LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA

          Anno 7 - Numero 109                          9 marzo 2006

storia in rete
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IN QUESTO NUMERO:

DOCUMENTAZIONE:

COVO RIINA:
MORI E DE CAPRIO ASSOLTI,
MA IL MISTERO RIMANE

Il 15 gennaio del 1993, dopo oltre 23 anni di latitanza, Totò Riina, capo di Cosa nostra, viene catturato a Palermo dai carabinieri del Ros. E' in auto insieme all'uomo che gli fa da autista, Salvatore Biondino. I militari, guidati dall'allora capitano Sergio de Caprio, nome di battaglia “Ultimo”, lo fermano alle 8 di mattina a poche centinaia di metri dalla villa in cui con moglie e figli ha trascorso gli ultimi dieci anni. Il covo, una lussuosa abitazione in via Bernini 54, immersa in un parco che ospita un complesso residenziale, verrà perquisito soltanto il 2 febbraio del 1993, 18 giorni dopo l'arresto. Nel frattempo gli uomini d'onore riescono ad entrare nella casa, fare sparire quello che c'e' dentro ed addirittura imbiancare le pareti.

Perché tutto questo è accaduto? Perché i carabinieri non perquisirono subito quell’appartamento? Perché tolsero perfino la vigilanza?

Il mistero sta in queste tre domande a cui non ha saputo rispondere neppure il lungo processo che ha assolto sia De Caprio, (oggi tenente colonnello) che il gen. Mori, attuale capo del Sisde, nel '93 vicecomandante del Ros, accusati di avere favorito Cosa Nostra, rinviando l'ingresso nel covo e consentendo ai boss di svuotarlo.

Secondo la sentenza, nei 18 giorni che separano l'arresto di Toto' Riina dalla perquisizione del covo del boss, né Mori, né De Caprio commisero alcun reato.

Resta un mistero anche il riferimento fatto, al momento della sua requisitoria, dal PM Ingroia alla "ragion di Stato".

Cosa c’entra la ragion di Stato dietro quella mancata perquisizione?

Di fronte a tutti questi interrogativi, prende sempre più corpo allora un’ipotesi più volte ventilata: ossia che l’arresto di Totò Riina non sia stata affatto una brillante operazione dei Ros o del “capitano Ultimo”, ma il risultato di una trattativa segreta che in cambio prevedeva proprio la mancata perquisizione del covo del boss dei boss. Una trattativa che aveva però bisogno di una sceneggiata.

In tutta questa pantomima - e questo davvero li scagionerebbe del tutto e definitivamente - Mori e De Caprio, a loro insaputa, avrebbero recitato soltanto una parte in commedia, convinti però che fosse la realtà.

Riina fu ceduto dalla mafia allo Stato italiano. Tutto il resto, cattura e mancata sorveglianza del covo comprese, era solo una messinscena ad uso e consumo dell’opinione pubblica.

 

COVO RIINA (2):
LE STRAGI DEL ’93
POTEVANO ESSERE EVITATE?

Quante Possibilità ci sono che le stragi del 1993 potessero essere evitate se l’appartamento dove viveva Salvatore Riina fosse stato repentinamente perquisito?”.

E’ la domanda che si è posta l’Associazione che riunisce i parenti delle vittime dell’attentato di 13 anni fa in via dei Georgofili, a Firenze, dopo l’assoluzione di Mori e De Caprio.

Chi risponde a questo interrogativo?

 

PANTANO IRAQ:
SQUADRONI DELLA MORTE NELLA POLIZIA IRACHENA

A Baghdad, ma anche nel resto dell’Iraq, operano squadroni della morte al soldo del ministero dell’Interno iracheno che nella sola capitale, ogni mese, assassinano centinaia di iracheni. La denuncia e del domenicale britannico Independent on Sunday che ha raccolto le dichiarazione dell’ex inviato dell'ONU per i diritti civili in Iraq, John Pace.

Secondo Pace, il ministero dell’Interno iracheno agisce "come un elemento canaglia all'interno del governo". E' controllato dal principale partito sciita, il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq (Sciri) ed il ministro Bayan Jabr è un ex leader della milizia di Sciri, la brigata Badr, che è uno dei gruppi accusati di compiere omicidi settari.

Pace, che ha da poco lasciato Baghdad, ha detto al giornale britannico che fino a tre quarti dei cadaveri che finiscono nell'obitorio della città mostrano segni di colpi di arma da fuoco alla testa e bruciature sul corpo.

La maggior parte delle informazioni raccolte da Pace e dal suo team provengono dall'istituto di medicina legale di Baghdad. E i dati sono agghiaccianti: le cifre mostrano, infatti, che lo scorso luglio all'obitorio sono arrivati 1.100 cadaveri, 900 dei quali mostravano segni di torture o di esecuzioni sommarie. L'affluenza è rimasta costante fino a dicembre, quando i cadaveri arrivati all'obitorio sono stati 780, 400 dei quali con ferite da arma da fuoco e segni di tortura.

John Pace, che ha lavorato per le Nazioni Unite per oltre 40 anni e che ora è andato in pensione, ha detto inoltre che "la violenza costante e la mancanza di sicurezza in Iraq stanno creando un circolo vizioso nel quale i cittadini ordinari si rivolgono ai gruppi di estremisti settari per ottenere protezione".

L'ex inviato dell'ONU, secondo il quale negli ultimi due anni la situazione in Iraq è andata sempre peggiorando, ha criticato anche i rastrellamenti che fanno le truppe USA assieme alla polizia irachena. "La maggioranza degli arrestati - ha detto - è costituita da innocenti, ma che spesso rimangono in prigione per mesi. Non si elimina il terrorismo facendo così. L'intervento militare causa seri problemi di diritti umani e umanitari ad un gran numero di civili innocenti. Il risultato è che questi individui alla fine della detenzione si trasformano in terroristi".

Preoccupazioni per la situazione in Iraq sono state espresse anche dall'ex ambasciatore britannico in Iraq, Jeremy Greenstock, secondo il quale il Paese sta scivolando verso "una guerra civile di bassa intensità"'. In molte città, ha detto l'ex inviato di Blair, è in atto la pulizia etnica ed i diversi gruppi razziali o religiosi cercano di stabilire i loro territori.

 

PANTANO IRAQ (2):
I CADUTI AMERICANI SUPERANO QUOTA 2.300

Secondo dati diffusi dal Pentagono, alla data del 2 marzo 2006 i soldati americani caduti in Iraq erano 2303.

 

PANTANO IRAQ (3):
MOLTO ALTO IL RISCHIO DI UNA GUERRA CIVILE

E’ molto alto il rischio che l’Iraq precipiti in una vera e propria guerra civile. Tutto dipende dall’atteggiamento che assumeranno sciiti e curdi, vincitori delle ultime elezioni legislative, nei confronti dei sunniti.

E’ quanto afferma l'International Crisis group (ICG) un influente gruppo di riflessione con base a Bruxelles e composto da ex alti responsabili americani.

"L'attentato contro il mausoleo sciita a Samarra (il 22 febbraio scorso) - si legge in un documento dell’ICG - le rappresaglie contro le moschee sunnite e le uccisioni di sunniti sono l'ultimo segnale che l'Iraq si sta avvicinando ad un disastro totale".

L'ICG propone cinque misure per cercare di evitare una guerra fratricida in Iraq:

1) "le principali liste sciite e curde dovrebbero formare un governo d'unità nazionale nel quale gli arabi sunniti non dovrebbero essere emarginati"; "Le milizie che hanno contribuito alla destabilizzazione del Paese dovrebbero essere smantellate" e "integrate all'interno delle nuove forze di sicurezza".

