LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA

Anno 6 - Numero 103                7 settembre 2005

Se avete inserito MISTERI D'ITALIA tra i vostri preferiti o se lo avete in memoria nella cronologia del vostro computer, ricordatevi SEMPRE di cliccare su AGGIORNA.

Meglio ancora farlo su ogni pagina.

Sarete subito al corrente delle novità inserite

IN QUESTO NUMERO:

-       Ciclone Katrina: nel fango di New Orleans affoga anhe la democrazia americana
-       Pantano Iraq: sui sequestri le doppie bugie dell'Italia
-       Pantano Iraq (2): 1868 i soldati americani morti
-       Pantano Iraq (3): la protesta dei famigliari dei soldati uccisi
-       Pantano Iraq (4): la Casa Bianca vuole fermare le leggi contro gli abusi dei militari sui detenuti
-       Attentati di Londra: qualcosa non torna...
-       Omicidio Calipari: per Cassese è "un delitto politico"
-       Strage di Bologna: perché non si vuole indagare?
-       Caso Alpi/Hrovatin: la commissione ha acquistato l'auto dell'omicidio
-       Terrorismo italiano: le motivazioni della sentenza per l'omicidio Biagi
-       Terrorismo italiano (2): per il Riesame di Bologna il FAI non esiste
-       Duplice omicidio Donegani: caso risolto. Anzi no.
-       Delitto di via Poma: il cerchio si stringe attorno a 17 persone
-       Omicidi Foligno: no a permessi per Chiatti
-       Uccisero bandito: a processo per omicidio volontario
-       Terrorismo ceceno: forse sventata un'altra Beslan
-       Lotta al terrorismo: tempi lunghissimi per l'inchiesta sul brasiliano ucciso a Londra per "errore"
-       Lotta al terrorismo (2): come fu ucciso Jean Charles de Menezes
-       Lotta al terrorismo (3): tecnica omicida contro sospetti kamikaze imparata dagli israeliani
-       Integrazione: musulmane firmate Ikea
-       Medioriente: pagherà la brillante operazione mediatica di Sharon?
-       Medioriente (2): l'assassino di Rabin in carecer vuole un figlio
-       Stati canaglia: la Libia presto depennata dell'elenco
-       Iran : un conservatore alla guida del programma nucleare
-       Kosovo: riprendono gli attacci etnici degli albanesi
-       Unabomber Usa: in vendita archivio Kaczynsky

 

CICLONE KATRINA:
NEL FANGO DI NEW ORLEANS
AFFOGA ANCHE
LA DEMOCRAZIA AMERICANA

E' un tornado che ha portato lutti e rovine, qualcosa di terribilmente nuovo per un paese come gli Stati Uniti da sempre abituati alla furia dei cicloni e quindi da sempre vaccinato contro calamità naturali assolutamente prevedibili.

Uno schock per l'America di Bush che, se aveva sempre fatto finta di ignoralo, oggi non può chiudere gli occhi su una sua immensa crontaddizione: dentro l'America con la A maiuscola esiste da sempe un'altra america (con la a minuscola) che assomiglia terribilmente ad un paese del terzo mondo.

A New Orleans il 67,25% della popolazione è di colore. Come dire due cittadini su tre. Sono state loro le vittime di Katrina, il restante terzo della popolazione era riuscito a lasciare la città prima dell'inondazione.

Il reddito annuo di una famiglia nera di New Orleans è di appena 27.500 dollari l'anno, nettamente sotto la media nazionale e sotto persino il reddito medio delle altre famiglie nere americane (30 mila dollari).

Un recente rapporto dell'ONU scrive che il tasso di sviluppo delle comunità nere di New Orleans è pari a quello della popolazione dell'Angola. E tutto questo dentro il paese più ricco de mondo. Dentro quella che è considerata la più avanzata democrazia mondiale.

Ora si da il caso che dall'inizio dell'era Bush gli Stati Uniti abbiano deciso che loro compito divino sia quello di esportare la democrazia nel resto del mondo. Se democrazia vuol dire potere del popolo, c'è da chiedersi che potere abbia mai avuto quella parte di popolo amricano che viveva a New Orleans. E che aveva la pelle nera.

Come ha scrito su Repubblica Eugenio Scalfari: "Il nazionalismo militarista è sempre servito ad esportare fuori dai confini i problemi che all'interno non si sapevano o non si volevano risolvere. Il nazionalismo militarista applicato su scala imperiale moltiplica all'ennesima potenza la gravità e l'insolubilità di quei problemi".

PANTANO IRAQ:
SUI SEQUESTRI
LE DOPPIE BUGIE DELL'ITALIA

Mentivano ai militari americani e poi anche al popolo italiano.

Cominciano a filtrare le prime luci sulle vicende ancora oscure degli italiani sequestrati in Iraq tra l'aprile del 2004 ed il febbraio del 2005 (i quattro body guard, Enzo Baldoni, le due Simone e Giuliana Sgrena). Ad aprire qualche spiraglio ancora ridottismo è stato, sulle pagine del quotidiano La Stampa, l'ex commissario starordinario della Croce Rossa Italiana, Maurizio Scelli. Bravo, bravissimo il giornalista Guido Ruotolo a far parlare Scelli che certamente voleva togliersi qualche sassolino dalla scarpa nei confronmti del governo italiano che da qualche tempo lo ha "scaricato".

Ma andiamo con ordine.

Cosa ha detto Scelli a Ruotolo?

Primo: che nella liberazione degli ostaggi italiani in Iraq "tacere agli americani i nostri tentativi fu una condizione irrinunciabile (...) che trovò d'accordo anche il sottosegretario Gianni Letta".

Secondo: che "A Baghdad, quando si trattò di riportare in Italia le due Simone (Pari e Torretta, ndr) Nicola Calipari (funzionario del Sismi, ndr), consapevole di questa direttiva, si raccomandò con me di non parlare neppure al generale Mattioli, vicecomandante delle forze alleate in Iraq".

Terzo: che per liberare le due Simone "i mediatori ci chiesero di salvare la vita a quattro presunti terroristi ricercati dagli americani, feriti in combattimento". "L'operazione non era facile: noi avevamo nell'ospedale di Baghdad medici e personale pronto a intervenire, ma dovevamo riuscire a far arrivare i feriti senza che gli americani ci scoprissero. Fuori dall'ospedale c'erano due checkpoint Usa. Si trattava di aggirarli: facemmo uscire dall'ospedale un'ambulanza e una jeep che ufficialmente andavano a consegnare dei medicinali. In realtà i mezzi si diressero in un luogo convenuto per prelevare i feriti. Nascosti sotto coperte e scatoloni di medicinali, i quattro terroristi – tre, per le ferite riportate erano in condizioni disperate – furono operati e salvati dai medici della Croce Rossa. E poi c'era un'altra condizuione: dovevamo curare anche quattro loro bambini malati di leucemia".

