MAFIA E STATO:
TOTO' RIINA NON FU CATTURATO, FU CONSEGNATO 

E adesso, potete giurarci, complice una buona parte della stampa italiana, cominceranno le manovre per far passare Massimo Ciancimino per un pazzo, un mentitore, un depistatore. Magistrati e corpi dello stato, carabinieri e servizi segreti in testa, si daranno un gran da fare per dimostrare che ciò che il figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito, a suo tempo uomo dei corleonesi di Cosa nostra, sta rivelando ai magistrati di Palermo è falso.

Ma cosa dice Ciancimino di così scottante? Ascoltiamolo dalla sua voce: "Era l'autunno del 1992. Mio padre chiese a quei due ufficiali del Ros dei carabinieri che incontrava spesso, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, le mappe di una zona ben precisa di Palermo. Sono stato io a fotocopiarle e so che, attraverso un intermediario, arrivarono al signor Lo Verde, cioè a Bernardo Provenzano".

Come spiega in un articolo sull'Unità del 31 luglio 2009 il giornalista Nicola Biondo, "le fotocopie delle mappe stradali non restarono nelle mani di Bernardo Provenzano, alias signor Lo Verde, ma tornarono indietro. Sopra c'erano dei segni che indicavano un luogo preciso. "Mio padre - aggiunge Massimo Ciancimino - diede quelle fotocopie al Ros. Fu grazie ad esse che si arrivò al rifugio di Totò Riina".

Dunque la tanto mediaticamente decantata cattura del boss dei boss non fu opera di una brillante operazione dei carabinieri. Non ci fu alcun lavoro investigativo. Nessun "pentito" - e tantomeno Balduccio Di Maggio - collaborò. Riina fu consegnato da una soffiata proveniente da quell'area di Cosa nostra che riteneva troppo "spinta" la scelta del capo dei capi di aggredire uomini dello Stato come Falcone e Borsellino e referenti mafiosi dello stesso come Salvo Lima e Ignazio Salvo, anche loro eliminati nel 1992.

In un libro dal titolo "Segreti di mafia", uscito nel 1994 per l'editore Laterza, Sandro Provvisionato, direttore di Misteri d'Italia, scriveva: "Non esistono catture, nella storia dei latitanti di Cosa nostra, più annunciate e per certi versi più inquietanti di quelle dei superboss Salvatore Riina e Nitto Santapaola. Bisogna pensare ai soliti giochi truccati? Riina "venduto" in una riedizione degli anni Novanta del caso Giuliano?".

Oggi gli interrogativi sono altri.:

  • Quale fu il prezzo che lo Stato pagò a Provenzano per la consegna di Riina?
  • Forse un allegerimento nel contrasto della mafia?
  • Forse un lungo periodo di pace?
  • Forse, nell'immediato della cattura, la mancata perquisizione dell'appartamento in cui Riina viveva, mancata perquisizione per la quale sono stati assolti due uomini dello Stato come lo stesso Mario Mori (poi diventato direttore del Sisde, il segreto civile) e Sergio De Caprio, il "famoso" Capitano Ultimo?
  • E a proposito di quest'ultimo sapeva De Caprio di prestarsi ad una sceneggiata (quella della cattura) o era consapevole di recitare una parte?
  • Oppure il prezzo pagato dallo Stato fu la protezione della latitanza di Binnu Provenzano per la quale sono sotto processo ancora una volta Mario Mori (oggi consulente del sindaco Alemanno per la sicurezza a Roma) e un altro ufficiale del Ros Mario Obinu?
  • E ancora. Chi sapeva di quella consegna di un latitante da parte di Cosa nostra?
  • Lo sapeva il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, oggi procuratore a Torino, giunto nel capoluogo siciliano lo stesso giorno (il 15 gennaio 1993) dell'arresto di Riina?
  • Quanti magistrati della procura di Palermo del tempo sapevano di questo inghippo?
  • Lo sapeva l'attuale capo dei servizi segreti Gianni De Gennaro, all'epoca uomo di punta del settore investigativo di contrasto a Cosa nostra?
  • E l'allora ministro dell'Interno Mancino, oggi ai vertici del Csm, lo sapeva?

Cade uno dei misteri di Palermo. Molti altri ne rimangono. Ma oggi sappiamo che anche nella lotta alla mafia l'inciucio, la scorciatoia, la trattativa sono stati il motore dominante. La solita Italietta.

STRAGI 92/93:
NON SOLO MAFIA 

Quello che a lungo è stato un fondato sospetto ora sta per diventare una certezza anche sotto il profilo giudiziario. Non sono soltanto di mafia, ma anche di Stato, le stragi che nel 1992 (Capaci e Via d’Amelio) e nel 1993 (Roma, Firenze e Milano) che provocarono complessivamente 22 vittime.
Le novità vengono dalle confessioni di Massimo Cincimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, e da due “pentiti”. Il primo si dice in possesso di preziosi documenti, subito “secretati” dai magistrati siciliani, e forse tra questi anche c’è anche il famoso “papello”, ossia il testo della trattativa che lo Stato, attraverso uomini dei carabinieri e dei servizi segreti intavolarono con la Cosa nostra. Gli altri due disegnano uno scenario per la strage di via D’Amelio - in cui morirono il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini e una donna della sua scorta - decisamente diverso da quello appurato in diversi gradi di processi.
Anche la commissione parlamentare Antimafia si avvia a varare un’inchiesta dedicata non solo alle stragi ma anche ai cosiddetti delitti eccellenti di Palermo. Verrà riaperto anche il fascicolo processuale sull’attentato all'Addaura del 1989 che aveva nel mirino non solo Giovanni Falcone, ma anche il magistrato svizzero carla Del Ponte.
La nuova ipotesi investigativa è che Borsellino sia stato prescelto come obiettivo in fretta e furia perché si era messo “di traverso” nella trattativa avviata da misteriosi intermediari con la mafia.

STRAGI 92/93:
LA TRATTATIVA 

Oltre alle dichiarazioni di Ciancimino, i magistrati palermitani hanno agli atti dell’inchiesta dichiarazioni di diversi “pentiti”, tra cui Giovanni Brusca e Gaspare Spatuzza.
Quest'ultimo è un collaboratore molto importante anche per la procura DI Caltanissetta in quanto sta ribaltando le ricostruzioni della strage di via D’Amelio, fatte da altri “pentiti” come Scarantino e Candura. Le dichiarazioni di Spatuzza sono importanti anche per la difesa di alcuni condannati per la strage che puntano al processo di revisione.
I magistrati di Palermo hanno agli atti anche gli interrogatori di esponenti delle forze dell'ordine come il colonnello dei carabinieri Michele Riccio (che nel 1980 guidò l’irruzione dei carabinieri nel covo brigatista di via Fracchia a Genova, conclusasi con una strage) che ascoltò le dichiarazioni del mafioso Luigi Ilardo, suo confidente. Ora l’ufficiale riporta ciò che gli disse il boss, sia in diversi verbali che nei processi come in quello, per favoreggiamento aggravato, al generale dei carabinieri Mario Mori, già processato ma assolto assieme al “capitano Ultimo”, per la mancata sorveglianza all’appartamento in cui viveva Tottò Riina, e al colonnello Mauro Obinu, accusati entrambi di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano.

STRAGI 92/93:
PARLA TOTO’ RIINA 

Il 19 luglio scorso, nel 17/mo anniversario della morte di Paolo Borsellino, per la prima volta dal giorno del suo arresto (1993), il boss di Cosa nsotra Salvatore Riina, detto Totò, ha parlato delle stragi mafiose del ‘92. “L’hanno ammazzato loro - ha detto al suo legale, l’avvocato Luca Cianferoni - Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d’Italia”.
Un’uscita clamorosa, quella del padrino di Corleone, spinto - dopo 16 anni di silenzio - a consegnare al difensore la sua verità sulla strage di via D'Amelio dal clamore suscitato dalle notizie sulle nuove ipotesi investigative sulla strage.
Leggendo un articolo del Sole 24 ore, che parlava del presunto coinvolgimento di apparati dello Stato nell’uccisione del giudice, Riina - ha riferito il suo legale - ha commentato: “Avvocato, io con questa storia non c’entro nulla”.
E sulla presunta trattaviva tra Stato e mafia, intrapresa per porre fine alla stagione stragista, che avrebbe visto proprio in Riina il principale protagonista, il boss ha replicato: “Io trattative non ne ho mai fatte con nessuno; ma qualcuno ha trattato su di me. La mia cattura è stata conseguenza di una trattativa”.
Riina è infatti certo di essere stato venduto, ma continua a negare che a consentire la sua cattura sia stato un altro boss, Bernardo Provenzano.
“So che la mia posizione processuale sulla strage di via d’Amelio non cambierà - ha spiegato ancora al suo legale - Io non chiedo niente, non voglio niente e non ho intenzione di trovare mediazioni con nessuno”.
Sulla presunta trattativa tra Stato e mafia il boss ha un’idea precisa. “Il mio cliente - ha spiegato Cianferoni - sostiene che l’accordo sia passato sopra la sua testa e che i protagonisti della trattativa sarebbero stati Vito Ciancimino e i carabinieri”.
Nel suo sfogo l’anziano capomafia fa anche i nomi dei protagonisti istituzionali della trattativa: gli ufficiali dell'Arma dei acrabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno. Sarebbero stati loro a cercare il dialogo con Cosa nostra attraverso l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. “L'ho sempre detto - ha detto il padrino - Anni fa chiesi ai giudici di interrogare il figlio Massimo, ma inspiegabilmente la Corte respinse la mia istanza”.