 2) "Si dovrebbero apportare dei cambiamenti significativi (nella Costituzione), soprattutto emendando gli articoli relativi al federalismo e alla distribuzione dei proventi delle vendita del petrolio".

3) "I Paesi donatori dovrebbero incoraggiare le istituzioni non settarie a fornire fondi ai ministeri e ai progetti che sostengono la trasparenza e la competenza".

4) Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero esprimere "chiaramente le loro intenzioni sul ritiro dall'Iraq. La ritirata dovrebbe avvenire gradualmente, tenendo conto della capacità del governo iracheno di occuparsi (della sua sicurezza) e della creazione di forze di sicurezza non settarie"; "Con la loro presenza le forze straniere impediscono per il momento che le violenze settarie ed etniche diventino incontrollabili".

5) "La comunità internazionale, tra cui gli Stati vicini, dovranno prepararsi all'eventualità di una disgregazione dell'Iraq per contenere le ricadute sulla stabilità e la sicurezza della regione"; "non pensare a questo tipo di scenario potrebbe portare a molti disastri nel futuro".

L'organizzazione conclude affermando che "le elezioni del gennaio e del dicembre 2005 hanno evidenziato la predominanza della religione; le moschee si sono trasformate in quartieri generali di partiti politici e i religiosi in politici".

Fonte: Agence France press

 

TERRORISMO INTERNAZIONALE:
BIN LADEN IN ISRAELE?

Che ci faceva Osama bin Laden in Israele?

La domanda è rimasta senza risposta, così come non ha avuto seguito la rivelazione del quotidiano israeliano Maariv che agli inizi dello scorso gennaio ha scritto sul suo sito Internet in ebraico che il 14 settembre 2002 il capo assoluto di Al Qaida era entrato in territorio israeliano.

Osama bin Laden avrebbe varcato la frontiera giordano-israeliana al passaggio di Shaykh Husayn con un visto turistico della durata di due mesi e da allora non avrebbe più lasciato Israele.

Secondo Maariv immagini di bin Laden sarebbero state riprese da una telecamera di sicurezza.

 

STRAGI DEL ’92:
I MANDANTI ESTERNI

Non è ancora chiusa l’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi siciliane del '92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle loro  scorte. Nuovi spunti investigativi sono all’esame dei pm della Dda di Caltanissetta, coordinati dalla Dna di Piero Grasso.

Le indagini finora hanno sfiorato soprattutto ambienti dei servizi segreti e accertamenti sono stati svolti perfino su collegamenti con la Russia. Ma, almeno finora, le piste battute sono risultate fredde.

Nei mesi scorsi i pm della Dda nissena hanno sentito il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, già “braccio destro” di Borsellino, accusato di collusioni con la mafia ma poi ampiamente assolto. Canale aveva rilasciato dichiarazioni che inducevano a ritenere che lo stesso potesse avere elementi utili per le indagini.

Le sue dichiarazioni sono contenute nella relazione della Procura nazionale antimafia. "Anche l'interrogatorio di Canale - scrivono i magistrati di via Giulia - non ha offerto seri spunti investigativi. Ha riferito sulle notizie pubblicate da varie testate giornalistiche, nelle quali aveva dichiarato che i mandanti delle stragi 'sono ancora liberi. Canale ha confermato l'affermazione, aggiungendo di non essere in possesso di notizie ulteriori rispetto a quelle in passato già riferite alla procura di Caltanissetta; ha ribadito, comunque, che il dottor Borsellino collegava in qualche modo l'uccisione di Falcone con le indagini svolte in relazione al rapporto mafia-appalti".

Nell'inchiesta è emerso un collegamento con uomini del Sisde, il servizio segreto civile. Ma anche queste indagini, sviluppate sulla base delle dichiarazioni del “pentito” trapanese, Armando Palmeri, hanno dato esito negativo. Il “pentito” faceva riferimento al generale dei carabinieri Giacomo Quagliata, ex Sisde, il quale, sentito come teste, ha confermato di essere parente di Antonella Bonomo, la fidanzata di Vincenzo Milazzo, il boss di Alcamo, entrambi uccisi.

L'ufficiale ha precisato di non conoscere le ragioni per le quali la donna era stata assassinata. Quagliata ha inoltre affermato che "mai aveva avuto contatto con i due per ragioni del suo ufficio".

Il Procuratore nazionale antimafia ha intanto trasmesso alla Dda di Caltanissetta alcune informazioni elaborate mediante la lettura incrociata di numerosi atti di indagine relativi a due telecomandi,marca "telcoma", ritrovati durante una perquisizione in un casolare di contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato, nella disponibilità di Giovanni Brusca, e al telecomando della stesso tipo utilizzato per la strage di via D'Amelio, per dare un impulso investigativo che poteva consentire l'individuazione di chi aveva procurato il telecomando utilizzato per l'attentato, o di accertare che questo fosse stato procurato dalle stesse persone "già note, che avevano procurato i primi due telecomandi".

Per i magistrati si tratta dei catanesi Salvatore Di Stefano e Giuseppe Di Stefano, che risultano, secondo le dichiarazioni di alcuni “collaboratori della giustizia” di Catania, legati al clan mafioso del "Malpassotu". Scambi di informazioni vi sono state su questa inchiesta fra le procure di Caltanissetta e Catania, coordinata dalla Dna.

Nella riunione del 6 maggio 2005 e' emerso che "i due telecomandi ritrovati nella disponibilità di Brusca - scrive la Dna - erano riconducibili al progetto di attentato organizzato contro il magistrato Piero Grasso, nonché alla possibilità, a tener conto delle dichiarazioni di Gioacchino La Barbera, che i fratelli Di Stefano avessero procurato allo stesso La Barbera un altro telecomando in epoca precedente la strage di via D'Amelio".

I pm hanno risentito su questa vicenda i pentiti La Barbera, Brusca e Ferrante, anche se risultava dalle dichiarazioni di La Barbera che i telecomandi ritrovati non erano stati utilizzati per le stragi, ma erano stati restituiti a Brusca che li aveva nascosti.

La Dda di Caltanissetta ha pure approfondito il filone d'indagine relativo al presunto viaggio che, secondo notizie giornalistiche, Giovanni Falcone avrebbe dovuto effettuare in  Russia per dare corso a una rogatoria.

Per questa ipotesi i pm hanno sentito il 29 giugno 2000 Ugo Giudiceandrea, ex procuratore della Repubblica di Roma, il quale ha precisato che Falcone, con riferimento all'indagine svolta dalla procura di Roma, "non doveva effettuare alcun viaggio in Russia, ma si era limitato, nella sua qualità di Direttore generale degli Affari penali, ad organizzare la rogatoria in Russia per conto dei magistrati della procura di Roma".

Per quanto concerne, invece, alle nuove indagini avviate sulla sparizione dell'agenda rossa di Borsellino, la Dna ha segnalato al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Renato Di Natale, l'esistenza di un verbale dell'8 aprile 1998 di Giuseppe Ayala sul ritrovamento, subito dopo l'esplosione, della borsa di Borsellino dentro l'auto blindata.

"Su tale vicenda - si legge nella relazione - la Dda di Caltanissetta ha raccolto le dichiarazioni di Ayala e del colonnello dei carabinieri Arcangioli, e si propone di sentire altre persone per approfondire la questione".

Le indagini sui mandanti oculti, comunque, continuano.