La "diffidenza" di Roma nei confronti di Washington, ha poi ricordato l'ex commissario Cri, ha contrassegnato sin dall'inizio la storia delle trattative per il rilascio degli italiani sequestrati in Iraq. "Che gli americani non dovessero sapere - ha raccontato ancora Scelli - fu una condizione inderogabile, postami da tutti gli interlocutori e mediatori iracheni. Una condizione accettata e condivisa da palazzo Chigi fin dall'aprile del 2004".

Cosa emerge da questa intervista sulla quale il governo italiano, dopo le smentite di rito, ha glissato con molta faccia tosta?

Primo: che l'ambiguità della politica estera italiana continua. Tremila soldati italiani sono presenti a Nassiriya, di fatto inquadrati nel contigente militare multinazionale di occupazione dell'Iraq, ma si continua a sostenere che gli stessi non partecipano a una missione di guerra, ma ad una missione umanitaria. Il massimo dell'ipocrisia.

Secondo: che l'Italia è e resta un fedele, quanto prono, alleato degli Usa, tanto prono da dover tenere nascosta all'alleato ogni suo sforzo per liberare civili italiani sequestrati in Iraq.

Terzo: che di nascosto l'Italia è capace di fare tutto. Pagare per la liberazione degli ostaggi o comunque dare qualcosa in cambio ai sequestratori. Pur continuando a dire che con "i terroristi non si tratta".

Quarto: che non c'è di che stupirsi di questa linea italiana nei sequestri di persona in Iraq. Non è stato così sempre, anche quando i rapimenti avvenivano in su suolo italiano da parte del banditismo sardo o calabrese? I giudici sequestravano i beni dei rapiti e i servizi segreti (vedi sequestro Kassam) pagavano i rapitori di nascosto.

Un'ipocrisia tutta italica che in Iraq, però, è costata la vita ad un uomo giusto, un uomo come Nicola Calipari. La cui morte ancora oggi rimane senza giustizia.

PANTANO IRAQ (2):
1868 I SOLDATI AMERICANI MORTI

Le perdite militari americane in Iraq ammontano a 1.868. Nei quasi 14 mesi trascorsi dal passaggio dei poteri dalle forze d'occupazione americane e alleate a un governo iracheno provvisorio, gli Stati Uniti hanno perso oltre mille uomini (1.021) in Iraq: oltre due al giorno, con una media nettamente superiore a quella dei 15 mesi (847 caduti) di conflitto precedenti. La coalizione in Iraq ha complessivamente perso oltre 2.000 militari, fra cui 94 britannici e 26 italiani. Delle 1.868 perdite americane ufficiali in Iraq, 1.452 sono caduti in sconri a fuoco e 416 sono rimaste vittime di incidenti o fuoco amico. Il numero dei feriti americani ufficialmente dichiarati dal Pentagono in Iraq supera i 14.000, con una media di oltre 7,5 ogni morto. La maggioranza dei friti ha perso almeno un arto. Il mese di novembre 2004, che ha visto 137 militari Usa morti ufficialmente contati, è stato secondo il Pentagono il mese più letale di  tutto il conflitto per le forze armate americane, peggiore dell'aprile di sangue 2004 quando i morti Usa erano stati 135. Questa la successione delle perdite americane dal giugno 2004 (42 morti), luglio 54, agosto 65, settembre 80, ottobre 62, novembre 137, dicembre 75, gennaio 2005 102, febbraio 59, marzo 32, aprile 50, maggio 83 (il quarto mese più letale), giugno 78, luglio 57. Ad agosto, i morti sono stati 68. Negli ultimi 15 mesi, ci sono stati molti più feriti Usa che nei 13 mesi precedenti (oltre 10.700 contro circa 3.300, secondo i dati del Pentagono): una media di circa 700 al mese, contro una media precedente di poco più di 250. Le cifre del Pentagono non tengono conto delle vittime civili e degli ostaggi, quelle americane sono 250. Non c'è indicazione ufficiale delle perdite irachene militari e civili: stime recenti parlano di decine di migliaia, ma c'è chi ne ipotizza fino a 100 mila. Uno studio britannico calcola 34 vittime irachene al giorno, un migliaio al mese.
Gli alleati degli Usa in Iraq hanno complessivamente perso 194 soldati così ripartiti: 94 britannici; 26 italiani; e, inoltre, 18 Ucraina; 17 Polonia; 13 Bulgaria; 11 Spagna; tre Slovacchia; due El Salvador, Thailandia, Olanda, Estonia; uno Danimarca, Lettonia, Kazakhistan, Ungheria.
 

PANTANO IRAQ (3):
LA PROTESTA
DEI FAMIGLIARI DEI SOLDATI UCCISI

I parenti dei soldati uccisi in Iraq - dalla metà di agosto accampati davanti al ranch texano di George  W. Bush in segno di protesta contro la guerra - hanno annunciato  che nei prossimi mesi seguiranno il presidente degli Stati Uniti in ogni suo spostamento nel Paese, cercando così di coinvolgere l'intera nazione con il loro messaggio di pace.

"Vogliamo far capire a Bush che non ci arrenderemo", ha detto - come riferisce l'Agi - Sue Niederer che con la più celebre madre pacifista, Cindy Sheehan, e altre famiglie di militari uccisi ha fondato il comitato Gold star families for peace per ottenere il ritiro delle truppe americane dall'Iraq.

La pressione dei gruppi pacifisti si è fatta più forte negli ultimi giorni dopo che Bush ha dichiarato, nei discorsi fatti in Utah e Idaho, che le truppe Usa rimarranno in Iraq  fino a quando non avranno finito il loro lavoro.

PANTANO IRAQ (4):
LA CASA BIANCA VUOLE FERMARE
LE LEGGI CONTRO GLI ABUSI
DEI MILITARI SUI DETENUTI

L'amministrazione Bush sta cercando in ogni modo di bloccare la presentazione di una legge contro gli abusi di militari americani sui detenuti, legge sostenuta da alcuni senatori repubblicani.

Nel mese scorso il vice presidente Dick Cheney ha ricevuto tre senatori repubblicani della commissione Difesa e la Casa Bianca ha inviato un documento in Senato, chiarendo che Bush potrebbe porre il veto alla legge di bilancio della Difesa se questa conterrà norme "che riducano la capacità del Presidente di proteggere gli americani dal terrorismo".

Il progetto di legge vieta ai militari americani di trattare i detenuti "in modo crudele, inumano o degradante", di nascondere prigionieri alla Croce Rosssa Internazionale (come accadde ad Abu Ghraib in Iraq) e di usare tecniche d'interrogatorio diverse da quelle stabilite da un nuovo manuale dell'Esercito.

