TORTURE:
OBAMA COME BUSH
CONCEDE IMMUNITA’ AD AGENTI CIA 

Gli agenti della Cia che hanno usato “in buona fede” maniere forti su detenuti, usando tecniche di tortura come il waterboarding non passeranno guai con la giustizia.

Lo ha assicurato il presidente Barack Obama in un comunicato che accompagna la pubblicazione di quattro memorandum dell'amministrazione Bush sui metodi di interrogatorio ammessi nella guerra al terrorismo.

I cosiddetti “siti neri”, in Asia e nell'Europa dell'Est, sono stati chiusi dall'amministrazione Obama che, denunciando l'uso della tortura, ha deciso la pubblicazione dei documenti per aiutare l'America “ad affrontare un capitolo buio e doloroso” della sua storia. Ma al tempo stesso, incomprensibilmente, ha deciso di “perdonare” i torturatori.

I memorandum - quattro dal 2002 al 2005 - descrivono una serie di tecniche di interrogatorio aggressive e tuttavia all'epoca autorizzate che vanno dall'annegamento simulato alla privazione del sonno, all’utilizzo di insetti, all'esposizione al freddo o al caldo eccessivo.

Pubblicando questi documenti intendiamo assicurare gli agenti che hanno agito in buona fede (sic!), basandosi sul consiglio legale del Dipartimento della Giustizia che non saranno messi sotto inchiesta”, ha detto Obama, spiegando che questo è un momento di “riflessione”, non di “vendetta”.

Altri documenti emersi dal Congresso mostrano che fin dall'estate del 2002 diversi esponenti dell'amministrazione Bush, compresa Condoleeza Rice (all'epoca consigliere per la sicurezza nazionale), avevano approvato l'uso dei metodi duri di interrogatorio. Alle discussioni avevano sicuramente partecipato, oltre al direttore della Cia George Tenet, anche il vice-presidente Dick Cheney, il ministro della Giustizia John Ashcroft e il legale della Casa Bianca Alberto Gonzales. Dalla discussione sembra essere stato lasciato fuori invece l'allora segretario di stato Colin Powell, forse per il timore che potesse esprimere parere contrario.

Un documento, finora classificato, reso noto dalla Commissione Intelligence del Senato mostra che la Rice aveva dato fin dal luglio 2002 “luce verde” all'uso delle tecniche di interrogatorio duro nei confronti dei sospetti terroristi. I documenti del ministero della Giustizia, resi pubblici dalla Casa Bianca, mostrano che il terrorista Khalid Sheik Mohammed, considerato l'organizzatore della strage dell'11/9, era stato sottoposto per ben 183 volte, nel giro di un mese, alla tortura del waterboarding.

Intanto Obama è finito al centro di un fuoco incrociato. Il presidente degli Stati Uniti, infatti, è stato criticato da destra, per aver svelato nei dettagli i metodi brutali usati negli interrogatori, e da sinistra, per aver garantito l'immunità agli 007 torturatori.

Il capo dell'intelligence nazionale Dennis Blair ha risposto alla raffica di critiche, affermando che gli Stati Uniti “non utilizzeranno più queste tecniche in futuro. Ma sono determinati a difendere quanti si sono conformati alle direttive”. E lo stesso Obama non ha raccolto le accuse di aver scagionato chi, obbedendo agli ordini (come facevano i nazisti, Ndr): “E' gente che ha fatto il proprio dovere”.  

A sparare a zero su Obama per l'immunità agli agenti della Cia sono state le organizzazioni per i diritti umani: “Il Dipartimento della Giustizia offre l'impunità a individui che, secondo lo stesso ministro della giustizia Eric Holder, hanno torturato prigionieri”, ha protestato Larry Cox di Amnesty International, mentre Anthony Romero della Aclu (l'asssociazione libertaria American Civil Liberties Union) ha chiesto a Obama di affidare a un magistrato indipendente il compito di indagare e possibilmente ottenere il rinvio a giudizio di chi ha autorizzato e posto in atto metodi di tortura.

Secondo il relatore speciale dell'Onu sulla tortura, Manfred Nowak, il presidente americano ha violato il diritto internazionale, rinunciando a perseguire i torturatori della Cia. Ha detto il relatore: “Gli Stati Uniti, come tutti gli altri paesi che hanno aderito alla convenzione dell'Onu contro la tortura, si sono impegnati a indagare e eventualmente a portare in tribunale chiunque abbia prove a suo carico”.

Ma ad imbarazzare la Casa Bianca sono soprattutto le iniziative già scattate al Congresso, da parte di diversi deputati e senatori democratici, per aprire inchieste sulle responsabilità della precedente amministrazione circa la autorizzazione dell'uso delle torture per interrogare i sospetti terroristi. Anche la speaker (presidente) della Camera, Nancy Pelosi, ha dato il benvenuto ad una inchiesta, sottolineando che gli eventuali testimoni non dovrebbero ricevere immunità da possibili incriminazioni. Alcune fonti hanno rivelato che Obama aveva discusso a lungo con i consiglieri il modo migliore per gestire i documenti segreti dei legali del ministero della Giustizia che autorizzavano di fatto le torture. L'idea di nominare una commissione indipendente d'inchiesta, sul modello di quella della strage dell'11 settembre 2001, era stata presa in considerazione, ma alla fine scartata dalla Casa Bianca. Ma Obama aveva sottolineato l'importanza di “guardare avanti”, chiudendo la brutta pagina delle torture della Cia. Ma il suo appello non è stato ascoltato e adesso l'effetto valanga della vicenda sembra non più controllabile dalla Casa Bianca.

Di tono opposto ma egualmente accese sono state le polemiche da destra: Obama “si lega le mani nella guerra al terrorismo”, hanno sostenuto sul Wall Street Journal l'ex capo della Cia di Bush, Michael Hayden e l'ex Attorney General della passata amministrazione, Michael Mukasey.