La Procura nazionale antimafia punta ad individuare ulteriori nuovi filoni investigativi e per questo ha iniziato una rilettura degli atti relativi alle indagini sulle stragi e ad altre indagini collegate. Questa attività - si legge ancora - "si e' già rivelata proficua perché ha consentito di creare collegamenti logici fra molti fatti sui quali si era appuntata l'attenzione della Dda di Caltanissetta nel corso dell'attività di indagine".

 

MAFIA:
ARCHIVIATO DEFINITIVAMENTE
IL “TEOREMA BUSCETTA”

Il teorema Buscetta? Non esiste.

Quello che a lungo è stato considerato il più importante pentito di Cosa Nostra, l'uomo che avrebbe svelato a Giovanni Falcone le geometrie della cupola mafiosa, quel Tommaso Buscetta scomparso qualche anno fa, in realtà se ha aiutato la giustizia  lo ha fatto solo parzialmente e le cose che ha detto non sono processualmente utilizzabili per quanto riguarda i vertici della mafia siciliana.

E’ questa la conclusione cui è giunta la Sesta sezione penale della Cassazione che, con la sentenza 6221, ha assestato un colpo di maglio alla tesi del "non poteva non sapere" applicata in tutti questi anni ai boss siciliani.

Con un imponente verdetto - 175 pagine firmate dai consiglieri Francesco Ippolito e Giovanni Conti - la Suprema corte spiega perché, lo scorso 20 maggio (dopo una mega-udienza di 13 giorni), aveva deciso di annullare con rinvio le condanne pesanti inflitte a 45, tra boss e gregari, accusati di aver fatto 127 morti ammazzati nella Seconda guerra di mafia, tra il 1973 e il 1991.

Spiega la Suprema Corte nella sentenza che rischia di far riscrivere anni e anni di storia di Cosa nostra che essere un boss che siede nel gotha mafioso non comporta l'assunzione di responsabilità per i delitti eccellenti. Ad avviso della Cassazione, il "ruolo apicale" è solo un "indizio" dell'eventuale posizione di "mandante" che deve essere riscontrata in maniera particolareggiata e concreta.

Prendiamo il caso di Pippo Calò, il “cassiere” di Cosa nostra. Era detenuto quando furono uccisi tre carabinieri - Mario D'Aleo, Giuseppe Bommarito e Pietro Morici (il 13 giugno 1983) - e bisogna provare come materialmente, dice la Cassazione, diede il suo placet a questa esecuzione.

C’è poi il boss superlatitante Bernardo Provenzano. Dicono i giudici della Suprema corte che non si possono addossare alla primula rossa di Cosa Nostra le uccisioni perpetrate a partire dal 1987 quando, in base alla testimonianza del “pentito” Giovanni Brusca, era già in atto un vero e proprio "dissidio" tra lui e Riina.

Ed ecco il principio di diritto che mette ko il famoso teorema Buscetta: “Posta l'esistenza di un organismo collegiale di vertice, investito del potere di deliberare in ordine alla commissione di fatti criminosi di speciale importanza per la vita di una organizzazione criminale, e in particolare di omicidi di persone di rilievo, l'appartenenza di taluno degli imputati al suddetto organismo (la cosiddetta Cupola) può costituire certamente un grave indizio di responsabilità per il fatto criminoso, ma non di per sé prova piena di esso".

Insomma, per condannare un padrino serve la prova che lui "sia stato in concreto informato" della condanna a morte emessa dal concilio dei boss e "abbia prestato il proprio consenso, anche tacito".

E i giudici devono essere molto puntuali quando ricostruiscono l'elenco delle presenze dei capimandamento alle sedute della Cupola. Senza elenco, difficile condannare.

Altro esempio: a Filippo Graviano è stato annullato - con rinvio - l'ergastolo per l'omicidio di Giuseppe Fragale, nonostante fosse presente mentre lo ammazzavano. Quel che è da provare, è se era presente alla riunione in cui Cosa Nostra deliberò quell'uccisione.

Frana così miseramente il teorema Buscetta, sancito nel primo maxi-processo alla mafia, imbastito da Giovanni Falcone.

 

MAFIA (2):
MANNINO PRIMO POLITICO
CHE CHIEDE L’APPLICAZIONE
DELLA LEGGE PECORELLA

E’ l’ex ministro Calogero Mannino, candidato alle prossime elezioni politiche, il primo politico-imputato che ha chiesto l’applicazione nei suoi confronti della legge sull'inappellabilità, detta legge Pecorella.

Accusato di concorso in associazione mafiosa, assolto in primo grado, condannato nel 2004 a cinque anni e quattro mesi in Appello (sentenza poi annullata dalla Cassazione), Mannino, tramite i suoi legali, ha chiesto alla corte d’Appello di Palermo, presieduta da Claudio Dall'Acqua, un rinvio per "attendere" l'entrata in vigore della legge, prevista per il prossimo 9 marzo.

Il PG Vittorio Teresi ha già però annunciato che solleverà eccezione di incostituzionalità della legge.

La legge sull'inappellabilità contiene una norma transitoria che si applica ai processi in corso al momento dell'entrata in vigore della legge. Se è già stato presentato appello, questo dovrà essere dichiarato automaticamente inammissibile e il Pm avrà 45 giorni di tempo per convertirlo in ricorso in Cassazione. Lo stesso vale per quei procedimenti per i quali la Suprema Corte ha già annullato con rinvio la sentenza d'appello di condanna. Ed è questo il caso di Mannino.

 

MAFIA (3):
ASSOLUZIONE DEFINITIVA PER SEN. SCALONE

I giudici della corte di Cassazione hanno confermato l'assoluzione dell'ex senatore di An Filiberto Scalone, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Condonata, invece, la pena di 3 anni di reclusione inflittagli in appello per bancarotta fraudolenta.

Il politico era stato inizialmente condannato dal tribunale a nove anni di carcere per concorso in associazione mafiosa ed era poi stato assolto in secondo grado nel 2004.

 

BESTIE DI SATANA:
UN CONDANNATO
FUORI CON LA LEGGE PECORELLA

Condannato in Appello a nove anni di carcere, ma assolto in primo grado, per Massimiliano Magni, ritenuto uno dei componenti di quel gruppo di assassini che la stampa ha chiamato Le Bestie di Satana, è quasi certo che le porte del carcere non si apriranno mai.

Sulla base della nuova legge - detta Pecorella, dal nome del parlamentare che l’ha proposta - i legali di Magni presenteranno ricorso in Cassazione e otterranno l’annullamento della condanna.

Il verdetto per Magni è arrivato dalla corte d’Appello del tribunale dei minori di Milano (all’epoca dei fatti, gli omicidi di Chiara Marino e Fabio Tollis, il giovane non aveva ancora compiuto la maggiore età) che lo ha condannato assieme a Mario Maccione (per lui 19 anni in primo grado e 16 in Appello),

Stando alla sentenza i due sono stati pienamente complici della banda.

 

MOSTRO DI FIRENZE:
COME VENNE TROVATO
IL CADAVERE DI NARDUCCI

Il pescatore Ugo Baiocco, 70 anni, davanti al gip di Perugia Marina De Robertis, ha ricostruito le fasi del ritrovamento e del recupero del cadavere di Francesco Narducci al lago Trasimeno. La deposizione è avvenuta nell'ambito dell'incidente probatorio disposto per il filone d'inchiesta sui presunti depistaggi dell'inchiesta sulla morte del medico (per il quale la procura perugina procede per omicidio volontario), inchiesta in qualche modo legata ai delitti del mostro di Firenze.