STRAGI 92/93:
LE DICHIARAZIONI DI RIINA
APRONO MOLTE CONTRADDIZIONI
NELLO SCHIERAMENTO ANTIMAFIA 

Le novità emerse a proposito delle stragi del 92/93 ed in particolare su quella di via D’Amelio hanno aperto clamorose contraddizioni in seno alla componente statale. Superficiale appare la reazione del capo dello Stato Giorgio Napolitano che si limita a parlare di rivelazioni “più o meno senzazionalistiche che provengono da soggetti, diciamo così, piuttosto discutibili”, con chiaro riferimento alle rivelazioni di Totò Riina che il presidente della Repubblica distingue dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia. “Altra cosa - ha detto - sono le testimonianze che si acquisiscono in sede giudiziaria e lì vanno vagliate, li' se c'é un velo di oscurità o di ambiguità da squarciare bisogna squarciarlo”.
E se il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, divenuto procuratore a Palermo, guarda caso, lo stesso giorno in cui venne arrestato Riina, riesuma le teorie del depistaggio alle parole del vecchio boss di Cosa nostra, intelligentemente prudente si dimostra il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso per il quale si tratta di “ipotesi e le ipotesi devono essere seriamente riscontrate”.
Quanto al destinatario del messaggio di Riina, la questione sembra dividere le procure di Caltanissetta e di Palermo. Per il capo dell’ufficio giudiziario di Caltanisetta Sergio Lari, che da anni indaga proprio sui mandanti delle stragi del ’92-’93, “Riina si è rivolto a noi. Se vuole siamo pronti ad ascoltarlo”. Mentre di tutt’ altro avviso è il procuratore aggiunto di Palermo Antonino Ingroia: “Credo che Riina abbia mandato un messaggio a qualcun’altro perché se voleva rivolgersi all’autorità giudiziaria sapeva quali canali utilizzare. Invece ha utilizzato un canale pubblico per mandare messaggi anche ad altri”.

STRAGI 92/93:
MANCINO INCONTRO’ BORSELLINO OPPURE NO? 

Secondo Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso a via d’Amelio, Paolo Borsellino si era opposto all’accordo Stato-Cosa nostra e per questo è stato ucciso. Salvatore Borsellino continua a sostenere che l'ex ministro dell'Interno (dal '92 al '94)
Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, avrebbe avuto un incontro con suo fratello a Roma. Un incontro che invece Mancino smentisce. In un’intervista a Repubblica Mancino ha detto: “La presunta trattativa tra Stato e mafia noi l’abbiamo sempre respinta. L’abbiamo respinta anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato portato avanti dalla mafia. La riprova di tutto questo sta nella politica di fermezza adottata dal precedente governo e da quello in cui ero responsabile del Viminale. Se l’incontro di cui parla il fratello di Borsellino ci fosse stato davvero, perché mai avrei dovuto nasconderlo? E poi: che cosa si sarebbero dovute dire due persone che prima non avevano mai avuto rapporti fra di loro?”.

STRAGI 92/93:
PER AYALA MANCINO INCONTRO’ BORSELLINO 

Mafia e stato, un legame iniziato, come appare sempre più evidente dalle ultime scoperte e dalla testimonianza di Ciancimino junior, nel periodo fra la strage di Capaci e quella di via d'Amelio, oggi sembra essere ormai una verità storica.

A raccontare al quotidiano Affaritaliani.it questo rapporto il magistrato Giuseppe Ayala, componente del pool antimafia di Palermo che negli anni '80 rappresentò l'accusa nel maxiprocesso a Cosa nostra e soprattutto grande amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati rispettivamente il 23 maggio a Capaci e il 19 luglio, a Palermo.

Si indaga sulla ipotesi che le istituzioni abbiano inviato una trattativa con la mafia nei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio. Che cosa ne pensa?

La metterei diversamente. Sembra accertato che Cosa nostra abbia tentato di avviare una trattativa e non lo Stato. Trattativa che non è andata a buon fine per Cosa nostra. Cos’è accaduto nel dettaglio è compito dei magistrati capirlo grazie agli accertamenti che verranno fatti. Ma insomma francamente mi sento di escludere l'ipotesi che questa trattativa abbia avuto uno sbocco positivo. La trattativa è stata tentata da Cosa nostra in un particolare momento storico, cercando di aumentare il suo potere anche con le stragi del 93 a Roma, Firenze e Milano strumentali a questo fine. Ma non è andata in porto.

Pensa che la morte di Borsellino sia in qualche modo legata alle richieste della mafia allo Stato e che sia stata accellerata proprio perché Cosa nostra voleva che si avviasse la trattativa?

Non ho elementi perché non conosco le carte dei processi già celebrati e molti dei quali definiti in sentenza. Francamente con quella di Falcone avrei qualche dubbio. Su quella di Borsellino mi pare che l'ipotesi sia che una correlazione con la trattativa ci sia e che chi sta indagando si muova verso tale senso. Per la strage di Borsellino un nesso con la trattativa si può ritrovare ed è oggetto di un’indagine che mi pare sia in fase di non avanzato sviluppo. Faccio fatica a pensare a quello di Falcone, ma quella di Borsellino è un ipotesi seria. Naturalmente da approfondire e da verificare.

Che cosa pensa delle parole pronunciate dal capo dei capi Totò Riina dal carcere?

Non enfatizziamo queste parole. Non è perché le pronuncia Riina, vanno prese con le pinze. Anzi neanche le pinze bastano. Riina ha cercato di scagionare se stesso. E scagionando se stesso dalle strage di Borsellino tenta di scagionare Cosa nostra essendone il capo.

Ma secondo lei qual era il fine delle sue parole. Voleva mandare un messaggio a qualcuno?

Secondo il procuratore di Caltanissetta i veri destinatari del messaggio siamo noi che indaghiamo. Per me è un’ipotesi possibile. Nel senso che cerca di indurli ad approfondire questa parte mai chiarita delle responsabilità estranee a Cosa nostra. Io le devo dire che la questione è molto più banale. Il problema vero è che Riina non ne può più del 41 bis. Perché è da 16 anni in carcere, si avvicina alla soglia dei 80 anni e puntualmente gli rinnovano il regime duro. Questo è probabilmente un tentativo per cercare di inserire una novità nelle indagini che possa in qualche modo ritenere ammorbidita la sua posizione e quindi agevolare una revisione del 41 bis.

Ma cosa bisogna aspettarci da Totò Riina?

In ogni caso non ci aspettiamo nulla perché lui potrebbe, non lo farà mai, raccontare cose attinenti alle attività di Cosa nostra in generale e nello specifico attività omicidiaria. Se lui dice “Non c'entro niente, sono stato oggetto della trattativa e non partecipe”, e soprattutto “Borsellino lo hanno ammazzato loro cosa vuole che ne sappia”. È certo che la sterilità di questa fonte ipotetica è una sterilità denunciata. Se lui dice noi non c'entriamo niente. Cosa vuole che dica su ciò che è accaduto. Lui sa solo che non sono stati loro. Ma come fa a sapere chi è stato, chi ha deciso, chi ha organizzato. Se tutto è accaduto fuori da Cosa nostra lui non ne sa nulla. Penso che sia molto corretto andarlo a interrogare ma non coltiviamo nessuna illusione che possa venire fuori qualche elemento processuale valido. Se non il tentativo di scagionarsi.

I procuratori hanno riaperto le inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio ripescando vecchi fascicoli. Crede che esistano soggetti esterni a Cosa nostra che volevano la morte di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone?

Io mi avvalgo del sostegno di una persona a cui ero molto legato, Giovanni Falcone. Lui in un’intervista fatta dopo il tentativo di uccisione dell'Addaura nel giugno '89. Che disse: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi. Sto assistendo all'identico meccanismo che portò all'eliminazione del gen. Dalla Chiesa. Il copione è quello. Basta avere occhi per vedere". L'ipotesi dei poteri occulti fu la prima cosa a cui pensò Falcone. Centri di potere occulti. L'ipotesi che nella tragedia di Borsellino ci possa essere la mano di pezzi deviati dei servizi, non dei servizi segreti ma schegge deviate, mi suscita qualunque sentimento tranne che la sorpresa.

Ma secondo lei esiste davvero il famoso Papello che Ciancimino Junior continua a nominare?

Sembra di si. Ha detto che vuole farlo vedere. Pare che sia all'estero e ci siano difficoltà burocratiche per averli. Mi sembra strano che insista su questo argomento e su che questo non esista. Credo quindi che esista. Poi chi l'abbia scritto è un mistero...

L'agenda Rossa dai tanti misteri attorno ad un'agenda che non si trova. Mancino che dice di non aver mai, e sottolinea mai, incontrato Borsellino, ma sembra che l'appuntamento fosse nell'agenda di Borsellino...

Io ho parlato con Nicola Mancino, per diversi anni collega di Senato, lui ha avuto un incontro con Borsellino del tutto casuale il giorno in cui Mancino andò in Viminale per prendere possesso della sua carica in ministero.

Ma lui continua a negare l'incontro...

Ma lui mi ha detto che lo ha avuto. Mi ha fatto vedere anche l'agenda con l'annotazione. Ma francamente non ho elementi per leggere la dietrologia di questi incontro. C'era Borsellino che parlava con il capo della polizia di allora che era Parisi arriva il nuovo ministro. Parisi gli dice che c'era Borsellino se voleva salutarlo. Mancino rispose “si figuri”, lo ha accompagnato nella sua stanza, in mezzo ad altre persone, e ci fu una stretta di mano. Non ho alcun elemento per pensare che il ruolo di Mancino fu altro. E in ogni caso con la scomparsa dell'agenda rossa faccio fatica a trovare il collegamento. E sono certo che l'agenda è scomparsa. Anche Agnese ha detto che l'aveva e la teneva sempre con se. Non si trova a casa, non si trova in ufficio. quindi è scomparsa.

