale che, solo accidentalmente, non esplose.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso della Procura di Sassari e annullando, con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, la condanna a tre anni e due mesi di reclusione inflitta a Ivano Fadda, Paolo Anela e Antonella Lai.

In particolare la Suprema Corte ha deciso che anche nel caso di “attentati dimostrativi” deve essere applicata l’aggravante dei reati finalizzati all’eversione dell’ordine democratico. Dunque non basta la sola condanna per terrorismo: la pena deve essere raddoppiata proprio per effetto dell’aumento degli anni di carcere contemplato dalle norme antiterrorismo del 1980. In Appello ai tre era stato contestato solo il reato di terrorismo senza aggravanti ed era stata ridotta la pena che, inizialmente, era di quattro anni per Anela e Fadda e tre per Lai. Promossa, dunque, la tesi della procura in base alla quale “l’attentato dinamitardo alla sede elettorale di un candidato al Parlamento, anche alla luce dei motivi della rivendicazione enunciati nel volantino sequestrato, si connette alla finalità eversiva dell’ordinamento costituzionale e priva di pregio é la considerazione che si trattò di una azione dimostrativa. Lo scopo dimostrativo, proprio per la sua valenza propagandistica, non contraddice la finalità eversiva”.

TERRORISMO INTERNAZIONALE:
OBAMA DELUDE ANCORA:
PROROGA DI UN ANNO PER PARTI DEL “PATRIOT ACT” 

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha prorogato di un anno alcune misure che attribuiscono al governo più poteri per investigare contro il terrorismo già contenute nel “Patriot Act”, la controversa legge adottata da George W. Bush all'indomani dell’11 settembre.

Obama ha rinnovato alcune disposizioni previste nel provvedimento esistente, senza tener conto delle modifiche più garantiste chieste con vigore dall'ala progressista del partito democratico. In particolare, alcuni parlamentari liberal da tempo chiedevano a Obama di rafforzare la difesa della privacy sugli inquisiti e un maggiore controllo sulle indagini.

Con la sua firma Obama ha confermato invece che sarà possibile intercettare le conversazioni di una persona sospetta su un qualsiasi telefono e vigilare uno straniero che si pensa possa essere coinvolto in azioni terroristiche anche se non appartiene ad alcuna organizzazione estremista.

TERRORISMO INTERNAZIONALE (2):
IN GERMANIA DICHIARATA INCOSTITUZIONALE
LA NUOVA LEGGE 

La controversa legge antiterrorismo tedesca che di fatto dava alle autorità la licenza di spiare e memorizzare tutte le comunicazioni elettroniche dei cittadini, è completamente da rifare. La Corte costituzionale ha infatti bocciato la cosiddetta legge “Big Brother” (“Grande Fratello”), ordinando al governo di cancellare immediatamente tutti i dati immagazzinati finora.

Per i conservatori  e per la cancelliera Angela Merkel (Cdu) si tratta di una dura sconfitta. La legge, infatti, voluta soprattutto dalla Cdu, era stata varata nel 2008 dalla Grande Coalizione dell’esecutivo Merkel 1, mentre i liberali della Fdp - alleati dell’Unione nel nuovo governo - si erano subito opposti. E insieme a loro, si erano opposti circa 35mila cittadini - tra medici, avvocati, giornalisti e politici dell'opposizione (Verdi) - che avevano promosso la più grande class-action mai vista in Germania.

La legge “Big Brother” imponeva l’obbligo di archiviare per sei mesi tutti i dati relativi alle comunicazioni (telefoniche e via Internet) nel Paese come misura preventiva contro la minaccia del terrorismo. Informazioni, queste, a cui le autorità potevano accedere in caso di necessità.

La Corte suprema ha stabilito che la legge va ben oltre i requisiti della corrispondente direttiva Ue ed è incostituzionale. Per questo, non solo le autorità dovranno cancellare subito tutte le informazioni in loro possesso, ma dovranno rivederla profondamente.