Baiocco, assieme al cognato, il 13 ottobre 1985 trovò il corpo di Narducci nelle acque antistanti l'isola Polvese. Al giudice ha spiegato di aver notato il cadavere intorno alle 7.30 e di avere quindi avvertito altri pescatori sportivi perché avvisassero i carabinieri. La pilotina dell'Arma arrivò - secondo la sua versione - intorno verso 7.45-8.00 e quindi il cadavere venne trasportato sul molo di Sant'Arcangelo.

Baiocco ha spiegato che non conosceva di persona Narducci, ma di avere pensato potesse essere lui visto che le ricerche del gastroenterologo (scomparso dopo essere uscito in barca sul lago) erano in corso ormai da cinque giorni.

Il corpo - ha spiegato il testimone - aveva il volto parzialmente coperto dalle alghe. Sarebbe stato piuttosto gonfio e di colore scuro.

Baiocco ha però sottolineato che l'ottobre del 1985 fu un mese piuttosto caldo (ha sostenuto che per questo lui e il cognato erano usciti a pescare, indossando solo una canottiera).

L'ipotesi del pubblico ministero perugino Giuliano Mignini, che coordina l'inchiesta, è che il corpo di Narducci sia stato scambiato dopo il ritrovamento per evitare che si pensasse a un omicidio. Gli inquirenti ritengono infatti che il medico possa essere stato ucciso perché in qualche modo coinvolto nelle vicende del mostro di Firenze. Circostanza però sempre negata dai familiari del medico, secondo i quali Narducci era totalmente estraneo ai fatti avvenuti in Toscana. Sarebbe invece morto per un incidente o in seguito a un suicidio.

L'incidente probatorio e' stato quindi rinviato al 7 aprile prossimo per sentire un consulente del PM.

 

“SUICIDIO” DI LUIGI TENCO:
IL CRIMINOLOGO BRUNO
HA PIÙ DUBBI DI PRIMA

Autopsia inutile, che non conferma affatto l'ipotesi di suicidio, anzi, aumenta i sospetti di un omicidio coperto, con la mancanza dell'unico elemento che avrebbe potuto portare chiarezza nella tormentata vicenda delle indagini sulla morte di Luigi Tenco: il proiettile.

E' il parere di Francesco Bruno, docente di criminologia all'Università La Sapienza di Roma.

"Mi meraviglio - ha dichiarato all'Adnkronos Francesco Bruno - che sia stato dato per scontato questo suicidio, senza avere elementi a favore o contro. Del resto parlare di compatibilità con l'ipotesi di suicidio non significa nulla. Quando a suo tempo lessi gli atti, dissi: non c'e' certezza, anche se l'ipotesi suicidiaria rimane importante. Ora ho dubbi più forti di prima. Penso che ci troviamo di fronte o a un omicidio coperto o, forse, a una situazione che non si volle approfondire più di tanto per non turbare il festival in corso".

 

“SUICIDIO” DI LUIGI TENCO (2):
VENDUTI REPERTI DELLA SCENA DEL CRIMINE

Lo si è scoperto solo 39 anni dopo, ma nel 1968 il tribunale di Sanremo aveva messo all’asta molti degli oggetti che si trovavano sulla scena del crimine, ossia nella stanza 219 dell’hotel Savoy dove Luigi Tenco si era ucciso oppure era stato ucciso.

La scoperta è del quotidiano La Stampa che ha rintracciato l’aquirente di quel materiale: una scatola di munizioni, il caricatore della pistola del cantautore, un bossolo e una scatola di tranquillanti.

Ad acquistare il tutto all’asta indetta dal tribunale un arredatore di negozi di 72 anni, Renzo Del Monte. Questo il suo racconto: “Ero andato in tribunale per un’asta pubblica, volevo comprare un motorino di quei tempi, ma lo avevano già venduto. Sono rimasto nell’aula per curiosità e ricordo di aver comprato una valigia piena di vestiti da donna e poi quella scatola di cartucce per pistola. Non sapevo che potessero avere qualche riferimento con la morte di Tenco. Ma l’ho scoperto a casa, quando ho aperto la scatola”.

Dentro c’era un caricatore di una pistola Walther PPK con tanto di molla di armamento, una scatoletta di cartucce della Fiocchi con un bossolo vuoto, esploso, una scatoletta di plastica rotonda di medicinali. Dentro la scatola delle cartucce c’era un foglio che diceva: “Io, Luigi Tenco, nato a Cassine, dichiaro di aver aquistato l’arma…eccetera”.

Il materiale, rimasto a lungo in un cassetto di Del Monte, con la nascita del club Tenco, è stato consegnato a Lino Ligato, ex gestore del night Il Pipistrello.

 

CASO ALP/HROVATIN:
LE CONCLUSIONI (ASSURDE)
DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE

Quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Un delitto per caso. Dovuto al fato, direbbe il ministro della Difesa Martino (lo ha già detto dell’omicidio Calipari).

I due giornalisti italiani - stando alla conclusione della commissione parlamentare d’inchiesta - sarebbero stati uccisi nel corso di un sequestro di persona a scopo di estorsione. La loro morte, in altre parole, non c’entra nulla con la loro professione. Nulla di oscuro. Un semplice atto criminale.

 

CASO ALPI/HROVATIN (2):
I TEOREMI DI TAORMINA

"Abbiamo presentato una relazione di minoranza perchè riteniamo il lavoro della Commissione condotto dall'on. Taormina solo frutto di teoremi".

E’ quanto sostiene il deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli, membro della Commissione d'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E per l’avv. Carlo Taormina, fustigatore nelle aule dei tribunali dei teoremi inventati dai PM, la dichiarzazione di Bulgarelli deve suonare come una nemesi storica.

Aggiunge l’esponente dei Verdi: "La conclusione dell'indagine svolta dal Presidente Taormina non contiene alcuna verità su quelle tragiche morti anchè perchè non sono stati considerati importanti elementi di prova di cui diamo ampio conto della nostra relazione e che avrebbero potuto creare un presupposto concreto per la ricostruzione della verità sui rapporti tra quei due assassini e il coraggioso lavoro di indagine della giornalista del TG3. La nostra contro-relazione riassume tutti quei fatti che avrebbero potuto aiutarci a capire ma che sono stati volutamente accantonati. Perciò sono sempre più convinto - conclude Bulgarelli - che sarà una prossima Commissione Bicamerale ad avere il compito di fare carta straccia dei teoremi, contribuendo ad una verità storica che è anche un dovere della nostra coscienza collettiva nei confronti di Ilaria e Mìiran e della loro famiglie". 

Su Misteri d’Italia sono in via di pubblicazione tutte le relazioni conclusive della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpi/Hrovatin 

 

OMICIDIO MOLLICONE:
NUOVA ASSOLUZIONE PER BELLI

Resta senza nome il killer di Serena Mollicone, la studentessa diciottenne di Arce (Frosinone) morta per asfissia dopo essere stata imbavagliata, legata con il fil di ferro e abbandonata in un bosco.

Anche la corte di Appello di Roma ha sentenziato che non è il carrozziere Carmine Belli, 39 anni, il responsabile di quel barbaro omicidio. Una decisione, quella di assolvere l'imputato, che ricalca la sentenza emessa il 7 luglio 2004, in primo grado, dalla corte di assise di Cassino.

Il rappresentante dell'accusa, il pg Marco Marsili, aveva chiesto al collegio presieduto da Antonio Cappiello di condannare Belli a 23 anni di carcere, ritenendolo responsabile di omicidio volontario e di occultamento di cadavere.