Scomparsa?

Non c'è dubbio. La borsa l'ho trovata io sulla macchina di Borsellino, che ci fosse nessuno lo può sapere meglio di me, perché l'ho presa io. Non l'ho aperta, io ero già deputato non avevo nessun titolo. Sono andato in Parlamento prima della morte di Borsellino. Sono arrivato per primo sul posto perché abito a 150 metri, anche prima dei pompieri. L'ho consegnata a un ufficiale dei carabinieri. È verosimile che fosse dentro la borsa e che sia fatta sparire.

È stata una sparizione isolata?

No. Non era la prima volta che succedeva. I documenti del pc di Falcone sono stati cancellati. Non sono state trovate delle annotazioni molto delicate della procura della Repubblica di Palermo che lui mi lesse personalmente. Che lesse anche a Borsellino e a Leonardo Guarnotta e agli altri colleghi. Sparite. Mi sono chiesto come fosse possibile che non fossero stati trovati. La conferma della loro esistenza me le diede il pool antimafia. Ma non è stato trovato nulla. Un’operazione simile all'agenda rossa. I documenti erano numerosi e dettagliati. Nel libro ne parlo. È un intervento sospetto e tempestivo. Capitò anche con la cassaforte del generale della Chiesa che fu trovata vuota. O anche la borsa di Aldo Moro, scenario completamente diverso. Aveva questa borsa che non fu mai trovata. I misteri sono tanti.

STRAGI 92/93:
VIOLANTE ASCOLTATO DA PROCURA PALERMO 

L’inchesta della procura palermitana, condotta dai pm Antonino Ingroia e Nino Di Matteo, su presunte collusioni tra uomini delle istituzioni ed esponenti mafiosi prima, durante e dopo le stragi del 1992 a Palermo, comprende anche la testimonianza dell’ex presidente della Camera Luciano Violante. Questi è stato presidente della commissione parlamentare antimafia dal settembre 1992 al marzo 1994, quindi nel periodo dopo le stragi e nella stagione di processi a politici e uomini dello Stato. In due ore d’interrogatorio Violante ha ricostruito alcuni episodi vissuti in quegli anni.
Nella deposozione di Violante, che è stata secretata, l’ex presidente della Camera avrebbe parlato della richiesta di un incontro avuta da parte di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, condannato per mafia e morto nel 2002 a Roma. Ciancimino avrebbe fatto avere la richiesta a Violante attraverso un ufficiale dei carabinieri. L'ex parlamentare ha detto ai magistrati che rifiutò l'incontro.

STRAGI 92/93:
QUANDO VITO CIANCIMINO VOLEVA ESSERE ASCOLTATO DALLA COMMISSIONE ANTIMAFIA 

L’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, fra il ‘90 ed il ’92, cercò più volte di essere ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia.
Lo fece nel ’90 quando alla presidenza c’era Gerardo Chiaromonte (ma avendo posto come conditio sine qua non che la sua audizione fosse trasmessa in diretta sulla Rai, non si realizzò) e due anni dopo sotto la presidenza di Luciano Violante.
Per quanto riguarda quest’ultimo le cose andarono così: il colonnello dei carabinieri Mario Mori ed il generale Mario Subranni, all'epoca rispettivamente vice comandante e comandante del Ros, incontrarono Violante nel corso di una audizione il 20 ottobre del 1992, ma nei verbali della Camera dei deputati non c'è traccia alcuna di Ciancimino. Ai due ufficiali dei carabinieri Violante e gli altri deputati e senatori della commissione fecero decine di domande sui rapporti fra mafia e politica, ma nessuna relativa all'ex sindaco di Palermo.
E’ lo stesso ex presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulla mafia ad annunciare nel corso della seduta del 29 ottobre del ’92 (9 giorni dopo l'audizione dei vertici del Ros), che Ciancimino ha chiesto di essere ascoltato “senza alcuna condizione”. Dal verbale della Camera dei deputati, infatti, si legge:
Violante: “Ho convocato per il 27 ottobre l'ufficio di presidenza, che ha approvato la proposta che sottopongo ora al voto della Commissione. Per definire un programma di lavoro sulla materia dei rapporti tra mafiosi e politici - ma la questione non può prescindere dai rapporti tra mafiosi e burocrazia e mafiosi e magistratura, rapporti naturalmente eventuali - è preliminarmente necessario chiarire l'asse politico del nostro lavoro. La legge istitutiva assegna alla Commissione il compito di accertare e valutare la natura e le caratteristiche dei mutamenti e delle trasformazioni del fenomeno mafioso e di tutte le sue connessioni; e assegna anche il compito di accertare la congruità dell'azione dello Stato e degli altri pubblici poteri…”.
“Sulla base di queste valutazioni propongo che venga acquisita tutta la documentazione relativa alla cattura degli imputati per l'omicidio dell'onorevole Salvo Lima, comprese le deposizioni dei collaboratori della giustizia; di sentire i procuratori distrettuali delle aree più esposte ed eventualmente altre autorità dello Stato, a partire da quelle interessate dalle motivazioni dell'ordinanza che decide la cattura; di acquisire l'elenco degli imputati o condannati per delitti di mafia che esercitano funzioni politiche di qualsiasi livello; di sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili (mi riferisco ai pentiti) e Vito Ciancimino, che lo ha chiesto revocando la condizione, posta nel passato, di essere ripreso da canali televisivi pubblici o privati in diretta nel momento in cui rendeva la deposizione”.

STRAGI DEL 92/93:
DI CERTO C’E’ CHE I PROCESSI
PER LA STRAGE DI VIA D’AMELIO
SONO TUTTI SBAGLIATI
Una riflessione di Lino Jannuzzi 

In un lungo articolo comparso sul Velino, il giornalista Lino Jannuzzi ha posto “dieci domande ai dilettanti dell’antimafia che hanno indagato, processato e condannato per la strage di via D’Amelio”.
Si tratta di domande molto stimolanti. Ne riportaiamo le principali.

“E’ vero o no che tutta la loro (ri)costruzione si basa sulla presunta “confessione” di Vincenzo Scarantino, che avrebbe rubato la Fiat 126 imbottita di tritolo e l’avrebbe portata sul luogo della strage? E che questo Vincenzo Scarantino era un meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, esentato dal servizio militare per schizofrenia, tossicodipendente e fidanzato con i transessuali “Fiammetta”, “Giusi la sdillabrata” (che significa “ampia capienza”) e “Margot”, e contro tutte le evidenze hanno voluto credere e sostenere per anni e per tre processi, e in appello e in Cassazione, che Cosa Nostra avesse potuto affidare a costui il compito di innescare la strage?

E’ vero o no che la presunta “confessione” e le presunte “rivelazioni” di Scarantino sono state smentite radicalmente, fin dal primo momento, non solo dai presunti complici da lui accusati, ma anche da boss di primo piano di Cosa Nostra, già ufficialmente “pentiti” e gratificati dal contratto di “collaboratori di giustizia” e già accreditati e riconosciuti credibili in svariati processi, come Salvatore Cancemi e Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera? E che i verbali dei confronti, svoltisi a Roma nella sede della Dia, in cui costoro hanno smentito e persino ridicolizzato Scarantino, sono stati segretati e non esibiti nei processi Borsellino fino a quando gli avvocati non hanno denunciato i procuratori? E che tutti i boss hanno decisamente negato che lo schizofrenico, tossicodipendente e fidanzato dei transessuali Scarantino fosse mai stato affiliato a Cosa Nostra e che prima della strage ci fosse stato una riunione plenaria della “Commisione” di Cosa Nostra, allargata a tutti i mafiosi della Guadagna e presieduta personalmente da Totò Riina, a cui avesse addirittura assistito Scarantino, sì da poter udire con le sue orecchie Riina decidere la condanna a morte di Borsellino: ”A stu curnuto s’ha ‘a fare saltare ‘nda l’aria come du’ crastu che ci stava ristannu vivu, picchè chistu Borsellino fa chiu’ danni che Falcone a Roma (questo cornuto lo dobbiamo fare saltare in aria come abbiamo fatto con quel caprone che stava restando vivo, perché questo Borsellino fa più danni che Falcone a Roma)”?

E’ vero o no che lo stesso Scarantino, solo un mese dopo che aveva firmato il primo verbale da “pentito”, ha ritrattato la sua “confessione” e le sue “rivelazioni” e ha denunciato che con minacce e promesse gli avevano fatto firmare “tutte bugie”? E che ha dichiarato a verbale esattamente così: ”Vistiri ‘u pupu... Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi...’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare...(Hanno vestito il pupo... Mi fecero inventare tutte le cose... il verbale l’ha scritto lui (il pm) e poi me l’ha fatto firmare)”. E che ha confessato che tutto ciò che aveva raccontato di Cosa Nostra, compresi i nomi dei boss, lo aveva appreso ascoltando la Radio Radicale?