La memorizzazione dei dati, hanno concluso i giudici di Karlsruhe, potrebbe causare nei cittadini “una minacciosa sensazione di essere sotto osservazione”, che a sua volta potrebbe incidere sulla “percezione senza pregiudizi dei diritti fondamentali della persona in molte aree”.

ESECUZIONI MIRATE DI ISARELE:
GRAN BRETAGNA MANDA INVESTIGATORI A TEL AVIV 

Investigatori sono stati inviati da Londra in Israele per interrogare 10 cittadini israelo-

britannici i cui passaporti risultano tra quelli usati dal commando che il 19 gennaio scorso ha ucciso a Dubai l'esponente di Hamas Mahmud al-Mabhouh, ritenuto elemento chiave nel traffico di armi fra l’Iran e il movimento islamico-radicale palestinese.

Secondo una fonte dell’ambasciata britannica a Tel Aviv, i dieci saranno interrogati nella sede della rappresentanza diplomatica prima di avere un nuovo passaporto britannico, bonificato rispetto a quello clonato.

Intanto gli investigatori di Dubai hanno identificato finora 26 persone ritenute coinvolte nel blitz costato la vita a Mabhouh e giunte a gennaio negli Emirati con identità rubate e documenti manipolati: quindici dei quali appartenenti a persone (dichiaratesi ignare) che hanno anche un passaporto israeliano.

Il capo della polizia di Dubai attribuisce “al 99 se non al 100%” la paternità dell’operazione al Mossad e ha sfidato il capo dei servizi segreti israeliani, Meir Dagan, a smentire in modo netto il coinvolgimento dei suoi agenti o ad “ammettere da uomo” la propria responsabilità. Israele, tuttavia, non ha fatto finora alcuna ammissione e, ipocritamente, insiste ufficialmente sulla mancanza di prove concrete a carico della sua agenzia di intelligence.

TERRORSIMO BASCO:
ARRESTATO IL CAPO DELL’ETA
CHE VOLEVA UCCIDERE IL RE 

L’uomo più ricercato dall’antiterrorismo di Madrid è stato catturato il 28 febbraio scorso nel corso di in un blitz congiunto franco-spagnolo in un villaggio della Bassa Normandia, Cahan, nemmeno 300 abitanti. L’uomo è Ibon Gogeaskoetxea Arronategi, 54 anni, considerato il capo militare e l’attuale numero 1 dell’Eta. Con lui sono finiti in manette altri due “etarra” ricercati dalla Spagna: Bernat Aginagalde, 26 anni - presunto attentatore nel 2008 del socialista basco Isaias Carrasco,  ucciso pochi giorni prima delle elezioni politiche spagnole, e dell’imprenditore Uria Mendizabal – e un membro storico dell’Eta, Josè Lorenzo Ayestaran Legorburu, 52 anni, per anni in Venezuela. Legorburu è accusato di avere partecipato a dieci attentati negli anni Ottanta. Poi era espatriato in America Latina.

Nella casa in cui sono stati arrestati la polizia ha trovato tre pistole, una piccola quantità di esplosivi, documenti falsi, danaro e materiale informatico.

Gli arresti sono avvenuti al termine dei due mesi peggiori nella storia dell’Eta, con 32 catture in Francia, Spagna e Portogallo, lo smantellamento di una base logistica portoghese e il sequestro di quasi due tonnellate di esplosivo. Gogeascoetxea è il quarto capo del gruppo armato basco arrestato in Francia in due anni, dopo che nell’organizzazione i militari hanno preso il sopravvento sui politici. Gogeaskopetxea inoltre, come ricorda il giornale Abc, è l'uomo che voleva uccidere il re. E' infatti accusato di avere fatto parte con il fratello del commando che nell’ottobre 1997 cercò

di assassinare Juan Carlos di Borbone durante l'inaugurazione del museo Guggenheim di Bilbao. Avevano imbottito tre fioriere di granate anticarro e di mine antiuomo che avrebbero dovuto saltare al passaggio del monarca. Ma vennero intercettati e costretti a fuggire dopo uno scontro a fuoco con la polizia basca senza riuscire a portare a termine l’attentato.