La studentessa fu uccisa il 1° giugno 2001 ed il suo cadavere fu trovato dopo due giorni di ricerche in un bosco nei pressi del fiume Liri, a cinque chilometri dal suo paese. L'assassino l'aveva legata con un filo di ferro e nastro adesivo bianco e imbavagliata con una busta di plastica intorno alla testa, provocandone, come stabilito dal medico legale, il decesso per asfissia.

Poco prima di morire la ragazza si era recata in pullman ad Isola del Liri per un esame radiografico, avrebbe chiesto il passaggio in auto a qualcuno per tornare a casa e da quel momento di lei non si è più saputo nulla.  

La mancanza di un alibi, un bigliettino della ragazza trovato nella officina di Belli e le diverse versioni fornite durante i numerosi interrogatori, avevano attirato l'attenzione degli inquirenti sul carrozziere che però ha sempre respinto le accuse.

Soddisfatto della sentenza il criminologo Carmelo Lavorino, consulente della difesa: "E' una vittoria della criminalistica - ha dichiarato - della criminologia e delle indagini difensive".

 

SCOMPARSA DI MAURO DE MAURO:
RIINA UNICO IMPUTATO

Comincerà il prossimo 14 aprile il processo per l’uccisione del giornalista Mauro De Mauro, scomparso a Palermo la sera del 16 settembre 1970. Unico imputato - e questo la dice lunga sulla fragilità delle indagini fin qui condotte in 36 anni - il boss corleonese Totò Riina, rinviato a giudizio dal gup Umberto De Giglio.

Il redattore del giornale L'Ora venne sequestrato sotto la sua abitazione, probabilmente da persone che il giornalista stesso conosceva. L'ordine di eliminarlo, secondo la procura, sarebbe stato dato dalla cupola mafiosa che allora era diretta dal triumvirato corleonese: Leggio-Riina-Provenzano.

La scomparsa di Mauro De Mauro sarebbe collegata a due dei tanti misteri italiani: il golpe Borghese tentato alcuni mesi dopo e la morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei.

Il giornalista, secondo quanto emerge dalle indagini, era a conoscenza del progetto varato dal principe Valerio Borghese. E l'uccisione di De Mauro, come sostiene il pm Antonio Ingroia, titolare dell'inchiesta, sarebbe stata avvolta da "zone d'ombra" e "tentativi di depistaggio" che hanno condizionato e deviato le indagini subito dopo la scomparsa del cronista.

La causa dell'eliminazione del giornalista per il pm può essere racchiusa in quello scoop mai scritto, che avrebbe raccontato i retroscena del golpe Borghese. Un intreccio inquietante tra la destra eversiva e la mafia, tra il principe nero Junio Valerio Borghese e i vertici di Cosa nostra, che cospiravano insieme per sovvertire le istituzioni.

Una pista questa che sembra essere privilegiata rispetto a quella che porta al delitto Mattei, del quale De Mauro si era anche occupato, collaborando alla sceneggiatura del film di Francesco Rosi, Il caso Mattei.

Riina è l'unico dei presunti responsabili dell'uccisione del giornalista che sara' processato. Per l'altro boss che era stato indagato, Bernardo Provenzano, è stata infatti chiesta ed ottenuta dal gip l'archiviazione per mancanza di riscontri sufficienti alle accuse dei “collaboratori di giustizia”.

Provenzano era sospettato di avere avuto un ruolo esecutivo, mentre Riina è accusato di essere stato uno dei mandanti dell'omicidio.

Secondo il difensore di Riina, l'avvocato Luca Cianferoni, il suo assistito sarebbe "il parafulmine di tutte le vicende misteriose d'Italia".

Secondo la nipote di Enrico Mattei, Rosangela Mattei, “dal processo a Totò Riina per l'omicidio di Mauro De Mauro potrebbero emergere elementi utili a riaprire l'inchiesta sull'assassinio di mio zio", avvenuta il 27 otobre 1962.

La donna coltiva nuove speranze, dopo che l’inchiesta sul caso Mattei, riaperta nel 1994 dalla procura di Pavia, venne archiviata nell'aprile 2005, però con una certezza: il presidente dell' Eni fu vittima di un attentato e non di un incidente. Ma nell'impossibilità di raccogliere le prove e trovare i mandanti.

"Che ci siano stati depistaggi istituzionali per coprire la verità sull'attentato è fuori discussione - ha detto Rosangela Mattei - ma non è escluso che il processo a Riina e agli intrecci fra mafia, politica e potere economico possa segnare una svolta anche per la vicenda Mattei. Noi comunque ci saremo: valuteremo con i nostri avvocati tutte le possibilità di azione che ci restano".

Per il legale di parte civile, Francesco Crescimanno, che assiste i familiari di De Mauro, fratello del noto italianista ed ex ministro della Pubblica istruzione, Tullio De Mauro, la decisione di andare al processo "è la conferma di un dato clamoroso: il sequestro e l'omicidio di De Mauro è stato un fatto di mafia, di alta mafia, un fatto preventivo nei confronti dell'attività del giornalista che creava un timore serio nell'organizzazione".

La procura "privilegia la pista del golpe Borghese per spiegare l'omicidio, ma oggi - ha detto ancora Crescimanno - ci pare di notare una minore rigidità, nel senso che non vengono più ignorate altre ipotesi, come l'omicidio Mattei. Credo che i magistrati considerino in qualche modo compatibili, integrabili fra di loro i due fatti per giungere a una spiegazione dell'omicidio di De Mauro: nell'uno e dell'altro caso c'era un innegabile interesse di Cosa nostra, così come era suo interesse mettere a tacere il giornalista che stava indagando su entrambe le direzioni".

Crescimanno ha poi spiegato che sta preparando "una lista testimoniale ampia che cerchi di scavare il più possibile. Non sarà facile. I collaboranti sono tutti vivi, ma molti protagonisti sono ormai scomparsi. Non sarà semplice, ma quanto meno, con la decisione di andare avanti, non si è tumulato il processo".

 

SCOMPARSA EMANUELA ORLANDI:
SPUNTANO LEGAMI
CON LA BANDA DELLA MAGLIANA 

Era già accaduto mesi fa, ma la storia si è ripetuta il 21 febbraio scorso sempre durante la trasmissione di Rai 3 Chi l’ha visto?.

Tempo fa, in una telefonata andata in onda durante la trasmissione, un anonimo aveva detto: “Se volete saperne di più sul sequestro di Emanuela Orlandi, andate a vedere nella basilica di Sant’Apollinare”, dove è stato a lungo sepolto il boss della banda della Magliana, Enrico De Pedis.

Agli autori della trasmissione è così venuta l’idea di far ascoltare la voce dell’uomo che diceva di chiamarsi Mario e che chiamava telefonicamente casa Orlandi nei giorni immediatamente successivi al sequestro a uno dei “pentiti” della banda, quell’Antonio Mancini, in verità ritenuto poco attendibile dai giudici che hanno assolto Giulio Andreotti per il delitto Pecorelli.

Risultato: secondo Mancini quella era la voce di un seguace proprio di De Pedis, definito “uno dei killer più spietati che ci sono a Roma”.

Il legame tra la banda della Magliana e il caso Orlandi rimette in primo piano nel sequestro della giovane figlia di un funzionario della Santa sede proprio la pista interna, ossia la pista Vaticana, dati i forti legami che esistevano tra la banda stessa - e De Pedis in particolare - ed alcuni alti prelati della chiesa.