E’ vero o no che, dopo che Scarantino fu convinto a ritrattare la ritrattazione, la moglie Rosalia, che nel frattempo aveva scritto ai giornali, alla radio, alla televisione, alla moglie di Borsellino, alla figlia di Enzo Tortora, a Vittorio Sgarbi, a deputati e a senatori, al Presidente della Repubblica, ha deposto in tribunale e ha raccontato, citando numerose testimonianze, che la mattina della strage il marito non era uscito di casa per portare l’auto in via D’Amelio, ma aveva dormito fino alle 7 e mezza, quando lei lo aveva svegliato con il caffè? E che alla vigilia del “pentimento” e della concessione del contratto di protezione e del relativo servizio di scorta, ogni volta che il marito doveva andare a deporre al processo, veniva a casa il pm, accompagnato dai poliziotti, e si chiudeva col marito in cucina per rileggergli i verbali e per allenarlo a rispondere, facendogli le domande “a scavalco”. E che ha raccontato pure quando condussero il marito a un “incontro amichevole ”con il boss Marino Mannoia, venuto apposta dall’America per istruirlo sulle cose di Cosa Nostra e per imbeccarlo su di una storia di spedizione di cocaina ad Arcore: ”Vincenzo doveva dire che chissu Berlusconi era un cornuto”?

E’vero o no che dopo la sentenza di primo grado del processo Borsellino primo, con cui comminarono tre ergastoli ai presunti complici di Scarantino, a quello che gli avrebbe ordinato il furto dell’auto, a quello che avrebbe imbottito l’auto di tritolo e a quello che avrebbe intercettato la telefonata con cui Borsellino annunciava la visita alla madre, un altro fior di boss di Cosa Nostra, anche lui da tempo “pentito” e fornito di contratto di collaborazione e più che accreditato per essere stato il killer confesso di tutti i delitti eccellenti e di tutte le stragi, dall’assassinio di Salvo Lima alla strage di Capaci, Giovanni Battista Ferrante, si presentò ai magistrati per spiegargli che Scarantino e i tre presunti complici condannati all’ergastolo non c’entravano niente con la strage di via D’Amelio: io c’ero e so come è andata, mise a verbale, per uccidere Borsellino, come avevamo fatto per Falcone, abbiamo messo in campo il fior fiore dei nostri boss e dei nostri esperti, niente picciotti e variopinta manovalanza, niente schizofrenici, tossici e fidanzati di transessuali...?

E’ vero o no che nonostante le ritrattazioni e le smentite e i verbali dei confronti “ammucciati” e tirati fuori dopo anni i tre processi in cui l’inchiesta era stata sconsideratamente smembrata furono portati avanti per anni fino alla Cassazione e che, a conclusione del Borsellino ter, dieci anni or sono, ormai già a sette anni dalla strage, in sede di requisitoria finale il pm annunciò che non solo erano stati trovati e processati gli esecutori materiali e, ovviamente, i mandanti obbligati, e cioè la “Commissione” di Cosa Nostra e il Capo dei Capi Totò Riina, ma si era ormai vicini alla scoperta dei famosi “mandanti esterni”? ”E' sufficientemente provato - dichiarò il pm - quanto ha rivelato il boss pentito Salvatore Cancemi, e cioè che c’erano stati rapporti stretti tra Totò Riina e Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, i quali sarebbe persino venuti a Palermo per parlare con il capo di Cosa Nostra alla vigilia delle stragi: ”La strage va ricondotta anche a responsabilità esterne a Cosa Nostra - dichiara il pm nel corso della requisitoria finale - e va inquadrata in una sfida-ricatto rivolta al Paese per ottenere la revisione del maxi-processo e l’abolizione dell’ergastolo da nuovi referenti e nuovi soggetti politici”. E’ vero o no che il Borsellino ter si conclude con il pm che dichiara che ormai sono sufficientemente provati i rapporti indicati da Cangemi nel periodo delle stragi tra il capo di Cosa Nostra e Berlusconi e Dell’Utri, sicché c’è da approfondire una sola cosa: ”se la strage venne compiuta da Cosa Nostra su richiesta dei soggetti esterni citati dal ‘pentito’ Salvatore Cancemi, o se invece la strage sia stata fatta nella inconsapevolezza di questi ultimi, nella convinzione tuttavia di fare loro un favore”? E che, del resto, Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati per le stragi dalla procura di Caltanissetta per quattro anni, i due concessi dalla legge più il rinnovo per altri due anni?

E’ vero o no che, a questo punto, i dilettanti dell’antimafia dovrebbero piuttosto affrettarsi a promuovere la revisione dei processi falliti, non fosse per altro per tirare fuori dalla galera gli innocenti condannati all’ergastolo?

MAFIA:
QUATTRO POLITICI INDAGATI
PER IL TESORO DI CIANCIMINO 

La procura di Palermo ha indagato quattro politici siciliani perché ritenuti coinvolti nell'inchiesta sul tesoro accumulato illecitamente dall'ex-sindaco palermitano Vito Ciancimino, condannato per mafia e morto nel 2002.
I politici indagati sono il senatore Carlo Vizzini del Pdl, il deputato Saverio Romano e i senatori Salvatore Cuffaro e Salvatore Cintola dell'Udc.
L'inchiesta è nata dalle ultime dichiarazioni dell'ultimogenito di Ciancimino, Massimo, già condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi di carcere per aver riciclato i soldi del padre.
L'uomo avrebbe spiegato, durante gli interrogatori, che nella gestione dei soldi lasciati dal padre sarebbero stati coinvolti personaggi ben più importanti di lui, tra cui uomini politici.
Secondo quanto raccontato da Ciancimino jr e riscontrato dagli inquirenti tra i destinatari dei importanti somme di denaro ci sarebbero stati a vario titolo anche Vizzini, Cintola, Romano e Cuffaro.
Vizzini, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che ha detto di essere "estraneo" ai fatto contestati, ha annunciato le dimissioni da componente della commissione parlamentare antimafia, riservandosi "di assumere altre decisioni dopo che sarò stato sentito dai magistrati". "Ho la serenità di chi sa di essere estraneo ad ipotesi di reato e di potere compiutamente rispondere ai magistrati", ha scritto il senatore sul proprio blog.

STRAGE DI BOLOGNA:
PRENDE CORPO LA PISTA ALTERNATIVA 

La richiesta, avallata dal Primo Vicepresidente del Tribunal de Grande Instance di Parigi, responsabile del coordinamento dell'antiterrorismo in Francia, di documenti sulla qualità dell'esplosivo utilizzato dal gruppo del terrorista Carlos; la traduzione di 15 anni di rapporti ('75-'90) della Stasi (la polizia segreta della ex Germania Est) sul gruppo del terrorista internazionale conosciuto anche come 'lo sciacallo'. Alla vigilia del 29/o anniversario, vive una fase dinamica l'inchiesta bis sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti).
La traduzione dell’ampia documentazione della Stasi - che seguiva ora per ora il gruppo Carlos - farà da base al lavoro futuro del Pm Enrico Cieri, che ha ereditato l’inchiesta dal collega Paolo Giovagnoli diventato procuratore a Rimini, e della Digos di Bologna. Servirà da base oggettiva per avere altri spunti e avviare altri adempimenti investigativi.
Cieri ha portato avanti le rogatorie in Francia e Germania aperte da Giovagnoli. Inoltre documenti sono arrivati dalle autorità giudiziarie di Ungheria, Gran Bretagna, Grecia e Svizzera. Tra l’altro Cieri, nell'aprile scorso, ha sentito Carlos, il cui vero nome è Ilich Ramirez Sanchez, nel palazzo di Giustizia di Parigi. Per Carlos, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (estremisti di destra condannati all'ergastolo quali esecutori materiali) non sono responsabili di quella strage. Perché "è roba della Cia. I servizi segreti italiani e tedeschi lo sanno bene”.
Giovagnoli aveva sentito anche l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in particolare sull’intervista data al Corriere della Sera in cui parlava della matrice palestinese della strage di Bologna (esplosivo - secondo il presidente emerito - che non doveva essere utilizzato in Italia, trasportato e scoppiato casualmente e involontariamente in stazione).
Il filone Carlos parte dalla presenza a Bologna il 2 agosto 1980 di Tomas Kram, terrorista tedesco delle Revolutionaere Zellen, esperto di esplosivi e legato allo 'sciacallo'. Kram pernottò a Bologna all’Hotel Centrale nella notte tra l’1 e il 2 agosto e avrebbe lasciato l'albergo di prima mattina.
Giovagnoli era andato a Berlino per interrogarlo, ma Kram si era avvalso della facoltà di non rispondere. Kram aveva dato la sua versione in un'intervista dell’1 agosto 2007 a Il Manifesto: "Non sono io il mistero da svelare. La polizia italiana mi controllava. Sapeva in che albergo avevo dormito a Bologna, il giorno prima mi aveva fermato”. Di quel giorno Kram ricordava di essersi svegliato tardi e di essere arrivato in stazione quando già sul piazzale vi erano pompieri e ambulanze. Carlos su Kram aveva ricordato che era pedinato da agenti segreti e che “se fosse morto nell'attentato, sarebbe stato facile attribuirgli ogni colpa”.