Il testo, che circola da tempo fra una decina di senatori repubblicani, è voluto soprattutto da John McCain, che durante la guerra del Vietnam fu prigioniero dei vietcong.

Ma la Casa Bianca appare decisa a frenare quella che considera un'incipiente ribellione nel partito del presidente Bush, dopo che diversi membri del Congresso hanno espresso frustrazione per la mancata individuazione di responsabili fra gli alti gradi militari per lo scandalo di Abu Ghraib.

Fonte: Adnkronos

ATTENTATI DI LONDRA
QUALCOSA NON TORNA...

Il sito inglese di controinformazione British 9/11 Truth Campaign (http://www.nineeleven.co.uk/) ha avuto l'idea di comparare la cronologia ufficiale degli attentati alla metropolitana di Londra del 7 luglio scorso con gli effettivi tempi di transito e gli orari dei treni in quello stesso giorno.

Per farlo si è molto semplicemente rivolta alla società che gestisce la rete della metro londinese.

Da questo confronto è subito saltata ai loro cocchi un'incongruenza davvero singolare. La polizia britannica, nella sua versione ufficiale, ha affermato che i kamikaze erano saliti a bordo del treno delle 7.40 nella stazione di Luton in direzione King's Cross, dove sarebbero arrivati verso le 8.20. In realtà l'unico treno che è arrivato a King's Cross alle 8.20 è stato quello delle 7.24. E' quindi a bordo di questo treno che i kamikaze sarebbero saliti. E qui sta l'incongruenza.

Se si osserva la fotografia diffusa da Scotalnd Yard dei quattro kamikaze con tanto di zainetto sulle spalle si nota che l'orologio della telecamera di sicurezza all'ingresso della stazione di Luton segna le ore 7.21 Ed è assolutamente impossibile che i quattro abbiano raggiunto la banchina da cui partiva il treno per King's cross in soli tre minuti, soprattutto tenendo conto dell'affollamento verificatosi quel giorno.

OMICIDIO CALIPARI:
PER CASSESE E' "UN DELITTO POLITICO"

"Il ministro di Giustizia dovrebbe chiedere alla procura di Roma di procedere ex articolo 8 del codice penale, dichiarando quello di Calipari un delitto politico".

Ad affermarlo, in un'intervista al quotidiano La Stampa, è stato l'ex presidente del Tribunale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, e presidente della commissione ONU sul Darfur, Antonio Cassese.

"Solo così - ha aggiunto Cassese - si potrebbe tenere a Roma il processo contro i militari americani, anche se contumaci".

STRAGE DI BOLOGNA:
PERCHÉ NON SI VUOLE INDAGARE?

Cessati i clamori che puntualmente si ripetono in occasione dell'anniversario (2 agosto) della strage alla stazione di Bologna, la strage più orrenda dell'Italia repubblicana, ci sia permessa qualche riflessione.

La magistratura bolognese e con essa l'Associazione dei familiari delle vittime continuano ad accontentarsi di un verità che non c'è. Una cosa che non fa onore né all'una, né all'altra. Al più sono capaci di invocare l'abrogazione di un segreto di stato che, in verità, nessuno ha mai posto nell'inchiesta, lacunosa, sulla strage stessa.

Eppure gli spunti per una pacata riflessione su quella strage continuano a non mancare.

Le ultime rivelazioni sulla possibilità che quella strage, comunque anomala, sia stata in realtà un incidente durante il trasporto di esplosivo operato da qualche cellula palestinese in contatto con il superterrorista Carlos, sono state bollate come irrealistiche sia dalla magistratura di Bologna, sia dalla stessa Associazione. Il perché non lo si comprende.

A dimostrrazione che l'ipotesi è tutt'altro che peregrina, basterebbe ricordare il clima del periodo che esisteva in Italia dalla fine degli anni Settanta all'inizio degli anni Ottanta quando - sempre per restare nell'ambito dell'ambiguità della politica estera italiana - un tacito accordo era stato stipulato dai nostri governanti con la resistenza palestinese. Un accordo di questo tipo: voi potete usare l'Italia come terreno di transito per i vostri attentati internazionali, ma l'Italia deve rimanere immune da attacchi come quello verificatosi all'aeroproto di Fiumicino.

Fa paura che un'Associazione come quella dei familiari delle vittime della strage di Bologna, da sempre appiattita sulla mai brillante magistratura bolognese (vogliamo ricordare, tanto per fare un solo esempio, gli errori fatti dalla stessa nei sette anni di deliro omicida della banda della Uno bianca?), continui a non sentire l'esigenza di una vera verità su quanto è accaduto il 2 agosto 1980 a Bologna e si accontenti, invece, di una sentenza che, anche se passata in giudicato, continua a fare acqua da tutte le parti.

CASO ALPI/HROVATIN:
LA COMMISSIONE HA ACQUISTATO
L'AUTO DELL'OMICIDIO

La commissione di inchiesta parlamentare che indaga sull'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo del 1994, ha acquistato l'automobile su cui viaggiava la giornalista del Tg3, nel momento in cui fu uccisa, assieme con l'operatore.

La vettura, una Toyota, si trovava in Somalia e il proprietario sarebbe stato un somalo residente a Roma. L'auto sarà trasportata a Roma a bordo di un C130 dell'Aeronautica militare italiana.

"A Dubai - ha spiegato Taormina, presidente della commissione - verranno fatti degli accertamenti balistici, per confrontarli con la perizia già eseguita in passato, per dare così un responso definitivo sulla dinamica dell'agguato. Poi la Toyota verrà portata in Italia".

TERRORISMO ITALIANO:
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
PER L'OMICIDIO BIAGI

Più che dell'avanguardia del proletariato, i cinque brigatisti condannati all'ergastolo per l'omicidio del professor Marco Biagi sono i testimoni "del loro fallimento politico poiché da anni non emergono reclutamenti o adesioni, ma solo defezioni, titubanze, incertezze e disaffezioni".

Sottolineano la disfatta delle Brigate rosse, le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Bologna, ma nelle 260 pagine ricordano pure "l'approssimazione, la superficialità, l'incoerenza mostrate dagli apparati di sicurezza e da chi istituzionalmente ne era alla guida". Perché se delle Br viene ribadita "la povertà del numero dei militanti", al pari i giudici accusano nuovamente uno Stato che non seppe proteggere il giuslavorista, ripetendo le parole della pentita Cinzia Banelli: "In caso di presenza di scorta, l'omicidio non sarebbe stato eseguito".