 

MORTE LADY DIANA:
L’AUTISTA ERA UN
AGENTE SEGRETO FRANCESE

E’ ormai certo, Henri Paul, l'autista che guidava l'auto in cui la principessa Diana Spencer morì, era un collaboratore dei servizi segreti francesi. Lo avrebbe confermato, secondo quanto riferisce il Sunday Times, il governo di Parigi agli investigatori britannici che stanno conducendo l'indagine sulla morte della principessa del Galles, avvenuta nel luglio del 1997.

Anonime fonti di Scotland Yard hanno raccontato al giornale che la conferma è arrivata lo scorso anno, ma che, malgrado le ripetute sollecitazioni dei britannici, il servizio segreto francese DST, non ha finora consegnato i file riguardanti l'autista, anche lui morto insieme a Diana e Dodi Al Fayed nell'incidente sotto il ponte dell'Alma.

Gli inquirenti britannici vogliono in particolare conoscere le attività di Paul nel giorno dell'incidente e chiedono un rapporto completo sulle analisi del sangue fatte all'autista dopo la sua morte. Ma, "l'incredibile burocrazia del sistema giudiziario francese" starebbe ritardando la consegna dei documenti.

"Sappiamo che lavorava per i servizi segreti francesi e la Francia ci deve dare accesso ai documenti che ha. Vogliamo sapere dove è stato e che cosa ha fatto quella sera", ha detto la fonte a Sunday Times.

L'indagine britannica, cominciata a gennaio del 2004, è affidata all'ex capo di Scotland Yard Lord Stevens che ha ricevuto l'incarico di fare piena luce su tutte le ipotesi di complotto che circondano la tragica fine dell'ex moglie del principe di Galles.

Dopo due anni di indagine, scrive Sunday Times, Lord Stevens è ancora convinto che la morte di Diana sia stata accidentale - come ha concluso l'indagine francese - ma è tuttavia cosciente del fatto che molte persone pensano invece che sia stata uccisa.

Il sostenitore numero uno della teoria del complotto è Mohammed Al Fayed, padre di Dodi, che da anni accusa i servizi segreti britannici di aver simulato l'incidente per uccidere la principessa che sarebbe stata in attesa di un figlio di Dodi.

 

ALTO ADIGE:
UN LIBRO DENUNCIA TORTURE
SU IRREDENTISTI ANNI ‘60

Le testimonianze di ex-attivisti del movimento separatista sutirolese negli anni '60 nelle carceri di Bolzano, Verona e Milano sono al centro di un libro uscito di recente ad Innsbruck, in Tirolo, e illustrato dal settimanale austriaco Profil.

Nel libro si riferisce anche di torture subite dagli attivisti e l'accusa serve da spunto al titolo provocatorio dell'articolo della rivista: “Guantanamo nel paese alpino”.

Nel volume (dal titolo Incancellabile di Martin Unterkircher) si parla di 150 persone arrestate dopo la cosiddetta “notte dei fuochi” dell'11 giugno 1961, quando terroristi altoatesini fecero saltare in aria col tritolo una quarantina di tralicci dell'alta tensione.

 "Gli arrestati - spiega un passaggio del libro - furono costretti a stare in piedi per venti ore con le mani alzate e non ricevettero niente da bere e da mangiare per 48 ore". Inoltre, stando alle accuse dell'autore, i carabinieri li avrebbero picchiati per ore e avrebbero loro anche somministrato "acidi per provocare principi di asfissia". La serie di torture sarebbe proseguita con lo strappo di capelli e pressioni su parti del corpo con delle pinze e l'applicazione di cuffie che producevano rumori "simili a esplosioni".

Nel libro si parla anche di una lettera fatta uscire dal carcere in cui i detenuti lamentavano dolori che denunciavano la rottura del timpano e varie "fratture di costole o mascelle".

Mentre uno dei primi attivisti, il contadino cattolico Sepp Kerschbaumer (condannato nel 1964 a 15 anni e morto d'infarto in carcere cinque mesi dopo), chiedeva ai compagni di evitare ogni violenza contro le persone, negli anni seguenti – scrive ancora Profil - i separatisti divennero sempre più aggressivi, con infiltrati anche dal movimento neonazista austriaco e tedesco.

Nel 1965-67, all'apice del terrorismo altoatesino, furono uccisi 14 carabinieri in diversi attentati.

 

ECCIDIO DI KINDU:
DOPO 45 ANNI
ARRIVA L’INDENNIZZO PER I FAMILIARI

A distanza di 45 anni i familiari dei 13 aviatori italiani massacrati a Kindu, nell’ex Congo belga, si sono visti riconoscere un indennizzo complessivo di 3,5 milioni di euro. La legge è stata votata in extremis, proprio allo scadere del mandato parlamentare.

La tragedia avvenne l’11 novembre 1961, durante la guerra civile in corso nella colonia belga che aveva procalmato la sua indipendenza. Quel giorno all’aeroporto di Kindu atterrarono due C-119 italiani che operavano sotto mandato dell’ONU con un carico destinato alla forza malese. L’atmosfera era molto tesa. I paramilitari katanghesi avevano più volte minacciato i militari delle Nazioni Unite. I 13 uomini degli equipaggi erano stati avvertiti che era molto pericoloso abbandonare la base, ma i militari italiani, disarmati, si erano recati ugualmente alla mensa dell’ONU, situata all’ingresso dell’aeroporto, confidando nell’immunità garantita loro dall’appartenenza ad una missione di pace.

Alla fine del pasto, i 13 italiani vennero aggrediti da un’ottantina di katanghesi armati che li malmenarono e li condussero nel centro di Kindu dove furono fatti a pezzi da una folla inferocita.

La proposta di legge a favore dei 13 trucidati di Kindu (un monumento li ricorda davanti all’aeroporto romano Leonardo da Vinci di Fiumicino) era stata presentata nel maggio 2005 dal senatore dei Verdi Marco Boato.

 

INDAGINI SCIENTIFICHE:
LA POLIZIA USA CONTRO LA SERIE CSI

Delinquenti più intelligenti grazie alla televisione.

Secondo le autorità di polizia, show come CSI e Criminal Minds - seguitissimi negli Stati Uniti - svelerebbero ai male intenzionati i trucchi della polizia scientifica, suggerendo loro le contromisure necessarie per non essere scoperti.

"Telefilm come CSI offrono ai malandrini delle dritte sui metodi della polizia - ha spiegato al New York Post Kevin Perham, ex-responsabile dell'unità criminologica del New York Police Department - Ho visto casi in cui le persone coinvolte nelle sparatorie hanno iniziato a raccogliere i proiettili, emulando quello che hanno visto in televisione".

"Con questi show addestriamo criminali - ha detto Jerry Speziale, sceriffo della contea di Passaic, nel New Jersey - Presto ci saranno ragazzi che, guardando CSI impareranno che la polizia è in grado di identificare un veicolo dalle impronte lasciate dai pneumatici e utilizzeranno gomme lisce. Non voglio dire che il telefilm promuove la trasgressione delle leggi, ma se qualcuno ha un intento criminale...diciamo che diventa più sveglio e smaliziato".

E soprattutto Impara a curare i dettagli e ad adottare sofisticati accorgimenti, come ha dimostrato un presunto assassino dell'Ohio. Secondo la Associated Press, Jermaine "Maniac" McKinney si sarebbe introdotto in una casa, avrebbe ucciso una madre e la figlia, cancellato il sangue, utilizzando la candeggina, bruciato i corpi ed i suoi indumenti, rimosso i mozziconi di sigaretta dalla scena del delitto e cercato infine di eliminare ogni traccia di Dna. "Era un fan di CSI", ha fatto sapere la polizia.