CASO MORO:
CARTE DAL PARAGUAY SU GIUSTINO DE VUONO 

Nuove carte dal Paraguay riaccendono l'attenzione su Giustino De Vuono, un ex legionario molto abile con le armi, la cui foto segnaletica venne inserita nella lista dei possibili esecutori della strage di via Fani. E' quanto ha scritto il settimanale L’Espresso.
Il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, un commando delle Brigate rosse sequestra Aldo Moro e uccide la sua scorta. Da sette armi diverse vengono esplosi 91 colpi. Un’arma in particolare ne spara 49. Vanno tutti a segno. Sul terreno restano solo i corpi senza vita dei cinque uomini che vigilavano sul presidente della Dc.
“Solo un tiratore esperto - si legge sull’Espresso - poteva sparare con tanta precisione”. E “potrebbe essere stato Giustino De Vuono, la cui foto segnaletica venne inserita nella lista dei possibili esecutori della strage”.
Agli atti della Questura di Roma c'é un verbale del 19 aprile 1978 in cui un teste, Rodolfo Valentino, conferma: “Verso le 10 del 16 marzo, mentre mi trovavo alla guida della mia auto, rimasi colpito da un fatto: una Mini o una A112 di colore verde mi ha sorpassato a grande velocità.... Alla guida vi era un uomo le cui sembianze mi sono apparse del tutto simili, ma con i baffi, a quelle di De Vuono, pubblicate sui giornali, però non ne sono sicuro. Accanto a lui vi era un altro uomo...”
E dai documenti del Paraguay emergono negli anni a cavallo dell’omicidio Moro, frequenti spostamenti di De Vuono tra Paraguay e Brasile tra il 1977 e il 1980, ma con un vuoto tra fine '77 e agosto '78.
Per Aldo Giannuli, perito della commissione Stragi e professore alla Statale di Milano: “Non c'è dubbio che se dovesse essere confermata la sua presenza in via Fani, si sposta tutta la lettura del caso Moro”.

NUOVO TERRORISMO:
14 CONDANNE
AL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE 

Le condanne sono state sensibilmente più basse di quelle chieste dal pm Ilda Boccassini ma, per i giudici della prima corte d’Assise di Milano, 14 dei 17 imputati nel processo a carico del Partito comunista politico-militare, le cosidette Nuove Br, sono colpevoli di associazione a delinquere, banda armata, detenzione di esplosivi e di armi. Tre, invece, sono stati assolti.
Condannati a 15 anni (a fronte dei 22 chiesti dall’accusa) Davide Bortolato e Claudio Latino, considerati i leader delle cellule padovana e milanese; a 13 anni e 10 mesi di reclusione Vincenzo Sisi, capo dell'emanazione torinese del gruppo; a 11 anni e quattro mesi Alfredo Davanzo, un passato nella lotta armata nei Colp (Comunisti organizzati per la liberazione proletaria) e ritenuto l'ideologo del Pcp-m; 11 anni e un mese per Bruno Ghirardi; dieci anni e 11 mesi per Massimiliano Toschi. Otto anni e tre mesi per Massimiliano Gaeta, mentre sette anni sono stati inflitti a Salvatore Scivoli che, nella ricostruzione degli agenti della Digos, svolgeva il ruolo di armiere, grazie ai suoi addentellati nella criminalità organizzata.
Poi le condanne minori per chi, stando agli investigatori, svolgeva il ruolo di infiltrazione e propaganda nelle fabbriche e nelle scuole, oppure aveva fornito supporto logistico per le esercitazioni con armi da fuoco: tre anni e sei mesi per Amarilli Caprio, unica donna tra gli arrestati il 13 febbraio del 2007, per Alfredo Mazzamauro, Davide Rotondi e Federico Salotto; tre anni e otto mesi ad Andrea Scantamburlo fino ai dieci giorni di arresto per Giampiero Simonetto, accusato di aver comperato delle cartucce per un fucile utilizzato per le esercitazioni, ma assolto dalle altre accuse.
Tra gli obiettivi designati, per l’accusa, il giuslavorista Pietro Ichino (a cui è andato un risarcimento di 100 mila euro), di cui gli imputati parlavano nelle intercettazioni telefoniche e ambientali che, con i pedinamenti, portarono agli arresti dell'operazione Tramonto, così chiamata perché intendeva porre fine all'attività del gruppo che si sarebbe ispirato alla Seconda posizione delle Br, l’ala movimentista, contrapposta a quella militarista, dopo la scissione nell'84.

NUOVO TERRORISMO (2):
CHI SONO GLI ARRESTATI NELL’ULTIMA OPERAZIONE 

Ecco chi sono gli arrestati nell’ultima operazione antiterrorismo, quella del 10 giugno scorso:
Luigi Fallico, 57 anni, ex brigatista, soprannominato "il corniciaio", accusato di essere il capo della cellula di presunti terroristi che, secondo gli inquirenti, “si poneva nel solco di continuità delle Brigate Rosse”. Fallico è stato arrestato a Roma in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Maurizio Caivano su richiesta del coordinatore del pool antiterrorismo della procura di Roma Pietro Saviotti e del pm Erminio Amelio.
In carcere anche Bruno Bellomonte, 60 anni, arrestato dalla Digos di Roma mentre era a Roma per incontrare Fallico.
Misura cautelare in carcere anche per Beniamino Vincenzi, 38 anni, anche lui arrestato nella capitale.
A Genova è stato arrestato Riccardo Porcile, 39 anni, fermato su richiesta del pm Gianfranco Zoia.
Nelle motivazioni con le quali il Tribunale del Riesame di Roma (presidente: Vincenzo Capozza) ha confermato la custodia cautelare in carcere per tre dei cinque presunti terroristi arrestati l'11 giugno scorso che avevano impugnato l'ordinanza di custodia cautelare, ossia Fallico, Bellomonte, e Vincenzi, è scritto: “Emerge indiscutibilmente l'intento di riprendere la lotta armata contro lo Stato, i suoi poteri, i suoi uomini, le sue articolazioni, nel solco politico-strategico tracciato dalle Brigate Rosse, con l'esplicito quanto ambizioso 'recupero' di tale denominazione”. Vincenzo Bucciarelli (ai domiciliari per motivi di età) e Porcile (detenuto), avevano rinunciato al Riesame.
Nelle motivazioni il Riesame giudica sussistenti “i gravi indizi” a carico dei presunti brigatisti e in particolare fa riferimento al modus operandi: “prudenza e cautela nei contatti e negli incontri, frequente ricorso a tecniche di 'spedinamento', previsioni di incontri a scadenza programmate con il ricorso ai 'recuperi', espletamento o progettazione di delitti finalizzati all'autofinanziamento come rapine, riciclaggio di banconote macchiate, la disponibilita' di armi da parte di Fallico il cui canone di locazione del negozio (quello di corniciaio a Roma) veniva inspiegabilmente pagato da Porcile”.
Il Riesame fa riferimento anche al “proposito di organizzare azioni violente alla Maddalena nell'ambito del vertice del G8”.
“In definitiva - si legge ancora nelle motivazioni - la documentazione, unitamente alle armi rinvenute, consente di ritenere ampiamente comprovata la sussistenza della gravità indiziaria”. “Nessun dubbio - osserva il collegio - può inoltre porsi sul ruolo apicale attribuito a Fallico, essendo
l'indagato il perno centrale dell'attività illecita emersa dalle indagini”. Fallico, secondo i giudici, “detiene la 'scaletta' per la ripresa della lotta armata, scaletta puntualmente ripresa sviluppata nei documenti trovati a Porcile in cui è inequivoca la volontà di inserirsi nel solco tracciato dalle Brigate Rosse, al punto di riprendere formalmente tale denominazione”.

Fonte: ANSA

NUOVO TERRORISMO (3):
BLITZ MILITANTI IN SALA PROVINCIA SASSARI 

Blitz di un gruppo di militanti del movimento indipendentista “A Manca pro s'indipendentzia” il 28 luglio scorso nel palazzo Sciuti in piazza d'Italia sede della Provincia di Sassari e della Prefettura. Alle 11:30 tre esponenti del movimento sono entrati al primo piano nella sala Giunta della Provincia e hanno esposto da una finestra uno striscione con la scritta “Bruno liberu” e una bandiera del movimento, mentre altri indipendentisti distribuivano volantini ai passanti in piazza d’Italia.
Gli esponenti di “A Manca pro s'indipendentzia” intendevano attirare l'attenzione sulla situazione del sindacalista sassarese Bruno Bellomonte, attivista del movimento, arrestato dal 10 giugno scorso con l’accusa di aver tentato di organizzare attentati che dovevano essere messi in atto durante il G8 a La Maddalena.
“Bellomonte - hanno denunciato gli indipendentisti - è stato trasferito nei giorni scorsi dal carcere di Roma a quello di Catanzaro, a dispetto dell'accordo tra Stato e Regione che prevede l’avvicinamento dei detenuti all’isola. Il sindacalista ha passato 45 giorni a Regina Coeli in totale isolamento, subendo la censura della posta e godendo di soli dieci minuti d’aria al giorno”.
Gli esponenti di “A Manca pro s'indipendentzia” denunciano anche il totale silenzio sull’operazione Arcadia che l’11 luglio di tre anni fa aveva portato all'arresto di 10 esponenti del movimento e all'iscrizione di altri 44 nel registro degli indagati per presunti attentati terroristici.