La pubblicazione di queste opinioni non era necessaria dal punto di vista legale ed è stata poco saggia dal punto di vista politico: “il suo effetto sarà di invitare quella forma di paura istituzionale di recriminazioni che indebolì le operazioni dell'intelligence prima dell'11 settembre”, hanno scritto Hayden, al timone dell'agenzia di Langley dal 2006 al 2009, e Mukasey, alla Giustizia dal 2007 all'insediamento di Holder.

Molte le obiezioni dei due esponenti dell'amministrazione Bush: tra queste che i documenti rivelano ai terroristi cosa aspettarsi in un interrogatorio della Cia se questi metodi, tra cui il waterboarding che simula l'annegamento, dovessero essere di nuovo approvati. In tutto i memorandum rivelano 14 tecniche di interrogatorio su cui l'amministrazione Bush aveva dato luce verde: del waterboarding molto era noto, meno noti i particolari sulla privazione del sonno (per undici giorni di seguito) o il confinamento in una scatola buia dove venivano fatti entrare insetti sfruttando le fobie del detenuto.

Presi nel loro insieme i quattro memorandum gettano luce non solo sui metodi della Cia ma sugli sforzi del Dipartimento della Giustizia di giustificarli alla luce del diritto nazionale e internazionale. Passaggi sulla nudità forzata, le docce gelate e le percosse si alternano con discettazioni giuridiche sulla Convenzione Internazionale contro la Tortura.

I documenti sono stati resi pubblici con pochissime censure, segno che Obama ha preso le distanze dalle richieste della Cia di mantenere segreti i dettagli degli interrogatori. Lo stesso capo della Cia della nuova amministrazione, Leon Panetta, aveva sostenuto che, rivelando queste informazioni, si sarebbe creato un precedente per future pubblicazioni di metodi di raccolta dell'intelligence.

DELITTO DI VIA POMA:
L’OSTINAZIONE CATTIVA MAESTRA.
RISCHIA PROCESSO IL FIDANZATO DI SIMONETTA CESARONI 

La procura di Roma, dopo 19 anni di indagini sbagliate, si avvia alla creazione di un nuovo mostro e all’ennesimo errore giudiziario.

Per l'omicidio di Simonetta Cesaroni, l'impiegata dell'associazione degli ostelli della gioventù, massacrata con 30 coltellate nell'ufficio di via Carlo Poma a Roma, la magistratura romana si appresta a rinviare a giudizio il suo ex fidanzato, Raniero Busco, 44 anni. Secondo la procura, infatti, ci sono gli elementi per processarlo e per questo ha chiuso le indagini e ha depositato gli atti in base a quanto previsto dall'articolo 415 bis del codice di procedura penale, la prassi che anticipa la richiesta al gup di processare l'indagato.

Omicidio volontario è il reato per il quale Busco rischia di finire sotto processo. Sulla base di indizi labilissimi.

L'ultimo si basa sul morso trovato sul seno sinistro di Simonetta e lasciato, secondo gli esperti, al momento dell'omicidio. Questo morso sarebbe, ATTENZIONE, solo “compatibile” con l'arcata dentale di Busco. Ma che significa COMPATIBILE? Soltanto che si tratterebbe di un morso umano, forse maschile. Nulla di più. L'accertamento tecnico, svolto da due medici legali e da due chirurghi dentisti, è infatti consistito nella sovrapposizione dell'impronta dei denti dell'indagato non con il morso (esperimento impossibile), ma con le IMMAGINI del morso. Senza contare che l’arcata dentale muta nel tempo e quella di Busco quando aveva 25 anni non può essere uguale a quella di Busco a 44.

Secondo indizio, anche questo di una labilità stratosferica: il Dna estrapolato da una traccia di sangue commisto trovata sulla porta dell'appartamento dove fu massacrata Simonetta. Per gli esperti questo reperto “non permette di escludere, né di confermare la presenza del materiale genetico di Raniero Busco”. Anche qui siamo nell’ambito della COMPATIBILITA’. Ossia nell’affermazione che quel sangue è sangue. Ma di chi?

Terzo indizio: l’ex fidanzato di Simonetta finì sotto inchiesta due anni fa dopo la scoperta (tardiva) di una traccia della sua saliva sul corpetto che indossava la ragazza quando fu uccisa. Dal momento che quella saliva non è databile, c’è da stupirsi che tra due fidanzati avvengano effusioni che lasciano la saliva dell’uno sulla biancheria dell’altra?

Quarto indizio: anche sul suo alibi la procura nutre perplessità. Busco ha sempre sostenuto che al momento del delitto era con un amico, ma questi negò affermando che quel giorno era al funerale di una parente. Non avere un alibi può costituire una prova di colpevolezza? Basta questo per mandare a processo una persona?

Senza tenere conto di un elemento cardine. Gli investigatori quando arrivarono sulla scena del crimine trovarono il luogo dove si trovava il cadavere di Simonetta completamente ripulito del sangue della vittima, circa tre litri. Che interesse avrebbe avuto Busco, che nulla legava alla scena del delitto, a perdere tempo per ripulire del sangue la stanza? Pulisce il luogo del delitto, magari con l’intenzione di spostare il corpo della vittima, solo chi non ha alcun legame con il delitto se non il luogo. Ma Busco era, in quanto fidanzato, il primo sospettato possibile. E a legarlo a Simonetta non era certo il luogo, ma il suo legame affettivo. 

A novembre di quest’anno Simonetta avrebbe compiuto 40 anni. Per la sua morte sono stati tanti e tutti sbagliati i personaggi finiti nel mirino degli inquirenti e tante le ipotesi che hanno fatto da sfondo a un delitto scaturito quasi certamente da un raptus di follia.

I primi accertamenti si incentrarono su Pietrino Vanacore, portiere del palazzo di via Poma e Federico Valle, nipote di un vecchio architetto che abitava in quell'edificio. Furono prosciolti nel 1993, il primo dall'accusa di favoreggiamento (aver ripulito la scena del crimine) il secondo da quella di omicidio, dal gup Antonio Cappiello e la decisione divenne definitiva nel 1995 dopo il ricorso alla Corte di Cassazione.