L’arresto di Gogeaskopetxea interviene in un momento delicato per il gruppo armato che, secondo l’antiterrorismo,spagnolo, starebbe cercando di realizzare un attentato spettacolare durante il semestre di presidenza Ue della Spagna e mentre nei Paesi Baschi la sinistra indipendentista radicale sta riorganizzandosi e sarebbe pronta per la prima volta a scegliere la strada solo della politica, dissociandosi dalla violenza dell’Eta.

Il 1° marzo, infine, una corte di Belfast ha concesso l’estradizione in Spagna del militante dell’Eta José Ignacio de Juana Chaos, 54 anni, che si era rifugiato in Irlanda del Nord dall’autunno 2008. Ritenuto uno dei terroristi più pericolosi nello storia dell'organizzazione separatista basca, De Juana era stato scarcerato nell’agosto del 2008 dalla prigione di Aranjuez, a sud di Madrid, dove aveva scontato 21 anni di prigione per 25 omicidi. Diventato famoso anche per i suoi lunghi scioperi della fame in carcere, De Juana aveva beneficiato in patria di un controverso sconto di pena. La magistratura spagnola ha richiesto la sua estradizione perché lo accusa di nuovi reati di terrorismo.

FATTI DI GENOVA:
LA CORTE DI STRASBURGO ACCOGLIE IL RICORSO DELLA FAMIGLIA GIULIANI 

La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha deciso oggi di accogliere i ricorsi per un rinvio alla Grande Camera presentati dalla famiglia Giuliani e dal governo italiano, in merito alla sentenza sull’uccisione di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova del 2001.

Sia la famiglia che il governo avevano infatti chiesto il rinvio - un riesame finale della Grande Camera concesso solo in casi eccezionali per l’importanza dell’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Secondo quanto spiegato dai portavoce della Corte, la famiglia aveva fatto ricorso contro la decisione sul merito della morte di Giuliani, su cui la Corte aveva stabilito lo scorso agosto che non c’era stato “uso sproporzionato della forza” e che il carabiniere che uccise Giuliani aveva sparato per legittima difesa.

Il governo aveva invece deciso di ricorrere contro la decisione sull’aspetto procedurale, quella con cui la Corte ha dato ragione ai familiari di Carlo Giuliani: in particolare per quanto riguarda l’inchiesta che l’Italia avrebbe dovuto svolgere su quanto possa avere pesato sui fatti di Genova una scarsa pianificazione e gestione in materia di ordine pubblica e pubblica sicurezza.

STRAGISMO:
LA RICOMPARSA DEL CAPITOLO DI “PETROLIO”,
IL LIBRO POSTUMO DI PASOLINI 

E' un vero giallo la ricomparsa a tanti anni dalla sparizione del capitolo “Lampi sull'Eni” che Pier Paolo Pasolini aveva già scritto per il suo romanzo incompiuto “Petrolio”.

La ricomparsa del capitolo, in tutto 78 pagine, è stata annunciata dal sen. Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo, il quale ha però spiegato di esserne entrato in possesso grazie ad un non meglio identificato “privato”. Il capitolo, così ha detto Dell’Utri, sarà mostrato il 12 marzo prossimo alla XXII mostra del Libro Antico.

La prima ideazione di “Petrolio” risale alla primavera del 1972 e su di essa Pasolini lavorò fino all’omicidio avvenuto all’idroscalo di Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975.

Del capitolo scomparso in quel gigantesco “frammento” pubblicato 18 anni fa, di quello che avrebbe dovuto essere un romanzo di circa duemila pagine, si legge a pagina 97 dell’edizione Einaudi: “Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato 'Lampi sull'Eni', e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria”. Dove “Bonocore” altri non è nella prosa pasoliniana che Enrico Mattei, il presidente dell’Eni misteriosamente morto in volo nel 1962.