"Gli spettatori di CSI imparano che possono contaminare la scena del delitto, creando molta confusione”, ha commentato Kobilinsky.

Cosa ancora più grave, comprendono che è “possibile depistare gli investigatori”, sostiene il Dr. Larry Kobilinsky, docente di scienze forensi al Jay College di Giustizia Criminale.

Elizabeth Devine, co-produttrice esecutiva di CSI Miami ed esperta della polizia scientifica a Los Angeles per quindici anni, risponde alle critiche, spiegando che non tutte le nozioni tecniche utilizzate nella finzione sono realistiche, anzi talvolta alcune sono fuorvianti. "Credo inoltre che il filo conduttore che riassume tutti i telefilm CSI sia la presenza di un indizio chiave che in 44 minuti conduce all'arresto il sospettato. Sulla base della mia esperienza, c'è sempre almeno un indizio. Non credo sia mai possibile occultare completamente le prove, anche se ci si mette d'impegno".

 

 

DOCUMENTAZIONE

 

CASO ALDROVANDI:
TROPPE DOMANDE SENZA RISPOSTA

 

Da più di cinque mesi nulla di definitivo si sa sulla morte di Federico Aldrovandi, 18 anni appena.

La mattina del 25 settembre 2005 il suo cadavere devastato da numerose tumefazioni venne portato dalla polizia all’obitorio di Ferrara. Secondo la versione ufficiale, Federico, imbottito di droghe, fermato a piedi, nottetempo, da una volante della polizia, aveva dato in escandescenze ed era poi morto per effetto delle droghe stesse.

Stando invece a numerose testimonianze gli stessi poliziotti avrebbero immobilizzato il ragazzo, picchiandololo e quindi uccidendolo.

Nell’immediatezza del fatto la maggiore preoccupazione del procuratore di Ferrara, Severino Messina, è quella di assolvere la polizia. Una posizione che il magistrato mantiene anche il 13 gennaio 2005 quando un blog che racconta la storia della morte di Federico diventa uno dei più cliccati d’Italia. “Non posso che riconfermare le informazioni date a suo tempo - afferma il procuratore -  le contusioni e le ecchimosi rilevate sul corpo, così come la ferita lacero contusa al cuoio capelluto, quale che ne fosse l'origine, non potevano aver cagionato di per sè la morte del giovane”.

Tre giorni dopo, il 16 gennaio, i legali della famiglia Aldrovandi diffondono una nota, facendo il punto sulla situazione delle indagini ed affermando: “Il dottor Messina è magistrato troppo esperto per non sapere che la morte di Federico può essere conseguenza di azioni violente dei poliziotti intervenuti, anche se le lesioni superficiali appaiono di modesta entità e da sole non sufficienti a spiegare il tragico evento''.

''Il dottor Messina - proseguono gli avvocati - è del pari a conoscenza dell'assoluta inopportunità della scelta di affidare le indagini alla squadra di polizia giudiziaria della Polizia di Stato presso la Procura, squadra diretta da persona legata sentimentalmente a una dei quattro agenti coinvolti''.

Secondo i legali emerge dai racconti di alcuni testimoni che “il ragazzo è rimasto per lungo tempo schiacciato a terra, con almeno un poliziotto seduto sulla sua schiena, che egli aveva difficoltà a respirare e chiedeva inutilmente d'essere aiutato: tant'é vero che il personale medico e paramedico è intervenuto sul corpo già privo di vita”.

Trascorre un altro mese e il 17 febbraio i consulenti della famiglia Aldovrandi depositano una perizia in cui si sostiene che ad uccidere Federico Aldrovandi non sono state l'eroina e la ketamina che aveva assunto, e nemmeno delle ipotetiche percosse. A provocare la morte di Federico, davanti agli agenti del 113 di Ferrara, è stata un'asfissia provocata dalla ''compressione toracica'' cui fu sottoposto dagli stessi poliziotti. Un'''immobilizzazione forzata'' che probabilmente durò per un tempo assurdo: ben quindici minuti.

Dal referto del 118, emergono i tempi dell'intervento del personale sanitario: ''la chiamata dalla centrale operativa del 113 è delle 6.08, l'ambulanza della Croce rossa e l'auto medicalizzata partono alle ore 6.10, l'arrivo sul posto della prima risale alle 6.15 e della seconda alle 6.18''. Gli avvocati citano poi una teste che avrebbe riferito che Federico ''rantolava e chiedeva aiuto'' mentre un poliziotto tentava di ammanettarlo.

Il 21 febbraio, infine, viene depositata la perizia medico-legale del dott. Stefano Malaguti, consulente della procura ferrarese, secondo il quale la morte di Federico Aldrovandi sarebbe riconducibile a diverse concause, che hanno portato ad un indebolimento generale del ragazzo conseguente all'assunzione di droga, eroina, ketamina ed alcool.

Secondo questa perizia ''la causa e le modalità della morte risiedono in una insufficienza miocardica contrattile acuta, sostenuta da una condizione di stress psicofisico, determinante massimale stimolazione simpatica, responsabile dell'incremento dell'attività cardiaca e quindi del suo fabbisogno di ossigeno, non adeguatamente supportato per l'indebolimento funzionale dei centri respiratori bulbari conseguente alla assunzione di eroina, ketamina ed alcool''.

Infine il 28 febbraio la relazione medico legale, presentata dai medici-legali Antonio Zanzi e Giorgio Gualandri e dagli avvocati della famiglia Aldrovandi, Fabio Anselmo e Riccardo Venturi, al pm di Ferrara Mariaemanuela Guerra affermano che ''le conclusioni della perizia redatta per la Procura sono condivisibili in parte, ma risultano incomplete perché non tengono conto di un ulteriore fattore, ben documentato dagli atti e perfettamente coerente con i riscontri necroscopici, che ha determinato il decesso e che è rappresentato dalla restrizione fisica del soggetto in posizione prona con le mani ammanettate dietro la schiena, in una posizione che limita la capacità di ventilare i polmoni''.

Ma intanto il 23 febbraio la mamma di Federico aveva inviato una lettera aperta al procuratore Messina:

Le chiedo di rispondere pubblicamente a queste semplici domande''.

Perché mio figlio è morto alle 6 del mattino a poche centinaia di metri dalla sua casa, mentre noi genitori, che lo stavamo cercando in tutti gli ospedali, siamo da Voi stati informati ben 5 ore più tardi?.

Perché si è fatto in modo che non lo vedessi quando era già morto?.

Perché quando ripetutamente lo chiamavo sul suo cellulare col mio ed appariva la scritta mamma nessuno rispondeva, mentre quando lo chiamò mio marito col proprio, un agente rispose?'.

Perché l'agente, che già sapeva perfettamente che stava parlando col padre di un ragazzo appena morto non gli disse nulla, ma anzi chiuse la conversazione in modo quantomeno sgarbato e sbrigativo?'.

Perché quella maledetta mattina la Questura fornì ai giornali una versione completamente falsata in quanto si sostenne che Federico era morto per un malore in circostanze apparentemente non violente, tacendo che nel fatto ben quattro agenti sono ricorsi alle cure mediche all'Ospedale S.Anna?

Perché solo in Parlamento è stato ammesso il violento uso di manganelli sul corpo di mio figlio, fino a romperne addirittura due?