TERRORISMO ITALIANO:
SCARCERATA CINZIA BANELLI,
L’ULTIMA “PENTITA” 

Cinzia Banelli, la “compagna So” delle Br-pcc, è stata premiata per la sua “collaborazione” con i magistrati ed è stata scarcerata dopo appena cinque anni di detenzione. Agli inquirenti aveva spiegato che la scelta di “pentirsi” l’aveva fatta “per poter dare un futuro” al proprio figlio.
L’ex postina della Brigate rosse, 45 anni, un diploma di tecnico sanitario, condannata a 12 anni per l'omicidio del professore Massimo D'Antona e a 10 anni e quattro mesi per l'assassinio di Marco Biagi, esce dal carcere grazie al Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha deciso di concederle gli arresti domiciliari per il contributo dato con le sue “rivelazioni”.
Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce - i capi delle nuove Br - le hanno sempre imputato uno scarso rispetto delle regole. Olga D’Antona, vedova del professore ucciso dalle Br nel 1999, ha sostenuto invece che Cinzia Banelli “è un personaggio dal comportamento ambiguo e spregiudicato e che la sua collaborazione non è stata completa. Le sue rivelazioni non hanno portato ad alcuna nuova scoperta né all'arresto di altri brigatisti. Non ha fatto altro che confermare quanto già era stato capito dai magistrati. Ha detto il minimo indispensabile per ottenere l'applicazione del regime speciale previsto per i pentiti. Le armi non sono state mai trovate né quella che ha ucciso mio marito né quella che ha ucciso Marco Biagi”.

Cinzia Banelli - ha aggiunto la D’Antona - che è stata complice e colpevole dell'omicidio di mio marito mi ha inviato una lettera finalizzata esclusivamente a ottenere benefici durante il processo. Mi ero guardata bene dal pubblicizzarla e allora lei l’ha inviata a tutte le testate in modo da farla uscire poco prima del processo. Trovo che questo sia emblematico del personaggio. La considero la peggiore. Gli altri brigatisti stanno coerentemente scontando una pena prevista da leggi che non riconoscono. Lei ha invece utilizzato tutti i cavilli possibili per ottenere un vitalizio, un’abitazione in un luogo segreto, una protezione che tutti noi dovremo pagarle. Io, vittima, le pago con le mie tasse questa protezione”.

TERRORISMO ITALIANO:
CHIESTI DUE SECOLI PER I MILITANTI
DEL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE 

Ventidue anni di reclusione per i due presunti capi e una serie di condanne pesanti, quasi due secoli di carcere in totale, per gli altri accusati di far parte del Partito comunista politico-militare.
Le ha chieste, al termine di una requisitoria durata circa 7 ore, il pm di Milano Ilda Boccassini, sostenendo che i 17 imputati, arrestati tra febbraio e novembre del 2007 in Lombardia, Veneto e Piemonte, sono colpevoli “oltre ogni ragionevole dubbio” e sono stati  fermati proprio nel momento in cui si preparavano a colpire.
Sono caduti Massimo D'Antona e Marco Biagi, e siamo certi  che se non fossero stati fermati ci sarebbero state altre vittime”, ha detto il pm. E un altro “tragico obiettivo”,  poteva essere, secondo quanto emerso dall' inchiesta, un altro giuslavorista, il senatore Pietro Ichino. “L’unica soddisfazione di queste indagini è che sono stati fermati”, ha ribadito la Boccassini, davanti ai giudici della prima Corte  d'Assise di Milano, prima di avanzare le sue 17 richieste di  condanna, accompagnate alla fine da urla di protesta dalle gabbie e dal pubblico di amici e parenti, slogan e pugni chiusi alzati, che hanno caratterizzato gran parte del  dibattimento.
Condanne a 22 anni di reclusione sono state chieste per Davide Bortolato e Claudio Latino, rispettivamente i leader, secondo l'accusa, della cellula padovana e di quella milanese. Per Vincenzo Sisi, invece, ritenuto il capo di quella  torinese, sono stati chiesti 21 anni, 20 per Bruno Ghirardi e 19 per Alfredo Davanzo, il presunto ideologo del gruppo. Per Massimiliano Gaeta, il pm ha chiesto 18 anni di reclusione, mentre per Massimiliano Toschi, 15 anni. Nove anni, invece, per Salvatore Scivoli, 7 per Alfredo Mazzamauro e Andrea Scantamburlo, 6 per Amarilli Caprio, Michele Magon e Federico Salotto, 6 anni e 8 mesi per Alessandro Toschi, 5 anni per Davide Rotondi e 2 per Giampietro Simonetto. Per Andrea Tonello, infine, 6 anni e sei mesi di reclusione.
Richieste dure - che difficilmente troveranno riscontro nella sentenza - perché dalle indagini, ricostruite passo passo nella requisitoria, è emerso, a detta del pm, “uno scenario devastante”, quello di un gruppo che dettava la sua linea ideologica col foglio clandestino Aurora (il primo numero è del 2002). Erano persone che avevano scelto la clandestinità, che avevano “comportamenti ossessivi, paranoici e anomali nei loro spostamenti”, che facevano azioni di autofinanziamento, come la rapina ad un bancomat nel Padovano, che possedevano armi “in numerosi luoghi d'imbosco”.
Le indagini hanno accertato, inoltre - è sempre la Bocassini a parlare -  che avevano messo in atto “una strategia di proselitismo da affidare a giovani nelle università (Mazzamauro e Caprio alla Statale di Milano, ndr) e nei sindacati”, a cui erano iscritti alcuni degli imputati. E poi ancora c'erano gli “obiettivi da colpire”: oltre a Ichino, tra gli altri, la sede del quotidiano Libero e il manager della Breda, Vito Schirone. E quelli già colpiti con attentati incendiari, la sede milanese di Forza Italia e quella padovana di Forza Nuova.
La Boccassini ha ricordato, infine, i contatti dell'organizzazione con esponenti della 'Ndrangheta per entrare in possesso di nuove armi, con uomini di Cosa Nostra, come Guglielmo Fidanzati, “per entrare nel business della droga e finanziarsi” e con la mala del Brenta di Felice Maniero. Tutti rapporti questi assolutamente non provati, anzi smentiti nel caso della cosiddetta mafia del Brenta.