“Petrolio” fu pensato da Pasolini come il suo romanzo politico. E per scriverlo raccolse anche materiali scottanti, probabilmente grazie a contatti privilegiati nel mondo dell’industria e della politica. Una fonte di “Petrolio”, come è stato accertato anche da una recente inchiesta della magistratura che indagava sulla morte di Mattei, fu un volume, nato dai veleni interni all’ente petrolifero italiano, scritto da tale Giorgio Steimetz, che si intitolava “Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente” che uscì nell'aprile 1972 presso una non meglio identificata Agenzia Milano Informazioni (Ami). Si tratta di un libro fantasma perché fu subito ritirato dalla circolazione. Si trattava di un pamphlet sulla vita, sul carattere e sulla carriera del successore di Mattei alla guida dell'Eni. Soprattutto, raccontava alcuni passaggi biografici, da quando Eugenio Cefis fu partigiano in Ossola (con alcuni risvolti poco chiari) alla rottura con Mattei nel 1962, mai perfettamente spiegata; dal rientro all’Eni al salto in Montedison.

Secondo alcune recenti ricostruzioni, in quel capitolo di “Petrolio” sparito e oggi misteriosamente ricomparso, intitolato “Lampi sull’Eni”, si ipotizza che Eugenio Cefis, che Pasolini aveva ribattezzato “Troya”, avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali. E proprio indagando sulla morte di Mattei, presidente dell’Eni prima di Cefis, pochi anni fa un magistrato pavese, Vincenzo Calia, ha riconosciuto la lucidità dello scrittore nel ricostruire il degrado e la mostruosità italiana, identificando il burattinaio principale in Eugenio Cefis, affarista e liberista tanto quanto Enrico Mattei era utopista e statalista.

Anche il giudice Calia ha letto “Petrolio” e poi è riuscito fortunosamente a reperire una copia anche di “Questo è Cefis”. E per primo ha colto tutte le analogie e le simmetrie tra il testo di Steimetz e il romanzo incompiuto di Pasolini. Per il sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia il fondatore dell’Eni fu “inequivocabilmente” vittima di un attentato.

Di questo mistero legato a Pasolini si parla anche nel libro “Il Petrolio delle stragi” dello scrittore Gianni D’Elia, un saggio-inchiesta pubblicato nel 2006 dalle edizioni Effigie, di recente ripreso da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in “Profondo nero” (Chiarelettere, 2009), lo stesso titolo dato a uno dei capitoli dell’inchiesta di D’Elia, che i due autori correttamente indicano tra le principali fonti d’ispirazione del loro lavoro.

Nel 2005, per il trentennale dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, le edizioni Effigie avevano pubblicato “L’eresia di Pasolini”, sempre di D'Elia. Nel 2006 D'Elia era tornato sul suo pamphlet, arricchendolo attraverso la sua lettura di “Petrolio” come uno strumento per leggere il nostro ieri e l’oggi. Pasolini non sarebbe stato ucciso da un ragazzo di vita perché omosessuale, ma da sicari prezzolati dai poteri, “occulti o no”, in quanto oppositore a conoscenza di verità scottanti. Il motivo dell’omicidio di Pasolini sarebbe stato proprio “Petrolio” e il suo capitolo oggi ritrovato.

MOBY PRINCE:
SU FACEBOOK GRUPPO CHE VUOLE LA VERITA' 

Sono già 5 mila e continuano a crescere le adesioni al gruppo creato su Facebook “Quelli che vogliono la verità sul Moby Prince”.

“L'Italia che non accetta i silenzi c’é e lo dimostra con i messaggi, con i consigli, con i commenti”, ha affermato Loris Rispoli, presidente dell’associazione “140” e ideatore del gruppo.