Proprio dal racconto della Banelli é partita la ricostruzione dell'omicidio fatta dalla Corte: Banelli, per il presidente Libero Mancuso, ha "una attendibilità che appare granitica" ed é capace di fornire "una ricostruzione di una puntualità straordinaria, priva di contraddizioni, soprattutto assistita da una quantità impressionante di analitici riscontri". Una valutazione questa radicalmente diversa dalla motivazioni del Gup che l'aveva condannata a 16 anni in rito abbreviato per l'omicidio: Banelli - scrisse il Gup – "ha dato luogo a una forma di narrazione progressiva, non sempre coerente e spontanea, talora intrinsecamente contraddittoria, che é parsa ispirata a un principio utilitaristico essenziale". Quello di "ottenere il maggior vantaggio processuale possibile apportando il minor danno possibile".

Su un punto però, Gup e Corte d'Assise sono d'accordo: potrebbero esserci ancora brigatisti non processati.

"E' dato sostenere - argomenta il presidente Mancuso - che gli imputati processati risultano tutti partecipi del delitto e che semmai il loro numero é approssimato per difetto, non certo per eccesso".

Dalle motivazioni della sentenza Biagi emergono anche le accuse all'atteggiamento tenuto da alcuni settori dello Stato, che pure avevano chiesto robuste cifre di risarcimento danni (quasi 7 milioni di euro), ridotte drasticamente dalla Corte (5.000 euro): i giudici sottolineano infatti "l'assenza di quelle parti civili governative che pure utilizzarono le straordinarie competenze del docente bolognese". In aula, infatti, l'unico esponente governativo a testimoniare é stato il sottosegretario al Lavoro Maurizio Sacconi, amico del giuslavorista.

"L'allora titolare del dicastero degli Interni - scrivono i giudici - si lasciò andare a sprezzanti giudizi verso la vittima, cui il suo successore avrebbe potuto pubblicamente porre riparo. Cosa che non ha ritenuto di dover fare, nonostante l'occasione offertagli da questo processo": un'aspra critica, insomma, alle condotte dell'allora ministro dell'Interno Claudio Scajola e al suo successore Giuseppe Pisanu.

TERRORISMO ITALIANO (2):
PER IL RIESAME DI BOLOGNA IL FAI NON ESISTE

Altra inchiesta sbagliata per la magistratura bolognese. La Federazione Anarchica Informale (FAI) - della quale avrebbero fatto parte sette anarchici finiti in carcere nel maggio scorso con l'accusa di associazione sovversiva - in realtà potrebbe non essere mai esistita. A stabilirlo il Tribunale del Riesame di Bologna che lo scorso 6 giugno decretò la loro scarcerazione. Nelle motivazioni della sentenza, rese note, il 25 agosto scorso, i giudici sostengono che "nonostante la poderosa attività investigativa non è in realtà dato sapere se detta struttura abbia effettivamente preso vita, né chi, eventualmente, si celi dietro a essa o alle sigle federate". Quelle cioè che, dal luglio 2001, hanno rivendicato i plichi esplosivi che colpirono forze dell'ordine e istituzioni europee.

Il Tribunale del Riesame di Bologna (presidente Liviana Gobbi, giudici Mery De Luca e Anna Travia) ha radicalmente cancellato per i sette anarchici l'accusa di associazione con finalità di eversione dell'ordine democratico: "Il quadro indiziario - è scritto ancora nelle motivazioni - è totalmente carente laddove cerca di dar conto della costituzione del sodalizio criminoso tra gli indagati, si impoverisce ulteriormente laddove si tenta di dare sostegno indiziario al delitto associativo attraverso gli elementi raccolti a riprova dei reati-fine", cioè l'invio di plichi esplosivi e attentati incendiari.

Per questo i giudici avevano ordinato la scarcerazione di Lucia Rippa, Elsa Caroli, Mattia Bertoni, Tirteo Tavernese, Marco Bisesti, Danilo Cremonese e Valentina Speziali (questi ultimi due restarono in carcere per un'inchiesta della Procura di Roma).

Nelle 50 pagine delle motivazioni, l'inchiesta del pool antiterrorismo della procura di Bologna e la conseguente ordinanza del Gip vengono stigmatizzate punto per punto. L'accusa, secondo il Riesame, ha pure "violato il diritto di difesa", utilizzando intercettazioni telefoniche - bollate come "inutilizzabili" - di una precedente indagine (archiviata dal Gip) e le cui bobine erano state già "smagnetizzate", e che "non possono essere in alcun modo surrogate dall'acquisizione dei relativi verbali".

Secondo quelle intercettazioni fu la mano degli indagati a scrivere il volantino anarchico "A fuoco gli avvoltoi", diffuso a Bologna fra il 28 e il 29 giugno, fondamentale nell'impianto accusatorio.

Ma, stigmatizza il Riesame, anche violare la procedura penale non sarebbe bastato: "L'esame comparato fra detto documento e i volantini di rivendicazione dei fatti reato del luglio 2001 a firma Cooperativa artigiana fuoco e affini (occasionalmente spettacolare) non consente affatto l'emersione di analogie così palesi e significative tali da poter concludere che i due scritti siano opera degli stessi soggetti".

Fonte: Ansa

DUPLICE OMICIDIO DONEGANI:
CASO RISOLTO. ANZI NO.

"E' stato lui. Guglielmo Gatti ha mostrato disprezzo per la vita. E' un uomo crudele e non certo un incapace di mente. Ha ucciso gli zii, sangue del suo sangue. Ne ha sezionato i corpi, li ha impacchettati e portati dove nessuno avrebbe dovuto trovarli".

E' mercoledì 17 agosto, Guglielmo Gatti, 41 anni, un uomo taciturno, è stato appena arrestato con l'accusa di aver ucciso i suoi zii, i coniugi Donegani e il procuratore di Brescia, Giancarlo Tarquini, con una dichiarazione quanto meno incauta, dice che il caso è chiuso, che Gatti è l'assassino. Ma è davvero così?

Al momento in cui scriviamo il duplice delitto Donegani è tutt'altro che chiarito.

Vediamo perché.

Prima i fatti: i coniugi Aldo e Luisa Donegani scompaiono dalla loro abitazione di Brescia, la stessa in cui abita il nipote Guglielmo Gatti, il 30 luglio. Il 17 agosto i loro corpi dcapitati e fatti a pezzi vengono trovati (mancano ancora le due teste ed il tronco di lei), infilati in dieci sacchi, gettati in un dirupo della Valcamonica. I magistrati di Brescia ordinano l'arresto del Gatti.

Contro Gatti esistono solo cinque indizi, alcuni debolissimi, ma neppure una prova. Si tratta di due testimoninze piuttosto confuse e di tre elmenti di accusa: le chiavi del garage dove Gatti avrebbe ucciso e sezionato i cadaveri degli zii; le cesoie con cui ne avrebbe fatto a pezzi i cadaveri e il sangue trovato nel garage e a casa sua.