TERRORISMO:
QUELLO VIRTUALE NON E’ REATO 

Il terrorismo virtuale non esiste. Non è reato organizzare un sito web con qualche documento che incita alla “violenza a fini eversivi”. Soprattutto se il “programma terroristico” comprende anche “l’invito” a “procurarsi 110 chili di plutonio dal vostro fornitore”.
La Cassazione, richiamandosi ai criteri della concretezza probatoria, ha annullato la sentenza di condanna che il gup di Catania aveva emesso nei confronti di due giovani fidanzati accusati di “associazione per delinquere a fini eversivi” per aver messo in piedi un sito del “perfetto terrorista fatto in casa”. I due fidanzatini erano stati condannati a 4 anni, con lo sconto di un terzo della pena, perché avevano chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato, perché secondo l’accusa avevano “organizzato un’associazione telematica con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico”.
I giudici della sesta sezione penale della Corte, con la sentenza 25863, hanno manifestato tutte le loro perplessità in ordine agli elementi di prova. E hanno annullato con rinvio la decisione del giudice dell’udienza preliminare indicando i criteri logico-giuridici dei quali la nuova sentenza dovrà tenere conto. Anzitutto, sottolinea la Cassazione, va ricordato che “per l'integrazione del delitto, pur non richiedendosi la realizzazione dei reati oggetto del programma criminoso occorre l'esistenza sia di un programma”. E già su questo punto, per quanto possa apparire assolutamente ovvio, la Suprema Corte ha ritenuto di spendere qualche parola. In sostanza: affinché si possa accusare qualcuno di aver pensato ad un programma criminoso, ci vuole anzitutto un programma. In secondo luogo questo programma deve essere “concreto ed attuale”. In altre parole, non valgono sogni o fantasie. Poi è necessario che la concretezza si riferisca a “atti di violenza a fini di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico”. Infine è necessario che si tratti di “un'associazione che abbia una struttura organizzativa, per quanto elementare, dotata del carattere di stabilità e permanenza”. Come dire: non sono ammesse associazione composte da una o due persone che anche volendo potrebbero fare ben poco. E infatti la Corte conclude evidenziando che quest’associazione deve “presentare un grado di effettività tale da rendere possibile l'attuazione di tale programma”. Nel caso dei due giovani invece la Cassazione non esita a sottolineare che “il materiale probatorio è alquanto ristretto” e consiste, in particolare, “in un sito web attivo per un breve periodo, in qualche intercettazione telefonica tra gli imputati e con loro stretti congiunti e in alcuni documenti dal contenuto ritenuto esplicitamente o implicitamente riferito ad atti di violenza a fini d'eversione”. Ciò che ha indotto la Corte ad annullare la condanna invitando il gup a “meditare”, è anche uno dei documenti sequestrati dagli inquirenti e inserito tra gli elementi di prova a carico dei due “terroristi”. Si tratta di un decalogo per “costruire un ordigno termonucleare in dieci semplici passi”. E il primo passo, quello forse più importante (e difficile) è chiaramente indicato: “procurarsi circa 110 kg di plutonio per ordigni presso il vostro fornitore locale”. Ovviamente si deve stare bene attenti che sia plutonio “per ordigni” e non plutonio generico, di quello che si trova ad ogni angolo di strada. Ecco perché la Cassazione invita il gup a “valutare con attenzione la serietà e la concretezza del programma criminoso”. Soprattutto la serietà.

Fonte: Il Velino

ABUSI DI POTERE:
CONDANNATI I POLIZIOTTI CHE UCCISERO ALDROVANDI 

Aveva 18 anni e morì sull'asfalto una domenica mattina, il 25 settembre 2005, solo per aver incontrato sulla sua strada quattro energumeni in divisa da agenti di polizia: Paolo Forlani, 48 anni, di Ferrara; Monica Segatto, 45 anni, di Padova; Enzo Pontani, 44 anni, di Occhiobello (Rovigo) e Luca Pollastri, 39 anni, di Ferrara.
Dopo quasi quattro anni di processi gli energumeni in divisa il giudice Francesco maria Caruso del tribunale di Ferrara li ha condannati a tre anni anni e sei mesi di detenzione, accogliendo in pieno la tesi del pm Nicola Proto (accolte anche le provvisionali di 300mila euro per la famiglia).
La verità sulla morte di Federico Aldrovandi ha ora un sigillo processuale: i quattro agenti, durante un normale controllo di ordine pubblico, commissero il reato di eccesso colposo in cui causarono la morte del ragazzo. Quello che molti testimoni hanno confermato è che Federico in quell'alba stava male, gridava, si autolesionava, chiedeva aiuto. I poliziotti, anziché aiutarlo come sarebbe stato loro preciso dovere, usarono in modo improprio i manganelli, lo ammanettarono in molto altrettanto imprudente e soprattutto non lo aiutarono mentre chiedeva soccorso, mentre con la faccia a terra sussurrava, rantolando, “aiuto, aiutatemi, basta”.
Inqualificabile, alla lettura della sentenza, l’arroganza con cui uno dei condannati, Enzo Pontani, ha commentato la sentenza: “Oggi non è stata fatta giustizia. Una cosa è certa ed è che io ogni notte dormo e dormirò sonni tranquilli, altri non possono dire di poterlo fare”.
L’inchiesta contro i quattro energumeni in divisa ci mise quasi un anno a decollare. Partì effettivamente solo nell'inverno del 2006 quando il pm di allora, Mariaemanuela Guerra lasciò, per motivi famigliari e personali l’inchiesta. Grazie anche e soprattutto alla mamma di Federico, Patrizia Moretti che nel gennaio del 2006 aprì un blog con cui lanciò un suo Sos del tutto personale: per lei, per la sua famiglia, per avere una verità sulla morte di suo figlio.
Restano scolpite come pietre le parole del pm Nicola Proto nella sua richiesta di condanna: tutti e quattro gli agenti hanno lo stesso livello di responsabilità “perché il comportamento adottato durante la colluttazione con il ragazzo è stata una scelta unanime”, del gruppo. Un gruppo di agenti che perse il controllo, quella mattina: “Era necessario - si è chiesto Proto – l’uso dei manganelli da parte di tutti e quattro gli agenti? Era necessario colpirlo in tutto il corpo, compresa la testa? Era necessario continuare a colpirlo quando era già a terra? E infine immobilizzarlo in posizione prona, non corretta?”

ABUSI DI POTERE (2):
OMICIDIO COLPOSO
PER IL POLIZIOTTO CHE UCCISE GABRIELE SANDRI 

di Enzo Quaratino

Si muove sul filo sottile della teoria giuridica “dell'accettazione del rischio” la sentenza con la quale la corte d’Assise di Arezzo ha condannato a sei anni di reclusione, per omicidio colposo aggravato, il poliziotto Luigi Spaccarotella che l’11 novembre 2007, nell’area di servizio Badia al Pino, vicino ad Arezzo, uccise con un colpo di pistola il tifoso laziale Gabriele Sandri.
I giudici hanno dichiarato il poliziotto colpevole di omicidio colposo aggravato da colpa cosciente, cambiando l’imputazione che era quella di omicidio volontario per dolo eventuale.
Proprio la differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente, applicata al caso specifico e con scelta finale per la seconda, avrebbe catalizzato la lunga discussione della corte d'assise in camera di consiglio.
I giudici sono partiti dalla considerazione che l’agente Spaccarotella, nel momento in cui ha impugnato l’arma ed ha deciso di sparare, aveva messo in conto la concreta possibilità del verificarsi di un evento lesivo. Muovendo da questa premessa, comune sia al dolo specifico sia alla colpa cosciente, i giudici hanno distinto tra le due fattispecie.
Per dichiarare il dolo eventuale, avrebbero dovuto ritenere che il poliziotto avesse fatto seriamente i conti con la possibilità di colpire il gruppo di tifosi laziale che era dall’altra parte dell’autostrada e, nonostante ciò, avesse deciso comunque di sparare. Per ritenere la colpa cosciente, i giudici avrebbero dovuto, invece, ritenere che Spaccarotella, pur avendo deciso di sparare, in realtà confidasse nel fatto che comunque non avrebbe colpito i tifosi.
Due esempi scolastici spiegano la differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente:
- dolo eventuale: Tizio, disturbato da ragazzi che schiamazzano in strada, lancia contro di loro dal balcone della propria abitazione una bottiglia di vetro, pur prevedendo possibili ferimenti e colpendo di fatto un ragazzo;
- colpa cosciente: Caio, effettuando un sorpasso automobilistico in una curva pericolosa, ha ben presente la possibilità di provocare uno scontro; facendo leva, però, sulla conoscenza della strada e sulla sua abilità di guidatore, egli si convince di poter in ogni caso evitare l'incidente che, tuttavia, si verifica.
Nel caso di Spaccarotella, la scelta della corte d’Assise é stata per la colpa cosciente, con affermazione del reato di omicidio colposo e non di omicidio volontario, e pena conseguentemente più bassa rispetto a quello chiesta dal pubblico ministero, che aveva invece ritenuto sussistente il dolo eventuale.

GIOVANE UCCISO DA BARISTI:
OMICIDIO VOLONTARIO.
E SE FOSSERO STATI DEI POLIZIOTTI? 

A meno di un anno dalla tragedia, è arrivata la sentenza per l’omicidio di Abdoul Guiebre, detto Abba, il diciannovenne con cittadinanza italiana, ma originario del Burkina Faso, ucciso da una sprangata alla testa il 14 settembre del 2008 a Milano.
Il gup di Milano Nicola Clivio ha condannato a 15 anni e 4 mesi Fausto e Daniele Cristofoli, 52 e 32 anni, baristi che, quella mattina all’alba, si lanciarono all'inseguimento di Abba e di due suoi amici che avevano rubato dal loro bar due pacchetti di biscotti. “Eravamo convinti che avessero rubato l'incasso”, dichiararono dopo il fermo, qualche ora dopo l’omicidio. A vibrare la sprangata mortale alla nuca di Abba, e a provocargli una ferita profonda sette centimetri, fu Daniele Cristofoli, ma secondo il pm Roberta Brera, suo padre Fausto fu il promotore della spedizione punitiva sfociata in tragedia e durante la quale i due baristi rivolsero ad Abba e ai suoi amici anche epiteti razzisti: “Negri di merda!”. Nessuna distinzione di ruoli secondo il pm e, quindi, uguale richiesta di condanna: 16 anni e 8 mesi per omicidio volontario aggravato dai futili motivi e per porto abusivo d’arma (la spranga).
Il gup Clivio ha sostanzialmente aderito alle richiesta dell’accusa, pur infliggendo una condanna di qualche mese inferiore. Risultato dello sconto previsto per il rito abbreviato, dell’equivalenza delle aggravanti e delle attenuanti, del risarcimento alla vittima (100mila euro ottenuti dagli imputati vendendo la loro casa) e dall'atteggiamento processuale dei due che collaborarono alle indagini.