Il 10 aprile del 1991, poco dopo le 22, il traghetto della Moby entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Ne uscì vivo solo un mozzo, mentre nell’incendio che scoppiò a bordo della nave morirono 140 persone. Il primo processo ha assolto tutte le persone inquisite subito dopo la tragedia, ma la procura di Livorno entro poche settimane dovrebbe chiudere il fascicolo dell’inchiesta bis, condotta da un pool di pm Antonio Giaconi, Massimo Mannucci e Carla Bianco.

Tra le adesioni al gruppo, spiega Rispoli, ci sono quelle di “gente comune, associazioni, la redazione di Chi l’ha visto?, Peace Report, Unicobas Toscana, Arcigay, Camere del Lavoro, la Cgil nazionale”, ma anche Cecilia Strada (figlia di Gino, il fondatore di Emergency) e Adele Parrillo (compagna del videomaker morto nell’attentato di Nassiriya).

“Era da tempo - scrive Rispoli - che meditavo l’idea di usare la rete per dare un più ampio respiro alla vicenda”. In questi giorni (e fino al 10 aprile, giorno del 19/o anniversario della tragedia) Rispoli pubblicherà sulla pagina Facebook i nomi delle 140 vittime di quella che è stata definita la “Ustica del mare”.

EDITORIA:
LA “BELLA STAGIONE” DEL QUOTIDIANO L’ORA 

Era un giornale di battaglia e di denuncia. Ma anche un punto di riferimento per la cultura e una voce critica per la Sicilia. Quando cessò le pubblicazioni, nel maggio 1992, L’Ora salutò i suoi lettori con un titolo aperto alla speranza: “Arrivederci”. Malgrado qualche tentativo di riportarlo in vita, all’appuntamento promesso non si è più ripresentato. Quell’esperienza straordinaria è diventata storia e lunedì 1° marzo alcuni redattori ne hanno reso testimonianza in una giornata di studi a palazzo Steri a Palermo.   

E’ stato riletto il periodo più significativo del giornale, quello che coincide con la direzione di Vittorio Nisticò tra il 1955 e il 1975. Vincenzo Consolo, che di quel giornale fu un assiduo collaboratore, l’ha definita la “bella stagione”. Con Nisticò si formarono tre generazioni di cronisti che poi hanno ricoperto ruoli di primo piano nella grande stampa nazionale. Nisticò è morto l’anno scorso e ha lasciato del suo passaggio una lunga traccia. In una mostra allestita per l'occasione sono state riproposte le pagine più significative di quel periodo a cominciare da quella ormai celebre del 20 ottobre 1958: “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”. Il giorno prima la tipografia del giornale era stata danneggiata da una bomba esplosa dopo la pubblicazione della seconda puntata di una grande inchiesta sulla mafia. Alla rappresaglia degli uomini di Luciano Leggio il giornale rispose rilanciando la sfida. Da quel momento L’Ora diventò la voce più informata e più scomoda sui traffici di Cosa nostra e sui legami dei boss con il potere.   

Il ruolo del giornale venne connotato da tanti altri elementi: la modernità del linguaggio e dello stile grafico, la collocazione al centro del dibattito culturale, le battaglie per il riscatto civile e per lo sviluppo sociale della Sicilia, le denunce del malgoverno, l’attenzione per i giovani e per la condizione femminile nel Mezzogiorno. Il giornale ne ricavò grande prestigio e notorietà anche cinematografica. Ma pagò un prezzo molto alto. Fu sommerso dalle denunce, fu colpito direttamente con l'uccisione di tre giornalisti: Cosimo Cristina nel 1960, Mauro De Mauro scomparso nel 1970, Giovanni Spampinato assassinato nel 1972. Tre storie che trovarono un’eco di dolore e di rabbia nelle prime pagine. “Aiutateci” titolò dopo la scomparsa di De Mauro. “Ucciso perché cercava la verità”, scrisse per annunciare l'eliminazione di Spampinato.