Nettamente dissonante ovviamente la posizione della difesa degli imputati. Secondo l’avvocato Sandro Clementi, già legale della brigatista Nadia Lioce, alla sbarra ci sono rivoluzionari che vogliono trasformare la realtà sociale” e che “magari possono aver messo in atto una cospirazione politica, con l'obiettivo di costituire il Partito comunista”, ma non sono “affatto dei terroristi”. Clementi ha anche denunciato “un falso investigativo nell'inchiesta, un fatto di gravità inaudita”. Per l'avvocato, che difende uno dei presunti leader del gruppo, Massimiliano Gaeta, la procura di Milano, infatti, “senza avere in mano né prove né indizi”, ha voluto “giustificare il suo impianto accusatorio”, inserendo negli atti d'indagine “un'intercettazione che non esiste nella realtà, una frase che non compare nelle perizie ambientali”.

L'intercettazione contestata è del 20 settembre 2006 ed è attribuita a Gaeta. Secondo l'accusa, indicando un'arma nascosta, Gaeta quel giorno avrebbe detto: “Questo ci serve per Schirone'', riferendosi al manager della Breda Vito Schirone. “Il vicequestore aggiunto Suma che ha condotto tutta l'inchiesta - ha spiegato Clementi - ha creato in questo caso un falso investigativo''.

L'avvocato ha parlato anche delle intercettazioni che riguardano il giuslavorista e senatore Pietro Ichino, potenziale obiettivo del gruppo, secondo l'accusa, dicendo: “Sul professore non c’é nulla di più che qualche frase malevola”. E ha aggiunto: “Quanti ministri e parlamentari sono stati fatti fuori a parole nelle chiacchiere da bar in Emilia?”.

Gli imputati, secondo Clementi, “hanno un'ostilità ideologica feroce, sono persone che possono magari avere sotterrate nell'orto vecchie armi da usare quando ci sarà la rivoluzione, ma non sono terroristi”.

Chiedendo l'assoluzione per Gaeta, il legale ha precisato che si sono comportati “da cospiratori politici, al massimo” e si sono poi trovati accusati in “un processo politico”. Ma le prove a loro carico, ha concluso l'avvocato, “sono un canotto per navigare sul Lambro, una bicicletta per appostamenti e un torchio per falsificare documenti”.

La sentenza è attesa per il prossimo mese di giugno.

MOSTRO DI FIRENZE:
MORTO MARIO VANNI,
DETTO “TORSOLO” 

Era l’ultimo “compagno di merende” ancora in vita. l’ultima vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari che la storia italiana ricordi.
L'ex postino Mario Vanni, detto “Torsolo” per la sua stupidità, 82 anni da compiere il prossimo 23 dicembre, è morto il 14 aprile all’ospedale fiorentino di Ponte a Niccheri dove era stato ricoverato per una crisi respiratoria. Da tempo viveva in una casa di riposo a Pelago (Firenze), dopo che per le sue condizioni di salute gli era stata sospesa la pena all'ergastolo per concorso negli ultimi quattro duplici omicidi attribuiti al mostro di Firenze. Nel 1998 se ne era andato Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale, detto “Vampa”. Nel 2002 era scomparso, invece, “Katanga”, ossia Giancarlo Lotti, il “pentito” demente con un quoziente d’intelligenza inferiore a 50.
Erano loro, per la procura, gli autori materiali non di tutti gli omicidi del mostro di Firenze, che pure si svolsero con le stesse modalità, ma soltanto degli ultimi quattro. Una serie di sentenze tra primo grado, appello e cassazione, a dir poco superficiali. Anche se per Vanni in appello il pg aveva chiesto l'assoluzione.
Povero Vanni, era assolutamente innocente”, ha commentato il suo legale, l’avv. Nino Filastò. “E’ morto senza aver capito cosa gli stesse accadendo e la sua condanna è stata un grave errore giudiziario. Non ha mai capito cosa gli stesse accadendo nemmeno del processo si è reso conto. Quando lo andavo a trovare, anche negli ultimi giorni, mi chiedeva: avvocato, ma quando lo fanno il processo?”.
Vanni, ha detto ancora Filastò, “è stato condannato perché le indagini sono state fatte male, a senso unico, sulla base di una ipotesi assolutamente astratta e non vera. Si parlava di un collettivo di assassini e invece quei giovani sono stati uccisi da una persona sola, uno psicopatico in forma grave che si dava una giustificazione religiosa”.
Il magistrato, ora in pensione, Piero Luigi Vigna, che fu a capo della procura quando prima Pacciani e poi Vanni furono arrestati, dopo aver ricordato le sentenze di Cassazione, ha spiegato che “secondo la nostra ricostruzione erano loro gli autori degli omicidi. Con le loro scomparse la morte c'ha messo il cappello sopra”. Cosa non vera, come Vigna sa bene, dal momento che la “cooperativa di mostri” prevedeva un mandante, che non è mai stato identificato e che ha portato ad un altro errore giudiziario, quello del processo al farmacista Calamandrei fortunatamente assolto.
Vanni - ha detto il fantasioso poliziotto-scrittore Michele Giuttari, l’”inventore” della teoria dei “compagni di merende” - si porta nella tomba dei segreti che non ha voluto o potuto rivelare, quelli sui mandanti del mostro”.

E così, dopo la scomparsa dell’ultima vittima della loro inchiesta, magistrati e poliziotti, vissero tutti felici e contenti. Anche se il mostro di Firenze è una figura destinata a restare misteriosa.