VIOLENZE SU MINORI:
FALSO IL 96% DELLE DENUNCE 

Il 96 per cento dei casi registrati ogni anno in Italia, relativi a denunce di minori che sostengono di aver subito una violenza sessuale è falso. Il dato è stato fornito da Luisella De Cataldo Neuburger, presidente della Società di psicologia giuridica, al convegno (promosso insieme all'Unione delle camere penali) sulla “Testimonianza del minore nel giusto processo".
“Una percentuale che non ci si aspetterebbe leggendo i giornali”, sorprendente quanto il fatto che secondo le statistiche ufficiali “i casi di abusi sessuali” nel nostro paese sono in forte calo. Quindi nessun allarme per la De Cataldo che cita anche il caso degli Usa dove gli abusi sessuali sono calati del 53 per cento.
Stando all'Istat (le tabelle aggiornate si riferiscono al 2006), le denunce per violenze sessuali sono state 4.513 e quelle per atti sessuali con minori 460, grosso modo il 10 per cento. Le condanne? Appena 120 sentenze all'anno.
E così sul banco degli imputati finisce la stampa ed anche certa magistratura che, come nel caso Rignano Flaminio, è accusata di molta incompetenza nel raccogliere le testimonianze dei bambini, che portano inevitabilmente a “errori giudiziari”.

STRAGE DI USTICA:
L’ITAVIA DEVE ESSERE RISARCITA 

Per il disastro aereo di Ustica che causò la morte di 81 persone non ci sono colpevoli ma alla compagnia aerea Itavia, società proprietaria del DC 9 andato distrutto il 27 giugno 1980 - e poi sciota d’autorità - spetta comunque un risarcimento. Un danno quantificato dalla stessa Itavia in 108 milioni di euro. Somma che non ha nulla a che vedere, naturalmente, con eventuali risarcimenti ai familiari delle vittime.
Ciò che non è stato possibile accertare con i processi penali finirà per essere messo nero su bianco da una sentenza civile. La Cassazione ha infatti annullato con rinvio la decisione della corte d’Appello di Roma che il 23 aprile 2007 aveva accolto le tesi dei ministeri dell’Interno, della Difesa e dei Trasporti, sostenendo che all’Itavia non spettava alcun tipo di risarcimento danni. Le cause del disastro, scrivevano in sostanza i giudici civili due anni fa, non sono mai state definitivamente chiarite e individuate, e anzi da ciò che è stato accertato emerge - questa in sintesi la conclusione del giudizio civile di secondo grado - che il “corridoio di volo” del DC 9 Itavia venne attraversato da altri aerei non autorizzati, del cui passaggio non è stato accertato se e in che misura fossero a conoscenza le autorità competenti.
Ma è proprio quest’ultimo aspetto a portare i giudici della terza sezione civile della Cassazione, con la sentenza 10285, ad annullare la decisione della Corte d’appello, ordinando un nuovo giudizio civile. Un nuovo processo che dovrà verificare se sarebbe stato possibile evitare il disastro qualora i ministeri competenti avessero “adottato la dovuta condotta di sorveglianza e controllo nonché le misure conseguenti in seguito all’avvistamento di aereo da guerra non identificato nell’aerovia del DC 9”.
In pratica, la Cassazione ha ordinato ai giudici di secondo grado di verificare se i tre ministeri competenti abbiano fatto tutto quando era loro dovere per evitare il danno. Il fatto che gli organi ministeriali di controllo non avessero “conoscenza della presenza dei velivoli nell'areovia assegnata ad Itavia - scrive la Corte - di per sé non è elemento idoneo ad escludere la colpevolezza”. Anzi, la Corte aggiunge che ciò è vero “a maggior ragione” perché si trattava “di aerei militari non identificati”. E’ proprio questo apparente dettaglio, secondo la Cassazione ad “integrare, se non altrimenti giustificato, l'inosservanza delle norme di condotta e di sorveglianza e controllo o quanto meno il difettoso esercizio di tali attività”.
Come se non bastasse, la Cassazione, rivolgendosi ai giudici d’appello che dovranno nuovamente giudicare la richiesta di risarcimento di Itavia, precisa che “la corte di merito ha erroneamente mancato di attribuire rilievo alla circostanza che l'evento (connesso alla penetrazione nello spazio aereo italiano e all'occupazione dell'aerovia assegnata all'Itavia da parte di velivoli da guerra non autorizzati e non identificati) era di quelli che avrebbero dovuto essere evitati osservando le norme di condotta relative all'attività di sorveglianza dei due ministeri, Difesa e Trasporti”. In conclusione, a trent’anni della strage di Ustica un giudice civile dovrà stabilire se lo Stato deve risarcire con oltre 100 milioni di euro l’Itavia per non aver saputo evitare che aerei militari sconosciuti provocassero la caduta del DC 9 civile con 81 passeggeri a bordo.

MOSTRO DI FIRENZE:
NESSUN PROCESSO D’APPELLO CONTRO CALAMANDREI  

La procura di Firenze non ha presentato ricorso in appello per la sentenza sull’ex farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, assolto in primo grado dall’accusa di essere uno dei mandanti dei delitti del mostro di Firenze.
La sentenza venne emessa dal Gup il 21 maggio 2008, al termine del processo con rito abbreviato. Senza ricorso in appello la sentenza diventa definitiva.
In questi ultimi mesi, dalla procura fiorentina è saggiamente emerso l’orientamento a non presentare ricorso onde evitare una nuova scivolata.
Calamandrei, difeso dagli avvocati Gabriele e Nicola Zanobini, era stato accusato di concorso in omicidio con i cosiddetti “compagni di merende” - Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti - per quattro duplici omicidi compiuti dal 1982 al 1985. Per l’accusa - sonoramente sconfitta nella fase del giudizio – l’ex farmacista avrebbe pagato Pacciani per ottenere parti di corpo femminile asportate dalle vittime.
Nella motivazione della sentenza di assoluzione dello stesso Calamandrei, il giudice aveva scritto che “i sillogismi” sostenuti dall'accusa “non si sono tradotti in indizi gravi, precisi e concordanti”.

MOSTRO DI FIRENZE (2):
ARCHIVIATO FASCICOLO SU NARDUCCI 

Archiviato nel 1985 senza ipotesi di reato e riaperto oltre sette anni fa dalla procura di Perugia per indagare su un presunto omicidio legato alle vicende del mostro di Firenze, il fascicolo sulla morte di Francesco Narducci è ora di nuovo chiuso.
Il gip Marina De Robertis ha infatti prosciolto i quattro indagati, non essendoci elementi sufficienti a sostenere un eventuale giudizio. Un provvedimento che riguarda il giornalista Mario Spezi, l'ex farmacista di San Casciano Francesco Calamandrei e due pregiudicati che erano stati accusati di essere coinvolti nel delitto.
Secondo la fantasiosa ricostruzione del pm Giuliano Mignini, lo stesso che sostiene l’accusa nel processo per l’assassinio di Meredith Kerchner, Narducci fu vittima di un omicidio. In particolare sarebbe stato ucciso perché in qualche modo coinvolto nelle vicende del mostro di Firenze.
Il cadavere di Narducci - gastroenterologo di 36 anni – venne trovato il 13 ottobre del 1985 nel lago Trasimeno dove era uscito in barca, cinque giorni dopo la sua scomparsa. All’epoca gli investigatori ipotizzarono un annegamento accidentale e l’indagine venne archiviata (la famiglia ha sempre parlato di un suicidio o di un incidente, escludendo comunque qualsiasi collegamento con le vicende fiorentine). Nel 2002, il pm Mignini riaprì però il fascicolo dopo che, nel corso di un'indagine su un giro di usura, la polizia si era imbattuta in minacce a sfondo esoterico e sulla morte di un medico al Trasimeno. Il magistrato ritenne che il riferimento fosse a Narducci, vittima -
secondo la sua (ripetiamo) fantasiosa ricostruzione - di un omicidio essendo stato in qualche modo coinvolto nelle vicende del mostro. Mignini fece anche eseguire l’autopsia sul corpo (non compiuta nel 1985) dalla quale sono emersi - secondo gli inquirenti - elementi tali da avvalorare la pista del delitto avvenuto per strozzamento.
Nei prossimi mesi sarà definita l’udienza preliminare, davanti al gip Paolo Micheli, a carico di una ventina di persone, tra le quali gli stessi congiunti di Narducci, per le quali lo stesso pm Mignini ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa, a vario titolo, di aver preso parte a un tentativo di depistaggio delle indagini sulla morte di Narducci. Un procedimento che riguarda tra l’altro un presunto quanto ancora una volta fantasioso scambio di corpi in occasione del recupero del cadavere.

MOSTRO FIRENZE (3):
CHIESTE CONDANNE PER MIGNINI E GIUTTARI 

Dieci mesi di reclusione per il magistrato perugino Giuliano Mignini e due anni e mezzo per il poliziotto Michele Giuttari. E' quanto chiesto dal pm Luca Turco nel processo, in corso al tribunale di Firenze, che vede i due imputati accusati di abuso di ufficio in concorso e, Mignini, di favoreggiamento nei confronti di Giuttari.
La procura di Firenze accusa Mignini e Giuttari di aver svolto accertamenti paralleli a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa: all’epoca Giuttari era a capo del Gides, il gruppo investigativo che si occupava delle indagini sul mostro di Firenze, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta.
Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero anche svolto indagini su alcuni giornalisti per condizionarli nei loro articoli relativi all'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. L'indagine era condotta da Giuttari, coordinata da Mignini e collegata a quella toscana sul mostro di Firenze.