Le due testimonianze: la prima è di un ragazzo di 14 anni che racconta di aver visto Gatti nella zona della Valcamonica in cui, in seguito, saranno ritrovati pezzi dei corpi delle vittime. La sua parola contro quella di Gatti. Idem per la testimonianza della proprietaria dell'albergo "Il Giardino" di Breno, sempre in Valcamonica. Dice di avre affittato una camera a Gatti nella notte tra il 30 ed il 31 luglio. Secondo l'accusa Gatti vi avrebbe dormito dopo aver gettato in un dirupo i sacchi contenenti pezzi di cadavere degli zii. Ma, per motivi biecamente fiscali, la proprietaria dell'albergo non ha registrato i documenti di Gatti, né gli ha rilasciato una ricevuta. Che valore può avere la sua testimonianza?

Le chiavi: una vicina di Gatti, incuriosita da rumori provenienti dal garage di casa Gatti (che era anche il garage di casa Donegani) dice di averlo visto proprio davanti a quel garage la sera del 30 luglio (ma non era nell'albergo di Breno?). In più c'è da considerare che le chiavi di quel garage le avevano in molti. I Donegani, infatti, erano soliti affidare la cura della loro casa, durante le loro assenze, a persone diverse.

Le cesoie: sono due quelle usate per sezionare i corpi dei Donegani e sono state entrambe ritrovate. Nella zona sono vendute solo in un negozio di bricolage del bresciano frequentato proprio da Gatti. Ma il commesso del negozio, pur riconoscendo Gatti come un cliente del negozio, non ricorda di avergli venduto delle cesoie. Inoltre Gatti possedeva altre cesoie per la cura del giardino che non sono state usate per sezonare i cadaveri dei Donegani. Che ragione avrebbe avuto di comprarne di nuove per di più in un posto dov'era conosciuto?

Il sangue: quello trovato nel garage non è stato contestato come indizio a Gatti. Il Ris dei carabinieri sta ancora esaminando quelle macchie. Il sangue trovato, invece, nel suo appartamento non è sangue, ma vernice rossa.

L'alibi: il legale difensore di Gatti, l'avv. Luca Broli, continua a sostenere che Gatti ha un alibi per quello che viene ritento il giorno del delitto. Ma è una carta che intende giocare davanti al tribunale del Riesame nei prossimi giorni.

Intanto Gatti interrogato per un totale di 27 ore si èsempre rifiutato di rispondere.

Come se non bastasse nel duplice delitto Donegani mancano ancora troppi elementi: non c'è il movente, non c'è l'arma del delitto e non c'è neppure il luogo del delitto.

Troppo presto per costruire il "mostro". Non è vero dott. Tarquini?

DELITTO DI VIA POMA:
IL CERCHIO SI STRINGE
ATTORNO A 17 PERSONE

L'inchiesta sull'omicidio di Via Poma ripartirà a settembre quando i nuovi risultati dei carabinieri del Ris su una macchia di sangue trovata 15 anni fa verranno confrontati con il Dna delle 17 persone che anni fa si sottoposero volontariamente al prelievo del sangue e della saliva.

In via Poma a Roma, il 7 agosto 1990, venne uccisa con numerosi colpi di arma da taglio, forse un taglicarte mai trovato, Simonetta Cesaroni, 21 anni, impiegata di un'associazione per la gestione di Ostelli della Gioventù che proprio nel palazzo di via Poma aveva la sua sede.

Le indagini dei Ris dei carabinieri, guidate dal col. Luciano Garofano, si sono avvalse di strumentazioni capaci di rilevare tracce su oggetti e indumenti dove le "evidenze" sono state soggette a quindici anni di contaminazioni umane e ambientali. In questo modo  sarebbero riusciti ad arrivare ad una prima conclusione: la piccola macchia sulla porta dell'ufficio in cui Simonetta venne uccisa non è composta - come si è sempre creduto - da due sostanze ematiche, ma si tratterebbe di un unico codice genetico.

OMICIDI FOLIGNO:
NO A PERMESSI PER CHIATTI

"Ogni indulgenza" nei confronti di Luigi Chiatti, il cosiddetto "mostro di Foligno", "potrebbe costare la vita ad altre persone".

E' quanto hanno affermato gli avvocati Ariodante e Giovanni Picuti, legali di parte civile nei processi che hanno portato alla condanna definitiva a 30 anni di reclusione per Chiatti alla notizia che lo stesso abbia chiesto più volte il benefico dei permessi premio. 

Chiatti è detenuto in un carcere della Toscana per gli omicidi di Simone Allegretti, di 4 anni, avvenuto a Foligno il 4 ottobre 1992, e di Lorenzo Paolucci, 13 anni, ucciso nella frazione di Casale il 7 agosto successivo.

Spietato il comunicato degli avvocati delle famiglie delle vittime in cui si ricorda che "il detenuto, già dall'epoca del suo arresto, ha sempre rilasciato dichiarazioni incompatibili con ogni possibilità di reinserimento in seno al corpo sociale. Pertanto - continuano - sono scarse, se non nulle, le speranze di vederlo trasformato in un soggetto innocuo, da freddo e calcolato omicida quale si è mostrato".

UCCISERO BANDITO:
A PROCESSO PER OMICIDIO VOLONTARIO

Saranno processati, con l'accusa di omicidio volontario e porto illegale di armi, Giuseppe Maiocchi e il figlio Rocco, i due orefici che il 13 aprile di un anno fa uccisero il 21enne Mihailo Markovic, un montenegrino che aveva tentato un furto con spaccata assieme a un complice nel loro negozio di via Ripamonti a Milano.

Il rinvio a giudizio è stato disposto dal Gup Luca Pistorelli che ha fissato il processo per il prossimo 10 gennaio davanti alla prima Corte d'Assise.

Giuseppe e Rocco Maiocchi, 54 e 28 anni, erano nel loro negozio quel giorno d'aprile del 2004 quando Markovic insieme a un complice infranse una delle vetrine della gioielleria con un mazza, rubando cinque orologi del valore di qualche migliaio di euro. Immediatamente i due commercianti, che già in passato erano stati derubati, inseguirono i banditi fuori dal negozio, impugnando una calibro 9 e un revolver Smith&Wesson, armi per le quali avevano solo un'autorizzazione alla detenzione e non un porto d'armi. Mentre i due banditi tentavano la fuga a bordo di un'auto rubata, gli orefici esplosero contro di loro cinque colpi. Quello fatale, secondo la ricostruzione del pm Roberta Brera, fu sparato da Rocco Maiocchi: raggiunse alla tempia sinistra Markovic, che morì due giorni dopo all'ospedale Fatebenefratelli. Il complice, anche lui probabilmente montenegrino ed entrato clandestinamente in Italia circa un mese prima, riuscì invece a far perdere le tracce.