SEQUESTRO ABU OMAR:
LA VERGOGNA DEL SEGRETO DI STATO BIPARTIZAN 

Il giudice della quarta sezione del tribunale di Milano, Oscar Magi, deciderà il prossimo 20 maggio sulle numerose istanze presentate dagli avvocati degli imputati nel processo per il sequestro dell'ex imam Abu Omar, dopo che la Consulta ha parzialmente accolto il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal governo contro la magistratura milanese in materia di segreto di Stato. Il procuratore aggiunto Armando Spataro e il pm Ferdinando Pomarici si sono opposti, giudicandole tra le altre cose intempestive, alle richieste di proscioglimento presentate da numerosi imputati.

Per quanto riguarda invece, l'utilizzabilità delle prove, sulla scorta della sentenza della Consulta, la pubblica accusa ha ritenuto che dichiarazioni di testimoni e documentazione siano utilizzabili escludendo, in sostanza, tutti i riferimenti ai rapporti tra Sismi e Cia.
Come è noto la Corte Costituzionale ha accolto parzialmente i ricorsi presentati dal governo Prodi e dall'esecutivo guidato da Berlusconi, accomunati nell’opporre il segreto di Stato sulla vicenda. Sarà quindi necessario attendere la ripresa del processo per sapere se il giudice Oscar Magi vorrà continuarlo o interromperlo.
Le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale, emessa l’11 marzo scorso dalla Consulta - secondo gli avvocati che difendono i 36 imputati - sembrerebbero lasciare poco spazio. Infatti i giudici della Corte hanno confermato la piena titolarità del presidente del Consiglio ad apporre su alcuni atti e vicende il segreto di Stato. In particolare il giudice Alfonso Quaranta, relatore della sentenza, sostiene che “non spettava né alla Procura della Repubblica di Milano, né al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, porre tutto il materiale parzialmente segretato a fondamento, rispettivamente, della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati e del successivo decreto pronunciato a norma dell’art. 429 cod. proc. pen., donde la necessità per questa Corte di disporre l’annullamento di tali atti processuali nelle parti corrispondenti agli omissis e alle obliterazioni relativi ad intestatari, destinatari e denominazione di uffici, apposti con la nota del 31 ottobre 2006. Tuttavia, quanto agli effetti destinati a scaturire - nel giudizio penale tuttora in corso - da tale declaratoria, debbono ribadirsi i principi tradizionalmente enunciati da questa Corte”.
Il tribunale dovrà quindi, secondo la Corte, preliminarmente vagliare l’effetto di tali annullamenti sul processo in corso dal momento che la sentenza della Corte chiarisce che i rapporti fra Cia e Sismi, anche se relativi ad Abu Omar, sono coperti dal segreto di Stato e che chiunque dovesse parlare (testimoni o anche imputati) incorrerebbero nel reato di violazione di segreto di Stato punito con la reclusione fino a quattro anni.

Anche sull’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche effettuate dalla procura, la Corte afferma che non sono utilizzabili nella parti in cui facciano riferimento ad elementi conoscitivi coperti dal segreto di Stato ed in particolare sul tema delle relazioni intercorse fra i servizi italiani e stranieri, anche se riferiti ad Abu Omar.

TERRORISMO ANNI ’70:
ENTRO LA METÀ DI MAGGIO
LA DECISIONE SU CESARE BATTISTI 

Il giudizio sul caso di Cesare Battisti potrebbe arrivare entro le prime due settimane di maggio. E’ quanto sostiene il presidente del Supremo tribunal federal (Stf) brasiliano, Gilberto Mendes.

Intanto Battisti rimane in carcere. A suo favore si è mosso anche il presidente brasiliano Inácio Lula da Silva che si è detto pronto a utilizzare il potere a lui assegnato dalla prassi e a trattenere in Brasile l’ex terrorista nel caso in cui la Corte dovesse decidere per l’estradizione. Lo stesso presidente brasiliano ha inviato, in questo senso, una lettera al Supremo tribunal federal.

TERRORISMO ANNI ’70 (2):
PROBABILE ASILO POLITICO
IN BRASILE ANCHE PER EX NAR BRAGAGLIA 

E’ molto probabile che - forse per una questione di par condicio - anche l’ex militante dei Nar Pier Luigi Bragaglia, arrestato il 3 luglio 2008 vicino a S.Paolo dopo 26 anni di latitanza, ottenga asilo politico in Brasile, come l’ex militante dei Pac Cesare Battisti.

Ma chi è Pier Luigi Bragaglia? Nei primi anni '70 Bragaglia è un noto attivista missino di Roma nord, un piccolo leader nero di quartiere, a capo di un gruppetto ritenuto responsabile di una serie di aggressioni nei confronti di extraparlamentari di sinistra. Per questa sua attività di picchiatore il 9 novembre 1977 i pm di Roma Franco Marrone e Luciano Infelisi emettono nei suoi confronti un ordine di cattura. E’ probabilmente questa la causa scatenate del suo passaggio nelle file dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.

Ma la figura di Bragaglia è importante anche per un altro motivo: nel 1981 è stato l’obiettivo di uno dei non pochi omicidi mirati messi in atto dai corpi dello Stato italiani. L’episodio merita di essere raccontato anche per capire che non sempre i limiti dello stato di diritto di un Paese democratico sono stati rispettati in Italia. Tutto ha inizio con le indagini avviate subito dopo la strage di Bologna.