Perché tanta violenza? Per impedirgli di farsi del male da solo?

Perché si è falsamente sostenuto o comunque lasciato intendere che Federico fosse ancora vivo all'arrivo dei sanitari i quali, addirittura si sarebbero opposti alla richiesta di togliergli le manette?.

Perché si è chiesto l'intervento della Digos con la motivazione che il giovane, privo di documenti, indossava abiti che potevano corrispondere alle persone dedite a frequentare i centri sociali, mentre non si è voluto rispondere al telefonino che chiaramente diceva che lo stava chiamando la mamma?.  

 

LA SCOMPARSA DI MAURO DE MAURO:
TRA MORTE DI MATTEI E GOLPE BORGHESE

Mauro De Mauro scomparve la sera del 16 settembre '70 mentre stava rientrando nella sua abitazione in via Magnolie, nella zona residenziale di Palermo. Una delle figlie del giornalista vide alcuni uomini entrare nella Bmw del cronista.

Cominciò così uno dei grandi misteri di Palermo.

Due le piste seguite dagli investigatori: la prima collega la scomparsa di De Mauro alle indagini sulla morte del presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'altra ritiene che De Mauro “fu fatto sparire” a causa degli interessi convergenti fra Cosa nostra e ambienti di destra eversiva nell'ambito del fallito golpe del principe Junio Valerio Borghese.

In sostanza, per il controllo del Sud Italia la mafia avrebbe dovuto appoggiare il piano in cambio di impunità e revisione dei processi. Questo sarebbe stato lo scoop su cui stava lavorando il giornalista e per cui ha trovato la morte.

Il golpe di Stato, nome in codice Tora Tora, per motivi ancora oscuri, rientrò poche ore dopo aver preso l’avvio. Del perché il principe Valerio Borghese diede il contrordine non si è mai saputo nulla. Sta di fatto che fu una vera e propria cospirazione per sovvertire la vita democratica con un tentativo di insurrezione.

Probabilmente De Mauro, un passato in quella stessa Decima Mas, comandata proprio da Borghese, era venuto a conoscenza dei contatti fra frange dell'estrema destra, servizi deviati e mafia siciliana.

Dell'accordo fra golpisti e Cosa nostra, nel corso del primo maxi processo alla mafia, parla il boss Luciano Leggio (detto Liggio). Il mammasantissima corleonese, all'ombra del quale crescevano Riina e Provenzano, raccontò che i 5.000 mafiosi che avrebbero dovuto partecipare al golpe avrebbero dovuto portare una fascia al braccio. Ciò non trovò d'accordo il boss. Che al presidente della Corte D'Assise disse che “lo Stato avrebbe dovuto ringraziarlo” per aver salvato le istituzioni democratiche.

Ecco tutte le tappe del caso De Mauro:

Mercoledì 16 settembre 1970. Sono da poco passate le 21. Mauro De Mauro, cronista del quotidiano l'Ora di Palermo, sta lavorando da mesi alla sceneggiatura del film Il caso Mattei del regista Francesco Rosi.

De Mauro lascia la redazione in Piazza Ungheria. Sta per rientrare nella sua abitazione di via delle Magnolie, in un quartiere residenziale del capoluogo siciliano. Una delle sue figlie vede tre uomini salire sulla Bmw del giornalista. L’uomo che si è messo alla guida accelera in modo brusco, poi si allontana ad alta velocità.

A un chilometro da via delle Magnolie viene ritrovata la vettura di De Mauro. Gli investigatori frugano nella Bmw e in uno scomparto interno recuperano degli appunti relativi ad una speculazione edilizia. Le inchieste e i servizi di Mauro attraggono l'attenzione degli investigatori. Nel tentativo di trovare la pista giusta che porti al suoi rapitori, si ricostruisce la sua personalità. Poco prima di sparire, Mauro De Mauro indaga sugli ultimi due giorni di vita del Presidente dell'Eni Enrico Mattei. Lo riferisce lui stesso all'editore e libraio Fausto Fiaccovio, lo confida a un'amica, ne accenna alla figlia Junia, ne parla con il collega dell'Ansa Lucio Galluzzo a cui dice che si sta occupando "di un soggetto per un film di Francesco Rosi". E poi aggiunge: "E' roba da far tremare l'Italia".

Alle indagini si interessano tre investigatori, tutti uccisi tra il 1979 e il 1982: il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, il commissario della mobile Boris Giuliano e il comandante della legione dell'Arma Carlo Alberto dalla Chiesa. Le piste sono comunque divergenti.

Secondo i carabinieri, De Mauro avrebbe scoperto un traffico di droga internazionale e per questo sarebbe stato eliminato dalla mafia. L'ipotesi viene sostenuta dal “pentito” Gaspare Mutolo, secondo cui De Mauro venne strangolato da killer di Stefano Bontate, il capo della "mafia perdente".

La polizia punta dritta alla "pista Mattei". Il cassetto della scrivania di De Mauro nella redazione dell'Ora di Palermo risulta forzato. Non si trovano più nastri magnetici, dal bloc-notes con gli appunti sono state strappate due pagine e mancano anche altri fogli più recenti che riguardano gli incontri avuti nella preparazione della sceneggiatura del film di Francesco Rosi.

C'e' un sospetto forte, un'ipotesi che non sarà mai approfondita. In quel nastro e in quei fogli potrebbe esserci la soluzione di due gialli: la morte di Enrico Mattei e la scomparsa di Mauro De Mauro.

Nel 1991 il pubblico ministero di Palermo Giusto Sciacchitano propone l'archiviazione dell'inchiesta, ma il giudice Giacomo Conte chiede invece alla procura un supplemento di indagine: vuole appurare "il ruolo della mafia e i suoi collegamenti con i poteri occulti, l'estremismo di destra, i servizi segreti e la massoneria".

Secondo il giudice palermitano, "ci sono elementi di prova che portano a Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone quali autori del sequestro De Mauro nell'ipotesi che sia stato rapito e ucciso da qualcuno per bloccare l'inchiesta del giornalista sulla fine di Mattei".

Sul caso De Mauro il “pentito” Tommaso Buscetta dirà al giudice Giovanni Falcone: "Della morte dei giornalista Mauro De Mauro non so nulla. Non è faccenda di mafia. Quando ne parlavo con i miei interlocutori, questi sembravano stupiti. Ho sentito dire in giro che la sua scomparsa è legata alla morte di un noto politico italiano, credo che si chiamasse Enrico Mattei".

Per il delitto De Mauro le indagini ormai coinvolgono solo i mandanti. Gli esecutori materiali infatti sono tutti morti nel corso della guerra di mafia divampata nel '70 e nell''80. Tre i nomi fatti dai ”pentiti”: Mimmo Teresi, Emanuele D'Agostino e Stefano Giaconia. Tutti e tre erano fedelissimi di Stefano Bontate (ucciso dai corleonesi, ndr). De Mauro conosceva Giaconia e questo avrebbe facilitato il compito dei sicari che fermarono l'auto del giornalista e vi salirono sopra.

Il 31 agosto dello scorso anno la Procura di Palermo chiede al gip del tribunale il rinvio a giudizio del boss corleonese Totò Riina, accusato di essere il mandante dell'omicidio del giornalista.

I pm Gioacchino Natoli e Antonino Ingroia chiedono contestualmente l'archiviazione per l'altro padrino indagato per l'omicidio: il latitante Bernardo Provenzano. A suo carico non sono stati trovati riscontri per supportare una richiesta di processo.

Fonte: Adnkronos

 

 

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