"Lo rifarei in qualsiasi momento se mi sentissi in pericolo: in quel momento mi sentivo in pericolo e ho sparato", aveva spiegato Giuseppe Maiocchi poco piu' di un mese fa in un'intervista a una tv.

TERRORISMO CECENO:
FORSE SVENTATA UN'ALTRA BESLAN

Secondo le autorità locali della Repubblica Autonoma Russa della Karaciaievo-Circassia, territorio del Caucaso del Nord, nel maggio scorso sarebbe stata sgominata una banda islamico-radicale che avrebbe avuto in animo di sequestrare una scuola nella regione, cercando di emulare quanto avvenuto un anno fa a Beslan, nella vicina Ossezia del Nord, dove un commando di matrice islamico-cecena prese d'assalto la Scuola numero 1, avviando una tragedia conclusasi nel sangue con la morte di 331 ostaggi, più della metà dei quali bambini.

"E' stato sventato un atto terroristico progettato da un gruppo che preparava qui da noi l'occupazione di una scuola, proprio come a Beslan", ha detto - secondo quanto riferisce l'agenzia Ansa - il presidente della Karaciaievo-Circassia, Mustafà Batdiev, il quale però non ha fornito molti dettagli sulla vicenda, né ha spiegato perché venga svelata solo adesso.

La banda terroristica neutralizzata sarebbe stata composta da sei giovani, tutti uccisi durante un'operazione speciale condotta dalle unità locali delle forze di sicurezza a metà maggio. Del gruppo facevano parte due ragazze addestrate - sempre secondo le autorità - per missioni suicide, e quattro uomini, con a capo presunti seguaci di Acimez Gociaiev, un iman locale, latitante e ritenuto legato alle correnti islamiche wahabite della guerriglia attiva nella limitrofa Cecenia e accusato di coinvolgimento con gli stessi ceceni nell'oscura ondata di attentati stragisti contro edifici residenziali che colpirono Mosca e altre città russe nel settembre 1999.

Secono il ministro dell'Interno del governo regionale, Nikolai Osiak, in Karaciaievo-Circassia è stata censita la presenza di citrca 150 militanti wahabiti, vicini ai ribelli ceceni: in maggioranza giovani tra i 16 e i 20 anni.

LOTTA AL TERRORISMO:
TEMPI LUNGHISSIMI PER L'INCHIESTA
SUL BRASILIANO
UCCISO A LONDRA PER "ERRORE"

Anche la giustizia britannica diventa lenta e farraginosa quando deve appurare i motivi di tragici errori.

La commissione indipendente, che indaga sull'uccisione, avvenuta il 22 luglio scorso, da parte di poliziotti inglesi, del brasiliano Jean Charles de Menezes, scambiato per un terrorista, presenterà i risultati del suo lavoro non prima del prossimo Natale. L'inchiesta del medico legale, invece, è stata aggiornata, addirittura, al 23 febbraio 2006. Inoltre, come se non bastasse, il rapporto non verrà reso pubblico finché tutte le procedure legate al caso - comprese eventuali azioni penali o disciplinari contro gli agenti - saranno state ultimate.

Per chiarire i molti lati oscuri della morte del giovane, sono intano giunti a Londra due alti funzionari brasiliani.

Uno dei grandi misteri di questa vicenda riguarda, ad esempio, le registrazioni dell'assassino di Menezes regolarmente filmato dalle telecamere a circuito chiuso della stazione di Stockwell, registrazioni che risultano scomparse.

Secondo la polizia le telecamere a circuito chiuso di Stockwell quel fatidico 22 luglio non funzionavano, allorché il giovane brasiliano fu colpito da otto proiettili in testa sparati dagli agenti all'interno della stazione della metropolitana. Pronta la replica del personale del Tube che, come scrive il Times, avrebbe sconfessato la versione di Scotland Yard, riferendo ai membri della commissione indipendente d'inchiesta che alcune telecamerine per le riprese interne erano pefettamente attive e regolarmente funzionanti il giorno della tragica uccisione del brasiliano.

A mettere in difficoltà Scotland Yard un altro fatto: il giorno precedente la morte di Menezes, il 21 luglio, le telecamere erano perfettamente funzionanti tanto che furono gli stessi esperti di Scotland Yard a sequestrare e visionare i filmati di Stockwell, per le indagini sui falliti attentati. L'ipotesi più probabile è che i dischi sui quali sono salvate le registrazioni siano stati prelevati dalla polizia inglese e poi sostituiti con nastri vergini allo scopo di far sparire prove sul comportamento a dir poco illegale della polizia stessa.

LOTTA AL TERRORISMO (2):
COME FU UCCISO JEAN CHARLES DE MENEZES

Furono 10, forse 11, i colpi sparati nello spazio di appena 30 secondi dalla polizia inglese per uccidere, il 22 luglio scorso, nella stazione della metropolitana londinese di Stockwell, Jean Charles de Menezes, il brasiliano scambiato per un terrorista.

A rivelare precisi dettagli sulla dinamica della tragica morte dell'elettricista di 27 anni non sono state però le autorità inglesi, ma una giornalista freelance, Sue Thomason, nella sua testimonianza resa alla commissione che indaga sulla morte del brasiliano.

 "I colpi - ha raccontato la donna, che stava leggendo un libro quando il treno si è fermato a Stockwell - erano distanziati di circa tre secondi l'uno dall'altro per i primi spari, poi un intervallo un po' più lungo e di nuovo colpi a distanza ravvicinata".

"Quando il treno si è fermato alla stazione di Stockwell ho sentito un urlo, era la voce di un uomo - ha detto la Thomason agli inquirenti - La gente si è quindi alzata dai propri posti e ha guardato nella direzione da cui provenivano le urla. Ho sentito colpi d'arma da fuoco, ho pensato che fossero terroristi che sparavano contro la folla. Ho pensato di nascondermi sotto un sedile. Dopo i primi spari, sono invece uscita dal vagone".

LOTTA AL TERRORISMO (3):
TECNICA OMICIDA CONTRO SOSPETTI KAMIKAZE
IMPARATA DAGLI ISRAELIANI

Nell'assassino a sangue freddo di Jean Charles de Menez la polizia inglese ha fatto ricorso per la prima volta a speciali tecniche messe a punto da Scotland Yard per affrontare la minaccia rappresentata da attentatori suicidi.

Si tratta di tecniche che rientrano nella cosiddetta "operazione Kratos" che consente ad un ufficiale di autorizzare, 24 ore su 24, il dispiegamento di squadre speciali per pedinare un sospetto terrorista e, se necessario, sparare a vista.