Per la strage alla stazione di Bologna del 1980, le prime veline dei servizi di sicurezza che giungono ai magistrati bolognesi fanno un nome: il solito. Quello di Stefano Delle Chiaie, che in seguito verrà scagionato da ogni accusa. Ma nel 1981 l'inchiesta condotta dalla magistratura del capoluogo emiliano porta il giudice istruttore Aldo Gentile a formulare accuse, oltre che contro Delle Chiaie, nei confronti di altre persone, tutte appartenenti all'area dell'estrema destra. Tra questi, Pierluigi Pagliai, Carmine Palladino e Maurizio Giorgi sono legati a Delle Chiaie; un altro, Giorgio Vale, è un terrorista dei Nar; l'ultimo, Maurizio Bragaglia, è un noto attivista missino di Roma-Nord, vicino agli ambienti della destra extraparlamentare,
Nel biennio 1981-82, i sei (Delle Chiaie e Pagliai si trovano latitanti all'estero) sono oggetto di operazioni che dovrebbero portare alla loro eliminazione: in tre casi gli obiettivi vengono raggiunti.
Il primo a dovere essere tolto di mezzo è Maurizio Bragaglia. A Roma un gruppo di poliziotti in borghese della Digos lo attende di notte sotto casa, in via Cortina d'Ampezzo. È il 6 gennaio 1981. Sono circa le 23 quando arriva una macchina che somiglia a quella di Bragaglia. Sulla vettura, una Renault 5 Alpine nera, si trovano cinque persone, reduci da una cena. L'auto si ferma perché il guidatore deve cambiare il nastro dello stereo. All'improvviso si avvicinano tre individui con le pistole spianate: «Aprite, aprite», urlano, battendo i calci delle pistole contro i finestrini. L'autista, preso dal panico, nel timore di essere stato aggredito da rapinatori, ingrana la marcia e riparte. Fa solo pochi metri, perché l'auto viene raggiunta da una raffica di proiettili. A quel punto gli occupanti scendono e vengono circondati dagli uomini che, tenendoli sotto tiro, li perquisiscono. Si accorgono però che all'interno del mezzo è rimasta una donna. È ferita e perde molto sangue. Viene chiamata un'ambulanza, ma la sua corsa verso il vicino ospedale Gemelli è vana. La giovane, Laura Rendina, ventotto anni, muore durante il tragitto. Si era sposata quattro mesi prima. L'indomani l'accaduto, minimizzato dalla questura, viene commentato duramente dai quotidiani.
Scrive Il Messaggero: “Silenzio totale. La questura di Roma non ha nulla da dire sull'uccisione di Laura Rendina. Non esiste una versione ufficiale dei fatti. È un altro black-out. Anche in questo caso la stampa non deve sapere, la gente non deve capire. Quello della polizia è un comportamento incomprensibile”.

Dopo molti giorni il rapporto ufficiale parlerà di un incidente, uno scambio di persona avvenuto nel buio. Ma perché la polizia ha sparato per uccidere se l'ordine era quello di arrestare Bragaglia?

TERRORISMO ANNI ’70 (3):
UN LIBRO SUL CASO CIRILLO 

Con questo libro faccio un tentativo di smascherare coloro che dal caso Cirillo hanno avuto dei benefici e poi sono spariti”.

Così Giuliano Granata, già sindaco del comune di Giuliano, l'uomo che più di altri si adoperò nella trattativa con le Br per la liberazione dell'assessore all'urbanistica della regione Campania, Ciro Cirillo, rapito dai terroristi e liberato dopo 89 giorni, ha spiegato le ragioni che lo hanno indotto a scrivere, con la giornalista Tonia Limatola, il libro intervista “Io, Cirillo e Cutolo: dal sequestro alla liberazione”, edito da cento Autori.

Granata, rispondendo alle domande dei giornalisti nel corso di una conferenza stampa di presentazione del libro (vedi: http://www.radioradicale.it/scheda/275098/io-cirillo-e-cutolo-dal-sequestro-alla-liberazione-incontro-con-la-stampa-di-presentazione-del-libro-di-gi)

ha affermato che qualcuno da quella vicenda ha avuto dei vantaggi: “E' qualcuno che ora deve venire fuori”.

STRAGE DI BRESCIA:
AFFATIGATO:
“CON GELLI SI PARLO' DI ATTENTATI” 

Marco Affatigato, negli anni Settanta referente di Ordine Nuovo per la provincia di Lucca, sospettato di essere al soldo dei servizi segreti italiano e francese (il suo nome compare in un depistaggio per la strage di Ustica), interrogato durante il processo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, ha riferito, tra l'altro, di un  incontro, avvenuto in quegli anni, con Licio Gelli, maestro della Loggia massonica P2, con cui parlò di possibili attentati ai tralicci.

Noi - ha detto Affatigato - cercavamo del denaro e venimmo presentati ad una persona che ci chiese se eravamo disponibili a compiere attentati ai tralicci. Risposi negativamente anche perché allora non ero ancora entrato in clandestinità. Successivamente riconobbi in quell’uomo Licio Gelli”.

STRAGE DI BRESCIA (2):
PITTARESI: “ESPOSTI MI PARLO' DI UN BOTTO” 

''Un botto a Brescia, in una piazza, proprio come in piazza Fontana a Milano''. Sono le parole che Giancarlo Esposti avrebbe riferito a Biagio Pittaresi, esponente del Movimento sociale negli anni Settanta, alcune settimane prima della strage di piazza della Loggia. Pittaresi è stato sentito nel processo per la strage e ha ribadito quanto già dichiarato in interrogatori a cui venne sottoposto negli anni Novanta.

Torna così il tentativo di addossare al giovane esponente del Mar di Fumagalli l’esecuzione della strage. Un tentativo già fallito all’indomani dell’eccidio quando i carabinieri, dentro alla strage fino al collo, con un identikit cercarono di identificare nell’estremista di destra milanese Giancarlo Esposti colui che aveva deposto una bomba in un cestino dei rifiuti di piazza della Loggia. Da quell’identikit partì una caccia a l’uomo da parte dei carabinieri e di agenti del Sid che qualche giorno dopo la strage portò alla cattura e all’eliminazione con un colpo alla nuca dello stesso esposti a Piano di Rascino, sui monti del reatino. Peccato che Esposti avesse una folta barba che certamente non aveva potuto farsi crescere in appena pochi giorni. Altrimenti oggi saremmo convinti che era proprio lui l’autore della strage. In realtà Esposti faceva parte di quell’ala estrema del cosiddetto Partito del Golpe che andava eliminata.