DELITTO DI VIA POMA:
IN SETTEMBRE A PROCESSO
IL FIDANZATO DI SIMONETTA 

E' stata fissata per il 24 settembre prossimo l’udienza per l’esame della richiesta di rinvio a giudizio di Raniero Busco per l’omicidio dell’ex fidanzata Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate il 7 agosto 1990 in via Carlo Poma, a Roma. A pronunciarsi sulla richiesta di processo, firmata dal procuratore Giovanni Ferrara e dal pm Ilaria Calpò, sarà il gup Maddalena Cipriani.
Busco, 44 anni, difeso dall'avv. Paolo Loria, si é sempre proclamato innocente. L’accusa è di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà.
Secondo gli inquirenti romani ci sono tutti gli elementi per mandare sotto processo l’allora fidanzato di Simonetta. Questi sono rappresentati principalmente dagli esiti delle consulenze compiute dopo l’accelerazione impressa alle indagini dalle nuove tecniche investigative, in particolare quelle riguardanti i test di rilevazione delle tracce biologiche e di analisi di quelle ematiche. L’ultima ha stabilito che il morso trovato sul seno sinistro di Simonetta e lasciato, secondo gli esperti, al momento dell’omicidio, è compatibile con l’arcata dentale di Busco.
Per la procura è da considerare rilevante anche l’analisi del Dna estrapolato da una traccia di sangue commisto trovata sulla porta dell’appartamento dove fu massacrata Simonetta che, per gli esperti, non permette di “escludere né di confermare la presenza del materiale genetico di Raniero Busco”.
Come si può notare si tratta di indizi di una labilità estrema che avrebbe dovuto convincere i magistrati romani ad evitare di esporsi ad un’ennesima brutta figura per un’inchiesta condotta con i piedi.
Labile infatti è la traccia di saliva sul reggiseno della ragazza dal momento che non sarà mai possibile stabilire
Con certtezza (checché ne dica il perito dell’accusa) la data di quella traccia, peraltro comune tra due fidanzati. Labilissimimo anche l’elemento riguardante il morso perché la stessa dentatura di Busco potrebbe essere mutata nel tempo di 19 anni. Per non parlare delle tracce ematiche che per la stessa procura non “escludono” e non “confermano” un bel niente.
Resta l’elemento cardine: una semplice domanda. Perché Busco avrebbe perso tempo a ripulire la scena del crimine? Che interesse avrebbe avuto?

DELITTO DELL’OLGIATA:
RESPINTA RICHIESTA ARCHIVIAZIONE.
IL CASO SI RIAPRE 

Per il delitto dell’Olgiata, l'assassinio della contessa Alberica Filo della Torre, ammazzata il 10 luglio del 1991 nella sua villa, il Gip del tribunale di Roma, Cecilia Demma, ha respinto la richiesta di archiviazione per i due storici indagati della vicenda, l'ex domestico filippino Winston Manuel e il figlio della governante della contessa, Roberto Iacono. E inoltre il giudice ha ordinato alla procura, dando un limite di sei mesi con facoltà di proroga, di riesaminare completamente il caso, analizzando alla luce delle nuove tecniche di indagine, sia biologiche, sia strumentali, tutti i reperti acquisiti: primo tra tutti lo zoccolo usato come arma del delitto per colpire la contessa a morte.
Un’ordinanza, quella del gip Demma, che è anche una censura rispetto all’indagine condotta fino ad ora.
Restano indagati, dunque, per omicidio volontario, anche se gli esami del dna e quelli biologici avevano escluso un loro coinvolgimento, sia Winston, sia Iacono. Ad opporsi alla archiviazione della loro posizione, nei mesi scorsi, era stato il legale di Pietro Mattei, vedovo della contessa, l’avv. Giuseppe Marazzita che ha raccolto nuove prove scovando una nuova testimone, un’amica della nobildonna, depositaria dei timori della stessa contessa a cui lei avrebbe confessato di temere per la propria vita e di essere spiata.
Altro reperto che il gip ha ordinato di acquisire è la famosa agenda di Alberica Filo della Torre, piena zeppa di nomi di vip, di personaggi istituzionali e sulla quale, secondo l’avv. Marazzita, potrebbero essere segnati date e orari di appuntamenti da verificare, proprio il giorno 10 luglio 1991.
Agenda saltata fuori nei mesi scorsi grazie alle dichiarazioni di un giornalista che ne è entrato in possesso.
Il gip ha ordinato infine alla procura di acquisire le centinaia di foto scattate sulla scena del crimine e che non sono nel fascicolo. E chiesto l'espletamento di nuove analisi biologiche sul Rolex d'oro fermo all’ora del delitto che Alberica portava al polso e che “inspiegabilmente” - ha detto l'avv. Marazzita - non è mai stato acquisito dalla procura e custodito da Pietro Mattei fino alla consegna fatta agli inquirenti.
Insomma quella sul delitto dell’Olgiata, uno dei tanti gialli di Roma ancora avvolti nel mistero, è una indagine che riparte da zero, o quasi, visto che i due indagati e la loro iscrizione sono solo stati una sorta di “mezzo tecnico” per poter riaprire l'inchiesta.

OMICIDIO REGGIANI:
APPELLO CANCELLA ATTENUANTI 

Ergastolo al romeno Romulus Mailat per l’omicidio di Giovanna Reggiani e una nuova indagine su eventuali complici.
La Corte d’Appello di Roma ha accolto le richieste del sostituto procuratore generale che a sua volta aveva condiviso la richiesta di pena massima avanzata dal pm della Procura di Roma già nel corso del processo di primo grado. A Romulus Mailat non possono essere concesse attenuanti di nessun genere. Inoltre devono essere riaperte le indagini per accertare se ci siano complici del romeno non ancora identificati. Un’eventualità emersa dalle dichiarazioni di uno dei testimoni che ha affermato di aver saputo che con Mailat c’erano anche altre persone in occasione dell’aggressione della donna.
La sentenza che aveva condannato a 29 anni Mailat per aver violentato, ucciso e rapinato Giovanna Reggiani la sera del 30 ottobre 2007, è stata “riformata” dai giudici di secondo grado. I magistrati hanno così respinto l’appello presentato dalla difesa del romeno che invece chiedeva l’assoluzione per “contraddittorietà o insufficienza delle prove”. Chiedo di assolvere Mailat, aveva concluso la sua arringa l’avvocato, non perché sia innocente ma perché non siamo certi che sia colpevole. Il romeno aveva infatti dichiarato di essersi limitato a appropriarsi della borsa della Reggiani, affermando però di non averla aggredita e uccisa. Una versione smentita da una delle occupanti del campo nomadi di Tor di Quinto, nelle vicinanze del quale Giovanna Reggiani venne aggredita e uccisa. Contro la condanna a 29 anni emessa il 29 ottobre scorso aveva presentato appello anche la pubblica accusa che aveva invece chiesto l’ergastolo.
I giudici di secondo grado, come precisato nel dispositivo, hanno “escluso le circostanze attenuanti generiche”. Inoltre la Corte d’assise d’appello ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Roma “perché proceda nei confronti di persone da identificare per il concorso nei reati attribuiti al Mailat relativamente alle dichiarazioni rese da Nicolaie Clopotar” che ha riferito “alle autorità rumene di aver ricevuto confidenze dal padre della compagna” di Mailat secondo cui all’aggressione avrebbero partecipato più persone. Già al termine del dibattimento di primo grado il pubblico ministero, Maria Bice Barborini, chiese l’ergastolo “perché l’imputato ha colpito la donna ripetutamente e violentemente al capo e al volto, nonché al corpo, praticando sevizie e agendo con “particolare crudeltà”.
La Reggiani “venne infatti lasciata gravemente ferita priva di soccorso per un significativo periodo di tempo e sempre l’imputato rapinò la vittima della sua borsa e del cellulare che consegnò a un complice”. Mailat è stato condannato anche per violenza sessuale perché “costrinse la Reggiani, dopo averla trascinata in mezzo alla vegetazione, a subire atti sessuali, consistiti nel toccarla nelle parti intime, denudandole il seno e strappandole le mutandine”. Ma per i giudici di primo grado andavano concesse le attenuanti generiche “equivalenti alle aggravanti”: il “bilanciamento” che giustificava la riduzione a 29 anni della pena dell’ergastolo non è stato condiviso dall’appello. Bisognerà ora attendere 90 giorni per conoscere nel dettaglio le motivazioni della sentenza e poi attendere il giudizio di Cassazione.

AFGHANISTAN:
LA GUERRA E’ COSTATA
17 VOLTE IL PIL DEL PAESE 

Secondo i dati dell’Istituto di ricerca del Congresso Usa, la guerra in Afghanistan è costata, dal 2001 al 2008, 173 miliardi dollari ai soli contribuenti americani. Poiché il Pil afghano attuale è di soli 10 miliardi dollari, con la stessa cifra si sarebbe potuto mandare in vacanza o trasferire in luoghi lontani dal terrorismo l’intera popolazione afghana per vari anni. E con meno di un miliardo di dollari all' anno si potrebbe riconvertire tutta la produzione di oppio del paese, dando una occupazione legale ai 2 milioni e 400 mila afghani, pari al 10% della popolazione del paese coinvolti nella coltivazione illecita”.

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