L’Ora aveva una forte identità di sinistra, era certamente schierato ma non settario. Proprio Nisticò ne aveva assicurato l’autonomia anche verso l’editore di riferimento, il Pci, che lo aveva rilevato nella metà degli anni Cinquanta.

Cuore pulsante del giornale era naturalmente la cronaca, ma le sue pagine erano aperte alle collaborazioni costanti di tanti intellettuali tra cui Leonardo Sciascia e al contributo di scrittori non solo siciliani. L’impegno civile, la tensione morale e lo spessore professionale del gruppo storico dei redattori (da Mario Farinella a Giuliana Saladino, da Marcello Cimino a Felice Chilanti) diede a quel giornale il ruolo di una vera scuola di giornalismo. Tanti erano i giovani attratti dal carisma di un maestro come Nisticò, pochi riuscirono a passare attraverso il filtro di selezioni rigorose.

La Biblioteca regionale siciliana ha acquisito l’archivio dell'Ora e una ricca raccolta di immagini scattate da grandi fotoreporter del dopoguerra come Enzo Sellerio, Nicola Scafidi, Letizia Battaglia.

Fonte: ANSA

MORTO IN CASERMA:
TUTTI ASSOLTI I COMMILITONI DEL MILITARE
MORTO IN SERVIZIO 16 ANNI FA 

La Corte d’assise d’Appello di Messina ha confermato l’assoluzione dei sette commilitoni del soldato di leva Salvatore Malgioglio, 19 anni di Francofonte (Siracusa), ucciso 16 anni fa da una fucilata mentre svolgeva servizio a Santa Teresa Riva.

La notte del 17 luglio 1994 i militari svolgevano servizio di presidio all’interno del deposito della Stat, un’azienda di autolinee che nei giorni precedenti aveva subito alcuni attentati a opera del racket (due pullman era stati incendiati). Il controllo rientrava nell’operazione Vespri siciliani: in quel periodo l’Esercito era stato delegato al controllo di obiettivi sensibili, possibili oggetto di attentati da parte della mafia.

Nonostante tanti anni di indagini e dibattimenti non è stata mai accertata la verità sulla morte di Malgioglio. In un primo momento venne ipotizzato il suicidio del giovane, disperato per l’ennesima notte di ronda notturna, poi una lite nel corso della quale poteva essere accidentalmente partita la fucilata, infine un errore di un commilitone che avrebbe fatto fuoco pensando ad un attentatore.

I soldati assolti sono Giuseppe Sciarrabba di Palermo, accusato di omicidio preterintenzionale; Samuel Iacono di Comiso (Rg), Giampiero Li Puma di Petralia Sottana (Pa), Roberto Romano di Altavilla Milicia (Pa) e Antonino Barcia, Luciano Cappello e Vincenzo Tummina, tutti di Palermo, imputati di favoreggiamento.

STRAGI NAZISTE:
EX SOLDATO DIVISIONE “GOERING” A GIUDIZIO 

Il gup della procura militare di Verona ha disposto il rinvio a giudizio per Erich Koeppe, ex soldato appartenente alla divisione corazzata nazista “Hermann Goering”, per le stragi di Monchio, Costrignano e Susano, nel Modenese, del 18 marzo 1944 nella quale vennero uccisi 138 civili e per quella del 10 aprile 1944 in cui vennero trucidati sette civili in località Cerreto Maggio, nel comune di Vaglia (Firenze).

Per la strage nel Modenese, il gup si è riservato di decidere sul rinvio a giudizio di due caporali della “Goering”, gli ottantaquattrenni Horst Gunter Gabrile e Alfred Luhmann. La prossima udienza è fissata al 24 marzo. Intanto al processo è stato comunicato il decesso di un altro ex soldato della “Goering”, Hilmar Lotz, 87 anni, che era stato rinviato a giudizio sia per l'eccidio del modenese che per quello fiorentino.

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