Ha detto ancora Pittaresi: “Nelle settimane antecedenti la strage, si diceva che bisognava colpire Brescia perché c'era una sezione del Pci molto importante e perché con i carabinieri non ci sarebbe stato alcun problema”.

MAFIE 2008:
IN CALO COSA NOSTRA,
IL PERICOLO E’ LA ‘NDRANGHETA 

Gli analisti dei servizi segreti, nella relazione sulla sicurezza del 2008, trasmessa alle Camere, ritengono che Cosa nostra stia oggi attraversando una grave “crisi”, soprattutto a livello della mafia palermitana che sta cercando di "rivitalizzare la commissione provinciale, sostanzialmente inoperosa dal ’90, e di recuperare l’impostazione leaderistica unitaria".
Una “ristrutturazione” che non riesce a nascondere “l’emersione di una significativa area di dissenso, che in prospettiva potrebbe accentuare la fluidità degli equilibri, innescando situazioni di conflittualità. In un contesto che vede le leadership più carismatiche assicurate alla giustizia, il profilo strategico di Cosa Nostra risulta sempre più legato alle componenti in carcere, deputate ad elaborare le iniziative di maggior respiro e capaci, nonostante i vincoli del regime detentivo differenziato del 41 bis, di indicare e sostenere scelte operative ed economiche del gruppo di riferimento”.
Quanto alla ‘ndrangheta, per gli 007 dell’agenzia di sicurezza interna (Aisi), la criminalità calabrese resta “l’espressione delinquenziale più insidiosa e pervasiva, particolarmente attiva nell’infiltrazione degli appalti pubblici, nello sviluppo dei rapporti di natura collusiva o intimidatoria con i locali livelli tecnico-amministrativi (…). Continua a rilevarsi, infine, l’attitudine della ‘ndrangheta a trasferire competenze e relazioni criminali sia all’estero, dove resta attore primario del narcotraffico, sia nel centro-nord d’ Italia, area di insediamento delle articolate reti dello smercio di droga”.
Per quanto concerne invece  la camorra, il contesto criminale “campano resta caratterizzato da una esasperata competitività fra i clan, fortemente indeboliti dall’azione di contrasto e dalla spinte centrifughe”.

Il traffico degli stupefacenti si muove su diverse direttrici, quasi immutate negli ultimi anni. Ma si segnala il rafforzamento delle organizzazioni criminali nigeriane, principali collettori della rotta africana della cocaina. “Il Nordafrica sta assumendo centralità nelle rotte intercontinentali del narcotraffico - è scritto nella relazione - non solo per i flussi di hashish che muovono dal Marocco, ma anche per l’accentuata vocazione transnazionale delle locali aggregazioni criminali, rivelatasi funzionale all’insediamento nella regione di organizzazioni di trafficanti nigeriani e balcanici proiettati verso il continente europeo. Le accresciute capacità organizzative e relazionali della criminalità straniera rappresentano un dato ricorrente per tutte le principali componenti delinquenziali etniche in territorio nazionale: le aggregazioni maghrebine, sempre più presenti nella piazze dello spaccio (…).; quelle nigeriane, collegate alle solide strutture mafiose operanti nella madrepatria; le cinesi e le russofone, dal marcato profilo affaristico di particolare incidenza sul tessuto economico; le balcaniche, portatrici di cruenti modelli predatori”. 

MAFIA:
PROCESSO AI VERTICI DELLA CALCESTRUZZI SPA 

Per aver fornito calcestruzzo di qualità inferiore a quello richiesto dalle imprese che eseguivano appalti pubblici, è corso a Caltanissetta il processo ai vertici della Calcestruzzi spa. Il dibattimento vede alla sbarra tre imputati: l'ex amministratore delegato della società, Mario Colombini, che era stato arrestato nel gennaio 2008 per frode in pubbliche forniture e intestazione fittizia di beni, con l'aggravante di avere agevolato la mafia; Fausto Volante, direttore di zona per la Sicilia e la Campania, anche lui arrestato, e l'ex capo area Giovanni Laurino, licenziato dalla Calcestruzzi.
Colombini e Volante sono accusati di attentato alla sicurezza dei trasporti. L'imputazione fa riferimento al fatto che la Calcestruzzi spa avrebbe fornito cemento di qualità inferiore a quanto previsto dall'appalto per la realizzazione dello svincolo dell'autostrada di Castelbuono sulla Palermo-Messina.
I giudici hanno accolto la costituzione di parte civile del Comune di Gela, il Cas spa (Consorzio autostrade siciliane), l'Anas e la Ricciardello Costruzioni srl.

Intanto la Procura di Caltanissetta ha disposto nuovi accertamenti tecnici su sei opere pubbliche finite nell'inchiesta giudiziaria che coinvolge la Calcestruzzi Spa. Nuovi carotaggi (già eseguiti una prima volta nell'ambito dell'inchiesta della Dda) sono in corso nell'ala in costruzione dell'ospedale Sant'Elia. Previsti accertamenti nel nuovo palazzo di giustizia e nella diga foranea di Gela, nella galleria Cozzo (lungo l'autostrada Palermo-Messina), sullo svincolo autostradale di Castelbuono sempre dello stesso asse viario e sulla strada a scorrimento veloce Licata-Torrente Braemi.

I consulenti nominati dal pm Nicolò Marino sono Nunzio Scibilia, docente di Tecnica delle costruzioni all'Università di Palermo, e Giuseppe Mancini, che insegna al Politecnico di Torino. Dovranno comprovare i sospetti dei magistrati, ovvero che i lavori siano stati eseguiti con cemento impoverito.

L'esigenza di altre verifiche tecniche è emersa durante l'incidente probatorio del procedimento in corso davanti al gip Giovanbattista Tona, nel quale sono indagate sette persone per lo più ex dipendenti della Calcestruzzi Spa e la stessa holding bergamasca del cemento.