Il piano Kratos è operativo da un anno e Scotland Yard l'ha adottato dopo essersi consultata con le forze di sicurezza israeliane sul metodo migliore per fronteggiare i kamikaze.

Un portavoce dell'Associazione degli ufficiali di polizia (Acpo) ha riferito che il nuovo  piano antiterrorismo non è in contrasto con le regole e gli obblighi a cui sono sottoposti gli agenti. Quindi, stando alle disposizioni contenute nel Law Criminal Act del 1967, "una persona può usare la forza nella misura in cui si rende necessaria per prevenire il crimine".

Il manuale dell'Acpo fornito agli agenti è stato modificato nel febbraio scorso e prevede che si possa aprire il fuoco su una persona solo se assolutamente necessario e solo se i metodi tradizionali sono esauriti o se, data la natura delle circostanze, è improbabile che il loro utilizzo determini un esito positivo dell'azione.

Sempre secondo lo stesso documento, un agente non dovrebbe sparare, a meno che non ritenga che aprire il fuoco possa proteggere l'agente stesso o un'altra persona da un imminente pericolo. La minaccia alla vita deve essere "evidente e chiara" e giudicata sulla base di tre criteri: necessità, ragionevolezza e proporzionalità.

Tutti elementi difficilmente apllicabili alla tragica fine di Menezes.

INTEGRAZIONE:
MUSULMANE
FIRMATE
IKEA

Al termine di una lunga vertenza sindacale, la filiale di Edmonton (GB) dell'Ikea ha concesso alle dipendenti musulmane di indossare il velo nelle ore di lavoro. Ad una condizione che il velo stesso sia blu con bordino giallo (i colori della società svedese che vende in tutto il mondo materiale da arredamento) e che abbia ben in vista il logo sociale.

E' probabile che questo accordo venga esteso a tutte le filiali dell'Ikea nel mondo in cui lavorano impegate di religione musulmana.

Le vie dell'integrazione sono infinite, ma devono passare comunque dal business.

MEDIORIENTE:
PAGHERA' LA BRILLANTE OPERAZIONE MEDIATICA
DI SHARON?

Con lo sgombero degli ultimi due insediamenti di Homesh e Sa-Nur, nel nord della Cisgiordania, il 23 agosto scorso è stato completato il piano di disimpegno unilaterale, voluto dal premier israeliano Ariel Sharon.

In questo modo - con  lo smantellamento di 21 colonie ebraiche della Striscia di Gaza e di altre quattro in Cisgiordania cominciato il 15 agosto scorso - Ariel Sharon ha portato a termine, soprattutto, una brillante operazione mediatica che fa dire all'opinione pubblica: e ora cosa faranno in cambio i palestinesi?

Al di là di questa reazione molto superficiale, non è difficile capire che le cose stanno in maniera decisamente diversa.

Cerchiamo allora di analizzare, punto per punto, il significato reale di questa operazione, cominciando con il verificare la vera portata del ritiro degli insediamenti israeliani da Gaza. La prima domanda a cui rispondere è: Israele ha davvero restituito la Striscia di Gaza ai palestinesi?

In primo luogo si deve considerare che l'esercito con la stella di David lascerà Gaza non prima della metà di ottobre. Ma non del tutto anche perché Israele ha già dichiarato di voler mantenere il pieno controllo delle coste, del cielo e dei punti di passaggio con l'Egitto con lo stesso Stato ebraico. In secondo luogo la stessa Israele ha anche già annunciato che si opporrà con la forza alla riattivazione dell'aeroporto e alla ricostruzione del porto di Gaza. Inoltre ancora Israele non garantirà alcun passaggio sicuro tra la Striscia e la Cisgiordania. In altre parole Israele manterrà il contollo esterno di Gaza, trasformata per i palestinesi in una vera e propria prigione. 

E veniamo ora alla Cisgiordania dove il ritiro delle quattro colonie appare ancora più simbolico dal momento che è stato lo stesso Sharon ad annunciare un'accelerazione nella colonizzazione di questi territori occupati.

Il ministero del Bilancio dello Stato di Israele, ad esempio, ha già stanziato 21 milioni di dollari per l'anno in corso e 23 milioni di dollari per il 2006 per incentivare le famiglie israeliane a creare nuovi insediamenti nella valle del Giordano. Il piano di Sharon prevede la costruzione di nuove colonie su un'estensione di circa 1.200 chilometri quadrati e all'installazione nella zona di 6 mila coloni, dopo lo sgombero di 54 mila palestinesi. Alle prime 300 famiglie di palestinesi che abitano nella valle del Giordano gli sfratti sono già stati consegnati: dovranno abbandonarte le loro case che saranno rase al suolo.

Ma c'è di più. Gli edifici delle quattro colonie ebraiche evacuate il 23 agosto non saranno consegnati all'autorità palestinesi, ma diventeranno caseme dell'esercito israeliano.

Intanto continua la costruzione del Muro della Vergogna. Le autorità israeliane, il 25 agosto scorso, hanno ordinato la confisca di circa sessanta chilometri quadrati di terreni palestinesi per costruire una nuova sezione del muro di separazione tra
Israele e la Cisgiordania. La porzione di territorio servirà ad includere in territorio israeliano il più grande insediamento colonico dei Territori, quello di Maaleh
Adumim. I palestinesi hanno condannato la confisca e hanno accusato il governo israeliano di procedere all'esproprio dei terreni proprio mentre l'attenzione della comunità internazionale era puntata sul ritiro dalla Striscia di Gaza.

Insomma resta da dire solo che Sharon, sganciandosi da Gaza, si è limitato a rinunciare a pezzi di terra privi d'importanza strategica, difficili e costosissimi da mantenere, dando al mondo l'impressione che Israele abbia compiuto un passo enorme e dolorosissimo verso la pace.

Resta la questione della Cisgiordania da cui Israele non si ritirerà mai. Non solo perché nella Cisgiordania ci sono oltre duecentomila coloni e non appena ottomila come a Gaza.

MEDIORIENTE (2):
L'ASSASSINO DI RABIN IN CARCERE
VUOLE UN FIGLIO

L'assassino di Rabin, Igal Amir (35 anni) vuole avere un figlio, con il metodo dell'inseminazione artificiale, da una donna, Larissa Trimblober (41), una docente di storia medioevale che ha divorziato dal marito per potersi sposare col terrorista.

Malgrado Amir dal 4 novembre 1995 sia chiuso in totale isolamento nel carcere di Beer Sheba (Neghev), l'anno scorso è riuscito con un singolare espediente a sposarsi a distanza. Ha consegnato al padre un anello nuziale, dopo aver recitato una preghiera, e questo anello è stato consegnato alla Trimblober. Secondo i rabbini, i due sono adesso legati da un "vincolo nuziale" che anche se non è un matrimonio lo è quasi.