GRANDI OPERE:
FACILE AGGIRARE LE NORMATIVE ANTIMAFIA 

Le indagini hanno offerto la dimostrazione inquietante di come fosse possibile aggirare la normativa antimafia proprio per le Grandi opere e come di fatto i lavori di movimento terra fossero controllati dalla 'ndrangheta. La conseguenza dell’ingerenza della 'ndrangheta è la disapplicazione delle regole di mercato e dei principi della libera concorrenza”.

E' questo uno dei passaggi del gip milanese Caterina Interlandi nel provvedimento di custodia cautelare in carcere per 20 indagati, tra i quali esponenti di clan calabresi e un appartenente alla guardia di finanza. “Il sistema per chiamata diretta per eseguire i lavori nei cantieri dell’Alta velocità di Cassano d'Adda, Melzo e di centri dell'hinterland milanese - osserva il giudice - era egemonizzato dai Nicosia, Arena, Perre e Barbaro”.

MAFIA:
GIUDICE NON DEPOSITA SENTENZA,
21 SCARCERAZIONI 

Sono 21 i presunti mafiosi e trafficanti di droga - otto detenuti in carcere, 13 ai domiciliari - che sono stati scarcerati il 15 aprile scorso per il mancato deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado da parte del Tribunale di Bari. Un'altra trentina di imputati, condannata a pene superiori ai dieci anni, sarà scarcerata nel prossimo ottobre.
Si tratta di alcuni dei 160 imputati del maxiprocesso Eclissi nei confronti del potente clan mafioso barese degli Strisciuglio, egemone nel capoluogo pugliese e in comuni della provincia. Nei confronti degli imputati che tornano in libertà sono infatti scaduti i termini di fase che decorrono dalla data di lettura del dispositivo di sentenza all'avvio del processo di secondo grado.

Il processo di primo grado, celebrato con rito abbreviato, si è concluso il 16 gennaio 2008 con la condanna di quasi tutti i 160 imputati da parte del gup del Tribunale di Bari Rosa Anna De Palo. Proprio la De Palo, che da qualche mese è presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, in 15 mesi non è riuscita a depositare le motivazioni della sentenza di primo grado.

MAFIA:
QUANDO I FAMILIARI DEI BOSS
VANNO IN PSICOTERAPIA 

Ansia e disturbi della personalità sono le patologie più diffuse tra i familiari degli “uomini d'onore”. Lo sostiene una ricerca dal titolo “La psicologia della criminalità organizzata nel Meridione”, svolta da un gruppo di ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’università di Palermo, guidato da Girolamo Lo Verso, che da 15 anni analizzano i sintomi del “male di vivere” in chiave mafiosa.
La ricerca, che è stata anticipata dal magazine siciliano S, sostiene che l’ansia viene diagnosticata nel 20% dei casi, mentre i disturbi della personalità affliggono 17 familiari di mafiosi su cento. L’indagine è stata compiuta su 81 pazienti (55 adulti, 9 adolescenti, 7 bambini), appartenenti a famiglie affiliate a Cosa nostra, alla camorra e alla 'ndrangheta, in cura da 27 psicoterapeuti siciliani, campani e calabresi.
Queste persone - spiega Lo Verso - sono vittime di crisi d'identità terribili, perchè non sono abituati alla contraddittorietà, sono come i fondamentalisti. Ma appena nella loro vita accade qualcosa che fa crollare la cortina di sicurezze, entrano in crisi”.

Fonte: Ansa

CASO CONTRADA:
AUDIZIONE DAVANTI PG CORTE DEI CONTI
L'11 MAGGIO 

La Procura generale della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione siciliana sentirà il prossimo 11 maggio Bruno Contrada nell'ambito dell’iter avviato per chiedere 150 mila euro di risarcimento all’ex dirigente generale della polizia per danni all'immagine dello Stato in seguito alla sua condanna a 10 anni di reclusione per concorso esterno all'associazione mafiosa.

Nel memoriale difensivo depositato il suo legale, l’avv. Lipera, sostiene che “nessun danno patrimoniale Bruno Contrada ha arrecato allo Stato e all'Erario” e che “semmai è vero il contrario visto che la sentenza definitiva è arrivata dopo 15 anni di processi".

CARCERI:
IN SICILIA SONO QUATTRO I CARCERI-LAGER
DA CHIUDERE SUBITO 

di Roberto Puglisi

Quattro prigioni dell’orrore, in Sicilia. Quattro carceri da chiudere subito perché “violano la Costituzione”. “Quattro lager che mortificano la dignità della persona umana".
Lino Buscemi, dirigente dell’Ufficio regionale del Garante dei diritti dei detenuti, è uomo che ama parlare chiaro.

Allora il ministro ha ragione?

Ha ragione da vendere. Controlliamo sempre. Sono saltate fuori cose da far rizzare i capelli. Quattro carceri siciliane sono da chiudere subito”.

L’elenco.

Ucciardone a Palermo, Piazza Lanza a Catania, Favignana e Mistretta. Sono lager”.

Perché?

Alla sesta sezione dell’Ucciardone dormono in nove in celle che potrebbero ospitare tre persone. A Favignana, per fare la doccia, i prigionieri - li chiamo così - sono costretti a percorrere nudi un corridoio di dieci metri, col freddo e col caldo. E le celle sono sotto il livello del mare”.

Continui.

Ovunque manca l’acqua calda. Ovunque abbondano gli scarafaggi. E poi ci sono i numeri”.

Pure.

Abbiamo sfondato quota settemila detenuti su una tollerabilità di cinquemila. In Sicilia c’è il tredici per cento del totale”.

Che pena.

Sì, che pena. Ho incontrato due poveracci in cella. Otto mesi per furto di legname”.

Carceri nuove?

Basterebbe eliminare gli sprechi. E basterebbe tenere presente un assunto fondamentale”.

Cioè?

Il carcere dovrebbe rieducare”.

Fonte: www.livesicilia.it tratto da www.ristretti.it

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