Adesso Amir ha nuovamente colto di sorpresa le istituzioni israeliane, chiedendo di poter aver un figlio dalla Trimblober grazie alla fecondazione artificiale. "Si tratta per noi di un caso senza precedenti" ha ammesso un dirigente del servizio carcerario.  Per il momento la richiesta è stata  respinta, anche se è prevedibile che Amir troverà modo di insistere sotto il profilo legale.

Fonte: Ansa

STATI CANAGLIA:
LA LIBIA PRESTO DEPENNATA
DELL'ELENCO

Entro la fine dell'anno la Libia sarà depennata dall'elenco, stilato dal Dipartimento di Stato americano, dei cosiddetti Stati Canaglia, quelli cioè accusati di sponsorizzare il terrorismo. Di conseguenza gli Stati Uniti apriranno a Tripoli un'ambasciata dove oggi esiste solo una rappresentanza diplomatica di minimo livello.

La "riabilitazione" della Libia è stata possibile solo grazie alle aperture che il leader libico Muhammar Gheddafi ha mostrato verso gli Usa, annunciando in primo luogo lo smantellamento di un'improbabile programma per la costruzione di armi di distruzione di massa.

La Libia, inoltre, ha anche ammesso ufficialmente la propria responsabilità nell'attentato del 21 dicembre 1988 contro il jet della Pan-Am, precipitato a Lockerbie in Scozia, che causò la morte di 270 persone, accettando di pagare più di due miliardi di dollari in risarcimento alle famiglie delle vittime.

Ci sarebbe ancora una questione non da poco da risolvere: quella dei diritti umani in Libia. Gheddafi ha promesso di affrontare la questione "al più presto", ma finora ha fatto ben poco. Ma siamo certi che questo non costituirà un ostacolo perché gli Usa e la comunità internazionale riprendano al più presto a fare affari con la Libia.

IRAN :
UN CONSERVATORE ALLA GUIDA
DEL PROGRAMMA NUCLEARE

Ali Larijani è il nuovo responsabile del Supremo consiglio nazionale di sicurezza iraniano, l'organismo responsabile della politica nucleare di Teheran.

Larijani, noto per essere uno dei più accesi conservatori, nonché uomo di fiducia dell'ayatollah Ali Khamenei, in passato è stato direttore della televisione e della radio di stato iraniane. La nomina di un conservatore duro come Larijani alla guida del Consiglio di sicurezza è la risposta dell'Iran alle recenti pressioni internazionali, in particolare a quelle esercitate dagli Usa, culminate con la minaccia di un possibile intervento militare nel paese mediorientale.

KOSOVO:
RIPRENDONO GLI ATTACCI ETNICI DEGLI ALBANESI

Due serbi sono stati uccisi ed altri due sono rimasti feriti (uno in maniera piuttosto grave) su una strada del Kosovo meridionale, nelle vicinanze di Strpce, a ridosso della frontiera della Macedonia, cinquanta chilometri a sud-est di Pristina: è accaduto il 27 agosto scorso, quando l'autovettura con i quattro serbi è stata raggiunta e superata da un'altra autovettura, dalla quale sono stati esplosi i colpi degli attentatori.

Era da un anno che non si registravano più attentati motivati da un movente etnico nel Kosovo. E fra poche settimane le Nazioni Unite, che amministrano la provincia dalla fine della guerra degli anni 1998-99, dovranno decidere se sia ormai giunto il momento di avviare la trattativa sull'assetto definitivo del territorio.

Secondo il primo ministro serbo Vojislav Kostunica "la responsabilità di questo episodio di terrorismo albanese contro i serbi nel Kosovo ricade anche sulla missione delle Nazioni Unite".

UNABOMBER USA:
IN VENDITA ARCHIVIO KACZYNSKY

Un tribunale di San Francisco ha ordinato al governo degli Stati Uniti di mettere in vendita gli scritti di Unabomber, al secolo Theodore Kaczynski, 62 anni, l'uomo che terrorizzò l'America tra il 1978 e il 1995 con lettere esplosive che uccisero tre persone e ne ferirono 23.

Unabomber, condannato all'ergastolo, avrebbe voluto donare i suoi scritti all'Università del Michigan, ma il governo ha voluto tenerseli: per il tribunale si tratta di una decisione indifendibile, anche perché con i proventi della vendita si potranno risarcire le vittime degli attentati.

Gli scritti di Kaczynsky - che ha teorizzato i suoi gesti come metodo di lotta contro la società industruiale - comprendono lettere e anche una autobiografia di Unabomber, un matematico laureatosi ad Harvard. Kaczynski sostiene tra l'altro che i progressi tecnologici hanno ridotto la libertà e che i suoi attentati avevano come obiettivo quello di combattere la tirannia tecnologica.

Arrestato nel 1996, Unabomber (un acronimo scelto dall'Fbi, come University and Airline bomber, per il suo frequente ricorso alla posta aerea) aveva chiesto il trasferimento nell'archivio del Michigan non solo di migliaia di documenti, ma anche di una bomba a tubo e di una serie di attrezzi come fiammiferi, pinze e asce. L'archivio già possiede oltre 15 mila delle carte di Kaczynsky.

LA NEWSLETTER di MISTERI D'ITALIA viene inviata gratuitamente, con cadenza quindicinale, a tutti coloro che ne faranno richiesta.

Essa è parte integrante del sito
http://www.misteriditalia.it
http://www.misteriditalia.it

Direttore: Sandro Provvisionato
Webmaster: Matteo Fracasso

AVVERTENZA ai sensi del Codice in materia di protezione dei dati personali Dlgs n. 196/2003.
Gli indirizzi e-mail presenti nel nostro archivio provengono da richieste di iscrizioni pervenute al nostro recapito e nelle quali è stato prestato il consenso in base al vigente Dlgs n. 196/2003 (art. 23, 24, ) oppure da richieste e consensi prestati ai sensi della normativa precedente e non più in vigore dal 31.12.03.

Il conferimento dei dati personali è obbligatorio per poter ricevere le newsletter.
Il recapito delle newsletter è gratuito, ma è condizionato dall'ottenimento dei dati.

Gli autori del sito si riservano il diritto di interrompere la fornitura della newsletter nel caso in cui le informazioni fornite si rivelino essere non veritiere.

I dati raccolti vengono utilizzati esclusivamente per l'invio della presente newsletter e trattati mediante sistemi automatizzati e sistemi informatici, secondo quanto previsto dal Codice in materia di protezione dei dati personali introdotto con Dlgs n. 196/2003.

Per essere rimossi dalla lista inviare un e-mail vuota con oggetto "cancellazione dalla newsletter" a:
cancellazione@misteriditalia.com